Vaccini
Fin dall'antichità la medicina aveva rilevato che le persone sopravvissute a certe malattie contagiose risultavano resistenti a esse nel caso di un nuovo contatto, tanto che usualmente si occupavano della cura di coloro che le contraevano, come è stato brillantemente descritto da Tucidide in riferimento alla peste che colpì Atene nel V sec. a.C., o da Alessandro Manzoni ne I promessi sposi riguardo alla peste di Milano del 1630.
Tuttavia, questa osservazione non si tradusse in misure concrete fino alla prima metà del XVIII sec., quando in Europa fu introdotta la pratica dell'inoculazione o variolizzazione. Tale pratica era il frutto dell'esperienza fatta da molti popoli, soprattutto orientali, secondo la quale il vaiolo era prevenibile se si inoculava a una persona sana il contenuto delle pustole di un malato, soprattutto se quest'ultimo riusciva a sopravvivere all'infezione. Tale procedura incontrò il favore della nobiltà inglese e della comunità intellettuale e filosofica illuministica, sebbene non fosse scevra da rischi: l'individuo variolizzato, infatti, spesso sviluppava la malattia in tutta la sua gravità, era contagioso e poteva provocare piccole epidemie.
Nonostante questi primi approcci, tradizionalmente l'inizio dell'era della vaccinazione viene fatto risalire al medico inglese Edward Jenner che, alla fine del XVIII sec., comprese le potenziali conseguenze di un'osservazione empirica, cioè del fatto che nelle campagne i mungitori che erano venuti in contatto con mucche affette da una malattia pustolosa (il cowpox) erano protetti dal vaiolo. Jenner iniziò a inoculare il contenuto delle pustole delle vacche nell'uomo, diffondendo così la pratica della vaccinazione, che si rivelò efficace e molto più sicura della variolizzazione, tanto che egli riuscì a convincere le autorità britanniche ad adottarla su larga scala a scopo preventivo. I risultati furono straordinari, e già dai primi anni del XIX sec. si assistette a un notevole calo della mortalità per vaiolo in Europa.
Ovviamente nessuno, per tutto l'Ottocento, fu in grado di comprendere perché la vaccinazione fosse efficace: molta strada doveva essere ancora percorsa prima di scoprire che le malattie infettive sono causate da patogeni capaci di stimolare risposte protettive da parte dell'organismo lasciando poi un'immunità, cioè uno stato di protezione attiva e duratura dalla stessa infezione.
Molti sono i patogeni che aggrediscono l'organismo: virus, batteri, parassiti, ognuno con le proprie caratteristiche biologiche. Il sistema immunitario si è evoluto per rispondere a due fondamentali esigenze: da un lato quella di reagire velocemente (nel giro di pochi minuti) contro particolari molecole presenti nei microrganismi, dall'altro quella di sviluppare lentamente (nel giro di giorni o settimane) una risposta immunitaria diretta esattamente contro quello specifico patogeno.
Nel corso degli ultimi anni è diventato sempre più chiaro il fondamentale ruolo del sistema immunitario innato nell'iniziare, amplificare e guidare le risposte dirette contro antigeni specifici. In questo contesto, la famiglia dei recettori Toll-like (TLRs) si è dimostrata il cardine della difesa contro i patogeni. E' stato, infatti, scoperto che l'organismo è capace di riconoscere la presenza di microbi per il semplice fatto che i TLRs si legano a strutture che sono comunemente presenti nei patogeni ma assenti nell'uomo. L'interazione tra questi antigeni non-self e i TLRs comunica all'organismo che è entrato un invasore, e dà il via a una serie di messaggi che hanno l'obiettivo di individuare e distruggere l'estraneo. L'iniziale attivazione dei TLRs induce una cascata infiammatoria rapida, vigorosa ma relativamente aspecifica, che dà il tempo alla parte adattativa del sistema immunitario di sviluppare una risposta specifica nei confronti del patogeno invasore.
I batteri che vivono in ambienti extracellulari e le tossine da loro prodotte vengono combattuti da anticorpi che riescono a neutralizzare le tossine oppure a opsonizzare i microrganismi. Purtroppo, questi sistemi sono poco efficaci contro i batteri intracellulari, capaci, cioè, di crescere all'interno delle cellule. La risposta immunitaria più efficace è rappresentata in questo caso dall'attivazione di cellule fagocitiche da parte dei linfociti T, attivazione che produce quei processi infiammatori chiamati 'ipersensibilità di tipo ritardato'. Gli anticorpi possono intervenire anche per bloccare la diffusione dei virus da una cellula all'altra; saranno tuttavia le cellule citotossiche quelle che riusciranno a eradicare il virus attraverso l'eliminazione delle cellule da esso infettate. La risposta anticorpale, quella infiammatoria e quella citotossica rappresentano i meccanismi effettori del sistema immunitario.
Per un'efficace produzione di anticorpi è necessario che i linfociti B (e altre cellule specializzate) presentino l'antigene ai linfociti T, cioè lo digeriscano enzimaticamente e ne riespongano piccoli frammenti alla loro superficie, in associazione con le proteine del sistema maggiore di istocompatibilità (MHC, Major histocompatibility complex) di classe II presenti sulla membrana delle cellule che presentano l'antigene (APC, Antigen presenting cell). Questo complesso verrà riconosciuto da linfociti T che esprimono il recettore CD4 (detti linfociti T helper, o TH), che produrranno appropriate molecole (citochine) capaci di stimolare la proliferazione e il differenziamento dei linfociti B, i quali sintetizzeranno quindi anticorpi specifici per l'antigene. Vari fattori, rappresentati essenzialmente da citochine solubili, interverranno a polarizzare la risposta immunitaria dei linfociti T CD4+ verso un effetto predominante di tipo anticorpale (risposta TH2), oppure di tipo infiammatorio (risposta TH1).
La risposta citotossica è mediata da linfociti T che esprimono il recettore CD8, e viene attivata quando gli antigeni sono prodotti all'interno delle cellule stesse, come nel caso di virus e batteri intracellulari. Tali antigeni vengono degradati e presentati alla superficie delle cellule, in associazione con le proteine dell'MHC di classe I presenti sulla membrana di tutte le cellule nucleate dell'organismo. I complessi così formati saranno poi riconosciuti dai precursori dei linfociti T CD8+, che matureranno in cellule citotossiche, capaci quindi di uccidere le cellule infettate dal patogeno.
In aggiunta all'eliminazione dell'agente infettivo (meccanismo operante nelle infezioni), il sistema immunitario è in grado di generare un secondo effetto di basilare importanza per le vaccinazioni: l'induzione di una memoria immunologica specifica. Il sistema è cioè capace di generare popolazioni di linfociti B e di linfociti T specifici per l'antigene, che possono sopravvivere per lunghissimi periodi di tempo. Un successivo incontro con il patogeno (o con lo specifico antigene immunizzante) indurrà nuovamente l'espansione di queste popolazioni cellulari con produzione di anticorpi e di cellule effettrici. È questa la base immunologica che permette ai vaccini di funzionare e che le attuali biotecnologie cercano di manipolare al fine di ottenere vaccini più sicuri e più efficaci: in altri termini, vaccini più 'intelligenti'.
I 'vaccini uccisi' o 'inattivati' vengono prodotti uccidendo il batterio o il virus con il calore o con agenti chimici, in genere formaldeide. Solitamente per essere efficace il vaccino va somministrato in più dosi: la prima stimola il sistema immunitario, mentre una risposta protettiva, prevalentemente di tipo umorale (cioè anticorpale), si sviluppa dopo la seconda o la terza dose. Si deve tener presente, però, che i titoli anticorpali tendono a cadere nel corso del tempo, per cui può essere necessario effettuare richiami successivi (booster). Dato che il patogeno è ucciso, questi tipi di vaccino non possono mai causare malattia neanche in soggetti con immunodeficienze congenite o acquisite. I vaccini uccisi sono impiegati contro alcune malattie virali ‒ per esempio, poliomielite (vaccino tipo Salk), rabbia, influenza, encefalite giapponese, epatite A ‒ e batteriche ‒ per esempio, pertosse (vaccino cellulare), tifo addominale, colera, peste.
Polisaccaridi. - L'immunizzazione con polisaccaridi della capsula batterica induce la comparsa nel siero di anticorpi capaci di proteggere da infezioni invasive; tuttavia, la risposta immunitaria a questo tipo di vaccino è tipicamente T-indipendente. I polisaccaridi non inducono una risposta significativa nei bambini prima dei 18 mesi di età, cioè proprio quando le malattie da cui dovrebbero proteggere causano la più alta incidenza di morbosità e di mortalità, per esempio nel caso delle meningiti. Dosi ripetute di vaccino polisaccaridico non sono in grado di indurre un richiamo della produzione di anticorpi che comunque, anche quando sono generati in tal modo, hanno una più bassa affinità nei confronti dell'antigene.
Negli anni Settanta del Novecento si è scoperto che i problemi dei vaccini a polisaccaridi potevano essere risolti coniugando chimicamente il polisaccaride con un antigene proteico. La coniugazione cambia il tipo di risposta immunitaria da T-indipendente a T-dipendente, con conseguente aumento di , efficacia anche nei bambini al di sotto dei due anni ed effetto booster, cioè produzione anticorpale progressivamente più abbondante in seguito alla somministrazione di più dosi di vaccino. I vaccini coniugati sono estremamente efficaci: basti pensare che l'introduzione di quelli contro Haemophilus influenzae tipo b e contro Neisseria meningitidis gruppo C stanno praticamente causando la scomparsa delle rispettive malattie. Vaccini a polisaccaridi nudi sono, per esempio, quelli contro Streptococcus pneumoniae (23 valente) e N. meningitidis gruppo A, Y, W135, mentre sono vaccini a polisaccaridi coniugati quelli contro H. influenzae tipo b, S. pneumoniae (7 valente) e N. meningitidis gruppo C.
Tossoidi. - Alcune malattie batteriche, come la difterite e il tetano, sono causate da tossine prodotte dal batterio, che, rilasciate in circolo, producono effetti sistemici. I vaccini antitossici sono prodotti inattivando la tossina (con trattamenti chimici), in modo che essa perda l'azione tossica e mantenga il potere antigenico. Anche per questo tipo di vaccini è necessario somministrare più dosi per ottenere lo sviluppo dell' protettiva ed effettuare richiami a distanza di anni. I vaccini contro tetano e difterite sono conosciutissimi e sono tra i più utilizzati al mondo.
I vaccini che contengono microrganismi vivi derivano da batteri o virus attenuati in laboratorio usando ripetuti passaggi colturali in condizioni subottimali di crescita. Per produrre una risposta immunitaria, i microrganismi vivi attenuati devono replicarsi e crescere nella persona vaccinata. A tal fine viene somministrata una piccola dose del patogeno attenuato, lasciando che esso si replichi nell'organismo fino a quando il suo livello è tale da stimolare una risposta uguale a quella che si sviluppa in seguito alla malattia classica. Per questo motivo, a differenza di quanto accade con i vaccini uccisi, di solito una sola dose è sufficiente a conferire immunità protettiva permanente (con l'eccezione dei vaccini vivi somministrati per via orale).
Normalmente i non causano malattia nei soggetti immunocompetenti; talvolta, tuttavia, questa si manifesta, anche se in genere in forma molto lieve. Nei soggetti con deficit immunitari il patogeno attenuato può però avere una replicazione incontrollata e indurre la malattia classica. Inoltre, esiste la possibilità che un microrganismo attenuato ritorni alla sua forma selvaggia e dia malattia: ciò accade, per esempio, anche se molto raramente, con il vaccino antipolio orale tipo Sabin. I vaccini vivi attenuati sono molto delicati, vanno maneggiati con cura e possono essere danneggiati o inattivati dalla luce e dal calore. Inoltre, la presenza di anticorpi specifici nella persona vaccinata può interferire con la replicazione del virus vaccinale e comportare un fallimento della vaccinazione stessa. I vaccini vivi attenuati vengono impiegati contro malattie virali ‒ morbillo, rosolia, parotite, varicella, febbre gialla, polio orale tipo Sabin ‒ e batteriche ‒ tifo addominale orale, tubercolosi (bacillo di Calmette-Guérin, BCG).
I vaccini tradizionali hanno avuto numerosi e impensati successi nel campo della salute pubblica. Gli esempi più eclatanti sono rappresentati dall'eradicazione del vaiolo, avvenuta alla fine degli anni Settanta del Novecento, e dai notevoli progressi fatti nel processo di eradicazione della poliomielite, che l'Organizzazione Mondiale della Sanità prevede di raggiungere nel giro di pochi anni. L'impiego delle vaccinazioni ha contribuito ampiamente all'allungamento della vita media che si è avuto nei Paesi industrializzati soprattutto a partire dalla seconda metà del XX secolo.
Molti sono gli aspetti dei vaccini tradizionali ancora suscettibili di miglioramento. Un primo fattore è quello della sicurezza. I vaccini sono destinati a persone sane ed è quindi di fondamentale importanza che queste non ne ricevano alcun danno. Al vaccino orale tipo Sabin si deve la quasi totale eradicazione della polio, anche se in un numero bassissimo di casi (1 su 3 milioni di dosi) esso può indurre la malattia. Nei Paesi in cui il virus selvaggio non circola più, si tende a sostituire il vaccino Sabin con quello Salk, che utilizza il virus inattivato. Molti vaccini tradizionali sono sensibili a talune condizioni ambientali (esposizione alla luce, temperature elevate, ecc.), ma le costose infrastrutture necessarie a mantenere una corretta catena del freddo sono talvolta difficili da realizzare, soprattutto nei Paesi dal clima tropicale o dove non esiste l'elettricità.
Infine, i vaccini esistenti vengono per lo più somministrati per via parenterale, la più semplice per garantire l'arrivo di qualsiasi farmaco direttamente nell'organo bersaglio senza che subisca modificazioni; essa può però presentare problemi di sicurezza, in quanto nei Paesi più poveri si fa talvolta uso di aghi non sterili che finiscono per veicolare patogeni, come il virus dell'epatite B (HBV) e C (HCV), il virus dell'immunodeficienza acquisita (HIV), ecc. Si avverte quindi l'esigenza di sviluppare vaccini con nuove caratteristiche intelligenti, sempre più sicuri e privi di effetti collaterali, capaci di conferire protezione con poche dosi, possibilmente somministrate per via mucosale, e di resistere alle più avverse condizioni ambientali.
L'inizio della nuova era dei vaccini intelligenti si può far risalire alla fine degli anni Settanta del XX secolo. L'avvento dell'ingegneria genetica e l'impressionante sviluppo delle biotecnologie che si è verificato negli ultimi vent'anni hanno infatti comportato un significativo ampliamento delle conoscenze scientifiche in molti campi, in particolare in quelli della microbiologia, della patogenesi di molte malattie infettive e dell'immunologia. È stato così possibile aumentare in modo esponenziale il numero di approcci disponibili per identificare e ottenere antigeni microbici specifici, e quindi per esprimerli in appropriati sistemi al fine di produrre vaccini capaci di rispondere alle nuove esigenze che via via emergono dai vari contesti epidemiologici.
Il primo risultato di questa nuova era è rappresentato dal vaccino contro l'HBV, ottenuto con la tecnica del DNA ricombinante, che nel 2002 ha festeggiato il suo ventesimo compleanno. Esso è costituito dall'antigene di superficie del virus (HBsAg) prodotto da un lievito e purificato, è estremamente efficace nel prevenire l'infezione ed è oggi ampiamente utilizzato in tutto il mondo, allo scopo di prevenire non solo milioni di epatiti, ma anche le neoplasie del fegato che possono conseguirne.
Un altro passo avanti nella scoperta di nuovi vaccini è stato compiuto quando si è osservato che gli antigeni protettivi di alcuni virus possono autoassemblarsi a formare particelle simil-virali (Viral-like particles, VLP). Come suggerisce il nome, le VLP sono strutture tridimensionali che assomigliano ai virus, ma, a differenza di questi, non sono in grado di dare malattia perché sono prive del materiale genetico. Le VLP si ottengono tramite tecniche di DNA ricombinante, facendo esprimere una o più proteine virali strutturali in cellule eucariotiche o procariotiche. In genere, le VLP sono molto immunogene, poiché mostrano un gran numero di siti antigenici e conformazionali allo stesso modo dei virus infettivi. Un vaccino basato sulle VLP è quello contro il papillomavirus (HPV). Le VLP dell'HPV si formano tramite l'espressione eterologa della proteina maggiore L1 in cellule di lieviti o di insetti. Attualmente, il vaccino contro l'HPV è nelle fasi finali di sviluppo. Esso comprende VLP derivate dai due più comuni papillomavirus oncogenici, 16 e 18, e dai due tipi che più frequentemente causano papillomi genitali, 6 e 11. Svariati studi di fase II e un grosso studio di fase III ne hanno mostrato una elevata efficacia nel prevenire lesioni precancerose e papillomi genitali.
Nel caso delle tossine batteriche, l'ingegneria genetica consente di disporre di una tossina detossificata più immunogena e meno capace di suscitare reattività di quella ottenuta tramite trattamento chimico con formaldeide. Un successo in questo campo è rappresentato dal nuovo vaccino acellulare contro la pertosse, che si è dimostrato efficace nel prevenire la malattia nei neonati, fornendo anche una protezione a lungo termine.
La tecnica del DNA ricombinante ha tuttavia alcuni limiti, in quanto spesso gli antigeni prodotti non mantengono la conformazione della proteina nativa e sono scarsamente immunogenici in vivo. Per incrementare l'immunogenicità e per consentire la somministrazione di antigeni protettivi per vie diverse da quella parenterale classica, si è aperto negli ultimi anni un altro ampio filone di ricerca in vaccinologia: quello degli 'adiuvanti', che vengono somministrati insieme agli antigeni. Fino alla fine del XX sec., i sali di alluminio sono stati l'unico adiuvante consentito per uso umano; tuttavia, l'aumento delle conoscenze in immunologia e sui vari meccanismi di risposta alle infezioni ha stimolato la ricerca di nuovi adiuvanti che potessero stimolare specifici sistemi effettori della risposta immunitaria (il sistema anticorpale, piuttosto che quello cellulare, o viceversa, l'immunità mucosale, ecc.), molti dei quali presentano interessanti caratteristiche che presumibilmente potranno contribuire a migliorare l'efficacia dei vaccini.
Nel 1997 un vaccino antinfluenzale adiuvato con l'MF59 è stato registrato in Italia e, subito dopo, in molti altri Paesi europei. L'MF59 ‒ il primo nuovo adiuvante di cui è stato consentito l'uso nell'uomo, settant'anni dopo l'introduzione dei sali di alluminio ‒ è un'emulsione di olio in acqua, costituita da goccioline di squalene (〈150 nm di diametro) uniformi e stabili. Lo squalene è un olio naturale e perfettamente metabolizzabile che si ottiene dal fegato di squalo, ma che si trova anche nell'organismo umano come precursore del colesterolo e componente delle membrane cellulari. La particolare composizione dell'MF59 ne garantisce la stabilità per almeno tre anni a 4 °C. L'esatto meccanismo del suo potere adiuvante non è noto; di fatto esso è in grado di stimolare soprattutto una risposta immunitaria di tipo anticorpale (linfociti TH2), con induzione di interleuchina 5 (IL-5), interleuchina 6 (IL-6) e, in misura minore, interferone γ (IFN-γ).
L'idea di aggiungere l'MF59 al vaccino antinfluenzale è nata dall'evidenza clinica della ridotta efficacia dei vaccini convenzionali negli anziani, che rappresentano una particolare classe di rischio per quanto riguarda la malattia influenzale. Studi clinici effettuati su oltre 20.000 soggetti anziani hanno mostrato che il nuovo vaccino è sicuro e ben tollerato, e che ha una maggiore immunogenicità rispetto ai vaccini convenzionali, anche dopo ripetute immunizzazioni. In particolare, l'effetto adiuvante dell'MF59 si è dimostrato maggiore nei soggetti più a rischio di sviluppare l'influenza e le sue complicazioni, come quelli affetti da diabete o da malattie croniche respiratorie o cardiovascolari.
Un altro importante vantaggio dell'aggiunta dell'MF59 è rappresentato dall'aumentata immunogenicità anche nei confronti di ceppi influenzali diversi da quelli contenuti nel vaccino. Questo fenomeno, che può essere importante in casi di epidemie causate appunto da ceppi virali non omologhi, ha aperto la strada a una serie di studi sul possibile uso del vaccino adiuvato in caso di nuova pandemia influenzale. È noto infatti che la disponibilità di vaccini efficaci in caso di pandemia è uno degli strumenti chiave per fronteggiare tale emergenza, mentre i vaccini convenzionali sono assai poco immunogeni nei confronti di ceppi virali differenti. Svariati studi hanno dimostrato che l'aggiunta dell'MF59 a un vaccino contro un ipotetico virus influenzale pandemico è in grado di sviluppare elevati livelli di anticorpi protettivi in volontari sani anche con ridotte concentrazioni di antigene, livelli che persistono nel tempo e inoltre determinano una migliore risposta booster per un periodo di anche 16 mesi a partire dalla prima immunizzazione. Infine, tre dosi di vaccino adiuvato sono in grado di conferire elevata protezione crociata anche da ceppi eterovarianti.
Questi dati sottolineano l'importanza del ruolo che un nuovo adiuvante come l'MF59 potrebbe svolgere in caso di pandemia in termini sia di aumentata protezione clinica sia di maggiore disponibilità di dosi di vaccino. Anche contro l'epatite B esistono vaccini sicuri ed efficaci che tuttavia potrebbero essere migliorati per alcuni aspetti, quali l'elevato numero di dosi necessarie e la non soddisfacente immunogenicità in certe categorie ad alto rischio che avrebbero bisogno di una protezione più completa e precoce. Sulla base di promettenti dati sperimentali ottenuti in babbuini, sono stati effettuati studi clinici su volontari sani con un vaccino costituito dall'antigene di superficie del virus (HBsAg) e dalla frazione PreS2, prodotto in cellule CHO (Chinese hamster ovarian), ossia in cellule ingegnerizzate che esprimono un recettore per il TSH (Thyroid stimulating hormone) normalmente assente, e adiuvato con MF59. Nel complesso, i risultati hanno sottolineato l'effetto adiuvante dell'MF59 che, con un profilo di sicurezza del tutto accettabile, aumenta l'immunogenicità del vaccino, consente di somministrarne solo due dosi in un breve intervallo di tempo, e rende possibile una migliore profilassi per i soggetti scarsamente rispondenti o non rispondenti al vaccino convenzionale.
I progressi della biologia molecolare e dell'informatica hanno permesso di ottenere la sequenza completa del genoma di molti patogeni che causano importanti malattie infettive. A partire dal 1995 sono stati sequenziati e pubblicati, fra gli altri, i genomi di H. influenzae, N. meningitidis, Mycoplasma pneumoniae, Helicobacter pylori, Borrelia burgdorferi, Mycobacterium tuberculosis, ecc. La disponibilità delle ha del tutto cambiato le modalità dello sviluppo di nuovi vaccini. Tramite il computer è infatti possibile analizzare l'intero genoma e predire quali proteine possano diventare i migliori candidati. Con questo approccio non solo non è più necessario coltivare il microrganismo patogeno in laboratorio, ma è anche possibile applicarne il processo a patogeni non coltivabili. L'analisi dei possibili candidati per un vaccino comprende, almeno in linea teorica, tutte le proteine codificate dal genoma, indipendentemente dal fatto che siano espresse in vivo o in vitro o dalla quantità di proteina prodotta. Un fattore che rallenta la velocità di scoperta di nuovi antigeni utili allo sviluppo di vaccini è rappresentato dalla nostra limitata conoscenza della risposta immunitaria, e in particolare dei parametri che la correlano con la protezione in vivo. Un altro limite di questo approccio è l'incapacità di identificare antigeni non proteici, come i polisaccaridi o i glicolipidi, che pure rappresentano promettenti candidati per futuri vaccini.
I principali vantaggi dell'approccio genomico consistono sicuramente nella rapidità con la quale è possibile identificare nuovi promettenti antigeni e nella possibilità di superare ostacoli che risultano invece insormontabili con le tradizionali tecniche biochimiche e immunologiche. Come esempio è possibile citare il caso della N. meningitidis gruppo B. Il polisaccaride capsulare del meningococco B è scarsamente immunogenico di per sé, poiché è identico all'acido polisialico che è presente sulle cellule eucariotiche. Quindi, dopo coniugazione con un vettore proteico, esso può indurre autoanticorpi, cioè anticorpi che sviluppano una reazione crociata con un epitopo endogeno presente in questo caso sulle cellule neuronali, con il conseguente rischio di indurre fenomeni autoimmunitari. Inoltre, le proteine di superficie del meningococco B identificate come potenziali vaccini mostrano una forte variabilità antigenica da ceppo a ceppo, e ciò esclude la possibilità di sviluppare un vaccino che sia attivo contro tutti i ceppi del batterio. L'approccio genomico è riuscito in un paio d'anni a identificare nuovi antigeni, prima sconosciuti, capaci di indurre anticorpi protettivi e ben conservati in tutti i ceppi studiati finora. Un risultato del genere non si era mai verificato in più di trent'anni di studi biochimici e immunologici. Alcuni di questi antigeni sono già stati prodotti per essere sottoposti a test clinici sull'uomo. La disponibilità del genoma completo di batteri quali Streptococcus pneumoniae, S. agalactiae, Chlamydia pneumoniae, ecc., di parassiti quali Plasmodium falciparum, e di virus sta ora permettendo l'identificazione di nuovi antigeni che potranno contribuire allo sviluppo di vaccini sicuri ed efficaci.
I vaccini a DNA sono costituiti dall'acido desossiribonucleico ricombinante della proteina verso la quale deve essere indirizzata la risposta immunitaria. Il DNA può essere somministrato con una semplice iniezione intramuscolare o intradermica. Una volta penetrato nella cellula e integrato nel genoma, esso induce la produzione dell'antigene. La proteina eterologa viene quindi espressa sulla superficie della cellula insieme alle molecole MHC di classe I. L'espressione di una proteina estranea insieme alle molecole MHC di classe I induce una risposta da parte dei linfociti T citotossici CD8+, che si traduce nell'uccisione della cellula. Questa risposta immunitaria viene solitamente evocata in presenza di batteri patogeni intracellulari o di virus, ed essa è responsabile anche del rigetto dei trapianti. La presentazione dell'antigene insieme alle molecole MHC di classe II porta all'attivazione prevalentemente dell'immunità umorale. Come si può comprendere, la vaccinazione a DNA risulta utilissima contro quei patogeni per i quali è richiesta un'immunità di tipo cellulo-mediato, come nel caso delle infezioni virali per le quali non è stato ancora sviluppato un vaccino (per es., virus dell'epatite C, famiglia dei virus erpetici, virus dell'immunodeficienza acquisita) e delle infezioni batteriche da patogeni intracellulari (per es., M. tuberculosis).
Tecnologie per la somministrazione dei vaccini a DNA: alfavirus, adenovirus, poxvirus, vettori batterici. - In via sperimentale questo tipo di vaccinazione ha fornito brillanti risultati in modelli che utilizzano piccoli animali (topi, ratti, ecc.), ma quando gli esperimenti sono stati ripetuti su animali di taglia più grande (scimmie) o sull'uomo i risultati non sono stati altrettanto validi, probabilmente perché per avere una risposta immunitaria protettiva sarebbe necessario iniettare quantità eccessive di DNA. Si stanno quindi sviluppando tecniche alternative alla semplice iniezione intramuscolare o intradermica di DNA nudo, al fine di ridurre la dose di DNA da utilizzare potenziando la risposta ottenibile. Un primo passo in tal senso è costituito da particolari apparecchi cosiddetti 'spara-geni' (gene gun) che consentono di immettere nell'organismo attraverso la cute il DNA adeso a particolari microsfere d'oro: con questo sistema si può ridurre fino a cento volte la quantità di DNA da somministrare, anche se in tal modo si riesce a stimolare soprattutto una risposta di tipo TH2.
Una strategia alternativa per migliorare l'immunogenicità dei vaccini a DNA consiste nell'utilizzo di virus appartenenti al genere alfavirus (virus dell'encefalite equina venezuelana, virus Sindbis, virus Semliki Forrest), opportunamente modificati allo scopo. Gli alfavirus sono virus con acido ribonucleico (RNA) monocatenario a polarità positiva, i quali producono un numero abbondante di copie di RNA messaggero per le proprie proteine strutturali. La manipolazione genetica consente di sostituire i geni che codificano per queste proteine strutturali con le sequenze genomiche che codificano per le proteine eterologhe. Dopo l'infezione delle cellule ospiti, vengono prodotte grandi quantità di antigeni eterologhi che, esposti alla superficie insieme alle molecole MHC di classe I e II, stimolano i sistemi effettori della risposta immunitaria. La sicurezza di questo metodo è garantita dal fatto che l'alfavirus vettore non può replicarsi (si parla di infezione abortiva), mancando delle proprie proteine strutturali. L'ingegneria genetica consente anche di utilizzare vettori batterici opportunamente adattati al posto dei vettori virali. È infatti possibile attenuare geneticamente un batterio (per es., Salmonella typhi, Shigella spp., Vibrio cholerae) e fargli esprimere geni eterologhi. Tale tecnica permette di usare come via di somministrazione del vaccino la via di infezione naturale del batterio, che in genere è di tipo mucosale, con tutti i vantaggi che ne derivano.
DNA in microparticelle di PLG. - Per migliorare l'immunogenicità dei vaccini a DNA è possibile adsorbire il DNA su particolari microparticelle costituite da polilattato-poliglicolato (PLG), un polimero biodegradabile e biocompatibile usato già da molti anni in campo medico come materiale da sutura e per il rilascio controllato di farmaci. Le particelle di PLG sono rivestite da una sostanza con carica elettrica positiva che consente l'adsorbimento del DNA, carico negativamente, alla superficie. La presenza delle microparticelle di PLG è importante anche per prevenire la degradazione del DNA vaccinale. Studi sugli animali hanno dimostrato che usando il DNA che codifica per la proteina gag dell'HIV-1, le microparticelle di PLG determinano un significativo aumento nell'immunogenicità rispetto al DNA nudo: infatti, il DNA adsorbito al PLG fa aumentare di cento volte la potenza vaccinale per l'immunità cellulare e di mille volte quella per la produzione anticorpale. Quest'incremento è stato riscontrato per tutto il periodo di osservazione e si ottiene anche con piccole dosi di DNA.
CpG DNA. - Il sistema immunitario dei Vertebrati individua la presenza di infezioni riconoscendo gruppi di oligonucleotidi non metilati contenenti una Citosina legata a una Guanina tramite legame fosforico (CpG DNA). Il genoma dei batteri e di molti virus a DNA è particolarmente ricco di tali sequenze, che sono presenti anche nel DNA dei Vertebrati, dove, tuttavia, si presentano in forma non attiva perché metilate. Questi oligonucleotidi CpG agirebbero, in sostanza, come un generico segnale di pericolo, stimolando risposte immunitarie protettive di tipo innato e acquisito attraverso l'attivazione del TLR9. L'interazione CpG-TLR9, infatti, induce l'attivazione dei macrofagi e la maturazione delle cellule dendridiche, nelle quali aumenta l'esposizione delle proteine MHC di classe II e la produzione di citochine (IL-12, IL-18, IFN- α, β, e γ) e di chemochine; induce anche la proliferazione policlonale delle cellule B e l'attivazione delle cellule NK (Natural killer). Tutto ciò determina una risposta immunitaria prevalentemente di tipo TH1. La somministrazione di CpG DNA contemporanea a infezione con Leishmania major determina in topi BALB/c la protezione da una malattia altrimenti letale e mediata dall'attivazione della via TH2. Gli oligonucleotidi stimolano le cellule APC a presentare più efficientemente l'antigene e quindi devono essere iniettati nello stesso luogo, benché non necessariamente nello stesso momento, dell'antigene stesso, il quale può essere somministrato anche più di una settimana dopo. Essi possono essere usati come adiuvanti non solo per via parenterale, ma anche nel caso di vaccinazioni orali o mucosali. L'unica classe di antigeni per cui i CpG DNA non hanno azione adiuvante sono i polisaccaridi. La scoperta degli oligonucleotidi CpG e dei loro effetti TH1 immunostimolanti sta trovando applicazione pratica non solo nel campo dei vaccini, ma anche nell'immunoterapia delle allergie e delle neoplasie.
La stragrande maggioranza dei vaccini oggi in commercio viene somministrata per via iniettiva, che, pur essendo la tecnica più semplice ai fini di una corretta assunzione, è considerata primitiva, anche perché non priva di svantaggi quali, primo fra tutti, la possibilità che siano trasmesse malattie infettive gravi attraverso l'uso di aghi non sterili. La via mucosale consente un uso più facile e una più ampia diffusione dei vaccini, migliorandone l'accettabilità da parte del paziente. Inoltre, essa permette di stimolare risposte immunitarie specifiche (immunoglobuline A e linfociti T) a livello di tutte le mucose, anche di quelle lontane dalla sede di somministrazione, e cioè proprio nel punto naturale di ingresso dell'infezione, cosa che non sempre si ottiene con la somministrazione per via parenterale.
Lo sviluppo di vaccini mucosali richiede l'impiego di adiuvanti specifici. Quello più utilizzato nei vaccini iniettivi è costituito dai sali di alluminio che, tuttavia, non possono essere utilizzati per le somministrazioni mucosali. Due molecole estremamente tossiche per l'uomo, come la tossina colerica CT (causa del colera) e la tossina termolabile LT dell'Escherichia coli enterotossigeno (causa della cosiddetta 'diarrea del viaggiatore', somministrate a livello della mucosa (nasale e orale) inducono una potentissima risposta immunitaria contro sé stesse e contro le molecole che vengono somministrate insieme. Le tecniche dell'ingegneria genetica hanno consentito di detossificarle: mediante mutagenesi mirata è stato possibile generare mutanti (per es., l'LTK63, con mutazione serina-lisina in posizione 63 della subunità A, oppure l'LTR72, con mutazione alanina-arginina in posizione 72 della subunità A) privi del potere tossico ma ancora provvisti dell'azione immunogena e adiuvante in molte specie animali, tanto che stanno entrando nella fase di sperimentazione clinica sull'uomo.
L'immunizzazione transcutanea utilizza l'applicazione topica sulla cute sana di un adiuvante e di un antigene per indurre una risposta immunitaria. Questa modalità di somministrazione può essere particolarmente vantaggiosa, dato che l'epidermide è ricca di particolari cellule immunitarie (le cellule di Langerhans, LC) situate a ridosso dello strato corneo. La barriera cornea può essere facilmente superata per idratazione mediante una semplice copertura della cute con un cerotto. Una volta penetrato, l'antigene viene trasportato dalle LC ai linfonodi, dove induce una risposta immunitaria sistemica. I risultati di studi preclinici condotti su animali mostrano che entrambe le tossine (la LT e la CT) inducono risposte immunitarie sistemiche e mucosali nei confronti di sè stesse e degli antigeni somministrati contemporaneamente, come i difterico e tetanico, e inoltre che gli adiuvanti sono essenziali per l'induzione di una valida risposta immunitaria transcutanea. In base a questi incoraggianti risultati, sono stati effettuati studi clinici sull'uomo, che hanno provato la sicurezza e l'immunogenicità di un vaccino ricombinante subunitario contro E. coli enterotossigeno somministrato per via transcutanea.
Se una sostanza benefica deve essere somministrata per bocca, perché non farla assumere sotto forma di alimento, possibilmente gradevole? Da questa semplice domanda nasce quella che potrebbe diventare una rivoluzione nel mondo dei vaccini. Le piante commestibili sono organismi eucarioti in grado di esprimere correttamente antigeni eterologhi, e possono pertanto costituire un valido sistema per somministrare un vaccino con i pasti. Vari antigeni virali (HBsAg, proteina capsidica del virus Norwalk, glicoproteina del virus della rabbia, emoagglutinina del virus del morbillo, solo per citarne alcuni) e batterici (subunità B della LT e della CT) sono stati espressi correttamente in piante commestibili (banane, carote, patate) e non commestibili (tabacco). Studi condotti su animali hanno mostrato che l'ingestione della pianta transgenica induce una risposta immunitaria, sia sierica sia mucosale, specifica per l'antigene codificato, e anche le prime sperimentazioni sull'uomo stanno dando risultati interessanti. In questo campo molto deve ancora essere approfondito, come, per esempio, la scelta dei più appropriati tessuti vegetali in cui far esprimere gli antigeni eterologhi, l'ottimizzazione della dose di antigene da somministrare insieme al cibo, nonché la stabilità del vaccino espresso dal vegetale. L'uso di piante commestibili potrebbe essere particolarmente utile per la somministrazione di vaccini nei Paesi in via di sviluppo.
Lo straordinario sviluppo delle tecniche genomiche e biotecnologiche e l'incrementato bagaglio di conoscenze nel campo dell'immunologia hanno notevolmente allargato l'orizzonte delle possibili applicazioni dei vaccini. Attualmente ampi filoni di ricerca si occupano di trovare vaccini attivi anche contro malattie non infettive, quali le allergie, le tossicodipendenze e le neoplasie.
Vaccini antiallergie. - Le malattie allergiche, per esempio l'asma bronchiale, sono il risultato di una risposta immunitaria di tipo TH2 particolarmente forte, in soggetti geneticamente predisposti, nei confronti di antigeni ambientali altrimenti innocui. Quasi tutte le attuali terapie hanno lo scopo di controllare i sintomi derivanti dalla degranulazione dei basofili e dei mastociti. Tuttavia, un approccio terapeutico più radicale sarebbe quello di prevenire l'iniziale generazione della risposta di tipo TH2 o di indurre una risposta di tipo TH1 nei confronti dell'allergene.
Recenti esperimenti compiuti su animali hanno chiaramente dimostrato che è possibile vaccinarli per evitare che sviluppino risposte allergiche di tipo TH2, suggerendo che un'analoga protezione potrebbe essere indotta anche nell'uomo. L'approccio più promettente sembrerebbe essere quello di vaccinare i bambini atopici, cioè con predisposizione allergica, con allergeni associati ad adiuvanti in grado di stimolare la produzione selettiva di cellule della memoria immunitaria di tipo TH1: si spera che, entrando nuovamente in contatto con l'allergene, il bambino, grazie alla secrezione di IFN-γ, sopprima lo sviluppo delle cellule TH2 allergene-specifiche. I candidati più promettenti sono i CpG DNA ‒ sia come oligonucleotidi sintetici, sia sotto forma di DNA batterico ‒ che hanno dimostrato di inibire le reazioni allergiche negli animali. Sono in corso studi clinici nei quali gli oligonucleotidi CpG sono utilizzati per trattare varie condizioni, incluse asma e allergie, ma bisognerà attendere che i risultati ottenuti nei modelli animali siano confermati nei pazienti con malattie atopiche. Data la complessa natura dell'atopia, la vaccinazione potrebbe non inibire completamente lo sviluppo di una reazione allergica, ma comportare almeno una significativa riduzione della sua gravità.
Vaccini contro le dipendenze. - Il trattamento delle tossicodipendenze è sempre stato problematico e a tutt'oggi non dà risultati soddisfacenti. I vaccini terapeutici rappresentano un approccio nuovo e per alcuni versi migliore rispetto agli attuali trattamenti. Essi si basano tutti sullo stesso principio: se un tossicodipendente assume la sostanza d'abuso dopo essere stato vaccinato, essa si legherà agli anticorpi circolanti e non arriverà ai propri recettori. Poiché si ritiene che questo tipo di antagonismo sia debole e parziale, il vaccino viene considerato un aiuto per coloro che sono già motivati a liberarsi della dipendenza, e non una terapia per tutti. Attualmente sono in corso studi preclinici nell'animale su un vaccino contro la nicotina che aiuti a smettere di fumare e un vaccino contro la cocaina è già stato sperimentato sull'uomo, con incoraggianti risultati.
Vaccini contro il cancro. - I vaccini contro il cancro sarebbero i vaccini terapeutici per eccellenza. In teoria essi dovrebbero essere in grado di indurre risposte immunitarie efficaci e specifiche, specialmente mediate da linfociti CD8+ ristretti per l'MHC di classe I, capaci di limitare la crescita e la diffusione (metastasi) del tumore. L'induzione di una potente risposta immunitaria dovrebbe portare anche allo stabilirsi di una memoria immunitaria che impedisca la recidiva della neoplasia. Purtroppo, tale obiettivo non è stato ancora raggiunto, ma molti progressi sono stati compiuti: per individuare i fattori immunitari correlati a una protezione dalle neoplasie è stato notevolmente intensificato lo studio delle risposte immunitarie naturali. Inoltre, una maggiore conoscenza dei meccanismi con cui i tumori sfuggono al sistema immunitario potrebbe essere la chiave per migliorare efficientemente i futuri approcci immunoterapeutici e per scegliere quei pazienti che potrebbero beneficiarne. Lo sviluppo di questi vaccini è rallentato anche dalle difficoltà inerenti l'induzione di risposte cellulari mediate da linfociti citotossici CD8+. Vari sistemi vaccinali sono allo studio sia nell'animale sia nell'uomo, come, per esempio, DNA nudo, sistemi vettoriali virali, oligonucleotidi CpG, cellule dendridiche, ecc. È possibile che si renda necessario utilizzare più approcci contemporaneamente per ottenere un vaccino terapeutico sicuro, efficace e di largo uso.
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