vaghezza
L'esempio nel quale il termine, sia pure in senso figurato, ricorre in un'accezione più prossima al valore fondamentale (" andare qua e là ") del verbo ‛ vagare ', da cui v. deriva, sembra quello di Pg XVIII 144 tanto d'uno in altro [pensiero] vaneggiai, / che li occhi per vaghezza ricopersi, / e 'l pensamento in sogno trasmutai.
È questa l'interpretazione del passo proposta dal Buti (" per la sollecitudine dei pensieri vaganti qua e là venne lo sonno, e io m'addormentai ") e ripresa dalla maggioranza dei commentatori moderni. Solo il Mattalia, osservando che ‛ vago ' nell'uso normale del poema vale più frequentemente " desideroso " che non " errabondo " e che, con l'interpretazione consueta, v. sarebbe un'inutile ripetizione del vaneggiai del verso precedente, dà al vocabolo il significato di " bisogno di sonno ", in conseguenza di che il poeta si addormenta.
Da quest'accezione si passa facilmente a quella di volubilità mentale e quindi di " curiosità scioccamente smodata " di cose nuove (cui può alludere anche ‛ vago ': cfr. Cv I IV 5 e Pg III 13), nell'accenno ad Albero da Siena, il quale pretendeva che Griffolino gli rivelasse il segreto di levarsi in volo: quei ch'avea vaghezza e senno poco, / volle ch'i' li mostrassi l'arte (If XXIX 114).
Vale " desiderio ", " voglia ", nel passo in cui la sapienza partecipata delle creature è paragonata a una druda de la quale nullo amadore prende compiuta gioia, ma nel suo aspetto contentan la loro vaghezza (Cv III XII 13).