CASTIGLIONE (Castiglioni), Valeriano
Come informa il profilo, sulla base di dati da lui forniti incluso nel volume glorificante gli Incogniti, nacque a Milano, il 3 genn. 1593, da Anna Riva e da Francesco, "letteratissimo protofisico degli esserciti della Maestà Cattolica" dello stesso ceppo del "celebratissimo autore del Cortegiano".
Il C. si prodigherà poi per ricordare la sua appartenenza all'"antichissimo e nobilissimo casato de' Castiglioni milanesi" raccogliendo "scritture" a questo relative, stendendone la storia e componendo, inoltre, una voluminosa apologia (che pare sia stata stampata nel 1641; ma l'edizione, in tal caso, è irreperibile) di papa Celestino IV, un Castiglione, appunto, di Milano. Accolto, il 1º nov. 1610, nell'Ordine benedettino, approfondì, nel convento milanese di S. Simpliciano, i già avviati "studii delle lettere humane e divine",sorretto e incoraggiato, in occasione dei suoi temporanei e frequenti soggiorni bergamaschi, dalla guida affettuosa del dotto abate Angelo Grillo, che molto giovò al suo precoce esordio di letterato. Fu il Grillo, infatti, a spingerlo a salutare con parole d'encomio le autorità venete a Bergamo; e a lui il C. deve il lusinghiero ingresso nel loquace mondo dell'accademia, struttura portante della circolazione culturale del tempo, colla sua "prima attione", in occasione dell'apertura, attorno al 1620, di quella degli Erranti bresciani, che segna, assieme all'accoglimento, di poco precedente, come "il Brillante" tra gli Animosi pavesi, l'inizio di ulteriori affermazioni che lo vedranno, tra l'altro, intrattenere sul vino (la dissertazione sarà anche pubblicata a Milano nel 1624, con dedica a Pio Muzio, abate di S. Simpliciano) i Filarmonici di Verona e compiaciuto membro degli Oziosi di Napoli e degli Incogniti di Venezia.
Ma forse, nel caso del C. fierissimo "se a decimo sexto aetatis anno typis concedere",sarebbe stato più opportuno frenare la smania di immediato successo e la connessa inclinazione - deducibile dalla stessa enfatica presentazione in Le glorie degli Incogniti, ove è detto "buon poeta, eccellente politico, vaghissimo historico, profondo filosofo ed eminente teologo" - a cimentarsi, in fretta, nelle forme e sugli argomenti più disparati, a saggiare, dilettantescamente, varie direzioni e, per lo più, coll'intento d'ingraziarsi qualcuno, mai sotto l'urgenza di un'esigenza intima. Di qui la superficialità della sua produzione giovanile che lo faceva definire giustamente da un anonimo "più spiritoso che savio, amator di belle lettere ... intelligente della prosa et del verso, ma più del ridicolo che del serio" sicché "passava per bello spirito".
Troppo ambizioso per appagarsi della quiete appartata della vita conventuale, troppo sensibile alle sollecitazioni esterne, la sua vita da un lato è dominata dal desiderio di conseguire una solida fama letteraria confortata dagli applausi accademici, dall'interesse dei lettori, dal consenso dei colleghi più illustri quali il Tassoni, che da Roma gli scrive, il 12 febbr. 1620, come "questi padri della Minerva" lo ritenessero "il più bell'ingegno che sia nella lor religione",o il Loredan, che, omaggiato dal C., quasi "segretario alla loro fama", colla pubblicazione di Lettere... su l'opere... (Torino et Venetia 1646) sue, a sua volta gli baciava, per lettera, affettuosamente le mani; e c'era anche chi, come il Borsieri, gli riconosceva, prima del 1620, "molto spirito nella poesia e nelle prose latine". Dall'altro è percorsa dal bisogno dell'autorevole e remunerante protezione d'un principe, a disposizione del quale è pronto a mettere la sua penna, purché ricambiato con un incarico ufficiale e con una sistemazione economicamente e socialmente d'un qualche prestigio; perciò, sin nei primi scritti, la cautela supera l'improntitudine, l'amministrazione prevale sull'improvvisazione e la dirige.
Varie le offerte che trovano il C., nella meticolosa valutazione, ora riluttante ora allettato: declina l'invito del cardinal Borghese di stendere una storia del pontificato di suo zio Paolo V e quello, analogo, del viceré di Napoli duca d'Alba di rievocare le imprese belliche spagnole in Italia; anche se nel nutrito elenco dei suoi scritti non c'è traccia d'una biografia, sia pure appena abbozzata, del Richelieu e nemmeno d'un tentativo storiografico accentrato, in qualche modo, sul re cristianissimo, pare si sia recato in Francia invitato a scrivere la vita del potente cardinale e vi abbia ottenuto, dietro pressione di quello, da Luigi XIII, oggetto d'un suo panegirico a stampa, "il titolo - così almeno, è affermato ne Le glorie degli Incogniti - di suo historico italiano con l'aggiunta d'una ricca pensione".
Finalmente, dopo una tergiversante attesa riflessa nella varietà e occasionalità dei suoi primi scritti - tra cui figurano i versi in festeggiamento della laurea di Ludovico Melzi e di padre Marchesi, in onore del podestà di Verona Zaccaria Sagredo e del rettore di Treviso Giovanni Barbarigo, il poema Clio (Milano 1616) in onore del cardinale Federico Borromeo, l'Euterpe poemata in laudem... Angeli Grilli... (Mediolani 1616), un poema l'Accoglienze dal cielo (Pavia 1618), i panegirici, editi a Ravenna nel 1621, di Gregorio XV, degli sposi Giov. Giorgio Aldobrandini e Ippolita Ludovisi, del card. Alessandro Orsini -,il C., da tempo (probabilmente sin dal 1618) dimorante, anche se non continuatamente, nel ricco monastero cassinense di Savigliano, ebbe, nel 1624, dal duca Carlo Emanuele I l'incarico di storiografo sabaudo, che manterrà con Vittorio Amedeo I e per tutto il corso della reggenza di Madama Reale; e, a stare ad un lungo elenco di "personaggi Castiglione benemeriti di casa Savoia" allegato ad una lettera del C. a quest'ultima del 9 nov. 1659, il suo servizio si ricollegava ad una lunga tradizione di famiglia. Non trascurabile il compenso ché alla pensione annua, addossata per lui da Carlo Emanuele I alla comunità di Cherasco, "di lire tre milla d'argento a soldi venti l'una",se ne aggiunse in seguito, per volere di Cristina, un'altra, da corrispondergli "qui in Torino del più liquido danaro",di "lire due milla d'argento a soldi venti l'una",sottratte al "denaro della censa delle carte e tarocchi"; ma forse i pagamenti non erano sempre regolari, se "il bisogno" costringeva il C., nel luglio del 1660, a scrivere a Cristina ricordandole l'esempio del "grande Enrico" riscattante "con molto denaro l'istorico suo fatto prigioniero" per spronarla a dare "l'ordine al finanziere" sì da sovvenire "il suo fedelissimo scrittore". "Virtuoso impiego ch'egli già per 28 anni con tanta fedeltà e soddisfazione intiera della casa ha retto",afferma la riconferma, dell'8 apr. 1652, a firma di Carlo Emanuele II, evidentemente dimentico - per volontà della madre - delle malefatte del C. che, quasi venti anni prima, avevano suscitato l'ira di Vittorio Amedeo I.
Come dice eufemisticamente il Claretta, il C., infatti, aveva dimostrato ampiamente di non avere "l'animo bello come l'ingegno". Gliene diede occasione l'amicizia contratta a Savigliano - qui, resosi difficile il soggiorno milanese (nel convento di S. Simpliciano lo si guardava con sospetto perché "servitor confidentedi prencipe nemico"), aveva fissato stabilmente la sua residenza alla fine del 1626 - coll'influentissimo Giovanni Tommaso Pasero, cui doveva il conferimento, nel 1627,della cittadinanza onoraria (ed è stata edita a Cuneo l'Orazione pronunciata dal C. per l'occasione) e l'incarico, non mantenuto, di compilare una storia della città.
Ambiziosissimo invidioso intrigante, il Pasero, deciso a scalzare il conte Lelio Cauda dal favore di Vittorio Amedeo I e a danneggiare la reputazione di quanti altri ostacolavano la sua smania di preminenza, trovò nel C. uno strumento docile e, va supposto, non disinteressato sì da indurlo a scrivere, coperto dall'anonimato e sulla base di particolari scandalosi da lui stesso forniti, un libello lesivo dell'onore delle principali famiglie di Savigliano: affisso, nella notte tra il 29 e il 30 nov. 1633, "alla cappella pubblica" e alle "porte di particolari" suscitò un vero putiferio e le indignate rimostranze dei maggiorenti offesi, i quali convinsero il duca a nominare, il 20 dicembre, una commissione d'inchiesta formata dal primo presidente del Senato piemontese Antonio Bellone e dai senatori Pergamo e Cambiano di Ruffia. Caduti i sospetti sul C., questi, trascinato in processo, non esitò ad indicare l'autore della scritta diffamatoria in Emanuele Tesauro (col quale aveva rapporti, se non d'amicizia, per lo meno di studio ché la sua epitome Del regno d'Italia sotto i barbari uscirà, in varie edizioni [1 ed., Torino 1660], corredata di ben 782 "annotationi" del C. volte all'ampliamento esplicativo del testo e ad irrobustirlo con citazioni e rinvii bibliografici e d'un certo interesse laddove, quasi a gara con le espressioni del Tesauro, il C. parla di Arduino come di "voce" che "scoté il sonno d'Italia",la cui morte segnò la fine della "libertà" "gloria" e "pace" della penisola, oppure insiste sulla funzione pacificante ed unificante della "casa regale" di Savoia); e, per ulteriormente scagionarsi, cercò anche di coinvolgere nell'accusa, con un manifesto ai cittadini saviglianesi "amatori della verità",tal Costanzia. Come si poteva dubitare - sosteneva - della sua penna che, "consacrata alle glorie di un prencipe re",non "s'avilisce a satira goffa e plebea"? Questa non può che essere opera di chi, come appunto il Costanzia, è "homo d'illegittimi nattali, pubblico adultero, padre de spurii, crudele contro l'istessa madre prostituta ... a me nemico da molti anni". Ma, per fortuna sua e del Costanzia, il Tesauro riuscì a smascherare il C. colla esibizione di lettere autografe da questo indirizzategli, la cui grafia risultò identica a quella delle contumelie. Costretto così a riconoscersi colpevole, il C. atterrito cercò, mentendo ancora una volta, d'alleggerire la sua posizione: ammise "d'aver fatto quella scrittura",ma "non di ... propria volontà",bensì su istigazione, addirittura "violentato",del conte Ottavio Ruffino, uomo di corte e governatore di Savigliano ostile al Pasero. E quest'ultimo, che partecipava al processo in qualità d'avvocato fiscale, colse il destro per far imprigionare subito l'anziano rivale. Addirittura sfacciata, invece, la fortuna del C.: per quanto la sollecitasse il rappresentante sabaudo a Roma (ove, peraltro, il C. non poteva essere "in peggior concetto"), Ludovico San Martino marchese d'Agliè, non riusciva ad ottenere l'autorizzazione a procedere contro di lui, ché il rimetterlo alle decisioni del foro secolare avrebbe costituito "esempio" di "troppo mala conseguenza". Si preferì, perciò, affidare il C. all'inquisitore, che si limitò a destinarlo ad una sorta di blandissimo domicilio coatto presso il convento torinese di S. Domenico, ove, di fatto, godeva d'una grande libertà di movimento, ricevendo chi voleva (e tra i suoi visitatori c'era il Pasero) ed uscendo a suo piacimento.
Qui il C. divenne pedina non secondaria d'una torbida trama a vasto raggio ordita dal Pasero e favorita da connivenze altolocate - vi ebbero in qualche modo parte il conte Baldassare Masserati, il cardinale Maurizio di Savoia, l'arcivescovo di Torino Antonio Provana e l'inquisitore del S. Uffizio Girolamo Rebiolo -, volta a screditare l'odiato Cauda quale reo di malefiche influenze su Vittorio Amedeo I. Fu il C., infatti, col Pasero a convincere tal padre Bellada - furente perché nella carica di priore gli era stato preferito un fratello del Cauda - a far passare per ossessa una sua nipote (Margherita Roero, moglie d'un soldato) e a suggerirle di proferire in pubblico orribili predizioni: imminenti sciagure minacciavano il Piemonte, se il duca non si fosse sbarazzato del Cauda e di altri due nemici del Pasero, il senatore Barberis e il conte Appiano.
Vociferazioni di immediato effetto: con viva preoccupazione del duca serpeggia, tra la popolazione turbata, una pericolosa avversione pel Cauda il quale, per timore delle sassate, "non ardiva di uscir di casa". Senza ostacoli da parte dell'inquisitore la losca manovra culmina teatralmente colla pubblica liberazione - accuratamente sceneggiata dal Pasero - della giovane dal demonio: dopo che questi ribadisce, nell'atto di lasciarla, la prossima sventura, Margherita sputa "un legnetto ... con tre croci",a significare che tre flagelli avrebbero sconvolto le terre sabaude se non fossero stati destituiti i tre nemici del Pasero. E l'inganno, per quanto subodorato, non sarebbe stato scoperto - anche perché le indagini erano bloccate dalla pretesa dell'arcivescovo che la questione fosse rimessa prima al tribunale ecclesiastico -,se il C., nel frattempo caduto in disgrazia, non si fosse deciso a parlare.
Liberato, dopo aver dimostrato in un successivo processo l'infondatezza delle accuse del C., il Ruffino, vivamente protestando che non era "soffribile che il... calunniatore passeggiasse libero e lieto tutto il giorno ne' chiostri di S. Domenico",era riuscito ad ottenere soddisfazione: il C., infatti, fu cacciato, per volontà ducale, in una torre del Castello, dove rimase, quanto meno, dall'estate del 1634 a tutto il 1635.
"Avezzo a viver lauto e alle brigate gioviali",il carcere gli è insopportabile; e s'agita per uscirne, ora blandendo Vittorio Amedeo I col definire "fortuna la prigione ... havendo ... havuto l'onore di servire ... a prencipe il più grande d'Italia",ora lusingandolo colla ventilata stampa a Venezia del "Prencipe successore volume ... che dopo la teorica conterrà i modi del di lei perfettissimo governare" (ma, con tutta probabilità, si tratta di un'invenzione del momento), ora offrendogli "per le presenti guerre continovi fogli di avisi della corte di Milano per opera di un mio fedele amico astiggiano interno a qualche principal consigliere di quello stato",ora esibendo l'intento di impegnate meditazioni volte "all'utilità dello stato, alla ricchezza dell'erario, all'accrescimento del patrimonio et ad un sussidio ecclesiastico per le fortificationi",ora supplicando "con lagrime ... la liberatione dalla carcere, dove temo lasciar la vita". Deluso inoltre dal Pasero che, per quanto brigasse, non riusciva a farlo scarcerare, decise di tradirlo confessando tutto: "benché ... creatura del ... commendatore Pasero, nondimeno, poiché mi ha tradito et a causa di questa mia prigionia, voglio posporre le mie obbligationi verso di lui all'obbligatione di scaricare la mia coscienza",ammettendo d'aver scritto, da lui convinto, la "pasquinata contro la nobiltà di Savigliano" e svelando il "fatto della finta inspirata",a proposito del quale "nominò ancor per complici" il Masserati, l'inquisitore, il Bellada "et se medesimo". In seguito alla denuncia il Pasero e il Masserati vennero imprigionati (entrambi, tuttavia, fuggiranno nel 1638 schierandosi a fianco del cardinal Maurizio), un carcere duro fu riserbato al Bellada e a sua nipote, mentre l'inquisitore, sospeso, venne relegato ad Asti.
Il C., avvantaggiato dalla clamorosa delazione e dalle complicazioni di competenza tra foro laico ed ecclesiastico nelle quali ristagnava la sua causa, uscì indenne dalla vicenda; e, una volta morto il duca, incline ad usare nei suoi confronti un certo rigore, non ebbe più nulla da temere da Cristina, indotta all'indulgenza dalla simpatia che nutriva pel C. e dal fatto che anch'egli s'era, a suo modo, adoperato contro il Cauda cui era ostilissima. Poté così vivere indisturbato soggiornando, almeno dal 1642, nel convento torinese di S. Agostino, non senza fama d'esperto navigatore nel burrascoso mondo della corte se l'Aprosio - non si sa se ingenuamente o con consapevole ironia - gli dedica, della sua Grillaia, proprio il "grillo" dove si chiede "se per conseguire la gratia del principe habbia maggiore forza o 'l merito o 'l genio".
Consolato della privazione della cittadinanza di Savigliano, decretata da quel Consiglio comunale il 9 genn. 1634, colla concessione di quella più prestigiosa di Torino, un unico cruccio pare tormentare il C.: l'umiliante spogliazione, voluta dai suoi superiori nel 1634,del titolo d'abate (limitato, di fatto, a fregio onorifico, ché l'ostilità dei confratelli l'aveva dissuaso dal pretenderne l'effettivo uso) ottenuto, in seguito ad istanza presentata ancora da Carlo Emanuele I, così come "la dispensa del rigor degli ordini della sua religione",da Urbano VIII, nel 1633.L'afflizione è tale da renderlo incapace d'"escrire l'histoire de cette royale maison" se privo del riconoscimento della dignità abbaziale, afferma la duchessa nel richiederlo, invano, per lui, il 3 luglio 1641,a monsignor Panciroli, viceprotettore dei benedettini. Né ebbe effetto, venti anni dopo, la preghiera rivolta, sempre da Cristina,allo stesso protettore dell'Ordine, cardinale Antonio Barberini. Non per questo cessano le caparbie insistenze di Madama Reale che,il 10 apr. 1662,scrive al presidente generale della congregazione cassinense Ludovico Cerveri "de lever toutes les difficultés ... en cette affaire puisque tout le soin que vous prendrés pour la consolation du ... abbé Castillon me servira d'un prestant motif pour redoubler la protection que j'ay toujours donné à votre religion en ce pays". La promessa, esplicita, e la minaccia, implicita, sortirono il loro effetto: Alessandro VII, con breve del 31 luglio 1662,accogliendo l'unanime richiesta dei superiori dell'Ordine, concedeva loro "facultatem eligendi ... Valerianum in abbatem titularem".
Soddisfatto nella vanità, reintegrato nel prestigio e, probabilmente, gratificato di un'ulteriore pensione, il C. tornò a Milano, forse dietro pressione dei superiori desiderosi che ricambiasse il favore dedicandosi, libero da condizionamenti cortigiani, a scritti edificanti - ne aveva offerto un saggio, stando all'Armellini, con La pratica del mondo, opera morale politica ed economica cavata e discorsa su le favole di Esopo - e soprattutto all'ultimazione degli Annali casinesi, di cui, sempre a detta dell'Armellini, era pronto il primo tomo sin dal 1630,mentre il secondo, destinato allo sviluppo e diffusione dell'Ordine sino ai suoi tempi, era appena iniziato. Progetti, comunque, non attuati, ché il C., infermatosi gravemente, morì a Milano nel 1663.
Moltissimi i suoi scritti - esiguì gli editi, assai più diffusi taluni dei non editi -,dei quali l'Armellini (facilitato dall'Elenchus, fatto uscire, nel 1662, a Torino, dal C., di quanto, pubblicato o manoscritto, aveva composto pei Savoia) compilò una diligente registrazione, successivamente ampliata dall'Argelati in un ulteriore catalogo, suscettibile, tuttavia, di qualche integrazione; assai modesta, ad ogni modo, e tale da non compensare i titoli, ivi riportati, attualmente non rintracciabili. Del pari irreperibile - ammesso sia stata composta - L'historia de' suoi tempi...,annunciata, nel profilo del C. de Le glorie degli Incogniti, come prossima "all'impressione". Rinvenibile o meno - anche i titoli sono sufficientemente indicativi -,la produzione a stampa del C. è quasi tutta condizionata dalla sua dipendenza dai Savoia e, comunque, pervasa da un'ottica cortigiana. Cronista di festeggiamenti e di scadenze ufficiali, porgitore d'auguri e rallegramenti - e, laddove occorra, difensore d'ufficio contro le insinuazioni antisabaude del Mercurio... di Vittorio Siri o entusiasta ammiratore dei ritratti, eseguiti da Guido Reni, di Cristina ed Enrichetta di Savoia -,alla sua penna non mancano occasioni per esercitarsi puntualmente e prevedibilmente: nel 1626 esalta l'eroismo di Carlo Emanuele I, nel 1627gli offre, pel natalizio, un panegirico assicurandolo che, quando nacque, "schierò l'imperadrice luna nel ... firmamento l'esercito ... delle stelle guernite d'armi dorate additando ch'entrar dovevate in questa bassa terra per esser seguace di Marte",nel 1629 lo elogia per la pace di Susa; nel 1630descrive le "sacre pompe" di Savigliano per la traslazione di tre santi martiri, nel 1631 approva Vittorio Amedeo I per la pace di Cherasco, nel 1641 augura "prosperità" alle armi di Luigi XIII e festeggia il natalizio di Madama Reale, omaggiata in seguito, per la stessa occasione, con "bizzarrie accademiche" ed una serie d'"applausi" nonché esaltata, nel 1643, "perla pace piemontese"; nel 1645 racconta le "pompe torinesi" pel ritorno di Carlo Emanuele II, nel 1651 i"realihimenei" di Enrichetta Adelaide di Savoia e Ferdinando Maria di Baviera (narrazione riedita in Le ... alleanze fra le case ... di Savoia e di Baviera … Documenti e memorie, a cura di V. Promis, Torino 1883, pp. 237-292),nel 1656 le fastose accoglienze tributate dalle "altezze reali" a Cristina di Svezia; del C. sono le brevi Allegorie introducenti alla comprensione de Il Gelone. Favola pastorale (Torino 1656)di Lorenzo Scoto, abate commendatario di Chesery; e sempre il C. nel 1659 celebra Luigi XIV per la "pace generale",nel 1661 si complimenta con Filippo IV per le nozze dell'infanta Maria Teresa e rammemora i festeggiamenti sabaudi equamente indirizzati alla nascita del delfino e al natale dell'infante, nel 1663 narra le "feste nuttiali" delle "regie altezze" di Savoia. Sgombra da condizionamenti encomiastici appare solo la Relatione di Monviso et dell'origine di fiume Po (Cuneo 1627), vivace resoconto di un'escursione del C. (che gli varrà "un posticino nell'albo dei precursori, dell'alpinismo") da Savigliano sino al lago di Chiaretto per contemplare, di lì, "il monte Vesulo, il più alto delle Alpi Cottie, termine dell'Italia ... di figura piramidale ... sempre coperto di neve"; vi riccheggiano toni e situazioni tipici della letteratura burlesca, specie nella descrizione del magro pranzo offertogli dal parroco di Crissolo, nel quale fungeva da "coppiera" un'orrida vecchia, e dell'infelice nottata presso quello trascorsa in un letto "angusto" - chiara la reminiscenza del capitolo bernesco al Fracastoro -,ove stette "in iscorcio",mentre "i topi fecero tornei, correrie e mattacini per darmi trattenimento".
Inedita, a parte gli stralci pubblicati dal de Magistris e dal Balmas, l'attività propriamente storiografica del C. è dotata di maggior respiro e conserva tuttora un notevole valore documentario, sì che, indubbiamente, costituisce la parte meno caduca della sua produzione, quella in cui l'encomio è diluito nel racconto, in cui meno s'avverte la frivolezza presente, ad esempio, nelle sue improvvisate celebrazioni ora del vino ora della caccia ora della primavera; né la faciloneria precettistica e l'inclinazione alle massime, quanto mai fastidiose nel C. trattatista politico, ingombrano il procedere dell'esposizione. Originata dall'intento d'opporre all'intensa propaganda di Giovanni Léger (che aveva allarmato l'opinione pubblica europea e suscitato l'intervento diplomatico inglese ed elvetico) una versione autorevole di segno opposto - tale da giustificare la "guerra ... punitiva d'un popolo heretico, suddito rebelle al suo principe" addossando ogni responsabilità, appunto, su di "una popolatione di montani idioti ... giunta a mover l'armi contro il suo sovrano" -,la Relatione, che il C. avrebbe voluto dedicare ad Alessandro VII, sulla guerra mossa, nel 1655, da Carlo Emanuele II contro i Valdesi; essa è rimasta interrotta a metà, forse perché la conclusione, tutt'altro che favorevole al prestigio sabaudo, sconsigliava dal pubblicare la storia di un'iniziativa sbandierata come giusto sterminio di valligiani pervicaci nell'eresia, e, invece, risoltasi col riconoscimento dei loro precedenti diritti e privilegi. Gli appunti sparsi che ne restano, una successiva stesura molto tormentata, una parte in forma definitiva sono comunque sufficienti ad attestare non solo le ambizioni della fatica del C. - che, per meglio inquadrare i fatti del 1655,sente l'esigenza di un ampio excursus preliminare risalente a Pietro Valdo e ai poveri di Lione - ma anche un certo travaglio stilistico-contenutistico, un accentuato scrupolo d'informazione evidenziato da una puntigliosa raccolta di decreti, memoriali, lettere e scritture sull'argomento. Esigenza di documentazione, questa del C. - facilitata da Cristina ancora coll'ordine, del 3 giugno 1641,all'archivista "che si comunichino al ... Castiglioni le scritture che sono necessarie all'informazioni di molte cose concernenti all'opere che gli abbiamo commesso" -, in cui sta il pregio dei "manoscritti" più legati alla sua condizione di storiografo sabaudo; tant'è vero che l'abate Gazzera, nella "tornata" della Deputazione di storia patria torinese del 6 nov. 1853,ne auspica l'inclusione in "un nuovo volume Scriptorum",ma, per quanto il Manno, segretario in seguito della stessa, d'accordo sul loro "grande interesse",assicuri che "sono già quasi pronti per il torchio", la proposta non verrà attuata. Essi si distinguono in tre opere. Anzitutto i due volumi Della vita del duca di Savoia Carlo Emanuele I…, in ventisette "libri", incompleta ché manca totalmente il VII (concernente le vicende del 1599)e il XXIII (riguardante il 1625)è steso solo parzialmente, mentre il XXVIII, col quale doveva concludersi, non fu scritto dal C., indotto a desistere, così una annotazione alla fine del XXVII, dalla guerra, dalla peste e dalla stessa morte del protagonista. Scampata fortunosamente al pericolo di distruzione (il Cauda voleva farla bruciare) e di dispersione (il primo tomo, andato smarrito, "fu casualmente rinvenuto in un sforziere rotto" e mezzo bruciato; il secondo, pure scomparso, venne trovato dal "medico Borsieri", in un "piccolo armarietto" e restituito al C. nel 1640),il grosso dell'opera era stato scritto tra il 1624 e il 1627,quando il C. ne scrive al duca, il 24 ottobre, fiducioso di poterla pubblicare nella "primavera" del 1628, col titolo di "guerre et cose memorabili operate" da Carlo Emanuele I "durante il tempo del suo governo fino ai nostri giorni". Per quanto viziata dalla costante esaltazione di un principe visto come il concentrato d'ogni immaginabile virtù, l'opera è, comunque, ricca di dettagli e non priva di giudizi penetranti; ed essendo, inoltre, stata quasi tutta rivista e corretta dal protagonista, cui il C. si premurava di sottoporre - man mano che il lavoro procedeva - i libri, rappresenta una non trascurabile versione ufficiale delle motivazioni di tutta la bellicosa ed oscillante politica di Carlo Emanuele I. Incompiuta in più parti (v'è molto meno di quanto figura nell'indice a stampa) e in veste provvisoria (carte e documenti sono inseriti disordinatamente, varie le cancellature, molti i ritocchi e le aggiunte finali) la successiva Historia della vita del duca di Savoia Vittorio Amedeo principe di Piemonte, re di Cipro, nella quale, oltre le gesta di Carlo ... suo padre, si leggono le memorie dei principi del sangue e d'altri affari delle corone e varii successi d'Europa, sidivide in due parti, la prima dedicata agli anni 1587-1630, dalla nascita, cioè, del duca sino alla morte del padre, con particolare insistenza sul viaggio in Spagna, le imprese belliche del 1615-17 e le nozze con Cristina la seconda dalla successione alla morte e alle "pompe funerali".
Anche se può rimanere ancora utile per l'apporto documentario, si tratta della meno felice delle fatiche storiografiche del C.: sciatta compilazione scritta svogliatamente per obbligo d'ufficio, fiacca nell'interpretazione e poco convinta nell'esaltazione di un principe più temuto che amato dal Castiglione. Per quanto accusata perentoriamente di piaggeria cortigiana, di menzogna e di faziosità in un'anonima Relation de la cour de Savoie ("ne vous fiez pas - avverte - à l'abbé C. et à Capriata ... Ce sont des plumes vénales qui sont payées pour mentir et pour jeter des nuages et des ténèbres dans les esprits, afin de lever la lumière des horribles vérités qui composent la vie de madame Christine"), di gran lunga più robusta è l'Historia della reggenza di Madama Reale Cristina di Francia, duchessa di Savoia, regina di Cipro, tutrice delli ... duchi Francesco Giacinto e Carlo Emanuele II, senz'altro l'opera migliore del C., fonte preziosa per l'erudizione ottocentesca e anche novecentesca. Pel Claretta, a parte lo "stile" e la propensione per Cristina evidente nel racconto dei "maneggi politici",grande è l'"esattezza" in fatto di scontri militari e di datazioni; pressoché sgombro di riserve il successivo apprezzamento del Patrucco ravvisante nell'Historia...addirittura "una certa calma e serenità di giudizio",del tutto immune dalla "spiccata passione di parte" di un Guichenon e di un Tesauro, sì che, a suo avviso, anche se il C. ha "mangiato il pane della corte" ed è stato "madamista",è "come istoriografo ... uomo onesto",cui va resa "una buona volta giustizia". In due volumi, il primo pronto per la stampa (il frontespizio è completo d'indicazioni editoriali - Torino 1656 - eseguono l'avvertenza al lettore e versi augurali e complimentosi di Lorenzo Maria Torelli, Antonio Valzani, Lorenzo Scotto, Michelangelo Golzio) e il secondo incompleto, l'opera consta di dieci "libri" coprenti gli anni 1637-1644, dalla morte, cioè, di Vittorio Amedeo I alla "recuperatione della pace di Piemonte" e s'arresta all'enunciato del contenuto dell'XI libro concernente il "principio della reggenza della reina di Francia sino all'ingresso del duca ... nella città di Torino". L'incompiutezza è, comunque, compensata dal solido impianto documentario - lo prova anche la nutrita "nota di libri e scritture c'hanno servito all'historia" - e dalla ricchezza, sin sovrabbondante, dei dettagli. E vi sono anche pagine di un certo vigore, come, ad esempio, il quadro desolato del periodo più doloroso, quello dell'assedio di Torino: "in Piemonte tutto era calamità, tutto avea sembianza d'eccidio, ugualmente era temuto l'amico e l'inimico, in ogni luogo si udivano pianti per gli incendi per le rapine e per le uccisioni; i campi desolati, solitarie le strade per le morti e per gli spogliamenti, le chiese sacrilegamente rubbate ed oggetti di libidine e di sangue, i loro ministri vilipesi ed imprigionati, talora scannati".
Cospicui di mole e oggetto di continuato impegno, dunque, gli scritti storici del C., ma, rimasti manoscritti (e senza lettori, sino a quando, nell'Ottocento, non li utilizzò la storiografia piemontese, impegnata a rispolverare e riverniciare le glorie sabaude in concomitanza cogli esiti moderati del Risorgimento), non gli diedero la fama. Questa gli venne, invece, dallo Statista regnante, il trattatello da lui pubblicato due volte, a Lione e a Cuneo, nel 1628 e una terza, a Torino, nel 1630, arricchito, in quest'ultima edizione, da una trionfalistica "lettera discorsiva" ai "politici"; in essa il C., ricordando il successo delle prime due circolate nelle corti "regie ... cesaree ... papali" e confortate dall'"honore di non mediocre applauso" da parte delle "politiche accademie",rivendica la legittimità e l'opportunità del suo "esser trapassato dal confine monastico al politico" dando "regole a' regnanti per governar stati col santo timor di Dio e con giustitia". Convinto di sbaragliare la "pessima ragion di Stato" dei seguaci di Machiavelli e Bodin, valendosi di "Seneca gentile" e "Tacito atheista" al pari di un medico provetto ricavante "dalle vipere l'antidoto contro i veleni",riverendo "i prencipi come imagini di Dio in terra" - e il "regnante" del titolo (che ricorda il coevo Prencipe deliberante di Tommaso Roccabella - in realtà di suo zio Gian Filippo - uscito a Venezia nel 1628)va inteso come opposto a "republicante" -, il C. offre loro, colle sue cinquanta "ragioni di Stato",come pomposamente chiama i capitoletti in cui suddivide lo scritto, una sorta di ricettario di comportamenti adatti a una serie di circostanze e occasioni. Se vi si atterranno - assicura il C., improvvisato mentore di avvedutezza, ma non per questo privo di sicumera -, lo Stato da essi retto sarà una macchina efficiente ed obbediente, specie di melodioso "canto musicale",frutto, peraltro, non d'una armonia costruita dal basso (sconsigliabilissima questa, ché "la molta confidenza" tra i sudditi induce ad "un'unione" pericolosa per chi comanda), ma, al contrario, di una sapiente distribuzione della disarmonia, cioè della "poca intelligenza fra i sudditi" alimentata ad arte. Ottimo principe è infatti colui che sa "temperar la cetera musicale del suo governo con lodevoli dissonanze". In concreto, però, i suggerimenti del C. rasentano, nella loro ovvietà, la banalità: il principe nomini il successore e lo introduca, per tempo, al suo arduo compito; sia ponderato nell'accasarsi; non sia succube delle donne; si allei coi vicini; rispetti la parola data, a meno che non si tratti d'eretici o di ribelli; munisca lo Stato di fortezze; si preoccupi della capitale; sia timorato di Dio, "zelante della religione",persecutore di quanti ne vogliono una "nuova",rispettoso del papa e degli ecclesiastici; sia geloso custode della sua "reputatione",giudice severo e giusto; non gravi i sudditi d'eccessivi oneri fiscali, proibisca "le usure",salvaguardi la "conservatione" della nobiltà doni ai poveri; sappia dissimulare, curi la "segretezza",moderi il lusso, sostenga "le accademie",conduca una vita "innocente",si guadagni l'affetto del popolo; stia attento ai veleni (magari ricorrendo all'"unicorno che ha di proprio il sudare all'avvicinarsi della vivanda avvelenata"), si circondi di guardie armate sia straniere che indigene, usi delle "spie",tema i tradimenti, sorvegli i nobili più in vista, sventi le congiure, susciti "diffidenze tra' sudditi",non sia credulo; elimini i fuorusciti, moderi "la ferocità" dei sudditi, stronchi "le fattioni civili","punisca i ribelli","bandisca i duelli"; non inclini a "novità",non consenta il concentrarsi di troppa autorità in un solo ministro, "procuri l'abbondanza" riponendo il popolo la felicità "nella sola copia de' viveri",preferisca l'annualità delle cariche, conceda il diversivo degli "spettacoli",abbrevii "le liti", "non lasci ociosi i sudditi","ami", infine, "la pace". "Ragioni di Stato",queste, tutte abbondantemente esemplificate con episodi della storia antica e recente e, in ogni caso, col rinvio al modello di Carlo Emanuele I - occorre, spiega il C., ad evitare l'accusa di proporre il "principe immaginario di Senofonte",il riferimento all'esemplare fusione tra "una perfetta prattica" e la "christiana teorica di Stato" attuata, appunto, dal duca -più d'ogni altro fornito di "destrezza" "prudenza" "dissimulatione",più di tutti capace d'esercitar "christianamente" le "arti migliori del regnare". Forse proprio lo spropositato ruolo assegnato, nel trattatello, al Savoia provocò la diceria, sostenuta da Andrea Rossotto (il monaco di S. Bernardo autore del Syllabus scriptorum Pedemontii...,Monteregali 1667; lo stesso che sostiene essere il compendio Del regno d'Italia ... opera del conte Filippo San Martino d'Agliè, mentre il Tesauro si sarebbe limitato a compilare le "annotationi" falsamente attribuite al C.) e propalata dall'Aprosio, secondo la quale il vero autore dello Statista sarebbe stato Carlo Emanuele I: era "concetto universale in Piemonte",aveva confidato il monaco all'Aprosio, cui non parvevero di divulgare l'inconsistente pettegolezzo, che il C. fosse stato un semplice prestanome, mentre erano "tutte massime del duca".
Altro scritto del C. con ambizioni didattiche Il prencipe bambino, per la nascita di Francesco Giacinto. Opera virtuosa ad istruzzione di un buon principe felice fortunato dal cielo (Torino s.d.), dedicato, in data 14 apr. 1633, alla madre. In questo, dopo aver ricordata ai "politici" la propria esistenza - s'era sparsa, probabilmente, la voce della scomparsa del C., la cui "penna", invece, "tra gli incendi della guerra non restò incenerita" -, attirava la loro attenzione su tali "fogli primogeniti" del suo "stile",ove disserta, con seriosa gravità, della provvidenza, degli angeli, dei progenitori, dei presagi, del temperamento, del "genio",della beltà, della salute, del luogo, del clima, del nome, delle balie e delle feste.
Inedito un terzo trattatello, Delle virtù de' prencipi, composto dal C. tra il 25 marzo e il 15 ag. 1637, mirando, ancora una volta, alla "pratica de' prencipi, ad utilità de' quali et dilettatione" la dissertazione è stata "formata". Con questo egli - fiero d'aver conseguito, collo Statista, il "distruggimento della politica machiavellica et bodiniana" - annuncia, sorvolando disinvolto sul discredito derivatogli dalle vicende processuali del 1634,solennemente l'intenzione di "far trapasso" dagli "studi" propriamente "politici" a quelli "morali". Donde la trattazione, priva d'autentica moralità e untuosamente devota, delle "virtù" degne del principe - ben ventiquattro: religione, giustizia, prudenza, temperanza, fortezza, carità, pietà, mansuetudine, clemenza, fede (la battaglia va fatta colla scorta delle reliquie, occorre combattere, non trattare, cogli eretici), continenza, liberalità, "providenza",modestia, "verità",vigilanza, segretezza, pazienza, bontà, destrezza, dissimulazione (è "virtù dissimular le ingiurie ricevute in minor fortuna"), magnificenza, magnanimità, beneficenza - e la parallela "detestatione de' vitii singolarmente ad esse opposti".
A lungo travolto nella dimenticanza serbata ai troppo saccenti cultori del Seicento di scienza politica sciorinanti massimebilicate, rozzamente, tra machiavellismo degradato a furbizia e unzione etica (dove questa diluisce quello sino a renderlo digeribile in un contesto di cattolicesimo imperante), un'ironicapostuma fama - dovuta alla ventura dell'inserimento manzoniano nella biblioteca di don Ferrante - privilegerà, a partire dall'Ottocento inoltrato, in qualche modo, il C. isolandolo e individuandolo nella folta schiera dei trattatisti suoi contemporanei. Donde la riesumazione, da parte della scuola storica, della sua figura nell'attenzione divertita del D'Ovidio (che lo definisce "padre Tosti da strapazzo" e "rachitico epigono" delle meditazioni politiche cinquecentesche) e la fatica diligente del Gioda, esplicitamente sollecitata dal D'Ovidio, "per avere sicure notizie su la vita e le opere" dell'autore dello Statista regnante, il libretto, aureo per don Ferrante, che, distanziando di gran lunga Il principe e La ragion di Stato, ne scioglieva il tormentoso tentennare tra il "mariolo..., ma profondo" Machiavelli e il "galantuomo..., ma acuto" Botero. E donde, ancora, dato che lo scrittore vagheggiato da don Ferrante è quello dai "molti mecenati e protettori",l'assurgere, non privo d'esagerazione, agli occhi dei critici più nutriti d'idealità risorgimentali e più inclini a moralistici sdegni, del C. a simbolo del letterato secentesco, "panegirista di tutti i principi" e che "tutti i principi vogliono ingaggiare al proprio servizio" (Donadoni); e al secco "ignorantissimo" affibbiatogli da un infastidito lettore come il Ferrari si contrappone l'indulgente apprezzamento del Rava "per l'ingegno vivace e brillante" di cui il C. sarebbe stato dotato.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Torino, Sezione I, Lettere particolari, mazzo 46, fasc. con trenta lettere scritte dal C. tra il 1626 e il 1660ai Savoia, specie a Madama Reale, una, a stampa, a Luigi XIII e una al primo segretario conte Carone; Ibid., Storia della Real Casa, categ. 3ª,le storie di Carlo Emanuele I, Vittorio Amedeo I e della Reggenza, segnate, rispettivamente, mazzo 14 n. 1, mazzo 16 n. 8 e mazzo 17 n. 1; Torino, Bibl. Reale, Fondo Saluzzo, codd. 252-253, copia della storia di Carlo Emanuele I, eseguita nel 1835da Cesare Saluzzo, dall'originale dell'Archivio; Ibid., Fondo Storia Patria, cod. 2, Liber elegiacus...,una serie d'epigrafi, epitaffi ed iscrizioni funebri scritti o trascritti dal C.; Ibid., brevi testi del C. in Varia, 287, 289, 549e Misc. 95, 161, 161bis; alla Bibl. Reale si trovano inoltre parecchi opuscoli a stampa del C. altrove irreperibili; Milano, Bibl. naz. Braidense, AF.X. 33 e 41:il brogliaccio dell'iniziata storia della Guerra valdesa fatta dall'altezza... del duca Carlo Emanuele II individuato e studiato dal Balmas; Ibid., AF.X. 12:un secondo autografo, proveniente dal convento di S. Simpliciano, della storia di Vittorio Amedeo I; Milano, Bibl. Ambrosiana Y. 188. sup.: Delle virtù de' prencipi;Venezia, Biblioteca naz. Marciana, Mss. it., cl. X, 132 (= 6609):G. Ghilini, Theatro d'huomini letterati…, III, c. 346; Docum. inédits tirées des collections de la Bibliothèque Royale..., a cura di [J.-J.] Champollion Figeac, III, Paris 1847, p. 343; Raccolta... delle leggi cioè editti, patenti, manifesti, emanate ... dai ... Savoia, a cura di F. A. Duboin-C. Duboin, XX, Torino 1854, pp. 1274-1276; Bibliografia storica degli Stati della monarchia di Savoia, a cura di A. Manno-V. Promis, I, Torino 1884,nn. 746, 747, 812,813, 824, 1141, 5374, 5508;X (a cura di M. Zucchi sulle "schede di Manno",ibid. 1934, n. 40884; Catalogue général des livres imprimés de la Bibl. nationale de Paris, XXIV, Paris 1905, coll. 948-949;S. Piantanida-L. Diotallevi-G. C. Livraghi, Autori italiani del 1600, Milano 1948-51, nn. 363, 1334; British Museum. General Catalogue of printed books to 1955, V, New York 1967, p. 154;S. P. Michel-P. H. Michel, Répert. des ouvrages... en langue ital. au XVIIe siècle... dans les bibl. de France, II, Paris 1968, p. 65;lettere di cui il C. è destinatario in G. F. Loredano, Lettere, I, Venetia 1673, pp.51, 107; II, ibid. 1671, pp. 41, 56-57;il C. è anche destinatario delle Due lettere inedite di A. Tassoni, a cura di F. Gelli, Milano 1906;G. Borsieri, Il supplimento della nobiltà di Milano...,Milano 1619, p. 44;Z. Boverio, Annali ... de'... cappuccini ...,II, 2, Venetia 1645, p. 741; Le glorie de gli Incogniti...,Venetia 1647, pp. 420-423; S. Glareano (= A. Aprosio), La grillaia...,Napoli 1668, pp. 483-503;F. 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