ZURLINI, Valerio
– Nacque a Bologna il 19 marzo 1926, figlio di Francesco, ingegnere minerario, e di Maria Bordoni, maestra elementare. Trasferitosi a Roma con la famiglia, frequentò un collegio dei gesuiti e dopo aver concluso gli studi liceali, nel 1943, si arruolò nel Corpo italiano della Liberazione. Al termine della seconda guerra mondiale, nella seconda metà del 1945, iniziò a frequentare il Centro universitario teatrale, in seno alla facoltà di lettere e filosofia di Roma, maturando i primi interessi per il palcoscenico, che lo portarono nel 1947 a trasferirsi a Milano, al seguito del regista Mario Landi. Nel capoluogo lombardo per un anno e mezzo fu aiuto regista presso il Piccolo Teatro e nel frattempo approcciò il mezzo cinematografico, prima come assistente dello stesso Landi per un filmato pubblicitario per Biancosarti e poi per un corto realizzato per reclamizzare le edizioni UTET. Tornato a Roma, laureatosi in legge all’Università La Sapienza, si sposò con Fausta Salvati il 23 giugno 1949, matrimonio che poi venne annullato dalla sacra Rota nel 1959, il che gli permise di sposare in seconde nozze Rosamaria Zanni, da cui ebbe i figli Francesco e Francesca.
Nel 1950 con Racconto del quartiere iniziò una proficua attività di regista di cortometraggi, subito segnata da un forte successo popolare, in quanto all’epoca una legge prevedeva che ad ogni lungometraggio distribuito in sala dovesse essere abbinato un cortometraggio di nazionalità italiana. Tra i primi cortometraggi di Zurlini a imporsi all’attenzione generale ci fu Sorrida... prego (1951) – un mediometraggio, più che un cortometraggio, considerata la durata di cinquanta minuti, incentrato sulla vita professionale di uno stravagante fotografo romano e della sua spesso buffa clientela – grazie anche all’abbinamento con il film Due soldi di speranza di Renato Castellani. Fino al 1955 girò tutta una serie di brevi film, non più lunghi di dieci, tredici minuti: tra questi particolarmente curiosi furono Pugilatori (1951), per finanziare il quale Zurlini fu costretto a vendere parte dei propri beni e ad accettare un contributo economico del musicista Mario Nascimbene, suo stretto e fedele collaboratore; Il mercato delle facce (1952), sull’universo dei piccoli attori, generici e comparse, in cerca di scrittura; La stazione (1953), asciutto ma efficace ritratto, ambientale e antropologico, del principale scalo ferroviario romano.
Nel 1952, grazie all’interessamento di Pietro Germi, Zurlini convinse Guido Gatti, uno dei principali dirigenti della casa di produzione Lux, a metterlo alla prova nella regia di un lungometraggio: così propose diversi soggetti, tutti scartati, tanto che nel 1953 per alcuni mesi si impegnò, in qualità di aiuto regista di John Huston, sul set italiano del film Il tesoro d’Africa, una grossa produzione della Warner Bros con i divi Humphrey Bogart, Jennifer Jones e Gina Lollobrigida.
Solo nel 1954 il regista e la Lux trovarono un compromesso: il lungometraggio di esordio di Zurlini fu così un adattamento del romanzo di Vasco Pratolini Le ragazze di San Frediano, un film leggero e disimpegnato, non privo di notazioni di costume e acume descrittivo, che affresca un momento di passaggio nella storia del Paese, attraverso il racconto di un fatuo playboy di borgata, interpretato da Antonio Cifariello circondato da un personalissimo harem di fanciulle in fiore di estrazione popolare.
Quasi un modello per tanto cinema a venire: non si possono infatti non cogliere nel film di Zurlini degli spunti, narrativi e ambientali, che vennero poi messi a frutto da Dino Risi per il successivo Poveri ma belli (1956), capostipite di tutto un filone del cinema italiano.
Il film ebbe subito un buon successo di pubblico e nonostante fosse un’opera su commissione rivelò le doti tecniche di Zurlini; tuttavia passarono cinque anni prima che il regista potesse avere una seconda chance. Tentò nel frattempo di dirigere Guendalina, tratto da un suo soggetto, che però Carlo Ponti affidò nel 1957 alla regia del più esperto Alberto Lattuada (Zurlini vinse comunque il Nastro d’argento 1958 per il miglior soggetto insieme a Leo Benvenuti, Piero De Bernardi e lo stesso Lattuada).
Nel 1959, passato alla Titanus, diresse il suo secondo lungometraggio, Estate violenta, storia dai tratti marcatamente autobiografici di un giovane che trascorre nella Riccione del 1943 la sua ultima vacanza prima di ingrossare le fila dei partigiani.
Fotografato in un magnifico bianco e nero da Tino Santoni, il film affronta temi che da quel momento in poi divennero ricorrenti nell’opera del regista bolognese: il rimpianto e la nostalgia per una giovinezza troppo breve e non vissuta con pienezza di sentimenti, l’impossibilità di conciliare l’amore con la realizzazione personale, il conflitto tra gli ideali e la realtà, lo scacco esistenziale connaturato alla stessa condizione umana destinata inesorabilmente al fallimento. Nel film si coglie anche una delle principali qualità registiche di Zurlini, ovvero l’ottima scelta e direzione degli interpreti: Jean-Louis Trintignant, doppiato da Paolo Ferrari, Eleonora Rossi Drago (che per il film vinse il Nastro d’argento quale miglior attrice protagonista) e Jacqueline Sassard, doppiata da Adriana Asti. Dal punto di vista formale, Zurlini lavora sull’immagine, cesellando inquadrature e scenografie, costruendo un ambiente freddo e niente affatto accogliente, completamente indifferente alla presenza umana. Nel film compaiono, a più riprese, treni e stazioni – elementi ricorrenti in tutto il cinema di Zurlini – a rimarcare la provvisorietà ontologica dell’uomo, che sulla Terra è letteralmente in viaggio e sempre di passaggio.
Il successo del film consentì a Zurlini di mettersi subito al lavoro, godendo ormai della assoluta fiducia della Titanus: nacque così La ragazza con la valigia (1961) con Claudia Cardinale, doppiata da Adriana Asti, nei panni di una ragazza tanto bella quanto priva di particolari qualità, sballottata dalla vita e dagli uomini in un mondo cinico nel quale solo il giovanissimo Lorenzo, interpretato dal francese Jacques Perrin, doppiato da Massimo Turci, è disposto a concederle un po’ di affetto e forse di amore, per quanto disordinato e velleitario.
Alla fine del film la protagonista si ritrova esattamente al punto di partenza, ancora una volta a piedi e ancora una volta con la valigia in mano, a rimarcare la circolarità della vita e l’impossibilità di sottrarsi al proprio destino: nel cinema di Zurlini le esperienze non concorrono a un miglioramento esistenziale, ma all’opposto privano i personaggi anche di un eventuale residuo di forza vitale e di qualsiasi fede in un cambiamento positivo.
Con il successivo Cronaca familiare (1962) Zurlini affrontò per la prima volta il colore, rendendo palese il suo forte interesse verso la pittura: i colori del film non sono infatti naturalistici ma atti a esprimere atmosfere ed emozioni represse dei personaggi.
Leone d’oro alla Mostra di Venezia, tratto dall’omonimo romanzo di Vasco Pratolini, il film ricostruisce il legame tra due fratelli, interpretati da Marcello Mastroianni e Jacques Perrin, doppiato di nuovo da Massimo Turci, che la vita prima divide e poi riunisce: è proprio la morte del più giovane che permette al più anziano una sorta di presa di coscienza. Nelle eleganti immagini del film, cui concorre la fotografia di Peppino Rotunno, imbevute di tonalità pastello, si scorgono riferimenti alla pittura di Ottone Rosai, mentre la musica di Goffredo Petrassi amplifica struggenti riflessioni su un presente che sa solo declinarsi nel ricordo.
Cineasta sempre alieno da facili tentazioni commerciali, nel 1965 Zurlini firmò l’aspro e spiazzante Le soldatesse, sull’occupazione italiana della Grecia, raccontata attraverso l’odissea di alcune sventurate ragazze autoctone destinate ai bordelli militari tricolore. Aver riaperto un capitolo volutamente rimosso della nostra storia recente non procurò certo grandi concessioni di credito verso il cineasta bolognese, che visse un lungo periodo di crisi nella seconda metà degli anni Sessanta, anni in cui tornò alla regia teatrale, firmando la messa in scena di Pietà di novembre di Franco Brusati, nel 1966, e L’avventura di un povero cristiano di Ignazio Silone, nel 1969. Tentò in quel periodo di portare sullo schermo il fortunato romanzo di Giorgio Bassani Il Giardino dei Finzi Contini, a conferma del suo costante interesse verso la letteratura contemporanea, ma il progetto passò poi a Vittorio De Sica. In un contesto personale così difficile, accettò di realizzare uno degli episodi del film collettivo Vangelo ’70, episodio che divenne progressivamente un vero e proprio film, espunto dal progetto originario e distribuito singolarmente nel 1968 con il titolo Seduto alla sua destra, apologo anticolonialista – ispirato alla figura del leader congolese Lumumba – con sequenze di estrema violenza grafica, che venne bocciato da pubblico e critica. Costretto a una sostanziale inattività, Zurlini diresse Mina in alcuni caroselli per la pasta Barilla e terminò anche il film Come, quando, perché (1969), allorché sopraggiunse la morte improvvisa del regista titolare Antonio Pietrangeli. Nel 1970 diresse il suo unico lavoro per la televisione, La promessa, da un testo teatrale di Aleksej Abruzov, un film tutto girato in un unico ambiente – interpretato da Giulio Brogi, Giancarlo Giannini e Anna Maria Guarnieri – nel quale Zurlini mise in mostra tutta la sua grande capacità e raffinatezza nel costruire acuti profili psicologici di personaggi votati alla sconfitta, ricorrendo a una messa in scena essenziale, per quanto improntata a grande rigore stilistico.
Nel 1972 colse il grande successo di pubblico con La prima notte di quiete, con Alain Delon – doppiato da Gino La Monica nell’edizione italiana – nei panni di un disilluso insegnante di liceo, letteralmente alla deriva in una Rimini invernale e plumbea, perdutamente innamorato di una giovane allieva, interpretata dalla meteora Sonia Petrovna.
Quella del protagonista è una vera e propria discesa nell’Ade: tenuto in vita da una passione lacerante e distruttiva, il tenebroso professore deambula come lo zombi di un film dell’orrore in un contesto cimiteriale, dove non c’è posto per le illusioni e la speranza e dell’umanità è rimasto solo il suo esangue fantasma. I colori lividi della fotografia di Dario Di Palma ‘illuminano’ l’inferno terreno di una società decadente, affrescando uno scenario quasi postapocalittico.
L’enorme esito commerciale del film comunque non permise a Zurlini di tornare subito alla regia, anzi dovette ricevere nuove delusioni, abbandonando progetti accarezzati e accompagnati fin quasi alla soglia delle riprese: è il caso di Verso Damasco, storia dell’inchiesta che compie un magistrato romano sulla scomparsa del corpo di Gesù Cristo, ma anche, tra gli altri, de Lo scialo, da Pratolini, Gli occhiali d’oro, da Bassani, La zattera della Medusa, Il processo Murri, Il sole nero.
Solo nel 1976 uscì Il deserto dei tartari, personalissimo adattamento dell’omonimo romanzo di Giovanni Buzzati, interpretato da un cast internazionale di altissimo livello comprendente il fidatissimo Perrin, Jean-Louis Trintignant, Max Von Sydow, Fernando Rey, Vittorio Gassman, Giuliano Gemma.
Zurlini riesce a tradurre per immagini un testo letterario ineffabile, che sembrerebbe sulla carta refrattario a ogni tentativo di visualizzazione, creando una scenografia dal carattere metafisico, restituendo con i mezzi espressivi propri del cinema quel senso di infinita sospensione e attesa che caratterizza il romanzo di partenza: così gli spazi inanimati sembrano pulsare di vita propria e ogni silenzio si carica di suggestione, ogni inquadratura è ascetica e piena allo stesso tempo, colmata da un controllo assoluto dello spazio scenico e della direzione degli attori.
Grazie a questo film Zurlini ottenne il Nastro d’argento e il David di Donatello per la miglior regia: ad appena cinquanta anni era tra i più importanti e prestigiosi cineasti italiani e tuttavia da quel momento non diresse più un solo film, perso dietro progetti irrealizzabili e porte chiuse in faccia. Si dedicò così alla direzione del doppiaggio – tra l’altro delle edizioni italiane de Il cacciatore (1978) di Michael Cimino e Ti ricordi di Dolly Bell? (1981) di Emir Kusturica – e all’insegnamento nel corso di regia del Centro sperimentale di cinematografia. Nel 1980 si mise anche al lavoro sulla riduzione per il grande schermo del romanzo di Ernest Hemingway Al di là del fiume e tra gli alberi: anche questo film, però rimase sulla carta, nonostante fosse già stata avviata la lavorazione.
Il 26 ottobre 1982, a cinquantasei anni, sofferente da tempo di cirrosi epatica, morì a Verona per un malore.
Opere. Gli scritti: Giorgio Morandi, Torino 1973; Il tempo di Morandi, Reggio Emilia 1975; Una serata romana con Balthus, Reggio Emilia 1975; Fabrizio Clerici o i fiori di cenere, Reggio Emilia 1976; Pagine di un diario veneziano. Gli anni delle immagini perdute, Fidenza 2009. Le sceneggiature: Estate violenta, Mantova 1990; La zattera della Medusa, Mantova 1990 (con N. Badalucco - E. Medioli); Di là del fiume e tra gli alberi, Mantova 1990 (con U. Liberatore - T. Pinelli); La ragazza con la valigia, Mantova 2000 (con L. Benvenuti - P. De Bernardi - E. Medioli - G. Patroni Griffi).
Fonti e Bibl.: V. Z., a cura di C. Biarese, Venezia 1984; V. Z., a cura di S. Toffetti, Torino 1993; L. Miccichè, Il deserto dei tartari di V. Z.. Un viaggio ai limiti del giorno, Torino 2000; G. Minotti, V. Z., Milano 2001; Elogio della malinconia. Il cinema di V. Z.. Atti del Convegno di studi... 2000, a cura di A. Achilli - G. Casadio, Ravenna 2001; V. Z., a cura di G. Martini, Bologna 2005; F. Savelloni, La spiaggia nel deserto. I film di V. Z., Firenze 2007; M. Nicoletto, V. Z.. Il rifiuto del compromesso, Alessandria 2011; Destino e finitezza. Su V. Z., a cura di E. Di Mauro - G. Mancini, Ancona 2011.