Vedi VALLE DELLE REGINE dell'anno: 1966 - 1997
VALLE DELLE REGINE (v. vol. VII, p. 1089)
La V. d. R. si apre all'estremità meridionale della montagna tebana. Quando fu visitata dalla spedizione condotta da J. F. Champollion e I. Rosellini (1828- 1829), soltanto sedici sepolture erano accessibili. I primi scavi furono condotti da E. Schiaparelli quasi un secolo più tardi. In quell'occasione furono riportate alla luce le tombe dei figli di Ramesse III e quella, di grande importanza artistica, della regina Nefertari, sposa di Ramesse II (v. oltre). L'esplorazione del sito fu poi ripresa nel 1970 da ricercatori francesi ed egiziani. Di grande rilievo fu la scoperta della Tomba della regina Tuya, madre di Ramesse II. Le più recenti campagne sono state dedicate al completamento dell'esplorazione dello wādīprincipale e delle tre valli secondarie. È anche cominciata la pubblicazione di tutte le tombe scoperte e del materiale archeologico rinvenutovi. Contemporaneamente è stato intrapreso il restauro degli ipogei, a partire da quello di Nefertari, assai degradato.
La V. d. R., che in alcuni punti presenta un calcare estremamente friabile, si apre in una larga pianura e non è perciò dotata di alcuna protezione naturale contro i saccheggi; varie dighe furono inoltre costruite a valle di una caverna, dove si raccoglievano le acque piovane, al fine di proteggere le tombe più vicine. Tali inconvenienti dimostrano che l'installazione della necropoli obbediva a criteri più simbolici che tecnici.
La valle non fu sempre utilizzata come luogo di sepoltura per le Grandi Spose Reali. Le sepolture più antiche risalgono alla XVII dinastia ed erano destinate ad alti dignitari; gli ipogei del visir Imḥotep e della principessa Aḥmose sembrerebbero i primi a essere stati scavati nel sito. Si tratta di tombe costituite da un pozzo a sezione pressoché quadrata che dava in una o più stanze scavate nella roccia. Le pareti degli ambienti erano anepigrafi. Agli inizî della XVIII dinastia, nella valle furono ancora ospitati i membri della famiglia reale, mentre le regine ricevevano sepoltura in varí luoghi della montagna tebana.
Il cambiamento che agli inizî della XIX dinastia si determina nella tradizione funeraria reale e che provoca il raggruppamento delle sepolture delle regine in un unico luogo rivela un mutamento nella concezione del ruolo della sposa del sovrano. A differenza di quello che era avvenuto nel corso della XVIII dinastia, la regina non ê più importante per il legame che la unisce al sovrano regnante, quanto piuttosto come madre del futuro monarca, che si presenta come il discendente diretto degli dei; la Grande Sposa Reale diviene così il riflesso terrestre delle divinità femminili che incarnano il principio materno universale. A Tebe, una divinità di tal genere era adorata come Ḥatḥor e si riteneva che abitasse la montagna sovrastante a o le vaste necropoli di Tebe. La grotta naturale della V. d. R. fu così interpretata come l'utero divino e le acque che talvolta ne fuoriuscivano simboleggiavano la rinascita dei defunti. Le spose reali erano perciò le prime a beneficiare di questo flusso rigeneratore.
Anche la decorazione delle tombe illustra questa nuova concezione. Non essendo più, come i loro sposi, il supporto di una funzione divina, la loro natura le avvicinava ai cortigiani. Così, sulle pareti delle loro tombe, non sono infrequenti le illustrazioni che accompagnavano il Libro dei Morti. Ciò che le distingueva dagli altri mortali è il loro ruolo nella trasmissione del potere reale al futuro sovrano. Questa concezione contribuì alla formazione di rappresentazioni innovatrici in cui comparivano geni funerari, dalle funzioni e dall'aspetto caratteristici, che si ritrovano soltanto nella Valle delle Regine.
La prima Grande Sposa Reale a essere stata sepolta in t3 s.t nfr.w («il luogo della perfezione») è Satra, sposa di Ramesse I e madre di Seti I; le pareti della cripta sono decorate, ma data la brevità del regno del suo sposo, l'ipogeo non fu mai portato a termine: nella prima sala sono tracciate, sopra un intonaco, vivide linee in inchiostro rosso e nero, disegni che predispongono i diversi stadî del lavoro che, in nessun caso, può essere interpretato al di là di un veloce schizzo. Sempre durante il regno di Seti I, un'altra regina, il cui nome non è conservato, ricevette a sua volta sepoltura nella valle (Tomba 40); le tre sale che compongono l'ipogeo mostrano una ricchissima decorazione che, per stile e per qualità, precorre quella della Tomba di Nefertari. La tomba di questa regina segna uno dei momenti culminanti dell'arte egizia e per la finezza del lavoro richiama gli splendidi rilievi del tempio di Abido e alcune scene della sala ipostila di Karnak, monumenti press'a poco contemporanei. L'ipogeo sviluppa la sua sontuosa decorazione su due livelli, collegati da una scalinata con lieve pendenza. La regina vi figura in
compagnia di varie divinità che proteggono il suo viaggio nell'aldilà; la sobria tunica a bretelle delle divinità femminili contrasta con la ricchezza dell'abbigliamento di Nefertari. I personaggi, modellati in leggero rilievo, intonacato e dipinto, rivelano l'evoluzione delle tecniche pittoriche.
A partire dall'epoca di Amenophis III, gli scambî commerciali avevano permesso di accrescere i colori a disposizione del pittore egizio la cui tavolozza, nel periodo della XIX dinastia, comprende anche il malva, fino a quel momento sconosciuto. Grande innovazione di questo periodo, i colori non sono più applicati in modo unitario, ma vengono sfumati così da accentuare il modellato dei corpi e dei volti. Sfortunatamente le acque piovane infiltratesi nella roccia nel corso dei secoli hanno provocato notevoli danni a questo gioiello dell'arte egizia (v. oltre).
Quasi cento anni dopo il regno del suo più illustre omonimo, Ramesse III riprese la consuetudine di seppellire le sue spose nella V. d. R.; scelse il fianco occidentale dello wādī, che si apre in due piccole valli, per mancanza di spazio a disposizione e di buone vene di calcare sul versante opposto. La tomba della regina Isi non si è conservata, ma quella di Tyty mantiene ancora intatta la sua decorazione. Lo stile ha perduto il vigore che contraddistingueva gli ipogei di epoca anteriore: le figure non sono più in rilievo e manca lo sfumato dei colori. Gli artisti di Ramesse III sembrano aver dato il meglio di sé in una serie di cinque tombe destinate ad altrettanti principi. Se anche in questi casi la qualità del disegno è assai distante da quella delle epoche precedenti, la vivacità dei toni nei colori che il tempo ha risparmiato nelle tombe di Khaem-uaset e di Amon-her-khepesh-ef rende i due ipogei tra i più splendidi monumenti funerarî dell'epoca. I personaggi non hanno più l'aspetto slanciato caratteristico degli inizî della XIX dinastia, ma il modellato delle loro forme resta estremamente vivido; altrettanto fine è la trattazione dei gioielli e dei tessuti: la trasparenza delle pieghe di lino permette di distinguere le gonne, le tuniche e i leggeri mantelli che il re e i principi portavano uno sopra l'altro. In ogni tomba il sovrano è rappresentato con tratti giovanili, accanto al figlio; quella del principe Seth-her-khepesh-ef doveva essere molto simile alle due già ricordate, ma un incendio ha completamente vetrificato le pareti distruggendo l'intera decorazione.
Gli ultimi ramessidi utilizzarono soltanto sporadicamente la V. d. R. che cadde in disuso in epoca immediatamente successiva, come accadde anche per la Valle dei Re: la maggior parte delle tombe fu profanata, in alcuni casi, già dalla fine del Nuovo Regno. A partire dal Terzo Periodo Intermedio, la V. d. R. fu usata soprattutto dal personale del tempio di Karnak; per le nuove sepolture furono utilizzati gli ipogei più antichi, lasciando pietosamente da parte il poco che era stato risparmiato dai saccheggi. Con il passare del tempo, la valle divenne una comune necropoli; alla fine dell'epoca romana catacombe furono ricavate nelle sepolture più antiche e alcuni ipogei furono stipati di corpi mal mummificati, mentre nuove sale furono scavate nella roccia. Le tombe di queste epoche restituiscono un materiale assai povero, spesso confuso con resti dei periodi più prestigiosi della civiltà egizia.
Bibl.: E. Schiaparelli, Relazione sui lavori della Missione archeologica italiana in Egitto (anni 1903-1920), I. Esplorazione della « Valle delle Regine» nella necropoli di Tebe, Torino 1924; G. Thausing, H. Goedicke, Nofretari. Eine Dokumentation der Wandgemälde ihres Grabes, Graz 1971; K. Michalowski (ed.), The Tomb of Queen Nefertari: Problems of Conserving Wall Paintings, Varsavia 1973; N. Hassanein, La tombe du prince Amon-(her)-khepchef, Il Cairo 1976; Ch. Leblanc, Ta Set Neferou. Une nécropole et son histoire, I, Il Cairo 1989; E. Corzo (ed.), Wall Paintings of the Tomb of Nefertari. First Progress Report, II Cairo-Century City (Calif.) 1987; AA.VV., In the Tomb of Nefertari: Conservation of the Wall Paintings, Malibu 1992; E. Corzo (ed.), Nefertari, luce d'Egitto (cat.), Roma 1994.
(I. Franco)
La Tomba della regina Nefertari e il suo restauro. - Nel settembre 1985 il Servizio Egiziano delle Antichità e il Paul Getty Conservation Institute hanno avviato un progetto comune per la conservazione dei dipinti murali della Tomba di Nefertari, fortemente degradati.
La causa primaria del degrado è stata identificata nell'acqua che si era infiltrata attraverso le numerose fratture della roccia durante le catastrofiche alluvioni, avvenute nella regione tra la fine del Nuovo Regno e l'epoca romana: lo Schiaparelli trovò il pavimento coperto da uno strato di limo essiccato, corrispondente ai numerosi strati di limo individuati nel 1991 dall'archeologo Ch. Leblanc in un banco stratificato presso la tomba. L'acqua, infiltratasi attraverso le fratture nella roccia, ha sciolto i sali ivi contenuti, trasportandoli verso le superfici dipinte, dove si sono cristallizzati a vari livelli, provocando distacchi, cadute di intonaco e colore, pustole superficiali, subflorescenze macroscopiche con cristallizzazione particolarmente eruttiva, efflorescenze e macchie scure diffuse.
L'intervento conservativo delle pitture è risultato molto complesso, anche a causa della loro tecnica di esecuzione, che l'occasione ha permesso di conoscere in modo approfondito.
A causa della cattiva qualità della roccia in cui la tomba aveva dovuto essere scavata, i decoratori si erano trovati nella necessità di consolidare e regolarizzare le superfici stendendo degli intonaci. Terminata l'applicazione dei vari strati di intonaco, l'assistente disegnatore suddivideva gli spazi battendo le linee con un cordino impregnato di terra rossa ed eseguiva a pennello, sempre in rosso, il primo abbozzo dei geroglifici e delle raffigurazioni, che in seguito il maestro disegnatore correggeva e definiva in nero a pennello. A questo punto interveniva lo scultore, che scolpiva la pietra o modellava l'intonaco, che in seguito il pittore ricopriva totalmente con uno strato chiaro, preparazione ai colori successivamente stesi a campitura. Mano mano che il lavoro avanzava, altre squadre di manovali provvedevano all'illuminazione, alla preparazione delle malte e a evacuare dalla tomba i materiali di risulta.
Sui cieli preparati in grigio o in nero venivano stese larghe pennellate di azzurro che lasciavano trasparire qua e là il fondo. Per realizzare il particolare cielo stellato della Tomba di Nefertari, il pittore batteva con il cordino impregnato di bianco le linee entro le quali venivano dipinte le stelle a cinque punte. Le impronte bianche del pollice del pittore che teneva il cordino sono chiaramente visibili sul soffitto vicino alle pareti. I pigmenti usati erano terre gialle e rosse, azzurro e verde egiziano, nero vegetale, vari bianchi (huntite, gesso, ecc.) e talvolta orpimento. Il legante era costituito da una gomma vegetale solubile in acqua, prodotta dall'acacia nilotica (tuttora diffusa lungo le rive del Nilo). Le campiture eseguite con terre gialle e rosse venivano successivamente «verniciate» (probabilmente con bianco d'uovo), risultando più intense e lucide. Solo nel caso delle rappresentazioni della Regina i colori degli incarnati venivano modulati con ombre e accentuazioni delle gote, mentre i veli pieghettati delle vesti lasciavano intravedere in trasparenza l'incarnato delle braccia e delle gambe. L'intervento dei pittori si concludeva contornando le immagini con colori bruni o neri; dove le campiture colorate avevano oltrepassato la linea del disegno, queste venivano ritoccate in bianco con pigmenti meno raffinati macinati più grossolanamente.
bibl.: Oltre ai testi di Schiaparelli, Leblanc, Corzo e Thausing-Goedicke citati nella bibliografia precedente, si vedano: A. Mekhitarian, La peinture égyptienne, Ginevra 1954; A. Lucas, J. R. Harris, Ancient Egyptian Materials and Industries, Londra 1962; P. Mora, L. Mora, P. Philippot, Conservation of Wall Paintings, Butterworths-Londra 1984; M. A. Corzo, M. Afshar, Art and Eternity, the Nefertari Wall Paintings Project. The Getty Conservation Institute, The Egyptian Antiquities Organisation, Malibu 1986-1992; A. Saliotti, Ch. Leblanc, Nefertari e la Valle delle Regine, Firenze 1993 (con bibl.).
(P. Mora)