VALLI GRANDI VERONESI (A. T., 24-25-26)
VERONESI Nella Pianura Padana, a monte del Polesine, dove il corso pensile dell'Adige volge a SE. e poi decisamente a E., prendendo così una direzione parallela a quello del Po, s'interpone tra i due fiumi un'area di terreni depressi sui quali le molte acque che affluiscono, prima delle recenti opere di prosciugamento ristagnavano in vaste paludi. Secondo il significato che in alcuni dialetti della Pianura Padana ha la parola valle, queste paludi formanti un'unità idrografica erano chiamate Valli Grandi Veronesi e Ostigliesi, le prime sulla sinistra, le seconde sulla destra del Tartaro, il fiume che le attraversava.
Tacito nelle Storie (III, 9) le denomina appunto Paludes Tartari fluminis. Evidentemente, fra Mincio e Adige, a valle dei ripiani alluvionali dell'Olocene antico, vi è una bassura dovuta a minore colmamento, chiusa fra le strisce di terreni più elevati che accompagnano i corsi del Po e dell'Adige. Le correnti alpine infatti abbandonavano gran parte delle alluvioni sui loro lati elevando il terreno più che nello spazio intermedio, dove il limpido Tartaro, generato dalle sorgenti che affiorano tra S. Giovanni Lupatoto, Fracazzole, Fovegliano (la fontana Poli a 44 m. s. m.) e Circomano (31 m. s. m.) riceve scarso tributo di torbide dai torrenti (Tione e altri) che traggono origine dalle colline moreniche benacensi: perciò deve avere avuto principalmente funzione di epuratore. Il terreno scende notevolmente inclinato da N. a S., leggiero è invece il declivio da ponente a levante: di conseguenza, i corsi d'acqua che dovettero disporsi secondo la maggiore pendenza, tanto più si avvicinano alla prima di queste direzioni quanto maggiore è la differenza rispetto alla seconda. Oltre alle acque sorgive, si raccolgono nel bacino idrografico del Tartaro le precipitazioni atmosferiche cadenti direttamente su una superficie di circa 850 kmq. e le effiltrazioni laterali del Mincio, del Po e particolarmente dell'Adige che fiancheggia la bassura per circa 50 km., e ancora le acque estranee al bacino medesimo, immesse artificialmente con derivazioni dall'Adige e dal Mincio. L'estensione che le paludi avevano negli ultimi secoli e di cui si dà qui la rappresentazione cartografica per il periodo immediatamente anteriore alla bonifica, era alquanto maggiore di quella che avevano nell'epoca preistorica e in quella romana, come prova il fatto che in alcune parti del fondo prosciugato si dissotterrarono oggetti neolitici, ruderi di edifici romani, pavimenti a musaico, capitelli e fusti di colonne, oggetti di uso funerario e domestico. Alla profondità di metri 1,50-2, presso il bastione di S. Michele fra Tregnon e Boldier e alla Torretta Veneta, si estrassero pure grossi tralci di vite. Le paludi nell'epoca romana occupavano soltanto la parte più depressa della regione: a ridosso dell'argine nuovo, secondo le livellazioni fatte dopo il prosciugamento, questa parte depressa giaceva a soli m. 7,52 sopra il comune marino, quota inferiore a quella delle campagne più a valle (Trecenta è a 11 m. sul mare). Parecchie cause devono avere contribuito alla progressiva estensione delle paludi. Anzitutto il lento spostamento positivo del livello marino dall'epoca romana in qua, per il quale i fiumi dovettero innalzare i loro profili longitudinali; poi il prolungamento degli alvei per il protrarsi delle foci a mare specialmente dopo il 1300, dal quale prolungamento doveva pure conseguire un innalzarsi dei profili medesimi. Le difficoltà di smaltimento delle Valli Veronesi dovettero aumentare. Furono accresciute dalle rotte dell'Adige e da opere umane. Causa importante dell'estendersi delle paludi dovette anche essere la diversione fatta dall'Adige nel 589 alla Cucca (ora Veronella) presso Cologna Veneta. Infatti il corso inferiore del fiume avvicinatosi maggiormente al Po, restringendo a valle l'area di raccolta delle acque, le fece estendere a monte. Il nuovo alveo atesino in breve tempo si fece pensile sulla pianura, sino a non poter più ricevere affluenti. Queste condnioni si aggravarono più tardi, quando, circa alla metà del sec. XV (se non alquanto prima) si aprì per una rotta la ramificazione del Castagnaro che dalla destra dell'Adige mise nel Tartaro, portando a questo le "acque bianche" del fiume alpino, donde il nome di Canal Bianco che a valle di Canda tuttora mantiene il corso inferiore del Tartaro. Il letto del Castagnaro dovette progressivamente innalzarsi per la copia di materie che la corrente solo in parte riesciva a portare in mare; da ciò anche un crescente elevamento del pelo delle piene. Tale progressivo interrirsi del Canal Bianco traeva con sé quello del Tartaro a monte del Castagnaro, rendendo cosi ancora più difficile lo scolo di quelle campagne mantovane, veronesi e polesane che avevano nel Tartaro il solo e necessario scaricatore. Anziché defluire, le acque di piena rigurgitavano per il Tartaro inondando e allagando. Si aggiunga che al restringersi dell'area più depressa ove si raccoglievano le acque, contribuirono l'argine destro del Tartaro costruito dal Ferraresi nel sec. XVII allo scopo di prosciugare terreni fra Tartaro e Po, l'argine sulla sinistra del fiume elevato inferiormente a Zelo e l'arginamento anulare fatto per difendere la presa di Giacciano. Essendosi così ridotta l'area della palude, le molte acque che tuttavia vi confluivano dovettero estendersi verso monte. Si noti poi che dall'accennata inclinazione del suolo da N. a S., conseguivano una notevole velocità del corso superiore del Tartaro e degli affluenti e un rapido scendere delle piene nel corso inferiore; durante le magre i corsi superiori erano assai poveri d'acqua. A siffatti inconvenienti, prima della bonifica, s'era creduto di riparare con imbrigliamenti e sostegni, producendo così dislivelli artificiali, la cui energia meccanica valse a muovere molini e pile da riso, ma d'altra parte queste opere ritardavano e impedivano il libero scarico delle acque. Nei mesi più piovosi gli alvei erano insufficienti a smaltire tanta copia, sì che vi era prevalenza degli afflussi sugli efflussi, dalla quale doveva derivare un immenso allagamento. Non è qui il luogo di rifare la lunga storia del Castagnaro, assai bene esposta da Pietro Paleocapa, che con la sua autorità riuscì a ottenere quella stabile e perpetua chiusura del dannoso diversivo che già Scipione Maffei aveva auspicata con solide ragioni. Dimostrava anche il Paleocapa quali immediati vantaggi avrebbe avuto il bacino idrografico del Tartaro, ma causa l'elevatezza dell'alveo non avrebbe potuto fruirne la parte più depressa delle Valli, palude antichissima e relativamente profonda. La chiusura stessa, effettuata nel 1838, era la condizione necessaria perché fosse possibile il prosciugamento. Il concetto fondamentale del Paleocapa era di dividere le acque dei terreni alti dalle basse, destinando a recipiente il Tartaro per le prime e scavando un canale apposito per le seconde. Questo canale, tracciato sulla linea di massima depressione della Valle, fu detto Fossa Maestra ed è lungo 47 km. Ma libero smaltimento nel Tartaro non potevano avere le acque dei terreni più elevati, perché la loro altezza non era sufficiente all'uopo; perciò si dovettero immettere nella Fossa Maestra. Questa fu una delle principali ragioni del fatto che la bonifica completa non riuscì e dopo nuovi studî si riconobbe la necessità di scavare un altro grande canale emuntore. Parecchie macchine idrovore tengono asciutti i terreni di più difficile scolo (ora sono in numero di 35).
Come tutte le regioni paludose, per loro natura poco praticabili e di regola disabitate, durante lunghi secoli anche le Valli Veronesi furono un territorio subecumenico, dove si avventuravano i cacciatori i pescatori e i raccoglitori di prodotti vegetali spontanei. Esplorate, benché incompiutamente, dai botanici nel sec. XIX, rivelarono una importante flora palustre.
Un nuovo periodo della storia dell'occupazione delle valli da parte dell'uomo s'iniziò con l'introduzione del riso nel Veronese, avvenuta nella seconda metà del secolo XV (v. riso, XXIX, p. 425).
Il periodo della bonifica e della coltivazione incominciò con i lavori di prosciugamento nel 1857. Dopo l'escavazione della Fossa Maestra, i proprietarî delle paludi prosciugate diedero mano al dissodamento del fondo messo allo scoperto. Su un potente deposito di argilla, attraversato da grosse radici di canne, si succedevano gli strati organogeni, cioè formati da generazioni estinte della fauna e della flora palustre. Per la decomposizione avvenuta a contatto con l'atmosfera, si formò fertile humus, ma nel medesimo tempo, anche per l'uso del debbio, ne diminuì assai il volume. Dopo trent'anni, nella parte più bassa si riscontrarono depressioni del fondo da m. 0,96 a m. 1,38. Mentre la coltura del riso, che in passato si faceva su notevole estensione, ha oggi poca importanza, la massima parte dei terreni è data al mais, al frumento, alla barbabietola da zucchero, al tabacco e al ricino. Predomina la grande proprietà e perciò le case coloniche sono tuttora scarse. Dall'epoca dei moti agrarî s'è incominciato a dividere i terreni per affittarne piccoli lotti, ma i coltivatori, essendo privi di capitali, si accontentano di eseguire pochi ed affrettati lavori e non abitano sul posto. Tuttavia se la primavera non è troppo piovosa, il prodotto che ne ricavano compensa le poche fatiche e le poche spese.
Bibl.: A. Averone, Sull'antica idrografia veneta, Mantova 1911; G. Bellini, Intorno al rasciugamento delle Valli Veronesi e Ostigliesi. Sunto storico, Lendinara 1872; F. Bocchi, Saggio storico del Canal Bianco di Polesine, Adria 1870; F. M. Canestrari, Bonificamento delle paludi dette Valli Grandi Veronesi ed Ostigliesi, Verona 1867; Hotze, Über die Entwässerung der grossen veronesischen Sümpfe. Eine militärisch-topographische Skizze, in Österreichische militärisch Zeitschrift, 1871; Inchiesta agraria; E. Lombardini, Studi idrologici e storici sopra il grande estuario Adriatico, in Memorie dell'Istituto Lombardo, XI, 1869; A. Lorenzi, Studi sui tipi antropogeografici della pianura padana, in Rivista Geografica Italiana, 1914; J. Martelli, Cenni sulle bonificazioni delle provincie venete e di quella di Mantova, in Memorie Illustrative del regno, XI; F. Masè, Ricerche botaniche sulle Valli Ostigliesi nel 1866-67, in Atti della Società italiana di scienze naturali, XI, fasc. 3, 1868; Ministero di agricoltura industria e commercio, Carta idrografica d'Italia; Cenni sulle bonificazioni delle province venete e in quella di Mantova, con tre carte annesse, Roma 1892; E. Nicolis, Sugli antichi corsi del fiume Adige, in Bollettino della Società Geologica Italiana, XVII, 1898, fasc. I; E. Paglia, Saggio di studi naturali sul territorio mantovano, Mantova 1879; P. Paleocapa, Memorie di idraulica pratica, Venezia 1859; C. Pollini, Flora Veronensis, Verona 1822-1824; A. Zanella, Esposizione compendiata dei lavori di bonificazione delle Valli Grandi Veronesi ed Ostigliesi eseguiti a tutto giugno 1865, Verona 1865; id., Del bonificamento delle Paludi che erano le Valli Grandi Veronesi ed Ostigliesi, Verona 1881; id., Le Valli Grandi Veronesi prima della bonifica. Ricordi storici, in Archivio Storico Veronese, XXIII, ottobre 1884, fasc. LXVII, Verona 1884, pp. 30-53; R. Zoppellari, Studio sul regime di Tartaro e di Canal Bianco prima e dopo i lavori di bonifica, sulle condizioni di scolo delle basse valli a tutto il 1896, Legnano 1897.