VALORI, Bartolomeo detto Baccio
– Nacque a Firenze il 5 dicembre 1477 da Filippo e da Alessandra Salviati.
Dei suoi anni di formazione non si hanno notizie, sebbene le vicende della famiglia e in particolare del prozio Francesco, il fervente savonaroliano linciato l’8 aprile 1498, dovettero marcarne il carattere. In una lettera di Agostino Vespucci a Niccolò Machiavelli (Lettere, a cura di F. Gaeta, 1961) della fine di ottobre del 1500 Valori viene ricordato fra gli «amicos et familiares» (n. 13, p. 62) del segretario. Tuttavia egli si schierò presto con gli avversari di Piero Soderini, come conferma Francesco Guicciardini (Storie fiorentine, a cura di A. Montevecchi, 1998) che intorno al 1507 lo ricordò fra gli «uomini vivi baldanzosi e molto inimici sua» e fra i figli e nipoti di ex nemici dei Medici ora «intrinsicati seco e parevano diventati loro amici».
Fu proprio Valori, insieme a Paolo Vettori e Anton Francesco Albizzi, a persuadere Soderini a lasciare Firenze il 1° settembre 1512, sancendo la caduta della Repubblica senza spargimento di sangue. La riconoscenza dei Medici non tardò a manifestarsi già a fine ottobre con la commissione (Archivio di Stato di Firenze, da ora in poi ASFi, Dieci di Balìa, Responsive, 113, c. 136) di seguire il potente emissario imperiale Matthäus Lang, vescovo di Gurk, diretto a Roma per ricevere il cappello cardinalizio. Valori nei suoi dispacci ai Dieci descrisse la pomposa accoglienza riservata a Lang da Giulio II e le promettenti trattative per l’accordo con Massimiliano I, che rinunciava al conciliabolo pisano obbligandosi al Concilio Laterano in cambio del mutuo soccorso strategico-militare.
Ripartito con Lang a inizio dicembre, Valori risalì la penisola passando per Siena e incontrando altri ambasciatori fiorentini, fra cui Francesco Vettori (inviato in Curia) a Poggibonsi. Nel frattempo Jacopo Salviati scrisse a Lanfredino Lanfredini da Roma che se Valori «non havessi ad star cum Gurcia credo harebbe servito benissimo secondo el principio che dette quando ci stette» (Firenze, Biblioteca nazionale, II.V.21, c. 225).
Bartolomeo giunse a Milano dopo Natale con il Gurcense, intento a riformare il governo e instaurare il duca Massimiliano Sforza, anche se come notava il 3 febbraio 1513 «solo si attende a pensare et trovare modi da fare danari» (ASFi, Dieci di Balìa, Responsive, 108, c. 195). Valori ripartì per Firenze qualche giorno dopo, ritrovandosi in imbarazzo a causa della cattura di suo zio Niccolò, implicato con Machiavelli e altri nella congiura di Pietro Paolo Boscoli. Niccolò fu confinato nella rocca di Volterra e poi liberato nell’amnistia seguita all’elezione di Leone X.
Che Bartolomeo fosse sempre considerato un fedelissimo lo dimostra il fatto che fu mandato di nuovo ad accogliere il Gurcense, di passaggio dalla Toscana a fine ottobre del 1513. Stavolta non fu inviato fino a Roma «per non fare vergogna a Francesco Vettori» (ASFi, Carte Strozziane, I, 3, c. 13v). Il 1° marzo 1514 divenne membro della Balìa con Luigi Guicciardini. In agosto, quando Vettori chiese licenza senza ottenerla, si fece di nuovo il nome di Valori. Pur non avendo ottenuto l’ambasceria, gravitava intorno alla Curia leonina ed era ben informato degli intrighi, come dimostra la lunga lettera di Benedetto Buondelmonti a Filippo Strozzi del 17 maggio 1515 (ASFi, Mediceo avanti il Principato, CVIII, 147, c. 151, cit. in Simonetta, 2015, p. 224). Valori adulò sfacciatamente Lorenzo de’ Medici (CXXIII, 60, cit. ibid., p. 226), congratulandosi per la nomina a capitano delle milizie fiorentine. Non è chiaro se la piaggeria gli valse alcun favore, ma restò nella sfera di stima del regime, come mostra una lettera di Goro Gheri allo stesso Lorenzo del 15 marzo 1517, considerandolo fra i candidati diplomatici a Milano («Baccio Valori per suffitientia è perfecto ma insomma io non vorrei vedendo l’animo di mons. de Utrech che e’ fusse da troppo»; ASFi, Copialettere di Goro Gheri, 2, c. 80v).
Otto anni più tardi, subito dopo la battaglia di Pavia, Valori fu infine nominato ambasciatore a Milano nel marzo del 1525, presso il viceré Charles de Lannoy, che deteneva il re Francesco I prigioniero a Pizzighettone. Il viceré lamentava che i contributi del papa e dei fiorentini all’esercito vittorioso erano derisori, e Valori notò che gli spagnoli erano «più insolenti et difficili per il bisogno che li preme più di prima» e minacciavano di venirsi a prendere la paga marciando su Roma (ASFi, Otto di pratica, Responsive, 37, c. 45). Ripartito Lannoy per Napoli, Valori rientrò a Firenze in maggio. Che fosse ben voluto da Clemente VII lo conferma la lettera di Machiavelli a Guicciardini di fine ottobre del 1525, che lo menziona fra coloro che con la «scarsella del papa sono stati ne’ loro bisogni aiutati» (Lettere, cit., 1961, n. 207; Lettere, cit., , in corso di stampa, n. 316). Non sorprende dunque che durante la seconda Repubblica soffrisse varie angherie legali e familiari, e dovesse abbandonare Firenze come molti altri ottimati, sotto la pressione dei repubblicani più accesi. Con forte desiderio di rivalsa fu uno dei principali architetti dell’assedio di Firenze, coordinando vigorosamente le operazioni militari, come testimoniano diverse lettere del segretario di Clemente, Giovan Battista Sanga, della primavera-estate del 1530. In quei mesi i rapporti con Filippo Strozzi, autoesiliatosi a Lucca, si intensificarono fino ai primi di agosto con la resa della città, da lui personalmente negoziata: «Baccio Valori entrò in Fiorenza ricevuto con gran frequenza et allegrezza del popolo» (P. Giovio, Istorie, 1560), come un trionfatore. Il Capitolo sopra l’Assedio di Firenze di Lorenzo di Santi da Prato Tintore celebra «quel tanto valoroso de’ Valori / che sempre stette intorno alla muraglia» (Firenze, Biblioteca nazionale, Cl. VIII, 45, cc. 263r-267r).
Considerato l’uomo più potente del momento, a lui si rivolgevano i filomedicei come Luigi Guicciardini e gli ex repubblicani come Raffaello Girolami, moderato gonfaloniere che gli indirizzò un’inutile supplica perché intercedesse per ottenere clemenza dal papa (ASFi, Carte Strozziane, I, 14, cc. 129-130). Il suo ruolo di preminenza non mancò di attirare le critiche di Francesco Vettori e di Francesco Guicciardini che rivolgendosi al tesoriere Bartolomeo Lanfredini nel novembre del 1530 lamentavano che «non è bene che un cittadino sia capo della città, come è Bartolomeo Valori», che doveva «volere havere quella auctorità che si conviene a uno cictadino de’ principali et non usare l’auctorità di commissario nelle faccende dello Stato, il che noi andiamo moderando quanto si può, ma indirectamente et con dextreza» (Carteggi di Francesco Guicciardini, a cura di P.G. Ricci, XV, 1969).
Presto si cominciò a vociferare che Valori avrebbe ottenuto la presidenza della Romagna, il lucroso ufficio che lo stesso Guicciardini aveva coperto negli anni precedenti: era il classico promoveatur ut amoveatur, perché l’ingombrante presenza rendeva difficile l’amministrazione di Firenze. In alcuni casi, come quello registrato da Angelo Marzi Medici il 21 novembre 1530 nel suo copialettere (ASFi, Carte Strozziane, II, 149, c. 39r) risulta che Valori voleva essere clemente nei confronti di alcuni cittadini, ma che il papa glielo impedì, dando mano libera agli «affectionati» Vettori e Guicciardini.
Nel Nono discorso (febbraio-marzo 1531) Francesco Guicciardini espresse un duro giudizio su «28», cioè Valori in cifra, «uomo senza né bontà né giudizio», «corruttibile e usurpatore» (e molti altri epiteti negativi), «capo e fautore di tutti i tristi; spenditore sanza fondo, in modo sarà sempre affogato sotto i disordini, benché ora ha accumulato danari; e dare reputazione eminente a lui, non è altro che dare la città in preda a uno ladro» (Opere inedite, a cura di G. Canestrini, II, 1858, p. 376; cfr. Discorso decimo, p. 382).
È indubbio che in questo frangente Valori si arricchì moltissimo, iniziando la ricostruzione della faraonica villa del Barone, nei pressi di Montemurlo. Nello stesso periodo commissionò a Michelangelo la statua del David-Apollo. In Romagna agì più per suo interesse privato che per quello della Chiesa, e iniziò a perdere credito. Nel frattempo la riforma dello Stato e l’instaurazione del duca Alessandro, di cui fu uno dei fautori, cambiò radicalmente la scena politica fiorentina.
La collaborazione con Francesco Guicciardini, nominato governatore di Bologna, non fu sempre amichevole, ma entrambi si ritrovarono senza incarichi dopo la morte di Clemente VII, sebbene Valori fosse incluso nella missione gratulatoria inviata a Paolo III nel novembre del 1534, alla quale non riuscì a partecipare per ragioni di salute. Gli uomini del papa Medici venivano ora messi sotto accusa per malversazioni varie.
Guicciardini scrisse al fratello Luigi il 1° gennaio 1535 che i suoi problemi a Roma si sarebbero facilmente risolti «in fumo [...] se non ci fussi mescolato el caso di Bartholomeo Valori che appresso al Papa è in pessimo concepto» (ASFi, Carte Strozziane, I, 61, c. 100).
Valori cercò di risolvere le sue pendenze politiche e legali trattenendosi a lungo a Roma, e intavolando trattative per il matrimonio di un suo figlio con una figlia di Filippo Strozzi, ma l’omicidio del duca Alessandro il 6 gennaio 1537 diede un nuovo assetto alle sue ambizioni. Informando dettagliatamente Strozzi del fallito tentativo dei cardinali fiorentini di imporre un nuovo governo a Cosimo (20 gennaio; ASFi, Miscellanea Medicea, 292, 2), si propose come leader militare dei fuorusciti. Come notava Benvenuto Olivieri, l’agente strozziano a Roma, il giorno successivo in un dispaccio cifrato: «Valori è molto temuto et pare loro [ai cardinali Salviati, Gaddi e Ridolfi] che non si contenti di stato nessuno» (ASFi, Carte Strozziane, V, 1207, c. 44).
I cardinali partiti da Firenze secondo Benedetto Varchi andarono «al Barone, villa più che reale di Baccio Valori, e quivi si stavano non tanto a consultare, quanto a darsi buon tempo» (Storia fiorentina, a cura di L. Arbib, III, 1843). Francesco Vettori cercò di prevenire Strozzi che la sua vicinanza a Valori e agli altri elementi più sediziosi non promettesse bene né per lui, né per la città. Il figlio di Filippo, Piero Strozzi, andò ad alloggiare presso Valori e i dissensi interni non fecero che aumentare: nel marzo del 1537 Strozzi padre e il cardinale Salviati erano criticati in quanto troppo moderati, mentre «Ridolfi e il Valori riserbono più il nome di libertini» (ASFi, Carte Strozziane, V, 1209, c. 99).
Si cercavano appoggi francesi, ma l’accordo fra le varie fazioni stentava a trovarsi. Valori, «come quello è solito essere capo d’exerciti» (c. 97), scrisse da Bologna a Filippo Strozzi che doveva «purgare il cervello da ghiribizzi» (c. 123) e decidersi a finanziare l’impresa, tanto più che le disordinate iniziative del figlio rischiavano di comprometterla prima che fosse iniziata (c. 162). Il tentativo di guadagnare gli imperiali alla causa della libertà sembrava destinato allo scacco (c. 170; cfr. Simoncelli, 2006, pp. 280 s.). Il 20 aprile Filippo Strozzi rispose a Valori che era ben conscio che «il fare guerra con Cesare, è cosa che apartiene al re, et non a un privato gentiluomo» (c. 171), mostrando estrema lucidità nei confronti delle iniziative degli interventisti.
Piero metteva sempre più in imbarazzo il padre, mendicando pochi scudi pur di scendere in campo, e Valori fece leva sull’amor filiale (c. 195) per costringere Filippo a prendere una risoluzione. I giustificati tentennamenti di Strozzi furono messi da parte dopo un drammatico incontro con Piero a Ferrara in giugno. Nel frattempo, Valori ingenuamente si rivolse al condottiero Nicolò Bracciolini, che inviava la propria corrispondenza a Cosimo de’ Medici (ASFi, Mediceo del Principato, 331, c. 450r; cit. in Simoncelli, 2006, p. 311), nonostante Olivieri avvertisse Strozzi che «è prudentia in simili casi non adoperare scritture ma parole, per avviso» (Roma, 23 giugno 1537; ASFi, Carte Strozziane, V, 1208, c. 47r,).
L’imprudenza e l’improvvisazione prevalevano nel campo dei fuorusciti, e non bastava certo come rassicurazione il fatto che Valori «ha tutto lo stato suo in beni immobili nel fiorentino» (ibid., I, 100, c. 25). Le truppe arruolate in grande fretta alla Mirandola da Piero Strozzi rimasero distaccate dalla testa dei ribelli, che andarono a rifugiarsi nella villa del Barone, cospicuamente visibile a miglia di distanza. Bastò una soffiata delle spie medicee perché un sostanzioso contingente guidato da Alessandro Vitelli si avvicinasse alla villa non fortificata e intrappolasse tutti i capi. L’ultima fatale lettera di Valori e Filippo Strozzi a un cliente pistoiese, scritta il 31 luglio 1537, fu intercettata (ASFi, Mediceo del Principato, 333, c. 165), a riprova di quanto scriteriata fosse l’operazione militare concepita da Valori.
La disfatta di Montemurlo del 1° agosto, celebrata trionfalmente con il senno di poi, non fu che l’inevitabile esito di una serie di mosse scoordinate (si veda la descrizione coeva della sconfitta ibid., 657, c. 32). Neutralizzato il pericolo imminente, Cosimo fece interrogare Bartolomeo e il figlio Filippo. Le loro deposizioni (ASFi, Miscellanea Medicea, 509) documentano la triste fine delle aspirazioni dei Valori.
Racconta Jacopo Nardi nel decimo libro delle sue Istorie che Anton Francesco Albizzi disse a Baccio Valori mentre venivano condotti nel Bargello a esser decapitati il 20 agosto 1537: «Ei non sono i peccati odierni, quando abbiamo voluto liberare la patria, ma ei sono stati i peccati del dodici, quando noi la facemmo stiava, che meritamente ci hanno condotto qui» (Istorie della città di Firenze, a cura di L. Arbib, II, Firenze 1842, p. 384). Secondo un testimone coevo Valori si comportò tanto vilmente di fronte alla morte, che il boia lo trascinò sul capestro afferrandolo per la bella barba. In realtà, non riuscì a camminare sul patibolo perché i torturatori gli avevano bruciato i piedi.
Valori fu un uomo ambizioso, la cui lealtà ai Medici gli permise un’ascesa rapida, e la cui opposizione al ducato mediceo decretò un’altrettanto rapida e tragica discesa. La vanità del personaggio è effigiata nello splendido ritratto di Sebastiano del Piombo (Firenze, Palazzo Pitti).
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Firenze (ASFi), Dieci di Balìa, Responsive, 108, 113, 114 e 118 (con Matthäus Lang); Otto di pratica, Responsive, 33 e 37 (Milano); Carte Strozziane, I, 3, 99 (a Giuliano de’ Medici), 14 (di molti a Valori), 59 (a Luigi Guicciardini), 98 (a Giovanni Vettori), 336 (una minuta autografa del 1536, e varie a lui); Mediceo avanti il Principato, XCVI, 391; CXI, 185-189; CXXIII, 60; Mediceo del Principato, 333; Miscellanea Medicea, 292, 2; 618, 203; 509 (deposizioni); Firenze, Biblioteca nazionale, II.V.21 (a Lanfredini); Parigi, Bibliothèque nationale de France, It. 2101 (Sanga); P. Giovio, Istorie, in Venetia 1560, l. XXIX, p. 222; B. Varchi, Storia fiorentina, a cura di L. Arbib, III, Firenze 1843, p. 289; F. Guicciardini, Opere inedite, a cura di G. Canestrini, II, Firenze 1858, pp. 376, 382; N. Machiavelli, Lettere, a cura di F. Gaeta, Milano 1961, n. 13 e ad ind.; Carteggi di Francesco Guicciardini, a cura di P.G. Ricci, XV, Roma 1969, p. 6; F. Guicciardini, Storie fiorentine, a cura di A. Montevecchi, Milano 1998, pp. 453, 474; N. Machiavelli, Lettere, a cura di F. Bausi et al., in corso di stampa, n. 316.
G.B. Niccolini, Filippo Strozzi, Tragedia corredata d’una vita di Filippo e di documenti inediti, Firenze 1847, passim; S. Lo Re, La crisi della libertà fiorentina, Roma 2006, ad ind.; P. Simoncelli, Fuoriuscitismo repubblicano fiorentino 1530-54 (Volume primo – 1530-37), Milano 2006, ad ind.; S. Lo Re, Politica e cultura nella Firenze cosimiana. Studi su Benedetto Varchi, Manziana 2008, ad ind.; S. Dall’Aglio, L’assassino del duca. Esilio e morte di Lorenzino de’ Medici, Firenze 2011, ad ind.; A. Monti, L’Assedio di Firenze (1529-1530), Pisa 2015, ad ind.; M. Simonetta, L’aborto del Principe: Machiavelli e i Medici (1512-1515), in Interpres, XXXIII (2015), pp. 192-228; Id., Caterina de’ Medici, Milano 2018, ad indicem.