VANDALI (Vandili)
Col nome di Vandili, ricordato da Plinio, pare che fossero indicati i Germani orientali, di cui facevano parte, fra altri popoli, i Burgundi ed i Goti. Il nome si restrinse poi, sembra nel sec. II d. C., a una singola gente, con pmbabilità a quella stessa, a cuì Tacito dà il nome di Lugii. Dalle rive del Baltico erano discesi verso i Riesengebirge, che Dione Cassio chiama Monte Vandalico, e per la Moravia erano già presso al Danubio, quando Marco Aurelio vinse parte di loro, insieme con i Marcomanni e i Quadi (171-73), e altrì comprese fra i proprî alleati. Forse erano già allora divisi nei due gruppi. degli Asdingi e dei Silingi, dei quali ultimi resta il nome nella Slesia: il nome di Asdingi, però, sembra indicasse insieme la stirpe, da cui erano scelti i re, e tutta la gente, che forse l'aveva tratto da questa. È probabile che fossero Asdingi quei Vandali, che Aureliano batté di qua dal Danubio e, fatta pace, ih parte arruolò nell'esercito suo, in parte costrinse a ritornare oltre il fiume (271); e Silingi fossero quelli che Probo sconfisse vicino al Reno e deportò in parte nella Britannia (279). E ancora gli Asdingi, dilagati nella pianura del Tibisco e nella Dacia, furono, nei primi decennî del sec. IV, battuti sul Danubio dai Goti e, ucciso il loro re Visimer, ottennero da Costantino di potersi stabilire nella Pannonia, rimanendo soggetti ai Romani e dando a questi milizie: la Notitia dignitatum, alla fine di quel secolo, ricorda cavalieri vandali sotto il comes d'Egitto.
Nelle nuove sedi rimasero sessant'anni, quantunque loro schiere apparissero sotto Graziano (375-83) ai confini della Gallia. Ma al principio del sec. IV, sospinti dagli Unni, abbandonarono la Pannonia, lasciandovi tuttavia, secondo una tradizione raccolta da Procopio, alcuni loro gruppi, che si perdettero poi fra altri barbari abitanti nella regione. La grande massa degli Asdingi ripiegò prima nel Norico e nella Rezia, col consenso forse di Stilicone, che era uscito dalla loro stirpe. Poi, ripassato il Danubio, trascinando con sé Silingi e Alani e Suebi (o Svevi) e altre genti barbariche, si rovesciò sul Reno, dove, prima di loro, erano i Franchi. Combattendo con questi, il re vandalo Godigiselo (Gôdagisl) fu ucciso; ma il suo successore Gunderico (Guntharix), superata la resistenza dei Franchi, il 31 dicembre 406 passò il fiume con le sue genti, aprendo la via al dilagare di un'ondata di barbari che sommerse tutto l'Occidente romano. La Gallia fu corsa e saccheggiata dalla Manica ai Pirenei, finché Costantino III, elevato alla porpora dall'esercito di Britannia, riuscì a sconfiggere i barbari. Ma i Vandali, e con loro gli Alani e i Suebi, poterono scendere nella Spagna (409) e, dopo le prime devastazioni, conchiusero nel 411 con l'imperatore un trattato, dividendosi la penisola come foederati: gli Asdingi e i Suebi si stabilirono nella Galizia fino al Douro, gli Alani nella Lusitania, i Silingi nella Betica. Battuti i Silingi da Wallia re dei Visigoti e fatto prigioniero il loro re Fredbal (417-418), Gundrico raccolse sotto di sé tutto il popolo vandalo e i resti degli Alani, pure sconfitti dai Goti, e s'intitolò re dei Vandali e degli Alani; ridusse i Suebi nelle montagne della Galizia, scese con i suoi nella Betica, alla quale dai Vandali rimase il nome di Andalusia, e, vinta una spedizione romana, conquistò Cartagena e Siviglia (425), e, fuori di qualche città, tutto il resto della Spagna. Alle popolazioni la conquista barbarica poté parere leggiera, perché diminuiva il peso intollerabile delle imposte romane; ma cominciavano le prime persecuzioni dei Vandali ariani contro i Romani cattolici. E già, impadronitisi della flotta romana, i Vandali correvano il mare e, forse per invito del governatore romano Bonifazio, guardavano a quell'Africa settentrionale, che per la ricchezza del grano era "l'anima della repubblica", quando a Gunderico successe il fratello illegittimo Genserico (428).
Fu Genserico (Geiserix) il vero fondatore del regno dei Vandali. Trascinati nell'Africa i suoi, riluttanti, conquistò, fra battaglie e saccheggi, parte delle provincie romane; strinse con l'imperatore un primo accordo (435), promettendo tributo come federato; occupò Cartagine, la cui presa (19 ottobre 439) considerò come data iniziale del suo regno; conchiuse una nuova pace (442), riconoscendo di nome la sovranità dell'imperatore, rimanendo nel fatto il più pericoloso nemico. Ucciso Valentiniano III, la cui morte gli offrì pretesto per il sacco di Roma (455), conquistò il rimanente dell'Africa e le isole del Mediterraneo occidentale; all'interno conchiuse accordi con le tribù indigene dei Mauri; spinse la flotta, nella quale aveva genialmente veduto la base della sua potenza, a correre il mare, tremenda.
Le terre erano state nella provincia proconsolare, intorno a Cartagine, in parte attribuite al re e ai suoi figliuoli, in parte divise fra i Vandali in sortes ereditarie, donde erano cacciati gli antichi padroni, o vi rimanevano a lavorare come schiavi o coloni: nelle altre provincie, più lontane e meno fertili, furono o confiscate al demanio regio o lasciate ai loro padroni, ma col peso di enormi tributi. La persecuzione, iniziata dal re contro i cattolici, con la chiusura delle chiese, l'esilio dei vescovi, l'impedimento all'elezione di vescovi nuovi, era insieme manifestazione dell'odio fanatico degli ariani contro i sostenitori della consustanzialità del Figlio col Padre, e accorgimento di governo per fiaccare ogni possibilità di resistenza romana. E anche era un mezzo per arricchire, con i tesori delle chiese, quello del re, che divenne così ingente da permettergli un'azione politica personale fuori consenso dello stesso suo popolo. Così lo stato dei Vandali pareva avere saldezza insolita fra gli stati dei barbari.
Verso la fine del regno, respinto un assalto combinato dai due imperatori (468), Genserico sembrò inclinare alla pace; e, dopo un accordo con Zenone (476), che era un tacito riconoscimento da parte di questo della sovranità di lui sull'Africa, richiamò i vescovi cattolici dall'esilio e permise che fosse restaurato il culto cattolico. Anche con Odoacre, nuovo signore dell'Italia, fu fatta pace; e rimase a questo la Sicilia, eccetto Lilibeo (Marsala), purché pagasse tributo.
Ma alla morte di Genserico (477) apparve come il regno vandalo fosse sostenuto soltanto dall'energica opera di lui. I Vandali né si erano fusi, o avevano reso possibile una convivenza tranquilla con i Romani, né, essendo in numero assai minore e non avvezzi, come guerrieri, all'amministrazione, né abili nella stessa cultura dei campi, potevano sostituirsi a loro. E dalla società romana corrotta prendevano i vizî, che, aggiungendosi al clima snervante dell'Africa, ne infiacchivano la fibra rapidamente.
Unerico (Hunerix, 477-84), succeduto al padre, secondo la legge del seniorato, cercò da prima di mantenere relazioni buone con l'impero e si mostrò tollerante con i cattolici; ma non poté impedire che i Mauri del massiccio dell'Aurasio (Gebel Aures) si facessero per gran parte indipendenti. E, dopo avere selvaggiamente distrutto le famiglie dei fratelli per aprire la via del trono al figlio Ilderico e sterminato i loro partigiani fino allo stesso patriarca ariano di Cartagine, si rivolse novamente contro i cattolici. La persecuzione, che Vittore Vitense descrive con i colori più vivi, divenne atrocissima.
Furono colpiti dapprima quanti entravano nelle chiese cattoliche vestiti al modo dei Vandali, il quale provvedimento si rivolgeva insieme contro i barbari convertiti e contro i Romani, che, impiegati alla corte, avevano vesti barbariche. Poi furono esclusi i non ariani da tutti gli uffici di corte, esposte a ludibrio le vergini sacre, esiliati, si disse, fino a quasi cinquemila vescovi, preti, ecclesiastici. In ultimo fu ordinata la chiusura di tutte le chiese e con un editto, che andò in vigore il 10 giugno 484, fu proibita ai cattolici qualsiasi riunione religiosa e applicate le pene comminate dalle leggi contro gli eretici, perdita di diritti civili, multe, confische, esilî; né furono rari gli esempî di torture e di morte.
Gondamondo (Gunthamund), figlio di un fratello di Unerico (484-96), mitigò la persecuzione e nel 494 riaprì le chiese cattoliche e richiamò i vescovi. Combatté anche i Mauri con energia; ma, avendo fallito in un tentativo di ricuperare la Sicilia, dovette, in un patto con Teodorico, rinunziare al tributo. Trasamondo (496-523), fratello suo, si accostò risolutamente. agli Ostrogoti e, sposando nel 500 Amalafrida, sorella di Teodorico, che recò in dote Lilibeo, entrò nel sistema politico di una lega barbarica, del quale il re degli Ostrogoti era ideatore e doveva essere capo; la scorta di migliaia di Goti, che aveva accompagnato la nuova regina, doveva assicurarsi la fedeltà del re dei Vandali; e l'atteggiamento di questo innanzi a Teodorico, quando il Goto si lamentò ch'egli avesse accolto un suo avversario, fu di sommessa devozione. L'alleanza con i Goti non tolse tuttavia che i Mauri dessero ai Vandali una grave sconfitta e peggiorò le condizioni dei cattolici, contro i quali si usarono ora non minacce di pene, ma lusinghe di danaro e di onori per incitarli all'apostasia, mentre le chiese erano di nuovo serrate e i vescovi espulsi.
Il regno di Ilderico (Hilderix, 523-30), che era figlio dell'ariano Unerico, ma della cattolica e romana Eudocia, figlia di Valentiniano III, rappresentò una reazione contro la politica dei re precedenti. Il vecchio re intuì la debolezza del regno degli Ostrogoti e tentò di riaccostarsi all'imperatore bizantino e ai Romani, per salvare le sorti del suo. Amalafrida, che aveva cercato scampo presso i Mauri, fu fatta prigioniera e morì in carcere; i Goti, che l'avevano accompagnata, furono uccisi, senza che Teodorico, la cui fortuna volgeva al tramonto, vendicasse la morte della sorella e dei suoi. Sulle monete dei Vandali apparve l'effigie dell'imperatore; furono riaperte le chiese; i vescovi cattolici poterono ritornare e celebrare a Cartagine un concilio (525). Ed era politica savia. Ma Ilderico era imbelle per carattere e per età; e il nepote Hoamer, sebbene gli fosse dato il pomposo titolo di Achille dei Vandali, non si seppe opporre ad Antala, capo dei Mauri, il quale sconfisse l'esercito vandalo e occupò per gran parte la Byzacena (Tunisia meridionale).
Allora Gelimero (Geilamir), un pronipote di Genserico, si fece capo della parte più combattiva della popolazione, ostile alla romanità e al cattolicismo, e prima sovrappose l'autorità sua personale a quella del re, poi, cresciuto di fama per una vittoria sui Mauri, lo depose e lo imprigionò (530), riprendendo a perseguitare i cattolici. Ma Giustiniano si presentò come difensore e vendicatore d'Ilderico, non tanto per antiche relazioni personali con lui, quanto per impedire che qui, come nel regno ostrogoto, si determinassero condizioni sfavorevoli all'impero. Chiese prima che a Ilderico restasse almeno il titolo regio, poi che egli e Hoamer, già accecato da Gelimero, e un fratello di questo fossero consegnati ai Bizantini, pegno prezioso in loro mano. Gelimero rifiutò con una lettera orgogliosa, in cui pareggiava sé stesso all'imperatore. Fu allora preparata contro di lui una spedizione, che assunse aspetto di crociata contro gli ariani. All'annunzio, si ribellarono Tripoli e la Sardegna e passarono ai Bizantini, mentre i Goti, ritornati a politica romanizzante, concedevano a questi la Sicilia come base d'azione. Gelimero, che aveva con singolare imprevidenza mandato le migliori forze in Sardegna, fu sorpreso dallo sbarco di Belisario a Caput Vada (Ras Kapoudia), nel settembre del 533. Il piccolo esercito dei Greci aveva indubbiamente per sé il favore delle popolazioni romane, forse anche di una parte degli stessi Vandali. Gelimero si sbarazzò d'Ilderico; ma non poté impedire la vittoria dei Bizantini a Decimo (Sidi Fathallah) a 15 chilometri da Cartagine (13 settembre 533), né la presa della città (15 settembre). Fallito un tentativo di riscossa a Tricamaro, a 30 chilometri da Cartagine (metà dicembre 533), fuggì nel massiccio del Pappua (Gebel Nador) ai confini della Numidia: nel marzo 534 si arrese, dovette ornare con la sua presenza e con i suoi tesori il trionfo del vincitore a Costantinopoli, e finì oscuramente nella Galazia. I Vandali prigionieri furono in parte incorporati nella cavalleria imperiale (Iustiniani Vandali); altri venduti come schiavi: le donne furono date ai soldati romani. Dopo un'ultima sommossa (536), i Vandali scompaiono dalla storia.
Il nome dei Vandali resta anche oggi congiunto all'idea di cieca distruzione selvaggia, non tanto forse per il sacco, relativamente moderato, di Roma, quanto per la barbarie dei loro procedimenti nell'Africa. In verità, le condizioni dei vinti furono presso di loro più gravi che presso le altre popolazioni barbariche, non solo nel primo furore della conquista, ma anche, e più, dopo che il regno fu consolidato. Restarono a quei Romani dell'Africa, i quali non erano stati ridotti a coloni o a servi, gli ordinamenti municipali e provinciali; la giustizia fu amministrata per loro da loro giudici, in nome del re; fu anzi costituito a Cartagine un praepositus iudiciis Romanis, lo stesso, forse, che aveva il titolo romano di proconsole. Ma nelle cause miste davano sentenza giudici barbari secondo le consuetudini vandaliche, e non appare vi fosse legge scritta; e anche nelle cause fra Romani il giudizio era pronunziato ora secondo le leggi, ora secondo l'ordine regio. E vi erano Romani come funzionarî alla corte e fra i ministri stessi del re; ma la persecuzione contro il cattolicismo abbandonava questi e gli altri Romani all'arbitrio tirannico del re e al fanatismo del clero e del popolo ariano.
Nettamente distinto dal popolo romano, quantunque fosse ammesso il connubio, era il popolo vandalo. Simile agli altri Germani nell'alta statura, nella pelle bianca, nei capelli biondi, aveva avuto anche, certo, nei primi secoli della sua storia, ordinamenti non dissimili da quelli delle primitive genti barbariche. Si andò stringendo intorno al re, durante le guerre che gli assicurarono il possesso prima della Spagna e poi dell'Africa, e più dopo lo stanziamento definitivo in questa. Nel re si raccolgono ora tutti i poteri: il comando dell'esercito, il diritto di dichiarare guerra, di conchiudere pace, di emanare leggi, la nomina degli ufficiali e degli impiegati, l'amministrazione, l'esercizio supremo della giustizia. Il tesoro dello Stato non è distinto da quello del re; le poste, organizzate sul modello delle romane, sono destinate unicamente al servizio regio. Nelle monete, che i re vandali, tolto per alcun tempo Ilderico, fanno coniare con la loro effigie, appare il titolo di Dominus noster, in quelle di Unerico perfino l'appellativo di Augustus. La successione al trono è regolata da Genserico secondo il sistema del seniorato, attribuendo l'autorità regia al più anziano dei suoi discendenti diretti, senza che tuttavia questo impedisca lotte feroci nella famiglia regia. Il re ha accanto a sé ministri, il primo dei quali, un vandalo, ha nome di praepositus regni; e ha domestici e altri impiegati di corte, vandali o romani, e notari romani, ed esercita l'autorità sua per mezzo di comites.
L'exercitus barbaro, sul cui numero sono assai discordanti le testimonianze, è diviso da Genserico in ottanta millene, rette da millenari o chiliarchi; ma non sappiamo se la divisione durasse anche in tempo di pace, né in quale relazione stesse con i gau primitivi, o se fosse base alla divisione delle terre nelle sortes Vandalorum. L'assemblea degli armati ha perduto ogni sua autorità, né sappiamo che fosse regolarmente convocata, quantunque nella deposizione di Ilderico appaia, come in quella dell'ostrogoto Teodato, l'esercizio di un diritto del popolo contro un re divenutogli inviso. Ma, nel campo del diritto privato, la proprietà dei singoli è garantita, anche di fronte al re; e nessuna imposizione grava sul popolo vandalo, perché tutte le entrate dello stato e del re sono costituite dalla rendita delle terre regie, dalle dogane, dalle imposte caricate sui Romani, dalle pene pecuniarie, dalle confische, dai saccheggi.
Si distinguono nell'exercitus i nobili, siano superstiti di una nobiltà antica, abbattuta e umiliata dal re, o costituiscano una nuova nobiltà, sorta dagli uffici pubblici, e particolarmente formata dai domestici e dai comites regi. E, sotto ai liberi armati, sono gli schiavi, che servono nella casa e nell'esercito: se vi fossero anche aldî e liberti non sappiamo.
La religione, già, probabilmente, dagli ultimi decennî del sec. IV, è l'ariana, che poté essere diffusa tra i Vandali dai Goti loro vicini, dopo la predicazione di Wulfila. Vi sono vescovi ariani, e quello di Cartagine ha titolo di patriarca e appare capo delle Chiese dell'Africa. I Vandali, fatti cattolici, sono considerati come traditori della loro fede e della loro gente.
La vita rude dell'età delle migrazioni ha lasciato il posto, nell'Africa, al lusso, alle feste, ai piaceri sensuali; gli epigrammi di Luxorius dipingono al vivo una società gaudente e corrotta. Si ha memoria di ricchi edifici, di anfiteatri, di terme, di giardini, di fontane, di statue, di bassorilievi, di quadri; Trasamondo e Ilderico fanno inalzare costruzioni nuove e restaurare le antiche. Né mancano tracce di qualche cultura. Se Genserico risponde ai vescovi per mezzo d' interprete e sotto Unerico il patriarca Cyrila afferma di non sapere parlare in latino, si può pensare che sia per dispregio alla lingua dei vinti; perché sappiamo che Vandali frequentavano con Romani le scuole e conoscevano e parlavano, oltre alla loro lingua nativa, di ceppo gotico, il latino.
Gli editti di Unerico, nella forma almeno in cui ci sono conservati da Vittore Vitense, sono scritti in latino; e di Trasamondo sono lodati l'ingegno e la cultura e si narra che studiasse autori latini e greci. A lui, come a Genserico e ad altri re e a nobili vandali, sono diretti scritti teologici e carmi in latino.
Ma la produzione letteraria, qualunque ne sia il valore, è opera di Romani, che non sembra abbiano avuto grande fortuna. Lo scholasticus e poeta Luxorius afferma di vivere povero; e Dracontius, il più insigne di quei poeti, cadde in disgrazia di Gondamondo per avere osato celebrare, in luogo dell'illustre stirpe asdinga, un ignotum dominum, forse l'imperatore, e dovette in carcere implorare con una Satisfactio, piena di scuse e di adulazioni e di promesse, il perdono del re. Dei Vandali ci è narrato soltanto che Gelimero sul Monte Pappua cantava, accompagnandolo col suono dell'arpa, un carme sulle proprie sventure.
Fonti: Plinio, Nat. Hist., IV, 99; Tacito, Germania, 2 e 43; Tolomeo, II, c. XI, par. 10; Procopio, De bello Vandalico, in Opera omnia, ed. Haury, I, Lipsia 1905; Jordanes, Getica, in Mon. Germ. Hist., Auct. antiq., V; Vittore Vitense, Hist. persecutionis Africanae, ibid., III, 1; Corippo, ibid., III, 2; Dracontius, Carmina, ibid., XIV; Luxorius, Liber epigrammaton, in Anthol. Latina, Lipsia 1894, I,1, p. 247 segg.
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