Vanni Fucci
Personaggio della Commedia, nella bolgia dei ladri (If XXIV 97-151, XXV 1-18). Figlio illegittimo di Fuccio (Guelfuccio) dei Lazzàri, antica e potente famiglia magnatizia di Pistoia, compare nei documenti contemporanei e nelle Storie pistoresi come uno dei più feroci protagonisti delle drammatiche vicende della sua città durante gli ultimi due decenni del sec. XIII.
Nel 1281, 1286 e 1287 V. risulta implicato in fatti di sangue di natura, a quanto sembra, privata. Ma ben presto il suo carattere violento trova modo di esplicarsi anche nelle lotte intestine pistoiesi fra Bianchi e Neri. Partigiano di questi ultimi, V. è uno dei sicari che, inviati dai Cancellieri di Parte nera a uccidere Focaccia dei Cancellieri Bianchi (ricordato in If XXXII 63), non riuscendo a trovarlo, si rifanno assassinando, forse nel 1289, Bertino Vergiolesi suo parente. Condannato al confino, riesce poco dopo a tornare a Pistoia; e qualche tempo più tardi, probabilmente nel 1291, assale, alla testa di una banda armata, i famigli del podestà, che stavano per arrestare alcuni Neri ricomparsi a Pistoia a dispetto del bando.
Forse bandito egli stesso in seguito a questo o ad altri misfatti precedenti, figura, in un documento del 1292, tra i militi al soldo dei Fiorentini nella guerra contro Pisa. Nel 1295, comunque, ricompare di nuovo sulla scena delle feroci lotte civili pistoiesi: ai primi di quell'anno s'impadronisce, con ser Fiumalbo Tedeschi, del castello di Lizzano, già tenuto dai Bianchi, e compie scorrerie derubando e uccidendo mugnai e contadini; e, nell'agosto, partecipa attivamente, in Pistoia, a una zuffa, in cui vengono arse e saccheggiate le case di alcuni Bianchi. Non è improbabile che anche il furto (compiuto secondo alcuni studiosi nel gennaio 1293, o, più probabilmente, come vuole A. Chiappelli, il 13 marzo 1295) alla sagrestia d'i belli arredi (XXIV 138), nella chiesa cioè di San Iacopo in Pistoia, affidata allora a due ‛ operai ' Bianchi, sia in parte connesso con quest'attività partigiana. Di tale fatto gli antichi commentatori, a partire dal Lana, danno versioni pressoché concordi. V., compiuto il misfatto, avrebbe celato la refurtiva in casa del notaio Vanni della Monna; in seguito alle indagini disposte dal podestà, sarebbe stato imprigionato un innocente, Rampino di messer Francesco Foresi (o Vergellesi, secondo l'Anonimo); ma V. stesso, allora al sicuro nella montagna pistoiese, avrebbe fatto sapere che il tesoro derubato si trovava in casa del già ricordato notaio; il quale, colpevole o innocente che fosse (qualche studioso ritiene che a lui e non a Rampino vada l'accenno di If XXIV 139), sarebbe stato giustiziato in luogo del Foresi. Questo racconto è confermato nella sostanza da un documento (pubblicato dal Ciampi e poi da P. Bacci) che attesta non solo il supplizio subito dal notaio, ma anche la partecipazione di V. al furto, e accenna anche alla sua condanna per tale misfatto. Non risulta però che questa condanna sia stata messa a effetto; né si conosce la data precisa della morte di V., anche se essa, almeno a testimonianza di D. (vv. 122-123), dev'essere collocata poco tempo (v. 123) prima dell'anno del viaggio dantesco, e non è escluso fosse stata violenta anche se l'espressione quando fui de l'altra vita tolto non intende di necessità morte violenta: " la morte è a tutti di regola amara cosa " (Scartazzini-Vandelli).
Il vidi di If XXIV 129 farebbe pensare che D. abbia conosciuto personalmente il ladro pistoiese. È senza dubbio da considerare una leggenda, germinata dallo stesso episodio dantesco, la notizia, tramandata da fonti tarde (secoli XVI e XVII), che D. avrebbe ricevuto da V., a Modena o a Verona, un ‛ mostaccione ' e che appunto per vendicarsi di tale affronto, lo avrebbe posto nel suo Inferno. Altri hanno avanzato l'ipotesi che i due possano essersi incontrati durante la guerra contro Pisa del 1289-1293, alla quale, come si è detto, partecipò anche V.; ovvero a Pistoia, o altrove, dopo il 1294, quando i Fiorentini cominciarono più attivamente a interessarsi delle vicende di quella città. È certo, in ogni modo, che D. dovette avere precise notizie su V., e che in particolare egli dovette conoscere di lui non solo la qualità di omo di sangue e di crucci (v. 129) e di ladro, ma anche l'attività di feroce partigiano dei Neri, come si deduce dal fatto che proprio a lui mette in bocca la profezia relativa alla sconfitta dei Bianchi da parte di Moroello Malaspina nella guerra del 1301-1306 (secondo altri invece si alluderebbe più particolarmente alla presa del castello di Serravalle nel 1302, ovvero alla caduta di Pistoia nel 1306; cfr. CAMPO PICENO).
Questa componente biografico-politica andrà senza dubbio tenuta presente nell'interpretare l'episodio di cui D. ha fatto protagonista V.; ricordando anche, a testimonianza del particolare interesse in tal senso che la figura di lui poteva suscitare nel poeta, come nella sentenza del 27 gennaio 1302 questi sia accusato esplicitamente (insieme con altri fiorentini che erano stati podestà o capitani del popolo a Pistoia nello scorcio del sec. XIII) di essersi intromesso a favore dei Bianchi nelle lotte intestine pistoiesi. Vero è tuttavia che, in questo come in altri casi, la motivazione propriamente biografico-politica assume il suo giusto rilievo solo se collocata in una più generale prospettiva di carattere etico-religioso. A definire tale prospettiva non sembrano molto utili le indicazioni dei commentatori antichi, i quali affidano a V. il compito di rappresentare una delle categorie in cui, a loro giudizio, sarebbero distinti i peccatori della settima bolgia: quella, a esempio, di coloro che si limitarono a commettere un solo furto (Guido da Pisa, Pietro, Benvenuto, l'Anonimo), ovvero quella dei ladri sacrileghi (Ottimo).
Il primo ad avvertire la complessità e originalità psicologica del personaggio è al solito il De Sanctis, soprattutto in alcune pagine delle lezioni torinesi del 1855 (" Vanni Fucci non è tanto bestia quanto sel crede; in lui è rimaso qualche cosa di Adamo, egli esagera e calunnia se stesso "), anche se non evita qualche contraddizione (" Vanni Fucci rimane un facchino che ti fa una smorfia "), e anche se in genere rischia di rimanere su un piano di definizioni appunto psicologiche. A tale rischio non si sottraggono del tutto neppure altri interpreti più recenti, sia che insistano romanticamente sul " satanismo " o sul " selvaggio " e " tempestoso " cinismo di V. (Cosmo, V. Rossi, Grabher, Momigliano, e si vedano anche i due sonetti carducciani Heu pudor!); sia che, al contrario, ne pongano in rilievo la " bestialità ", intesa come animalesca abiezione, la volgare bassezza, la " viltà " (Vallone, Maier, Sacchetto). A determinare in modo più persuasivo i caratteri del personaggio gioverà forse tener presente anzitutto la definizione che ne dà esplicitamente D. stesso (in If XXV 13-15): Per tutt'i cerchi de lo 'nferno scuri / non vidi spirto in Dio tanto superbo, / non quel che cadde a Tebe giù da' muri: un superbo contro Dio, dunque, superiore, per questo aspetto, allo stesso Capaneo: in quanto (sembra lecito aggiungere) mentre la ‛ superbia ' di Capaneo si limita al non riconoscersi sconfitto e punito da Dio, quella di V. giunge invece al vanto empio della propria qualità di peccatore, polemicamente riconosciuta e proclamata come tale. Tale atteggiamento appare esplicito, anzi aggressivamente ostentato, nel discorso con cui il dannato si presenta, e si pompeggia, nella sua ‛ bestialità ', nella sua degradazione morale " eccessiva e quasi disumana " (Pagliaro): XXIV 124-126 Vita bestial mi piacque e non umana, / sì come a mul ch'i' fui; son Vanni Fucci / bestia, e Pistoia mi fu degna tana. Ma a questa presentazione si conforma poi, con potente e drammatica coerenza, tutto il suo comportamento successivo. Non solo infatti egli non esita ad ammettere anche la colpa che D. gli ha rinfacciato (vv. 130-131 E 'l peccator, che 'ntese, non s'infinse, / ma drizzò verso me l'animo e 'l volto), superando una vergogna che nasce solo dal pensiero che l'antico avversario politico possa godere di averlo visto punito così in basso; ma subito si affretta a fornire nuove e più specifiche prove della sua ‛ bestialità ', prima vendicandosi su D., con una spietata crudeltà aggressivamente dichiarata (E detto l'ho perché doler ti debbia!, v. 151), attraverso la profezia della sconfitta dei Bianchi; e poi con l'osceno insulto lanciato questa volta direttamente contro Dio, e che sembra anche voler colorire retrospettivamente il furto sacrilego come una manifestazione non tanto di generico ladroneccio, quanto invece di consapevole empietà. A questo grado estremo di superbia non può bastare, come per Capaneo, un richiamo, per bocca di Virgilio, alla pena eternamente connessa al suo stesso atteggiamento di ‛ rabbiosa ' sfida. Occorre, questa volta, una più specifica e impressionante punizione, che (aggiungendosi alla precedente pena, essa stessa singolare e significativa, dell'incenerimento) si realizza attraverso l'intervento, prima, delle serpi che avvincono il dannato impedendogli di parlare e di gestire più oltre, e poi di Caco, in cui, come in V., si unirono la violenta bestialità e il ladroneccio frodolento.
L'eccezionalità etico-religiosa del personaggio quale esempio del grado estremo a cui può giungere la superbia contro Dio, il peccato primo e radicale, da cui tutti gli altri peccati hanno origine, trova conferma nella singolare struttura dell'episodio, solennemente introdotto dalle due elaborate similitudini della fenice e dell'epilettico e da una religiosa esclamazione (Oh potenza di Dio, v. 119); interrotto drammaticamente nella sua parte centrale (con un procedimento che trova riscontro, tra gli episodi dedicati a un singolo dannato, solo in quello del conte Ugolino) dal passaggio da un canto all'altro, che separa la profezia dal gesto osceno; e concluso con rinnovata solennità dall'apostrofe-invettiva contro Pistoia e dall'apparizione del mitico centauro virgiliano. L'alta tensione morale che presiede alla rappresentazione di V. si riflette pure nel linguaggio, sempre energico e punteggiato di espressioni anche triviali e dialettali (mul, bestia, tana, mucci, dimagra, fiche, togli, squadro), ma al tempo stesso particolarmente ricco, anche e proprio nei due discorsi del dannato, d'immagini letterariamente complesse e raffinate (come quelle metereologiche della profezia, di sapore biblico e senechiano) e di artifici (dalla replicazione dei vv. 124-126 all'allitterazione del v. 151) caratteristici della più elevata tradizione retorica.
Bibl. - Per la figura storica di V. e per i suoi rapporti con D. cfr. Storie pistoresi, a c. di S.A. Barbi, in Rer. Ital. Script. XI 5 (specialmente i capp. 3, 5, 8); S. Ciampi, Notizie inedite della sacrestia pistoiese de' belli arredi, Firenze 1810, 58-67, e documenti IX e X; P. Bacci, D. e V.F. secondo una tradizione ignota, Pistoia 1892; ID., Del notaio pistoiese Vanni della Monna e del furto alla sacrestia de' belli arredi, ibid. 1895 (per nozze Bacci - Del Lungo); ID., Due documenti inediti del MCCXCV su V.F. ed altri banditi del comune di Pistoia, ibid. 1896 (nozze Michelozzi-Salvestrini); A. Chiappelli, D. e Pistoia, in Dalla trilogia di D., Firenze 1905, 225-261 (poi anche in Pagine di critica letteraria, ibid. 1911, 434-456); L. Chiappelli, Le fazioni pistoiesi e D., in " Giorn. d. " XXV (1922) 242-254; R. Piattoli, V.F..e Focaccia de' Cancellieri alla luce di nuovi documenti, in " Arch. Stor. It. " s. 7, XXI (1934) 93-115; A. Secchi, La cappella di S. Jacopo a Pistoia e la " sacrestia dei belli arredi ", in Atti del I Convegno intern. di studi sul Gotico a Pistoia, Pistoia 1966, 85-92.
L'attribuzione a V. di quattro sonetti (fra cui il famoso Per me non luca) è stata dimostrata erronea da M. Barbi (Studi 487). Per le discussioni relative alla profezia di If XXIV 143-151, cfr. anche la bibl. relativa alla voce CAMPO PICENO.
Per l'interpretazione critica del personggaio dantesco, oltre ai commenti (in particolare quelli del Torraca, di V. Rossi, del Momigliano e del Sapegno), cfr. F. De Sanctis, Storia della letteratura italiana, Torino 1958, 225-226; ID., Saggi e lezioni su D., ibid. 1967², 277-281; B. Croce, La poesia di D., Bari 1948², 90-91; le ‛ letture ' del c. XXIV dell'Inferno di U. Cosmo (in " Giorn. d. " XVI [1908] 157-167, poi in Lett. dant. 449-466), G. Rosadi (Firenze 1917), G. Bracali (in " Bull. Stor. Pistoiese " XXVI [1924] 1-11, 41-53), G. L. Passerini (Firenze 1925), S. Muratori (ibid. 1930), A. Vallone (Torino 1959); G. Grana, I ladri fraudolenti (Inf. XXIV e XXV), ibid. 1959, B. Bruni (ibid. 1961), B. Maier (Firenze 1962), C. Musumarra (in " Filologia e Letteratura " XII [1966] 253-278), A. Sacchetto (in Nuove Lett. II 257-279); quelle del c. XXV, di A. Momigliano (in " Giorn. stor. " LXVIII [1916] 43-81), L. Pietrobono (Firenze 1925), G. G. Ferrero - S. A. Chimenz (Roma 1954), E. Paratore (in Nuove Lett. II 281-315); e le analisi dell'episodio in E. Sanguineti, Interpretazione di Malebolge, Firenze 1962, 173-207; A. Pagliaro, La settima zavorra, in Ulisse 325-370; D.L. Derby Chapin, IO and the Negative Apotheosis of V.F., in " Dante Studies " LXXXIX (1971) 19-31.