vanto
Deverbale, con tre occorrenze nel poema che mostrano una sostanziale uniformità di significato, con lieve oscillazione fra il polo positivo e quello negativo e una certa tendenza ad annullarsi in nessi sintagmatici, sia che questi si riferiscano a persona sia ad azione o cosa.
Sta per " pregio ", " merito ", nella ‛ iunctura ' con ‛ dare ': If II 25 quest'andata onde li dai tu vanto, di cui tu Virgilio attribuisci a Enea la " gloria ". Altrove, con lo stesso verbo, si esaurisce totalmente nel sintagma mediale: di giugnere a la chioma [di Nembrot] / tre Frison s'averien dato mal vanto (XXXI 64), cioè (Sapegno) " non avrebbero potuto vantarsi d'arrivare alla chioma del gigante ", o in altre parole (Torraca), " non vi sarebbero giunti, se si fossero posti ritti l'uno su l'altro ".
Equivale infine a " pregio di vittoria " nella perifrasi che ellitticamente designa " il male e il peccato, più vasto e tempestoso e travolgente dell'oceano " (Chimenz), la fiumana ove 'l mar non ha vanto (Il 108), su cui dunque (tale è la forza di questo fiume) il mare " non si può dar vanto, cioè chiamarsi vincitore " (Landino). Resta però impregiudicato (v. Petrocchi, ad l.) se si tratta di una superiorità per così dire ‛ statica ' (Torraca: " il mare non può vantarsi d'esser più ampio né più pericoloso della fiumana del male "; e così all'incirca Casini-Barbi, Grabher) oppure ‛ dinamica ' (Buti, Tommaseo, da ultimo il Pagliaro: " dove il mare urta contro la corrente del fiume e non può vincerla ").