Varcare l'Acheronte: costumi funerari e immagini dell'aldila
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Di fronte all’esperienza della morte, i Greci elaborano due diverse tipologie di risposta: da un lato attraverso i riti funerari, i vivi accompagnano il defunto alla sua nuova dimora aiutandolo a distaccarsi definitivamente da questo mondo; dall’altro, attraverso l’elaborazione di miti e credenze sull’aldilà, essi si interrogano sul destino del defunto dopo la morte, costruendo un discorso complesso ed estremamente variegato. Essenziale è poi la dimensione del ricordo del morto, nella quale si ritrovano e rinsaldano i vincoli tra i vivi.
La morte per gli antichi Greci non coincide con l’istante in cui le funzioni vitali cessano, ma si configura piuttosto come un difficile e delicato processo verso una nuova condizione. Il passaggio biologicamente evidente dalla condizione di vivente a quella di defunto è infatti culturalmente elaborato dai familiari e dal resto della comunità attraverso una serie di pratiche codificate – i riti funebri – che sono ritenuti indispensabili perché il defunto giunga alla sua nuova e definitiva dimora. Senza di essi, il morto non è veramente tale, ma è costretto a vagare senza pace, respinto da un mondo e dall’altro.
“Dammi sepoltura al più presto, ch’io varchi la porta dell’Ade. / Mi respingono indietro le altre anime, le ombre dei morti, / non mi permettono ancora di unirmi loro oltre il fiume, / ma invano io mi aggiro davanti all’ampio portale della casa di Ade. / Su, dammi la mano, mai più nel futuro / tornerò dall’Ade, quando m’avrete onorato col fuoco” (Iliade, XXIII, 71-76). Con queste parole il fantasma di Patroclo sollecita in sogno l’amico Achille a seppellirlo al più presto per permettergli di entrare nell’aldilà ponendo così fine alla sua dolorosa condizione di sospensione tra due mondi.
Dare sepoltura a un cadavere significa dunque per i Greci rispondere al desiderio del morto di distaccarsi dal mondo dei vivi, un bisogno la cui soddisfazione non può essere elusa, pena l’abbattersi della collera degli dèi o del morto stesso sulla comunità dei viventi (Sofocle, Antigone, vv. 450-460).
Sofocle
Le leggi immutabili degli dèi
Antigone, vv. 450-460
L’editto non era di Zeus; e la giustizia, che siede accanto agli dèi di sotterra, non ha mai stabilito tra gli uomini leggi come queste. Non ho ritenuto che i tuoi decreti avessero tanto potere da far trasgredire a un mortale le leggi non scritte, immutabili, fissate dagli dèi. Il loro vigore non è di oggi né di ieri, ma di sempre; nessuno sa quando apparvero per la prima volta. Non potevo per paura di un uomo, rispondere di questa violazione alle divinità.
Sofocle, Tragedie e frammenti, a cura di G. Paduano, Torino, UTET, 1982
I riti funebri però hanno anche un’ulteriore funzione: se da un lato, come si è detto, essi "traghettano" il morto nell’aldilà, dall’altro essi aiutano il gruppo familiare a "rifondarsi" dopo la perdita di uno dei suoi membri, permettendo di mostrare, e quindi di rinsaldare, la propria unità agli occhi della comunità. I funerali in Grecia sono infatti innanzitutto un affare di famiglia: i termini che designano i riti funebri (kedeia o kede) derivano dalla radice lessicale che indica la parentela, specialmente quella acquisita per via matrimoniale.
Ciò suggerisce che partecipare a un funerale è uno dei più importanti doveri familiari: l’adozione dell’insieme di comportamenti che definiamo "lutto" (penthos) identifica infatti i parenti del defunto come un gruppo solidale. Cospargersi di fango o di terra, portare abiti laceri, praticare il silenzio e il digiuno sono tutti comportamenti che rendono visibile la contaminazione (miasma) che la morte lascia su coloro che sono legati al defunto. Alla fine del periodo di lutto inoltre la condivisione di una serie di attività, come pasti in comune e offerte al morto rinsalda i vincoli tra i sopravvissuti e permette di elaborare la perdita. Ma in cosa consistono concretamente i riti praticati in occasione della morte? Vediamoli.
“Andiamo con tutti i cavalli a piangere Patroclo: questo è l’onore dei morti. Quando poi saremo sazi di pianto funebre, scioglieremo i cavalli e ceneremo qui tutti quanti” (Iliade, XXIII, 9-12, trad. G. Cerri, 1999). Con queste parole Achille incita i compagni a dare inizio ai funerali dell’amico Patroclo. L’insistenza sul tema del pianto non è casuale: esso rappresenta infatti il momento centrale del rito funebre nella Grecia antica, ciò che è dovuto sempre e comunque ai morti. Dopo la preparazione del corpo, che viene lavato, vestito e incoronato dalle donne più strettamente imparentate, i funerali culminano nell’esposizione del cadavere (prothesis), che, deposto sul letto funebre e con i piedi alla porta, viene mostrato tra le mura domestiche anche a coloro che si collocano al di fuori della cerchia familiare. Sotto lo sguardo di amici, vicini, conoscenti viene dispiegata l’intensa espressione del dolore che la famiglia tributa al defunto per onorarlo, dimostrando in questo modo la solidarietà tra i suoi membri e il loro status sociale ed economico.
Non si tratta però di un libero sfogo delle emozioni in termini moderni da parte di tutte le persone che si sentono toccate dalla perdita di una persona cara. In una società come quella greca, ci sono regole precise che indicano sia le modalità di espressione del lutto (in particolare i gesti e i tempi) sia le persone che sono incaricate di manifestarlo. Adottando la definizione ormai classica dell’antropologo Marcel Mauss (Marcel Mauss - Marcel Granet, Il linguaggio dei sentimenti, 1975), si può parlare in questo caso di "espressione obbligatoria dei sentimenti": il lutto è una vera e propria "messa in scena", un copione che si deve svolgere seguendo norme precise e antiche, rituali appunto.
Il ruolo centrale spetta alle donne, specialmente quelle più strettamente imparentate con il morto: sono loro a farsi carico delle manifestazioni di dolore più eccessive ed enfatiche, la cui espressione non è in sintonia con l’ideale di razionalità e misura su cui si costruisce, nella società greca, l’identità maschile. Il quadro tramandatoci dall’iconografia e dalle fonti letterarie è estremamente omogeneo e coerente: le donne piangono sonoramente, si sciolgono le chiome e si strappano i capelli, si lacerano le vesti e si battono il petto. In un secondo momento, a questo dolore scomposto segue il lamento vero e proprio (goos) col quale le parenti più prossime intonano una per una le lodi del morto, assumendo il ruolo di "guida del pianto" (exarchos gooio). Quest’uso antico è restato vivissimo almeno fino alla metà del secolo scorso in tutto il bacino mediterraneo, come ha ben mostrato Ernesto de Martino (Morte e pianto rituale. Dal lamento funebre antico al pianto di Maria, 1958), che ne ha messo in rilievo l’aspetto musicale: non dobbiamo infatti immaginare il lamento come un susseguirsi di ordinati discorsi di elogio del defunto, bensì come veri e propri canti o cantilene, che attingevano a un ricco repertorio di luoghi comuni tradizionali. Uno splendido esempio di pianto rituale è quello di Andromaca per Ettore nell’Iliade: “Marito mio, giovane hai perso la vita, mi lasci vedova / in casa; è così piccolo ancora il bambino che abbiamo messo al mondo, io e tu sciagurati, e non credo / che giunga al fiore degli anni; sarà prima distrutta del tutto / la nostra città; perché sei morto tu, il custode vigile, che la proteggevi. […] ”(Iliade XXIV, 725- 730, trad. G. Cerri, 1999).
Le parenti non erano tuttavia le sole esecutrici del canto funebre: sono infatti presenti sin da Omero veri e propri professionisti, pagati per comporre ed eseguire un lamento che viene usualmente designato dagli antichi col termine di threnos, che lo distingue dalla dimensione più personale del goos: il loro ingaggio testimonia la potenza economica e sociale della famiglia del morto, e concorre ad aumentare il valore e la visibilità degli onori che vengono tributati al defunto.
Tuttavia in epoca storica, già a partire dal VI secolo a.C., si cerca di limitare sempre più per via legislativa la magnificenza dei funerali, divenute "vetrine" del prestigio delle famiglie aristocratiche, e di "democratizzare" i riti funebri: tale scopo ha ad esempio la legislazione di Solone, che fissa un valore massimo delle spese per i riti funebri, e cerca di attenuare l’esasperazione delle espressioni tradizionali del lutto (Plutarco, Vita di Solone, 21, 5- 6).
Plutarco
Una regolamentazione dei riti funebri
Vita di Solone, XXI, 5-6
Anche per le comparse in pubblico e le feste e i lutti delle donne stabilì una legge che vietava il disordine e l’eccesso. […] Abolì poi l’uso di graffiarsi, percuotersi, levare lamentazioni artate e piangere un estraneo ai funerali di altri. Non permise inoltre di immolare buoi in onore dei defunti, né di seppellire insieme con essi più di tre vesti, né di visitare le tombe di estranei fuorché per le esequie. La maggior parte di queste pratiche sono vietate anche nelle nostre leggi; alle nostre per altro è aggiunto che coloro che compiono simili gesti siano puniti dai gineconomi, perché le colpevoli manifestazioni di dolore alle quali essi si abbandonano nei funerali sono indegne di un uomo ed effeminate.
Plutarco, Vita di Solone, a cura di M. Manfredini e L. Piccirilli, , Milano, Fondazione Lorenzo Valla, 1977
Dopo la conclusione della prothesis, usualmente nel terzo giorno dal decesso, arriva il momento dell’ekphora, cioè del corteo che conduce al luogo di sepoltura, abitualmente al di fuori delle mura cittadine. Basandoci su rappresentazioni vascolari e modellini in terracotta appartenenti allo stile geometrico (900-700 a.C.) possiamo ricostruire quest’ultimo viaggio: il cadavere, avvolto in un drappo, è trasportato in un carro trainato da cavalli, attorniato dalle lamentatrici, seguito talvolta da un suonatore di flauto e naturalmente dallo stuolo dei parenti. Una volta arrivati al luogo di sepoltura, il corpo poteva essere inumato o cremato: sebbene l’incinerazione sia l’unico uso funerario di cui parlano l’epica e la tragedia, l’archeologia ci dimostra che questi due metodi sono stati in realtà compresenti lungo tutta la storia della Grecia antica. Solo nel caso dei bambini si può notare un massivo ricorso all’inumazione, che prevede spesso l’uso di grandi vasi come bara. In ogni caso, insieme al morto sono deposte sia suppellettili "comuni", come semplici ornamenti, vasellame, statuine, sia oggetti "significativi" (armi, gioielli, giocattoli, persino testi religiosi), destinati a rappresentare il ruolo sociale del defunto, la sua appartenenza a una determinata classe di età o a un gruppo religioso.
Tornati a casa, i familiari si riuniscono per consumare un pasto (perideipnon), durante il quale si tengono discorsi d’elogio per il morto: tale cerimonia ha la funzione di segnare la fine della fase più critica del lutto e l’inizio del processo di reintegrazione dei componenti della famiglia alla vita normale, nel segno del ricordo.
I termini che nella lingua greca indicano con maggiore frequenza la tomba sono sema, che significa in primo luogo "segno", "segnale", e mnema, "ricordo". Sin dal lessico, dunque, la tomba rappresenta un segno visibile che indica ai vivi dove perpetuare il ricordo del defunto. Quando Odisseo incontra il compagno Elpenore nell’Ade, questi lo prega di dargli sepoltura e di alzare un tumulo di terra “che ne giunga notizia anche ai posteri. / Fa’ questo per me e pianta sul tumulo il remo / col quale quando ero vivo, remavo insieme ai compagni” (Odissea , XI, 76-78e 51-78).
Omero
Odisseo incontra Elpenore nell’Ade
Odissea, Libro XI Avanzò prima l’anima del mio compagno Elpenore:
non era ancora sepolto sotto la terra spaziosa,
ma ne avevamo lasciato il corpo in casa di Circe
senza compianto e insepolto, perché c’incalzava altro impegno.
Vedendolo piansi e nell’animo n’ebbi pietà
e parlando gli rivolsi alate parole:
"Elpenore, come sei giunto nella tenebra fosca?
A piedi arrivasti prima di me con la nera nave".
Dissi così ed egli singhiozzando rispose:
"Divino figlio di Laerte, Odisseo pieno di astuzie,
mi colpì la mala sorte di un dio e il troppo vino.
Dormivo sdraiato in casa di Circe e non pensai
di scendere tornando alla lunga scala.
ma caddi a capofitto dal tetto: il collo mi si spezzò
dalle vertebre, l’anima scese nell’Ade.
Ora ti supplico in nome di chi è lontano e assente
in nome della moglie e del padre, che t’allevò da bambino,
e di Telemaco che solo nelle case hai lasciato –
so infatti che partendo da qui, dalla casa di Ade,
fermerai all’isola di Eea la nave ben costruita –,
là dunque o signore, ti chiedo di ricordarti di me.
Partendo non mi lasciare senza compianto, insepolto,
abbandonandomi: che io non diventi motivo per te di ira divina,
ma bruciami con tutte le armi che ho,
e sulla riva del mare canuto erigimi un tumulo,
d’un uomo infelice, che ne giunga notizia anche ai posteri.
Fa’ questo per me e pianta sul tumulo il remo
col quale quando ero vivo, remavo insieme ai compagni".
Omero, Odissea, a cura di A. Heubeck, trad. it. di G.A. Privitera , Milano, Fondazione Lorenzo Valla, 1983
Le modalità con cui si segnala la tomba sono state nel corso dei secoli le più varie: da vasi riccamente dipinti nel periodo geometrico, in cui la scrittura non è ancora usata, si passa nel periodo arcaico e classico a statue di fanciulli (kouroi) e fanciulle (korai), o a stele decorate con bassorilievi e iscritte con brevi componimenti. Spesso tali componimenti ricordano il nome del defunto ed esortano il passante a fermarsi e a rivolgere un gesto di saluto, come recita tra le tante una stele dell’isola di Taso del 500 a.C. ca.: "Chi non si trovava ad essere presente quando, morto, mi seppellirono, mi pianga adesso. Questo è lo mnema di Telephanes" (Inscriptiones Graecae XII, 8, 396). Le tombe, insomma, sono fatte per essere viste e ricordate: non è un caso che i cimiteri, pur trovandosi al di fuori delle mura cittadine, occupino di solito una posizione estremamente visibile lungo le principali vie di comunicazione. La necropoli del Ceramico di Atene, per esempio, si estende in parte lungo la Via Sacra che porta a Eleusi, in parte lungo quella dell’Accademia.
Ma quali sono le modalità del ricordo del defunto in Grecia antica? In generale, commemorare il morto è compito dei familiari e onorarlo significa tra l’altro portare sul suo sepolcro offerte, specialmente alimentari (anche se non esclusivamente), al fine di instaurare una comunicazione con il defunto, invocarne la protezione e stornarne eventualmente l’ira. Il tipo di offerta più comune è quella antichissima delle choai, attestata già da Omero: si tratta di una miscela liquida di latte, miele e vino, che viene versata direttamente per terra, sulla tomba, con l’intento più o meno esplicito di nutrire il morto con sostanze "preziose". È però consuetudine offrire anche focacce di miele, o ghirlande di fiori, o tagliarsi ciocche di capelli. In queste occasioni la stele di pietra che segnala la tomba viene lavata e unta, proprio come se fosse un corpo, talvolta persino adornata con nastri. Insomma, non si visita la tomba solo per ravvivare il ricordo in coloro che sopravvivono, ma lo si fa per entrare in contatto con il morto, che è concepito come una presenza reale, che può essere "attivata" grazie alle offerte, utilizzando la tomba come canale di comunicazione.
Vi sono momenti particolarmente importanti in cui è necessario praticare tali riti: dopo la sepoltura, nel terzo, nel nono e nel trentesimo giorno si svolgono rispettivamente i trita, gli enata e i triakostia. Esistono anche giorni di commemorazione collettiva, in cui ciascuno è tenuto a onorare pubblicamente i propri morti: ad Atene per esempio, nel mese di Boedromione (settembre-ottobre) si celebra la festa annuale dei Genesia nel corso della quale i figli portano offerte sulla tomba dei padri. Ci si reca a visitare il morto anche in altre occasioni, per esempio nel giorno del compleanno del defunto, o in seguito a visioni che si ritengono inviate dall’aldilà.
Nella scena iniziale delle Coefore di Eschilo (tragedia rappresentata nel 458 a.C.), per esempio, Elettra è inviata a portare offerte sulla tomba del padre Agamennone proprio in seguito a uno spaventoso sogno della madre Clitemnestra, che in questo modo cerca di placare l’ira del marito da lei assassinato. Compiere questi riti non ha inoltre un significato esclusivamente religioso: essi rappresentano infatti un dovere preciso dell’erede del morto, che in questo modo afferma la sua legittimità. Trita ed enata infatti sono alcuni tra i criteri che permettono di dirimere una successione dubbia, identificando l’erede in sede giudiziaria.
Accanto a queste forme di commemorazione familiare esistono in Grecia altre pratiche rituali che non si svolgono intorno alla sepoltura e non si rivolgono ad un defunto in particolare, ma si indirizzano piuttosto agli spiriti che per diverse ragioni vagano nel mondo dei vivi, con l’intento di placarli e impedire loro di nuocere. È questo il caso della festa delle Antesterie, che si svolge tra febbraio e marzo in onore del dio Dioniso per celebrare l’apertura delle giare di vino nuovo. Durante questi tre giorni gli Ateniesi ritengono che i morti escano dall’Ade e si mescolino ai viventi. Si tratta di giorni "contaminati" (miarai), in cui tutti i templi sono chiusi (tranne quello di Dioniso "delle Paludi") e la vita religiosa e civile è bloccata.
Per evitare l’incontro con i defunti e la contaminazione che essi recano, si adottano misure speciali: le porte sono coperte di pece per "impermeabilizzarle" e impedire l’ingresso di ospiti indesiderati, mentre, se si esce di casa, si mastica biancospino, una pianta che scaccia gli spiriti maligni. Tuttavia, proprio perché durante questa festa i morti sono vicini e potenzialmente pericolosi, essa rappresenta il migliore momento per onorarli offrendo loro un pasto particolare, una zuppa di semi chiamata panspermia. Offrire cibo alle anime che ancora vagano sulla terra è una consuetudine anche nella vita quotidiana: a ogni plenilunio ad esempio, si portano ai trivi avanzi di cibo per i defunti i quali, perché insepolti o perché morti violentemente e prematuramente, formano il seguito della dea infera Ecate.
Nella scultura funeraria greca dell’età classica il defunto è per lo più rappresentato in scene di vita quotidiana in cui l’evento della morte è assente o appena accennato. Solo talvolta viene colto il momento dell’addio, raffigurato come un composto saluto ai familiari. Questa tipologia iconografica adotta uno sguardo che il critico d’arte Erwin Panofsky (Tomb sculpture, 1964; ed. it. La scultura funeraria, a cura di P. Conte, 2011) ha definito "retrospettivo", perché si rivolge "indietro", cioè alla vita terrena del morto, e non "avanti", cioè alla sua esistenza oltremondana. In effetti, anche sul piano religioso, il discorso greco sull’aldilà appare certamente meno articolato e coerente di quello dei riti funerari. Si possono tuttavia tracciare alcune costanti della rappresentazione dell’oltretomba.
L’idea della sopravvivenza dell’individuo dopo la morte è ben presente nel pensiero greco sin dalle origini, anche se l’esistenza della psyche nell’aldilà perdura in modalità piuttosto diverse da quelle che oggi associamo al concetto cristiano di "anima". Si ritiene che al momento della morte la psyche (che alla lettera significa "respiro") abbandoni il corpo (soma) restando sulla terra sino al compimento dei riti funebri, dopo i quali essa può finalmente scendere tra i defunti.
Il mondo dell’aldilà, è chiamato "la dimora di Ade" dal nome del dio, fratello di Zeus, che vi regna con la sua sposa Persefone: il suo nome (Hades) significa per i Greci "l’invisibile" (a-ides, dalla radice -id del verbo "vedere"), sia perché tutto ciò che vi entra scompare alla vista, sia perché esso stesso rimane nascosto ai viventi. Simbolo del dio che vive tra i morti è infatti la sua kynee, cioè l’elmo di pelle di cane che nasconde alla vista chi lo porta.
Il defunto entra nell’Ade varcando il confine rappresentato dal fiume Acheronte, al quale è accompagnato da Ermes, dio dei passaggi e delle soglie, che prende per questo l’epiteto di psychopompos, "accompagnatore delle anime". L’oltretomba si presenta come una regione caratterizzata dalla ricchezza d’acqua: oltre che dall’Acheronte, esso è solcato dallo Stige, dal Cocito, dal Flegetonte, dal Lete. Platone nel dialogo Fedone (108c-115a) lo immagina come un’immensa cavità in cui scorrono acque che formano fonti, laghi, mari e paludi.
Spesso la zona di confine tra mondo dei vivi e mondo dei morti è rappresentata come un’immensa palude, punto d’incontro tra la terra dei vivi e le acque dell’aldilà: nella commedia Le Rane (405 a.C.) di Aristofane, l’Ade è attorniato da un’immensa distesa di fango e di sterco, attraversata dalla barca del traghettatore Caronte. È proprio per pagare il suo servizio che, a partire dall’età classica, si prende la consuetudine di porre nella bocca del morto una moneta. L’ingresso dell’Ade appare custodito anche da Cerbero, un cane a tre teste dalla criniera serpentina, che scodinzola affettuosamente al defunto che entra, ma poi gli impedisce per sempre di uscire.
Alla descrizione piuttosto articolata dell’entrata nell’Ade, non ne corrisponde una altrettanto precisa e coerente di ciò che attende l’anima oltre la soglia. Qui il quadro delle prospettive si complica, perché le risposte fornite dai Greci in tempi e luoghi diversi sono estremamente varie. In un’epoca molto antica – si pensi a quanto attestano i poemi omerici – la psyche non si aspetta nessuna retribuzione per il comportamento tenuto in vita: a parte Tizio, Tantalo e Sisifo, personaggi mitici che si sono macchiati di gravissime offese nei confronti degli dèi, nessun altro conosce punizioni o premi. Nei poemi epici la psyche continua a esistere nell’Ade, ma in una forma appena percettibile, fortemente "diminuita" rispetto al vivente: essa ha la stessa natura dei sogni, cioè non ha più alcuna consistenza materiale, è priva di forza e non conserva né memoria di ciò che è stato, né alcuna coscienza di sé, ma vaga senza poter parlare, emettendo stridii simili a quelli di un pipistrello. Quando Odisseo scende nell’Ade per consultare Tiresia, l’unico modo per far parlare i defunti è offrire loro il sangue di una vittima sacrificale, che li riporterà alla coscienza. Solo pochi fortunati eroi imparentati con gli dèi, come ad esempio Menelao, sono trasportati, senza subire l’esperienza della morte, nei Campi Elisi, "oltre i confini della terra", dove la vita scorre in un’eterna primavera.
A partire dal VI secolo a.C. il quadro dell’aldilà muta sensibilmente rispetto a quello tracciato dai poemi omerici: nuove prospettive escatologiche, che ampliano i possibili destini dell’anima dopo la morte, sono elaborate in specifici contesti culturali, in particolare quello delle iniziazioni, riti nei quali la promessa di un’esistenza migliore nell’aldilà è essenziale. In particolare, secondo lo storico Diodoro Siculo fu proprio il mitico cantore Orfeo, che si riteneva il capostipite di una fiorente tradizione di riti iniziatici, a introdurre nella rappresentazione dell’aldilà greco il concetto di retribuzione, parlando di pene e premi nell’Ade (1, 96, 7).
Più in generale, a partire almeno dall’età classica, al dio Ade (e talvolta anche alla sua sposa) si attribuisce la funzione di giudice delle anime: il drammaturgo Eschilo lo descrive come "un altro Zeus" che "sotto terra – così dicono – dà tra i morti le sentenze estreme" (Supplici, 231). Talvolta egli è affiancato da Minosse, Eaco, e Radamanto, famosi sovrani del mito. Così, l’immagine "egualitaria" dell’Ade omerico si sdoppia: ai morti può essere riservata una vita gioiosa nei Campi Elisi o una di sofferenze nel Tartaro. Nel primo caso le anime dei defunti trovano la loro ultima dimora tra prati fioriti e luminosi, nei quali continueranno a celebrare simposi e danze; nell’altro, gli empi sono sottoposti a punizioni, una delle quali consiste nel restare immersi per sempre nella palude infera.