varianti grafiche e toniche [prontuario]
In italiano è frequente il fenomeno di parole che, pur avendo lo stesso significato (o, com’è nei verbi, uguale persona e tempo verbale) hanno diversa grafia o posizione dell’accento. Entrambi questi fenomeni traggono origine dalla persistenza, fino a tempi molto recenti, di ➔ arcaismi di origine latina e greca, che hanno portato con sé, assieme ai significati, grafie e accenti poi superati nel corso del tempo: da qui augelli accanto a uccelli, alme per anime, disio/desio per desiderio, veggo per vedo, divengono per diventano, e molti altri.
Di norma, termini con grafie concorrenti hanno pure diverso ➔ registro stilistico: negli esempi sopra citati, per es., i primi elementi di ogni coppia appartengono al registro elevato, e nessun parlante, pur conoscendone il significato, li impiegherebbe mai nell’uso quotidiano. Diverso, però, il caso di spengere rispetto a spegnere: la percezione di aderenza allo standard del primo è netta nella sola Toscana, da dove origina questa variante regionale; già a Roma essa è avvertita come popolare.
In altri casi, soprattutto per alterati e derivati, può essere difficile determinare quale sia la variante ‘corretta’. Per fare un esempio, rispetto a giovane, giovine è senza dubbio ‘antiquato’; però la differenza tra giovinezza e gioventù serve, per quanto in modo sfumato, a distinguere due sensi (il primo ha una sfumatura di ‘rimpianto’); giovinotto e giovinile non sono attestati, mentre lo sono giovanastro, variante di giovinastro, e giovanetto, variante di giovinetto.
Tra le oltre 17.000 forme considerate dal più esteso dizionario italiano (il GRADIT, Grande Dizionario Italiano dell’uso), a pescare solo dalla prima metà delle voci in a-, si trovano varianti come le seguenti, che si citano come pura esemplificazione:
(a) scritture scempie e geminate: academia o accademia, acchitto o acchito;
(b) vocali toniche di diverso grado di apertura: abboffata e abbuffata, agricultore e agricoltore; o vocali del tutto diverse: abbrustolare e abbrustolire;
(c) terminazioni divergenti: aforismo rispetto a aforisma; coniugazioni dissimili: accaponire rispetto a accaponare;
(d) grafie univerbate rispetto a grafie staccate: accapo contro a capo;
(e) forme di uso solo locale: accidere «uccidere»; interpetrare rispetto a interpretare;
(f) gruppi semi-consonantici scaduti a vocale: agurio;
(g) grafie latineggianti: adequare, adolescenzia;
(h) forme sincopate: adoprare rispetto ad adoperare;
(i) varianti ortografiche: acciecare contro accecare.
In tutti i casi precedenti, la prima forma di ciascuna opposizione è di uso arcaico, desueto o locale. Si ha però anche il caso di pure varianti grafiche: ahio/ahia/ai/ahi; come pure familiare/famigliare o tra/fra, per le quali ognuna delle due forme è accettabile (► -gl-).
Menzione a parte meritano forme verbali tra loro concorrenti come devo/debbo, potettero/poterono, mordette/morse, morirete/morrete, dal momento che anche qui registro e grado d’accettabilità variano: dei passati remoti in -ette, lo standard attuale accetta solo il primo (oscillazioni simili si hanno col plurale -ettero: sì a vendettero, ma misero, persero, ecc.); il secondo presente e il secondo futuro sono, invece, di uso riservato alla ➔ lingua poetica ottocentesca.
Anche l’➔accento (anche ► accento fonico) può variare posizione: fuori degli usi poetici, che sottostanno a dettami ritmici (➔ metrica e lingua), di norma a creare conflitto sono pronunce alla maniera greca contrapposte a quelle alla latina di parole dotte importate dalla prima per tramite della seconda: pronunce come edèma, scleròsi competono difatti con le ‘greche’ èdema e sclèrosi, scandìnavo e scandinàvo (molti considerano quest’ultima la sola forma corretta), bàule e baùle, ecc. Per lo stesso motivo sono frequenti oscillazioni anche coi nomi propri: Tèseo/Tesèo, o Èdipo/Edìpo.
Va segnalato che già in latino s’erano avuti spostamenti di accento che avevano dato luogo a pronunce ancora praticate e che, benché minoritarie, sono pur sempre corrette: còmparo contro compàro; cònstato contro constàto, èlevo contro elèvo; esautòro contro esàutoro; investìgo contro invèstigo (più frequenti forse [soprav]valùto e subodóro).
Gli accenti grafici impiegati negli esempi precedenti sono tutti fittizi, perché in quelle posizioni in italiano l’accento di norma non si scrive. Il fatto che in italiano l’►accento grafico non si noti, salvo che sulle parole tronche, finisce con l’alimentare confusione e, specialmente con termini molto ricorrenti, rilanciare nell’uso forme variamente errate. Tra le più frequenti ricordiamo: càduco, èdile, Frìuli, guàina, leccòrnia e sàlubre; oscillante è utensìle: con l’accento sulla penultima è nome, ma se aggettivo è da preferirgli utènsile, sebbene questa distinzione sia ormai in via di sparizione.
I parlanti, quando impiegano parole che sentono più ricercate, tendono a ritrarre l’accento dalla più frequente posizione sulla penultima ➔ sillaba (si parla in questi casi di parole piane): rùbrica, per es., invece del corretto rubrìca, règime e non il corretto regìme, ìnfido invece del corretto infìdo, e ìncavo invece del corretto incàvo.