variazione diafasica
Una delle fondamentali dimensioni di ➔ variazione linguistica è quella che nella linguistica continentale europea (con termine introdotto negli anni Sessanta da E. Coseriu; cfr. Coseriu 1973) è chiamata diafasia. La variazione diafasica si manifesta attraverso le diverse situazioni comunicative e consiste nei differenti modi in cui vengono realizzati i messaggi linguistici in relazione ai caratteri dello specifico contesto presente nella situazione; viene quindi anche detta variazione situazionale. Il termine diafasia, come gli altri della stessa famiglia che designano le dimensioni di variazione di una lingua, è costruito a partire da elementi del greco classico: diá «attraverso» e phēmí «dire».
I fattori che intervengono a costituire e definire una situazione comunicativa, e che sono in grado di determinare o influenzare nei suoi vari aspetti la maniera in cui la lingua vi viene impiegata, sono molteplici e complessi, ma sono stati ricondotti da linguisti inglesi (cfr. Halliday 1978) a tre categorie fondamentali: il campo (field), il tenore (tenor) e il modo (mode).
Un primo fattore è dato dalla natura dell’attività svolta nella situazione e dall’insieme delle esperienze, delle azioni e dei contenuti semantici che questa implica e a cui fa riferimento: chiacchierare al bar, prendere appunti, tenere una lezione, fare un’arringa in tribunale, telefonare alla fidanzata, ecc., sono ovviamente attività che richiedono messe in opera differenti delle possibilità offerte della lingua. Questo fattore, il campo, comprende come un aspetto particolarmente importante l’argomento del discorso, ciò di cui si parla (o si scrive).
Un altro fattore è costituito dal rapporto in cui si pongono i partecipanti all’interazione comunicativa e dai ruoli sociali e comunicativi reciproci che essi rivestono o assumono nella situazione. La maniera in cui ci si rivolge a una persona autorevole con cui non si è in confidenza è ovviamente diversa da quella in cui ci si rivolge a familiari o amici. Questo fattore è il tenore, che si manifesta principalmente nel grado di distanza sociale e comunicativa fra i partecipanti, è connesso con le finalità che questi hanno e comprende anche le manifestazioni linguistiche della cortesia (➔ cortesia, linguaggio della).
Un terzo fattore, il modo, è dato dal mezzo o canale fisico attraverso cui passa la comunicazione e dal tipo di contatto interazionale che vi si realizza. Comunicare per iscritto e comunicare oralmente sono due esplicitazioni vistosamente diverse dell’uso della lingua. Il modo è talmente rilevante come fattore di differenziazione delle realizzazioni linguistiche, che da alcuni studiosi è stato elevato, travalicando il suo essere in fondo un ingrediente della situazione, a una delle fondamentali dimensioni di variazione della lingua esso stesso, la ➔ variazione diamesica.
L’interazione fra campo, tenore e modo dà luogo alle differenti opzioni che si attualizzano in ogni concreta situazione comunicativa: dare del «tu» (opzione di tenore) scrivendo una lettera (opzione di modo) di felicitazione per la laurea (opzione di campo); dare del «Lei» (tenore) chiedendo in classe (modo) una spiegazione all’insegnante di matematica (campo), e via dicendo, in tutta una gamma di possibilità di impiego della lingua nella illimitata differenziazione delle singole situazioni comunicative.
Sulla base delle considerazioni sviluppate nel § 2, si possono riconoscere due sfere di variazione diafasica, che nella linguistica italiana vengono spesso designate rispettivamente come variazione di ➔ registro e variazione di sottocodice (cfr. Berruto 1987: 139-168). Ciascuna di queste sfere dà rispettivamente luogo a una classe di ➔ varietà di lingua, appunto i registri e i sottocodici (questi ultimi spesso chiamati ➔ linguaggi settoriali).
La variazione di registro (detta anche variazione stilistica: questa è anzi la designazione corrente nella linguistica angloamericana) è connessa fondamentalmente con la categoria del tenore: è infatti basata sul tipo di rapporto fra parlante e interlocutore ed è correlata al grado di formalità relativa della situazione comunicativa. La formalità è un carattere estrinseco di una situazione comunicativa, determinato da fattori sociali e culturali: una situazione è tanto più formale quanto più è focalizzata sul rispetto e l’esecuzione accurata di norme di comportamento esterne all’individuo e vigenti nella comunità, ed è tanto più informale quanto meno implica la messa in opera di norme collettive codificate di comportamento. Il grado di formalità di ogni situazione si situa in un continuum che va dal massimamente formale al massimamente informale; e dipende anche da come la situazione è classificata e ‘costruita’ dai partecipanti. Questo si riflette nel comportamento linguistico in primo luogo nel controllo e nell’accuratezza posti nel parlare e nello scrivere: le situazioni in cui si ha un uso scritto della lingua hanno però in genere un grado di formalità più alto (fatte salve le occasioni di scrittura veloce e spontanea, moltiplicatesi con il diffondersi della comunicazione mediata dal computer e ora comuni per molti parlanti). Si ha così una scala di registri, da quelli alti a quelli bassi. Il registro tendenzialmente (ma non marcatamente) informale usato nella comune conversazione quotidiana è la lingua colloquiale (➔ colloquiale, lingua).
Le differenze di registro si distribuiscono lungo tutti i livelli di analisi della lingua, e riguardano quindi sia la pronuncia che la morfosintassi e il lessico che l’articolazione testuale e pragmatica. Particolarmente frequenti in italiano sono i ➔ sinonimi differenziati per registro: nelle coppie, per es., mangiare e cibarsi, morire e decedere, andare e recarsi, soldato e milite, il primo elemento è di registro medio, neutrale, il secondo è di registro formale; in seccatore e rompiscatole, scendere e venire giù, andarsene e smammare, invece, il primo termine è di registro medio e il secondo di registro informale. Non mancano serie di sinonimi disposti lungo il continuum dei registri: macchina, auto, automobile, autovettura si collocano a un livello di registro via via più elevato. Registri aulici, molto alti, sono spesso caratterizzati come tali anche dalla scelta e presenza di termini arcaici (➔ arcaismi) e/o letterari, come, per es., procella (invece di tempesta), altresì (invece di anche), quantunque (invece di benché), claudicante (invece di zoppicante), periglioso (invece di pericoloso), redarguire (invece di rimproverare), parimenti (invece di altrettanto), tosto (invece di subito / presto). I registri informali sono contrassegnati da una minore complessità sintattica del periodo, che risulta molto più frammentato e con una minore presenza di subordinazione frasale che non nei registri formali. Un indicatore morfosintattico e pragmatico di registro in italiano è rappresentato dalla scelta degli allocutivi (➔ allocutivi, pronomi).
Un aspetto molto evidente della variazione di registro è dato dalle caratteristiche fonetiche con cui il discorso viene realizzato, sia a livello delle singole unità foniche, sia a livello della catena parlata nel suo insieme.
Nei registri informali la velocità di elocuzione è normalmente più alta che non nei registri formali, avvengono fenomeni di fusione e riduzione sillabica e spesso non vengono pienamente realizzati tutti i tratti che contraddistinguerebbero l’articolazione dei singoli foni (si dice anche che il parlato informale è ipoarticolato; ➔ pronuncia). A questo insieme di fatti fonetici ci si riferisce con il termine, di derivazione musicale, di allegro (o pronuncia allegro). Il parlato formale tende all’opposto a essere lento.
Sempre nei registri informali, e in particolare nella pronuncia, è più evidente l’eventuale interferenza di un sostrato dialettale: a causa della minore attenzione e cura poste nella produzione del messaggio e del minore controllo dell’enunciazione, i parlanti bilingui italiano-dialetto producono più tratti dialettali di quelli che emergono quando si esprimono in un registro più formale, e nell’italiano regionale di parlanti monolingui si bada meno a eliminare elementi e tratti localmente marcati. Nella variazione di registro hanno un ruolo importante anche l’espressività e in generale le componenti emotive, che tendono a emergere molto di più nei registri informali, sotto forma di interiezioni (➔ interiezione) e termini figurati, espressivi, disfemistici, ecc. (accidentaccio!, zucca «testa», tappabuchi «sostituto», fregarsene).
La variazione di sottocodice è invece connessa con l’ambito di attività e la sfera semantica che a questo attiene, e quindi con l’argomento del discorso: è perciò determinata dal campo. Questo fa sì che le differenze di sottocodice si manifestino soprattutto nel lessico e nella semantica: ogni settore di attività e di esperienze con una sua sufficiente caratterizzazione o specializzazione sociale e culturale (ad es., la coltivazione dei campi, la medicina, la meteorologia, la politica, il calcio, la musica, la moda e l’abbigliamento, la gastronomia, ecc.) tende ad avere un suo sottocodice caratterizzato da unità lessicali particolari (tecnicismi; ➔ terminologie) atte a codificare in maniera precisa significati lessicali propri e tipici di quel campo. Tali lessemi marcati in diafasia possono sia denominare entità o processi esistenti solo in quel determinato settore (per es., neutrino nella fisica, semitono nella musica, spampanare nella viticoltura, decatizzare nella sartoria), sia essere designazioni più tecniche e specifiche di entità o processi noti all’esperienza comune, e quindi dare luogo a coppie sinonimiche con termini della lingua comune (precipitazione e pioggia / nevicata, obliterare e annullare, alienazione e vendita, ecc.). Dalla considerazione dell’importanza del lessico nel contrassegnare questo aspetto della variazione diafasica nasce appunto il termine sottocodice: le varietà di lingua connesse ai vari ambiti, campi e sfere di attività si possono ritenere dei sottocodici in quanto il loro lessico pone corrispondenze significato-significante aggiuntive all’interno del codice lingua ed estranee al suo tronco comune.
A seconda della natura del lessico che definisce i sottocodici, si possono distinguere dai linguaggi settoriali in senso lato quelle che vengono chiamate lingue speciali. Queste sono sottocodici caratterizzati da una terminologia nomenclatoria propria: un lessico tecnico che è definito all’interno dell’ambito disciplinare stesso per designare in maniera univoca e ben determinata nozioni, concetti, oggetti costitutivi, contenuti di quella sfera particolare. Sono lingue speciali le varietà delle diverse branche del sapere tecnico-scientifico (lingua della chimica, dell’astronomia, dell’informatica, della linguistica, dell’economia, ecc.). La specializzazione del lessico, e la conseguente scarsa comprensibilità per chi non appartenga alla cerchia di coloro che si occupano dell’ambito a cui attiene il sottocodice, sono nelle lingue speciali più forti che nei linguaggi settoriali. Cloruro di sodio «sale» (lingua speciale della chimica) è un termine molto meglio definito, senza alcun margine di ambiguità, rispetto a, per es., scoop «notizia sensazionale» (linguaggio settoriale del giornalismo), ma può risultare incomprensibile a chi non sappia di chimica. Di qui, possibili utilizzazioni dei sottocodici non per migliorare la funzionalità della comunicazione, come sarebbe nella loro natura, ma in realtà per limitarla o complicarla, quando ci si rivolga a persone estranee al campo specifico e a cui quindi, intenzionalmente o no, si preclude un’adeguata comprensione.
Mentre un’opzione di registro è onnipresente, in quanto ovviamente ogni enunciato linguistico è sempre formulato in un certo registro, la variazione di sottocodice si manifesta quando l’argomento del discorso si riferisca a uno degli ambiti contenutistici o disciplinari dotati di un proprio lessico tipico. Variazione di registro e variazione di sottocodice possono sommarsi, dando luogo a serie sinonimiche differenziate per registro e per sottocodice, come, per es., fifa (di registro informale), paura (non marcato né per registro né per sottocodice), fobia (marcato per sottocodice); e combinarsi, nel senso che un messaggio in un determinato sottocodice può essere formulato in diversi registri: occorre in un primo momento bufferizzare e in un secondo momento procedere al reset è sottocodice lingua dell’informatica, registro formale, mentre prima bufferizzi e poi resetti è stesso sottocodice, ma registro informale.
C’è ovviamente variazione diafasica anche nei dialetti e nelle parlate alloglotte. Molti dialetti e parlate hanno, oltre al normale registro colloquiale orale, un registro ricercato, utilizzato nella produzione letteraria; e anche i dialetti possiedono lessici e terminologie specifiche proprie di settori particolari di attività (per es., la coltivazione dei campi, i mestieri tradizionali, ecc.), hanno cioè variazione di sottocodice.
Va notato infine che la terminologia internazionale circa la variazione diafasica è parzialmente diversa rispetto a quella utilizzata qui. In particolare, nella linguistica anglosassone tutto l’insieme della variazione diafasica è solitamente inteso come variazione di registro, e registro (register) è quindi il termine per ogni varietà diafasica, relativa all’uso in situazione (cfr. Finegan & Biber 1994). Così è anche nella concezione di Halliday (1978), nella quale registro (o varietà diatipica) è ogni varietà legata all’uso, controllata dall’interazione fra campo, tenore e modo. Nella terminologia anglosassone, e soprattutto negli autori americani, viene invece spesso designata come variazione stilistica, o di stile contestuale, una buona parte della fenomenologia che qui si è trattata in termini di variazione di registro.
Un carattere importante della variazione diafasica è il fatto che essa risieda nel singolo parlante. Mentre la variazione diatopica e quella diastratica riguardano nel suo complesso la comunità che parla una certa lingua, e ciascun parlante si riconosce nella varietà di lingua propria della sua regione o località di provenienza e socializzazione, e dello strato e rete sociale di cui è partecipe, la variazione diafasica ha luogo nel singolo parlante. Ciò significa che la variazione diafasica opera all’interno delle altre dimensioni di variazione, secondo l’ordine diatopia - diastratia - diafasia: ogni parlante di italiano parla una varietà diatopica di italiano nella forma della varietà diastratica della sua fascia sociale di appartenenza, e all’interno di questa ha a disposizione più scelte diafasiche.
I tratti linguistici suscettibili di variare diafasicamente sono tuttavia in larga sovrapposizione con quelli suscettibili di variare diastraticamente, cosicché spesso non è facile stabilire se un certo tratto presente in entrambe le dimensioni di variazione valga come indicatore diastratico o diafasico (➔ substandard). I rapporti fra diafasia, diastratia e diatopia sono dunque complessi. Non sembra tuttavia che possa valere per la situazione italiana l’ipotesi di Bell (1984) che la variazione diafasica derivi da quella diastratica, e i tratti marcati diafasicamente siano un sottoinsieme dei tratti marcati diastraticamente (dato che secondo Bell la variazione diafasica rappresenterebbe sempre una forma di adattamento all’interlocutore e quindi alle caratteristiche diastratiche di questo). Tale ipotesi è peraltro in generale discussa, tanto che in Finegan & Biber (1994) viene sostenuta una prospettiva opposta, cioè che la diastratia derivi dalla diafasia, in quanto tratti marcati diafasicamente diventerebbero indicatori diastratici grazie agli accessi sociali differenti alla diafasia.
Ogni lingua è dotata di una tastiera di registri diversi e comprende numerosi sottocodici. Nel passare dei secoli l’italiano ha aumentato considerevolmente la sua gamma di variazione diafasica, sia sull’asse dei registri che su quello dei sottocodici. Questo fenomeno ha conosciuto un incremento particolare per quanto riguarda i registri nel secolo e mezzo dopo l’unità d’Italia, con il progressivo diffondersi dell’italiano, ‘nuova’ lingua nazionale (➔ Risorgimento e lingua; ➔ storia della lingua italiana) e sino ad allora lingua fondamentalmente solo scritta e degli usi letterari (quindi sviluppata sulla gamma formale e alta dei registri), a tutti gli usi del parlato quotidiano, e quindi con la necessità di sviluppare anche i registri bassi. Negli ultimi decenni si è assistito anche a una progressiva estensione d’impiego dei registri bassi, che emergono a volte anche in domini situazionali e in tipi di testo (➔ testo, tipi di) a cui non sono appropriati e da cui dovrebbero quindi essere esclusi. La differenziazione di sottocodice è invece aumentata in maniera rilevante soprattutto nell’ultimo mezzo secolo, con il moltiplicarsi delle tecnologie e dei rami specialistici del sapere.
La presenza di diversi registri è spesso sfruttata negli autori letterari, non solo per caratterizzare il parlato dei personaggi (cfr. Spitzer 2007), ma anche come componente del tessuto linguistico generale di un’opera. Esempi tipici di sfruttamento a fini letterari di diversi registri (e anche sottocodici) possono essere alcune opere di ➔ Carlo Emilio Gadda, o La chiave a stella di Primo Levi (1978), in cui la lingua del protagonista è definibile come un registro basso di italiano regionale piemontese (➔ Torino, italiano di) con inserzioni di elementi di sottocodice relativi al mestiere svolto (montatore di strutture metalliche).
Bell, Alan (1984), Language style as audience design, «Language in society» 13, pp. 145-204.
Berruto, Gaetano (1987), Sociolinguistica dell’italiano contemporaneo, Roma, La Nuova Italia Scientifica (14a rist. Roma, Carocci, 2006).
Coseriu, Eugenio (1973), Lezioni di linguistica generale, Torino, Boringhieri.
Finegan, Edward & Biber, Douglas (1994), Register and social dialect variation: an integrated approach, in Iid. (edited by), Sociolinguistic perspectives on register, Oxford, Oxford University Press, pp. 315-347.
Halliday, Michael A.K. (1978), Language as social semiotic. The social interpretation of language and meaning, London, Arnold (trad. it. Il linguaggio come semiotica sociale. Un’interpretazione sociale del linguaggio e del significato, Bologna, Zanichelli, 1983).
Spitzer, Leo (2007), Lingua italiana del dialogo, a cura di C. Caffi & C. Segre, Milano, Il Saggiatore (ed. orig. Italienische Umgangs-sprache, Bonn - Leipzig, Schroeder, 1922).