variazione diamesica
Per variazione diamesica si intende la capacità di una lingua di variare a seconda del mezzo o canale adottato, sia esso scritto (grafico-visivo) o parlato (fonico-acustico) (➔ lingua parlata; ➔ lingua scritta; ➔ variazione linguistica). Entro ciascun canale si possono poi distinguere numerose altre varietà. Per es., la lingua orale, veicolata prevalentemente dal canale fonico-acustico, può essere prodotta e ricevuta da mezzi diversi, quali il telefono, il videotelefono e vari altri strumenti di registrazione e riproduzione del suono, dal tradizionale registratore, al videoregistratore, ai lettori digitali, ecc. Anche lo scritto può servirsi di supporti differenti, dalla pagina di un quaderno a quella di un giornale, da una lastra di marmo o di metallo allo schermo di un computer.
Anche se il canale della lingua orale è quello fonico-acustico, non si può non riconoscere il ruolo che il canale visivo assume nella gran parte delle produzioni parlate quale veicolo della comunicazione non verbale (➔ gesti; ➔ paralinguistici, fenomeni): si pensi all’importanza dei gesti delle mani (il cosiddetto codice gestuale), delle espressioni facciali (codice mimico) e della posizione e postura del corpo degli interlocutori (codice prossemico) durante una conversazione. E sul canale visivo è interamente basata la lingua dei sordi (➔ segni, lingua italiana dei). Vi sono inoltre alcune produzioni linguistiche nate dalla cooperazione della vista con l’udito e dei mezzi scritto e orale, quali, per es., la lingua teatrale, quella cinematografica e televisiva, nate per iscritto, sotto forma di copioni o scalette, e poi adattate oralmente, in modo da rendere la pagina scritta più o meno vicina a un dialogo dal vivo (➔ cinema e lingua; ➔ televisione e lingua). Viceversa, anche il parlato può essere talvolta trascritto, perdendo così parte della propria specificità.
La natura ibrida di simili forme testuali giustifica etichette quali quelle di parlato-scritto e parlato-recitato, in opposizione ai cosiddetti scritto-scritto e parlato-parlato, ovvero le due principali varietà diamesiche, esemplarmente, e anche astrattamente, intese (Nencioni 1976). Un’altra felice formula è quella di «scritto per essere detto come se non fosse scritto», attribuita ai copioni cinematografici (Lavinio 1986: 16). Simili testi, che partecipano della natura dello scritto e di quella del parlato, vengono anche detti tipi di parlato trasmesso (Sabatini 1982 e 1997), essendo veicolati mediante l’ausilio di meccanismi di produzione, registrazione e ricezione del suono.
La variazione diamesica non può essere completamente isolata, se non per esigenze di studio, dagli altri parametri di variazione (Berruto 1993a e 1993b). La gran parte della produzione scritta di una lingua adotta, infatti, uno stile più formale e un lessico più selezionato rispetto alla gran parte della produzione orale. In quest’ultima, la provenienza regionale dell’autore del messaggio è quasi sempre riconoscibile, per via della componente acustica assente nella comunicazione scritta. Pertanto la ➔ variazione diafasica (➔ registro formale/informale, e anche le differenze tra lingua comune e ➔ linguaggi settoriali) e la ➔ variazione diatopica interagiscono sempre con la variazione diamesica. Molti linguaggi settoriali, infatti, sono quasi esclusivamente scritti, così come le leggi e tutto quanto riguarda l’istruzione, l’amministrazione e in genere il funzionamento e i regolamenti della vita sociale (➔ giuridico-amministrativo, linguaggio). Per contro, gli usi linguistici individuali e familiari sono perlopiù orali. Ovviamente non mancano le eccezioni, costituite da varietà orali che sono più formali di varietà scritte: basta confrontare, ad es., un discorso ufficiale o una lezione universitaria con una pagina di un diario o una lista della spesa. Ma è l’eccezione che conferma la regola, poiché il primo esempio riguarda testi orali pronunciati sulla base di una redazione scritta preparatoria più o meno fedelmente riprodotta, mentre il secondo riguarda una sorta di trascrizione irriflessa del pensiero. Anche la ➔ variazione diastratica interagisce con quella diamesica, dal momento che un utente incolto tende inconsapevolmente a trasportare le proprie abitudini orali nella pagina scritta, mentre un utente colto può talora «parlare come un libro stampato».
Se tutte le precedenti considerazioni sono valide per ogni lingua del mondo che possegga anche una produzione scritta, la variazione diamesica acquista in italiano un’importanza particolare, riconosciutale, tuttavia, soltanto negli ultimi decenni (l’espressione dimensione diamesica risale a Mioni 1983: 508-510). Per note questioni storiche, l’Italia giunse abbastanza precocemente a forme scritte più o meno unitarie. Lo testimoniano la rapida e massiccia circolazione nazionale di testi quali la Divina Commedia, il Decameron e il Canzoniere petrarchesco già nel Trecento, divenuti subito, soprattutto gli ultimi due, modelli da imitare, e la realizzazione di fortunate opere grammaticali (tra tutte, le Prose della volgar lingua, di ➔ Pietro Bembo, del 1525) e lessicografiche (la prima edizione del Vocabolario degli Accademici della Crusca risale al 1612: ➔ accademie nella storia della lingua; ➔ Salviati), che hanno canonizzato gli usi scritti, prendendo il fiorentino trecentesco come base (➔ italiano standard). A dimostrazione della rapidità dell’italiano nel conseguimento di un codice scritto unitario, si consideri che la Francia e la Spagna, tra le altre, compilarono i propri vocabolari ispirandosi a quello della Crusca (il primo dizionario compilato dall’Académie Française risale al 1694, quello della Real Academia Española al 1726-1739; ancora successivi quelli inglese e tedesco; ➔ lessicografia) e che lingue come l’inglese, il tedesco, il francese e lo spagnolo presentano differenze molto più cospicue dell’italiano tra la loro fase scritta medievale-rinascimentale e quella moderna e contemporanea.
All’opposto, a una lingua parlata più o meno unitaria da noi si arrivò soltanto dopo l’unità d’Italia, in ritardo, dunque, rispetto ad altri paesi europei e, secondo molti, non prima dello sviluppo della televisione, verso la metà del Novecento (De Mauro 1993: 353). Lo scritto era appannaggio delle persone colte, per via dell’esteso analfabetismo che caratterizzò l’Italia fino a parte del secolo scorso, e d’uso prevalentemente letterario e formale (➔ analfabetismo e alfabetizzazione). La gran parte degli usi parlati avveniva nei vari dialetti. Non mancano, ovviamente, le eccezioni, quali i casi di Venezia o di Napoli, i cui prestigiosi dialetti vantano una consolidata tradizione scritta, formale e ufficiale, che copre la produzione letteraria, poetica e teatrale, fino (nel passato) a quella burocratica e legislativa.
Benché sia indubbia l’influenza del canale sul testo, l’ambiguità di etichette come scritto e parlato – ora riferite al prodotto (pagina scritta, enunciato, ecc.), ora al processo (prospettiva cognitiva), ora alle caratteristiche linguistiche dell’una o dell’altra modalità – giustifica il tentativo di superamento di tale rigida dicotomia, per es. con i parametri della immediatezza (o vicinanza) e della distanza, riportati nel seguente schema (rielaborato da Koch 2001: 18):
immediatezza distanza
comunicazione privata comunicazione pubblica
interlocutore familiare interlocutore sconosciuto
emozionalità forte emozionalità debole
ancoraggio pragmatico distacco pragmatico
e situazionale e situazionale
ancoraggio referenziale distacco referenziale
compresenza spazio-temporale distanza spazio-temporale
cooperazione comunicativa cooperazione comunicativa
intensa minima
dialogo monologo
comunicazione spontanea comunicazione preparata
libertà tematica fissità tematica
Come si vede, immediatezza e distanza vanno intese sia in termini di compresenza degli interlocutori durante la conversazione, sia in termini di vicinanza psicologica (coinvolgimento affettivo tra di loro), sia, infine, in termini di condivisione di temi ed esperienze (vale a dire vicinanza o lontananza culturale fra gli interlocutori). Con ancoraggio si intende la presenza, nella comunicazione, di elementi interpretabili soltanto o preferibilmente grazie al contesto, quali i deittici. Tanto lo scritto quanto il parlato possono tendere ora verso il polo dell’immediatezza, ora verso quello della distanza, benché esistano degli orientamenti preferenziali: al parlato, infatti, come già detto, si addicono prevalentemente contesti dialogici, privati e familiari, rispetto alla comunicazione perlopiù monologica e pubblica dello scritto. Il parlato è quindi prevalentemente lingua dell’immediatezza e lo scritto lingua della distanza.
Altri studiosi, analogamente, sostengono che l’opposizione tra scritto e parlato deve essere descritta a partire da un modello «prototipico» (Bazzanella 2002), secondo il quale i tratti non sono esclusivi, ma preferenziali, di una data varietà: il parlato canonico (con cui s’intende quello dialogico spontaneo faccia a faccia) presenta tratti che possono essere presenti, in parte, anche in alcune varietà scritte. Testi quali i messaggi delle chat, infatti, esibiscono alcune caratteristiche che li avvicinano al parlato prototipico: gli interlocutori condividono il tempo e lo spazio di scrittura (qui inteso come canale, oltre che come luogo in cui si trova lo scrivente); lo scambio dialogico è quasi-sincrono, spesso poco pianificato per la rapidità con cui gli utenti scrivono per non perdere il turno.
Proprio i cosiddetti nuovi media (➔ lingua e media) mostrano la fragilità di schematizzazioni eccessivamente rigide, poiché presentano la coesistenza di fattori tradizionalmente distinti: la fissità tematica, la formularità, la presenza di un moderatore e l’interlocutore sconosciuto (o sotto mentite spoglie), infatti, possono ben coniugarsi anche a contesti di grande emozionalità e informalità (come nei newsgroup telematici).
Rispetto allo scritto prototipicamente inteso (➔ lingua scritta), cioè caratterizzato dall’assenza di un rapporto diretto tra mittenti e destinatari, distanti nel tempo e nello spazio, i testi parlati o scritti in condizioni di simultaneità totale o parziale (messaggi nei telefoni cellulari, chat, messaggi di posta elettronica; ➔ posta elettronica, lingua della) saranno ricchi di elementi dialogici quali i pronomi personali usati in funzione allocutiva (soprattutto tu) e i ➔ segnali discorsivi fàtici (pronto, mi capisci?; puoi ripetere?; sai; vedi; ecc.) (➔ allocutivi, pronomi; ➔ personali, pronomi). Questi ultimi sono parole o espressioni che fanno leva sul contatto tra gli interlocutori e servono spesso quali segnali di feedback (o retroazione) utili, cioè, per verificare che il messaggio sia stato ricevuto correttamente. Altre forme rare nello scritto sono i ➔ deittici, ovvero quegli aggettivi, pronomi e avverbi il cui referente si può recuperare soltanto dal contesto, quali questo, quello, qui, lì, oggi, domani. La natura di queste forme, infatti, fa sì che esse siano interpretabili soltanto se gli interlocutori sono fisicamente compresenti durante l’atto comunicativo (➔ lingua parlata).
Nello scritto, inoltre, vengono solitamente evitati tutti quegli elementi di frammentarietà, incertezza, ridondanza, incoerenza e assenza di coesione che caratterizzano, invece, i testi parlati non pianificati in anticipo, nei quali la simultaneità tra l’atto della progettazione e quello dell’emissione del discorso non consente il controllo formale tipico dello scritto. Si pensi alle parole troncate a metà, ai cambiamenti di progetto e alle autocorrezioni (ho avuto un inciden... mi hanno tamponato; penso che ... puoi venirmi a prendere?), alle sovrapposizioni di turno dialogico, alle pause vocalizzate (mah, hm, beh), a tutte le parole usate come riempitivo mentre si sta prendendo tempo per formulare un pensiero (cioè, ecco, veramente, come dire, in un certo senso, praticamente; ➔ intercalari). Senza parlare di tutti i fenomeni sintattici di segmentazione (➔ anacoluto; ➔ dislocazioni) e di pleonasmo pronominale. Tali forme, che risulterebbero inappropriate per iscritto, sono assolutamente normali nel parlato. A conferma di ciò, basti pensare alla difficoltà di trascrivere completamente con assoluta precisione il testo di una conversazione: oltre all’impossibilità di rappresentare adeguatamente caratteristiche della voce quali timbro, volume, ritmo e intonazione, molte parole risultano incomprensibili, poiché incomplete, e molte forme (le pause vocalizzate) non sono praticamente trascrivibili. Una trascrizione è tanto meno comprensibile alla lettura quanto più è fedele al testo orale di partenza, che invece risulta perfettamente accettabile agli interlocutori effettivi, poiché partecipano alla medesima situazione. Quanto nello scritto può risultare frammentario, implicito e lacunoso o, all’opposto, ridondante, è invece normale nella ➔ conversazione faccia a faccia (l’implicitezza deriva dalla condivisione del contesto, mentre la ridondanza dalla minor permanenza del messaggio orale rispetto a quello scritto), nella quale tutti cooperano ai temi trattati e alle strategie comunicative e c’è sempre la possibilità di chiedere spiegazioni, di interrompere, di ripetere o di correggere (ma non di cancellare, prerogativa dello scritto) quanto già detto. L’elevata cooperazione tra gli interlocutori è dovuta anche al fatto che, a differenza dello scritto (salvo quello epistolare), quasi sempre rivolto a un destinatario ignoto, indistinto e generico (come nel caso di un romanzo, un giornale, un’enciclopedia e sim.), il parlato è solitamente prodotto per un interlocutore specifico. Per lo stesso motivo, il discorso parlato tende a una maggiore conflittualità ed emotività rispetto a quello scritto, nel quale il distacco psicologico tra gli interlocutori, oltre a quello nel tempo e nello spazio, contribuisce a mitigare la carica affettiva: non soltanto per motivi di autocensura, dunque, forme come gli insulti e le parole oscene sono di norma meno numerose nello scritto che nel parlato.
Il principio del destinatario attivo e collaborativo incide anche sui testi scritti: taluni, infatti, con un maggior grado di implicitezza (poesie, romanzi) e dunque meno vincolanti, richiedono al lettore, per essere correttamente interpretati, un grado di cooperazione maggiore rispetto ad altri, più coesi, strutturati ed espliciti (saggi, enciclopedie), più vincolanti perché lasciano al lettore meno libertà interpretativa.
La variazione diamesica induce a un’interpretazione meno rigida dei concetti di norma ed errore: ciò che le grammatiche hanno sempre codificato come errore nella lingua scritta può essere perfettamente accettabile nella lingua parlata, che talora alla buona formazione sintattica e alla puntualità lessicale preferisce la funzionalità ➔ pragmatica, vale a dire l’appropriatezza del rapporto tra gli usi linguistici, gli interlocutori e il contesto comunicativo.
Alcune varietà diamesiche sono molto riconoscibili per via di formule rituali e parole deputate. Tra queste, la ➔ conversazione telefonica, che segue schemi ricorrenti specialmente nelle parti iniziale e conclusiva: basti pensare al segnale discorsivo fatico pronto, in apertura di telefonata, o a formule come: chi parla?; chi lo desidera?; attenda in linea; glielo passo subito; ecc. Anche lo scritto epistolare (➔ lettere e epistolografia; ► stile epistolare) segue formule precise, almeno per quanto riguarda l’intestazione della lettera, i saluti iniziali e finali (➔ saluto, formule di). La corrispondenza telematica presenta caratteristiche diverse, in gran parte indotte dal mezzo, quali l’abitudine di rispondere a un messaggio citandone punto per punto i passi salienti per via della funzione detta quoting, che riporta automaticamente, tra parentesi uncinate ad apertura di schermata del messaggio di risposta, l’intero testo del messaggio a cui si sta rispondendo.
Casi analoghi sono quelli del telefono cellulare, che ha innescato dinamiche comunicative diverse da quelle del telefono fisso. Una di queste è data dalla caduta in disuso, in quel mezzo, di formule come chi è? o chi parla?, poiché il nome del chiamante, se registrato in rubrica, viene visualizzato subito sullo schermo del telefonino. Anche i meccanismi della ricezione e della carica dell’apparecchio generano una serie di enunciati rituali nella conversazione al cellulare (non prende / non c’è campo; mi sposto per sentirti meglio; metto in carica il telefono e ti richiamo; ecc.), i quali risulterebbero incongrui in altri contesti. In altre forme di comunicazione quali la pubblicità, il fumetto, la lingua cantata o quella di Internet, il condizionamento del mezzo sul messaggio risulta ancora più evidente (➔ canzone popolare e lingua; ➔ fumetti, linguaggio dei; ➔ Internet, lingua di; ➔ lingua e media; ➔ melodramma, lingua del; ➔ pubblicità e lingua).
Anche la comunicazione scritta ha sue peculiarità. Alcuni connettivi e segnali discorsivi, infatti, sono quasi esclusivi del testo scritto o del parlato altamente pianificato. È il caso, per es., delle forme che rimandano a una struttura argomentativa e a una fine articolazione interna di un testo (quali: in primo luogo; in conclusione; si deduce; si può dimostrare; come affermato precedentemente; su questo aspetto vedi sotto; confronta il primo capitolo; ecc.). Il testo scritto, in virtù del canale visivo, è in parte strutturato da elementi meramente grafici quali la collocazione del testo nella pagina, la ➔ punteggiatura, l’uso dei ➔ titoli, dei capoversi e di particolari espedienti per mettere in evidenza parti del testo, quali il maiuscolo, il grassetto e il corsivo. Il parlato, invece, delega gran parte di queste funzioni all’intonazione. Non mancano, naturalmente, reciproche influenze tra i due canali, come quando, parlando, si imita il gesto delle virgolette o, scrivendo, si utilizza il maiuscolo (➔ maiuscola) per riprodurre una parola pronunciata a voce più alta.
Sebbene le varietà diamesiche, come tutte le ➔ varietà di una lingua, vadano sempre interpretate come un continuum e non separate rigidamente le une dalle altre, e nonostante la riconoscibilità, in tutte, del medesimo codice linguistico, le differenze tra testi parlati, scritti, teatrali, trasmessi, elettronici, ecc. risultano più spiccate di quanto non possa sembrare a prima vista. Basta, per es., origliare un discorso per pochi secondi, anche senza capirne il senso generale e senza assistere direttamente al contesto comunicativo: già soltanto dal tono della voce, dalle pause, dalle parole usate siamo in grado di capire se si tratta della recitazione di un brano teatrale o di un servizio del telegiornale, del resoconto di una giornata di scuola o di una riunione di condominio.
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