variazione diastratica
Variazione diastratica è un tecnicismo diffuso da Eugenio Coseriu (1973) per indicare una delle fondamentali dimensioni della ➔ variazione linguistica. Il termine (formato col prefissoide dia- «attraverso» e la radice strato) è utilizzato come sinonimo di variazione sociale.
La constatazione, nota sin dall’antichità, che persone appartenenti a una stessa collettività differiscono nel modo di parlare e che tale variabilità è sistematicamente legata ad alcune loro caratteristiche intrinseche (giovani/anziani, abitanti della città/della campagna, istruiti/non istruiti, professioni differenti, ecc.) fu sottoposta a studio specifico e a elaborazione prima dalla dialettologia e dalla ➔ geografia linguistica di fine Ottocento e inizio Novecento, poi dalla sociolinguistica, che mise anche in evidenza che i comportamenti linguistici degli individui sono sottoposti a valutazione sociale. La variazione diastratica è dunque riconosciuta, anche se non sempre a livello consapevole, dagli stessi parlanti che le assegnano il valore di importante indicatore della collocazione dell’individuo nella collettività.
Lo studio della variazione diastratica può essere affrontato da diversi punti di vista. Oltre a individuare le caratteristiche del soggetto parlante (e dei gruppi) collegabili a tale dimensione di variazione (§ 2), si può prendere come punto di partenza l’architettura di una lingua rilevando quali delle sue ➔ varietà sono più fortemente legate alle differenze sociali e fungono da indicatori di appartenenza a una classe o a un gruppo (§ 3); inoltre, si può considerare quale sia il rapporto fra gruppi sociali e ➔ repertorio linguistico (§ 5).
In un gran numero di ricerche empiriche svolte in diversi paesi si sono riscontrate sistematiche correlazioni fra alcuni dei gruppi in cui è organizzata la società e la variazione linguistica. Le categorie più spesso utilizzate per fare emergere la variazione diastratica sono di due tipi: il primo fa riferimento a dati demografici (tra cui, oltre all’età, anche il sesso), il secondo a caratteristiche sociali (che possono essere le più varie e sono strettamente legate al tipo di organizzazione sociale).
Le giovani generazioni sono sempre state considerate un fattore di innovazione di una comunità; all’opposto gli anziani, specie se con basso livello di istruzione, sono visti come un elemento di conservazione delle forme linguistiche più arcaiche. L’analisi del rapporto fra comportamento linguistico e sesso si è mossa lungo due ipotesi opposte. Secondo la prima le donne sono un elemento di conservazione sociale e linguistica: tale ipotesi è stata generalmente adottata dalla dialettologia e dalla geografia linguistica, che proprio per questo considerava le donne i migliori soggetti da intervistare alla ricerca del dialetto meno contaminato. All’opposto, una parte consistente dei modelli sociolinguistici recenti attribuisce alla donna, in particolare delle classi medie, maggiore inclinazione a mutare il proprio linguaggio per adeguarsi a quello dei gruppi più alti nella scala sociale. La ricerca preferisce oggi spesso sostituire alla categoria sesso quella di genere (➔ genere e lingua). Con tale nozione si vuole sottolineare come sia linguisticamente significativa non tanto la distinzione biologica fra maschi e femmine, quanto l’elaborazione sociale e culturale delle differenze di sesso.
La considerazione per cui la variazione linguistica è sempre legata e intrecciata a fattori sociali (quindi non il sesso ma il genere, come appena detto) può valere anche per ciò che riguarda l’età. L’esistenza di una dimensione giovanile dell’esistenza, con un ruolo sociale nettamente distinto, è elemento caratteristico di alcune società; a questo dato storico-culturale si può collegare la presenza o meno di una forte variazione linguistica legata all’età, ma soprattutto il formarsi di varietà giovanili (➔ giovanile, linguaggio; cfr. § 4).
Fin dal loro esordio le ricerche sociolinguistiche hanno in particolare puntato l’attenzione sulla stratificazione della società in classi sociali. Tale nozione (definita sulla base di tre parametri: reddito, occupazione e grado di istruzione) ha giocato un ruolo essenziale nelle ricerche effettuate a metà degli anni Sessanta del Novecento a New York da William Labov, che costituirono un riferimento importante per tutti gli studi volti a esplorare la variazione diastratica. Tali ricerche sono effettuate tipicamente su un’area delimitata (definita come comunità linguistica) e riguardano un campione di soggetti sulle cui produzioni linguistiche vengono misurate le occorrenze di determinati elementi (le varianti di una data variabile).
In Italia l’esplorazione della variazione diastratica secondo il modello laboviano fu effettuata in indagini effettuate negli anni Ottanta e Novanta, nelle quali il parametro classe sociale fu declinato in maniera diversa: ad es., nella ricerca di Rizzi (1989), in cui si descrive la distribuzione regolare di alcune consonanti nell’italiano regionale di Bologna, come parametri (accanto al sesso e all’età) furono usati l’attività lavorativa e il titolo di studio. In generale comunque nelle indagini condotte in Italia emerge l’importanza del parametro istruzione, utilizzato in molti casi da solo come indicatore della posizione nella scala sociale. In questa direzione si mossero anche le indagini quantitative effettuate in Sicilia sempre negli anni Ottanta (Osservatorio linguistico Siciliano) e Novanta (Atlante linguistico della Sicilia) (cfr. D’Agostino & Ruffino 2005).
Un altro costrutto analitico che si è mostrato particolarmente rilevante ai fini della variazione sociale della lingua è quello di rete sociale. Molte ricerche hanno evidenziato come anche in piccoli gruppi con caratteristiche molto simili (ad es., gli studenti di una scuola) si registrano diversità linguistiche collegabili ai tipi di legami sociali instaurati da alcuni individui e non da altri (rete delle amicizie, dei rapporti di lavoro, di vicinato, sportivi, ecc.).
Nelle ricerche quantitative effettuate col modello laboviano (cfr. Wolfram 1969; Trudgill 1974) è spesso emerso che molte variabili diastraticamente significative sono altrettanto significative ai fini della variazione diafasica: le varianti usate con più alta frequenza dai gruppi che si collocano più in basso nella posizione sociale sono anche le più usate nelle situazioni di minore formalità, mentre le varianti più vicine allo standard, e quindi tipiche dei parlanti colti, sono maggiormente usate in situazioni di più alta formalità. In termini generali quindi (vedi, ad es., le indagini in Nuova Zelanda di Bell 1984) si è registrato un legame tra la variazione fra gruppi di parlanti e la variazione nel modo di parlare del singolo individuo, cioè la variazione diafasica. Si tratta di due forme di variazione, probabilmente universali, che hanno in comune il fatto di essere pervasive e di collocarsi al punto di incrocio fra l’individuo e la collettività.
Tali dimensioni della variazione sono state considerate non solo parallele, ma anche derivate l’una dall’altra. Generalmente la variazione diafasica è vista come secondaria e derivata, specchio o eco della variazione sociale: in caso di una differenziazione di classe (o di gruppo) in una variabile linguistica, verrebbe attribuito maggiore prestigio alla variante usata dalle classi alte, sicché i parlanti tenderebbero a usare tali varianti in situazioni di più alta formalità. Finegan & Biber (1994), fra gli altri, sostengono invece un punto di vista diametralmente opposto, cioè che la variazione nel parlante è primaria e che da essa deriva la struttura della variazione diastratica.
Una maniera diversa, e per certi versi complementare, di analizzare la variazione diastratica in una lingua consiste nel prendere in considerazione il rapporto fra i gruppi sociali e l’insieme delle varietà associate in una complessa architettura variazionale. Nel modello di Coseriu sono individuabili tre livelli diastratici distinti: lingua alta, lingua della classe media, lingua popolare. In Italia la riproposizione di questo modello sul piano della ricerca empirica è problematica per la difficoltà sia di reperire un insieme di tratti co-occorrenti che distinguano la lingua alta dalla lingua delle classi medie, sia di individuare i confini fra questi due livelli e costrutti quali quello di italiano standard. Secondo l’opinione più comune la varietà diastratica alta di italiano è l’italiano colto: impiegato dai parlanti di livello socioculturale medio-alto e alto, non può essere descritto in termini di una serie di tratti caratterizzanti, in quanto coincide grosso modo con l’italiano cosiddetto standard, con la «buona lingua media» (Berruto 1993).
È dunque generalmente accettata l’idea che la varietà sociale per eccellenza dell’italiano contemporaneo sia quella situata al polo inferiore del repertorio. Tale varietà, etichettata come ➔ italiano popolare (o meglio italiano popolare regionale), è definita proprio sulla base delle caratteristiche sociali di chi se ne serve attivamente: un soggetto con debole grado di alfabetizzazione («modo d’esprimersi d’un incolto che, sotto la spinta di comunicare e senza addestramento, maneggia quella che, ottimisticamente, si chiama la lingua ‘nazionale’»: De Mauro 1970: 47). I tratti che vengono ascritti all’italiano popolare d’altra parte sono fortemente connotati in tale direzione essendo riconducibili da una parte all’interferenza con il dialetto (ad es., casi di trapasso di classe di parole o di genere grammaticale: la sale, lo scatolo; oppure l’uso di alcune perifrasi aspettuali: sono dietro a finire il lavoro) e dall’altra a fenomeni di semplificazione (ad es., la cosiddetta concordanza a senso, come in la gente uscivano – per cui ➔ accordo –, o usi del ➔ che polivalente, come in la ragazza che le ho dato un bacio).
Il riferimento ai semicolti, cioè a individui poco scolarizzati, sempre presente negli studi sulla varietà di lingua che nella considerazione dei parlanti si colloca ai livelli più bassi nella scala del prestigio, è significativo e deve essere associato alla diffusa opinione (a cui si è già accennato), che nella situazione italiana il parametro diastratico più importante sia il grado di istruzione del parlante, non la sua posizione economica (Berretta 1988). Benché negli ultimi decenni la composizione del repertorio italiano abbia attraversato un’ampia serie di innovazioni e cambiamenti altrettanto ampi abbiano avuto luogo nell’accesso all’istruzione (fra l’altro è quasi del tutto scomparso l’analfabetismo fra le giovani generazioni; ➔ analfabetismo e alfabetizzazione), l’istruzione è segnalata anche nelle indagini più recenti come variabile altamente significativa. Si veda, ad es., il suo ruolo nel distinguere, tra varietà definite in base ad altri parametri di variazione (come nel caso dell’➔italiano regionale), varietà di lingua con caratteristiche sociali assai diverse come l’italiano regionale colto o alto e l’italiano regionale popolare o basso.
Una seconda importante varietà della lingua italiana, definita prendendo in considerazione caratteristiche di chi la usa attivamente, è l’italiano giovanile. A partire dagli anni Sessanta, in Italia si è dedicata particolare attenzione alla varietà di italiano utilizzata da segmenti sempre più ampi del mondo giovanile nelle interazioni del gruppo di pari. È in quegli anni che si pose il problema di comportamenti sociali e culturali che differenziavano i giovani dagli adulti, al di là delle generali spinte innovative. Non a caso il parametro età gioca un duplice ruolo, in quanto definisce sia il parlante che l’interlocutore e si correla con aspetti non meramente anagrafici quanto propriamente culturali. Il linguaggio giovanile è una varietà di tipo sia diastratico (in quanto connessa al fattore demografico dell’età dei parlanti) sia diafasico (perché adoperata prevalentemente in contesti informali, come nella comunicazione fra coetanei per trattare argomenti riguardanti la condizione giovanile: amore, scuola, musica, ecc.).
Le indagini (per alcune raccolte di materariali lessicali si vedano Ambrogio & Casalegno 2004 e i siti http://dblg/humnet.unipr.it e www.maldura.unipd.it/lingua.giovani) si sono soprattutto occupate del piano lessicale individuando alcuni fenomeni ricorrenti: l’accorciamento delle parole (come mate da matematica, ecc.); le deformazioni (zan per ciao); alcune suffissazioni particolari (aggettivi in -oso, come cagoso, cessoso); l’ampia presenza di uno strato gergale sia tradizionale che innovativo (flash, sballare, schizzare, dal gergo della droga), di dialettalismi (urègia per «omosessuale» a Milano, sivilotto per «tiro in porta» a Udine, ecc.), di termini tratti dalle lingue straniere (sister, cabeza) o dalla pubblicità (mastrolindo per «uomo calvo»).
Entro le relazioni fra il gruppo e il singolo vanno viste le molteplici funzioni assolte dal linguaggio giovanile, fra le quali (oltre la funzione ludica) la funzione identitaria e quella di autoaffermazione. Dato che queste funzioni sono strettamente interrelate e si rinforzano vicendevolmente, un aspetto essenziale dell’italiano giovanile è l’incessante trasformazione. Ogni innovazione, infatti, è sottoposta a un’usura rapida, particolarmente per quanto riguarda il gergo che ha spesso una diffusione anche territorialmente limitata (una classe, una piazza). Proprio l’estrema labilità e la continua trasformazione fa sì che il linguaggio giovanile non venga generalmente inserito all’interno della vasta categoria dei gerghi in senso proprio, realtà a vario titolo connesse con la dimensione diastratica della variazione linguistica (➔ gergo).
Un altro caso di varietà insieme diastratica e diafasica è il cosiddetto aziendalese, un linguaggio settoriale (➔ linguaggi settoriali) vistosamente permeato di anglicismi, che si ritiene sia nato nelle filiali italiane delle grandi multinazionali, dalle quali si è diffuso a partire dagli anni Ottanta (Antonelli 2007). Tale varietà si caratterizza anzitutto per il ricorso a frasi e moduli stereotipati come: consulenza a tutto campo, affrontare le sfide del nuovo millennio, è un discorso da gestire, valenza strategica, reportistica aziendale. Molto presenti sono ➔ anglicismi come schedulare, implementazione, inizializzare, posizionarsi, processare. Lo stretto rapporto fra l’aziendalese e un preciso contesto situazionale, cioè gli ambienti lavorativi legati alle cosiddette nuove professioni, alla nuova economia, al nuovo mercato, fa sì che esso debba essere visto anche come una varietà diafasica.
Sotto più aspetti comunque fenomeni di questo tipo concernono la variazione sociale, rispondendo infatti prima di tutto a un bisogno identitario. Si parla e si scrive in un certo modo per mostrare l’appartenenza a una determinata comunità, mentre è secondaria (se non assente) la necessità comunicativa di usare dei termini tecnici.
La variazione diastratica viene quindi utilizzata da una parte come potente strumento di individuazione della collocazione sociale dei parlanti e, dall’altra, come veicolo per costruire una propria identità sociale, cioè per definire sé stessi e le proprie relazioni con gli altri. Lungo questi due poli deve anche essere visto il rapporto fra variazione diastratica e insieme del repertorio di una collettività. Ogni elemento delle altre dimensioni della variazione può divenire diastraticamente significativo nel momento in cui viene utilizzato per classificare l’individuo lungo la scala del prestigio sociale. Alcune ricerche hanno mostrato, per es., come gli italiani regionali, varietà di lingua caratterizzate lungo l’asse diatopico, abbiano un prestigio sociale assai diverso sia all’interno dei confini nazionali che all’esterno (si veda, ad es., Antoni & Moretti 2000 per le immagini dell’italiano regionale nel Ticino). In particolare Galli de’ Paratesi (1984) sostiene che gli accenti meridionali siano associati in Italia, al centro e al nord, a stereotipi negativi suscitando giudizi sociali come volgare, inferiore, ignorante.
Alla stessa maniera, l’impiego di una varietà diafasica o diamesica non adatta al contesto può essere forte indizio della caratterizzazione sociale del parlante. Negli anni Sessanta la Lettera a una professoressa di don Milani e dei suoi alunni rappresentava bene questo dato attraverso le due figure di Gianni, figlio di un fabbro, che si esprime, anche nello scritto, con la lingua di suo padre, e di Pierino, figlio del dottore, che, all’opposto, parla e scrive come un libro stampato (Scuola di Barbiana 1967). Emerge qui in entrambi i ragazzi l’incapacità, speculare, a muoversi con consapevolezza e competenza sulle tastiere della variazione, rimanendo confinato l’uno nella varietà diafasicamente bassa e l’altro dello scritto scolastico o comunque con caratteri di alta formalità.
L’immagine del movimento nello spazio di possibilità offerte da una lingua è, d’altra parte, indispensabile per capire il rapporto fra variazione diastratica e identità del parlante. Ogni individuo quando parla opera continuamente delle scelte per collocare sé stesso e la propria relazione con l’interlocutore e la situazione. La scelta del codice e della varietà del codice e la commutazione da un codice a un altro sono alcuni degli strumenti impiegati dai parlanti per manifestare l’insieme polimorfo delle proprie identità. Da questo punto di vista è il complesso del materiale variazionale presente in una collettività a essere utilizzato, con consapevolezza o no, come segno di appartenenza a una classe o a un gruppo sociale.
Come si è detto, la variazione diastratica è pervasiva ma è strettamente associata alla configurazione generale di una determinata società. Se si guarda in particolare alla realtà italiana, va segnalato come momento di svolta quello in cui l’istruzione di massa ha reso possibile una diffusa italofonia, soprattutto nelle giovani generazioni. Si tratta di un processo che, avviatosi subito dopo il 1861, può dirsi solo oggi in massima parte realizzato. Questo ha portato, da una parte, alla crescita del plurilinguismo individuale, ma dall’altra anche alla nascita di nuove varietà di italiano, alcune delle quali fortemente marcate in senso sociale.
Scuola di Barbiana (1967), Lettera a una professoressa, Firenze, Libreria editrice fiorentina.
Ambrogio, Renzo & Casalegno, Giovanni (2004), Scrostati gaggio! Dizionario storico dei linguaggi giovanili, Torino, UTET.
Antonelli, Giuseppe (2007), L’italiano nella società della comunicazione, Bologna, il Mulino.
Antonini, Francesco & Moretti, Bruno (2000), Le immagini dell’italiano regionale, Locarno, Armando Dadò editore.
Bell, Allan (1984), Language style as audience design, in «Language in society» 13, pp. 145-204.
Berretta, Monica (1988), Varietätenlinguistik des Italienischen, in Lexikon der Romanistischen Linguistik, hrsg. von G. Holtus, M. Metzeltin & Ch. Schmitt, Tübingen, Niemeyer, 8 voll., vol. 4° (Italienisch, Korsisch, Sardisch), pp. 762-774.
Berruto, Gaetano (1993), Varietà diamesiche, diastratiche, diafasiche, in Introduzione all’italiano contemporaneo. La variazione e gli usi, a cura di A.A. Sobrero, Roma - Bari, Laterza, pp. 37-92.
Coseriu, Eugenio (1973), Lezioni di linguistica generale, Torino, Boringhieri.
D’Agostino, Mari & Ruffino, Giovanni (2005), I rilevamenti sociovariazionali. Linee progettuali, Palermo, Centro di studi filologici e linguistici siciliani.
De Mauro, Tullio (1970), Per lo studio dell’italiano popolare unitario, nota linguistica a A. Rossi, Lettere da una tarantata, Bari, De Donato, pp. 43-75.
Finegan, Edward & Biber, Douglas (1994), Register and Social Dialect Variation: an Integrated Approach, in Iid. (edited by), Sociolinguistic perspectives on register, Oxford, Oxford University Press, pp. 315-347.
Galli de’ Paratesi, Nora (1984), Lingua toscana in bocca ambrosiana. Tendenze verso l’italiano standard: un’inchiesta sociolinguistica, Bologna, il Mulino.
Rizzi, Elena (1989), Italiano regionale e variazione sociale: l’italiano di Bologna, Bologna, Editrice Clueb.
Trudgill, Peter (1974), The social differentiation of English in Norwich, Cambridge, Cambridge University Press.
Wolfram, Walter A. (1969), A sociolinguistic description of Detroit Negrospeech, «Urban language series» 5, Center for applied sociolinguistics, Washington.