VARIAZIONE
. Nella dottrina della composizione, questo termine designa la modificazione melica, o ritmica, o armonistica o contrappuntistica, o timbrica, o addirittura complessiva, di un dato pensiero musicale in sé compiuto; modificazione, però, tale da consentire comunque la riconoscibilità di esso pensiero.
A tale sistema, la detta dottrina suggerisce alcuni artifizî che - ridotti a tipica elementarità - possono essere presentati come segue: Della semifrase (per ovvie ragioni non è possibile dare un periodo - e tanto meno un intero pezzo di musica):
si può variare:
A) L'aspetto melico: 1. lasciando sussistere immutata la serie delle sue note considerata nella versione originaria, ma interpolando, tra l'una e l'altra di esse, altre note di collegamento:
2. lasciando sussistere immutata la serie delle sue note, ma considerandola nella versione retrograda (cioè leggendo da destra verso sinistra):
3. lasciando sussistere immutata la serie non più delle note stesse, ma degl'intervalli o almeno dei rapporti tonali, rivoltandoli però verticalmente in versione a moto contrario:
4. lasciando sussistere immutata non più la serie organica, ma soltanto la coesistenza degl'intervalli o almeno dei rapporti tonali, ripresentandoli in versione retrograda a moto contrario:
5. lasciando sussistere le note cardinali, necessarie alla riconoscibilità del melos, e sostituendo nuove note alle altre:
6. combinando insieme due o più degli artifizî suesposti, e cioè applicando al 5° il procedimento del 4°, o altrimenti.
B) L'aspetto ritmico, lasciando sussistere immutata la serie delle note, ma alterando di esse note i valori di durata, sì da produrre o una diversa associazione di unità o addirittura un diverso sistema ritmico: dispari, per es., al posto del pari, o viceversa:
C) L'aspetto armonistico, sia: 1. lasciando sussistere la sintassi armonistica originaria ma arricchendone, o disponendone altrimenti gli esponenti accordici, sia: 2. a quella sintassi sostituendo una nuova, in cui la funzione tonale delle note della melodia si trovi radicalmente mutata, come si vede confrontando l'armonizzazione del n. 7 con quella del n. 8:
D) L'aspetto della scrittura (o stilistico nel senso dato a questo termine dalla scuola) sia: 1. mutando le figurazioni o le formule di "accompagnamento", sia: 2. componendo con la melodia data una o più altre parti (o voci) melodiche in contrappunto:
sia: 3. sostituendo ad un eventuale contrappunto originario uno o più contrappunti nuovi.
E) L'aspetto timbrico, sostituendo al mezzo fonico originario mezzi fonici radicalmente diversi sì da conferire alla melodia un timbro di diversa suggestività e rispondente a diverso stato d'animo.
F) L'aspetto complessivo: 1. combinando insieme - come s'è visto dianzi in limiti ristretti all'aspetto melico - due o più dei procedimenti finora esposti, e lasciando presso a poco immutata la pianta della composizione, oppure: 2. volgendosi ad una composizione di più ampie dimensioni, cui si giunge anche mediante una elaborazione tematica dei singoli motivi interni del pensiero originario (v. motivo e tema), come avviene, p. es., quando ad una collana di variazioni in forma chiusa si dà quale conclusione una variazione in forma continua, come quella della Fuga (v.).
Alcuni teorici, intorno a Vincent d'Indy (tra gli altri: G. Bas), distinguono poi le variazioni - riguardo alla forma componistica raggiunta - in tre grandi categorie:
1. variazioni per ornamentazione, cui si giunge mediante fioriture, formule supplementari ecc., dalle quali il pensiero originario non viene intimamente mutato ma solo esposto con maggiore ricchezza di esterni movimenti e colorazioni;
2. variazioni per elaborazione, cui si giunge mediante un maggiore o minore rinnovamento degli elementi interni del pensiero originario: armonia, ritmo e (restando però in quest'ultimo caso ben saldo l'uno o l'altro di quegli elementi: p. es. l'armonia nella sua funzionalità tonale) la stessa melodia.
In ambedue queste categorie la forma architettonica del pensiero originario resta completamente, o quasi, immutata;
3. variazioni per amplificazione, cui si giunge mediante: a) un'intima transvalutazione del significato lirico del pensiero originario, ottenuta con qualsiasi artifizio che consenta pur sempre la riconoscibilità dei caratteri esteriori di quello; b) uno sfruttamento del pensiero originario come fonte di motivi da riorganizzare e svolgere tematicamente. In questa terza categoria la forma architettonica del pensiero originario può mutare, in a le dimensioni, in b, oltre le dimensioni, anche i disegni interni della pianta.
A questo punto è necessario avvertire che tutte queste distinzioni non si possono applicare che al mero congegno tecnico, non certo alla realtà lirica di qualsiasi opera d'arte concepita a variazione. Si veda, per limitarci ad un solo esempio, la prima variazione delle 32 in do-minore su di un tema originale, di Beethoven. A volerla assegnare ad una delle tre categorie suesposte, essa rientrerebbe nella prima: variazione ornamentale, e nello stilema che meno di tutti altera il pensiero dato: si tratta, infatti, d'una semplice suddivisione, a formula unica, dei valori di durata di ogni nota. Ora, per quanto nessun elemento del tema abbia subito un'elaborazione, e la forma struttiva sia rimasta identica sia nelle dimensioni sia nei disegni, questa prima variazione ci offre di già un momento lirico assai differente da quello del tema, quasi si trattasse di una variazione amplificatrice. Anche più evidente è spesso la difficoltà di respingere dalla categoria amplificazione una variazione per elaborazione.
Né potrebbe essere altrimenti, poiché in realtà l'atto Variazione si compie per un ripensamento del fatto Tema: ripensamento, il quale già dal primo momento ci fa superare le posizioni di partenza, conducendoci, almeno idealmente, all'amplificazione. La distinzione che si può fare, comunque, tra variazione e tematismo (v. tema), è offerta dalla particolarità stessa del pensiero originario, che nella composizione tematica propriamente detta (fuga, sonata, ecc.) si presenta allusivo ed agogico, slanciato verso una continuazione cui accorreranno idee derivate e idee nuove, così che il risultato complessivo sarà dovuto non soltanto a quell'originario pensiero ma anche a questi successivi, in un giuoco dialettico imprevedibile; mentre nella composizione a variazioni, già s'è detto, il pensiero originario si presenta come già compiuto e, in sé stesso, già statico. Rispetto alla creatività in atto del musicista, esso sta come un piccolo mondo già formato e globale, che si tratta di interpretare e di rinnovare mediante una valorizzazione delle sue risorse proprie e delle sue proprie capacità.
Questo pensiero originario, questo "tema di variazione" si presenta nella storia musicale in varî aspetti: dapprima, il tema è un canto dato, che viene, nella variazione, a modellare il suo disegno in volute più sinuose o tratti più vivaci.
Aspetti storici di questo tipo si trovano nell'ipotetica parafrasi strumentale, giustapposta al canto dato, attribuita all'eterofonia ellenica; nel canto cristiano (che - nella sua assolutezza monodica - non opera alcuna giustapposizione, ma lascia - volta per volta - la stesura semplice per quella melismatica); nelle prime manifestazioni polifoniche basate sulla giustapposizione d'una parafrasi a valori diminuiti. Poi, con gli sviluppi formali resi possibili dall'artifizio della diminuzione, e cioè nel discanto e nel contrappunto sul canto fermo il tema resta un canto dato, il cui compito nella variazione può però benissimo limitarsi a quello di costituire una base, o un'ossatura generale, per costruzioni polifoniche accoglienti melodie estranee ad esso. Quivi non si tratta dunque di un processo di variazione interno al disegno del canto dato, come nelle varie parafrasi precedenti, ma piuttosto d'un processo d'elaborazione contrappuntistica, spesso tematica (mottetto quattrocentesco, ecc.), che non senza difficoltà possiamo far rientrare nell'orbita della variazione, le sue conseguenze formali sconfinando quasi sempre dall'orbita della variazione per entrare in quella del discorso tematico a svolgimento continuo. Analoga a questa è spesso la posizione del tema nella composizione "sul corale", che sì grande diffusione ebbe nella musica religiosa, vocale o strumentale o vocale-strumentale dal sec. XVI al primo XVIII. Anche qui, come nel mottetto, il tema rimane un "canto dato", che occupa per esteso una delle voci in contrappunto, servendo di guida alle altre, siano poi, queste altre, nutrite dalla sostanza di quello stesso canto, o siano, invece, di diversa ispirazione. Il canto è affidato di solito al tenor, e le altre voci vi intessono, sopra e sotto, contrappunti a imitazione o liberi. Quel che conta, in tal genere di composizione, non è tanto il rilievo del canto dato, quanto l'effetto complessivo del concerto polivocale, come nel mottetto. Formalmente però si deve avvertire che è meno frequente che nel mottetto la tendenza a sconfinare nel discorso tematico propriamente detto, a svolgimento continuo. Qui si fa maggiormente sentire, infatti, l'autorità della sintassi propria del dato corale. Il che naturalmente si accentua nel passare dal genere "sul corale" al genere corale figurato: il canto dato passa dal tenore (cioè dall'ombra) al soprano (cioè alla luce), e quindi assume - oltre che la guida - anche l'egemonia melodica della composizione, lasciando ai contrappunti una funzione di accompagnamento vero e proprio, che del resto si risolve spesso in procedimenti più omofonici che intimamente contrappuntistici.
Nel corale variato (specialmente strumentale e frequente nei secoli XVII-XVIII) questo canto dato viene di strofa in strofa ripresentato con diverse fioriture, ornamentazioni, ecc., mentre il contesto viene a mutare le sue formule. Abbiamo così una forma componistica a polittico, in cui il pensiero originario non ha più soltanto un'azione contrappuntistica, quale sempre presente voce reale, ma anche una di modello cui informare la creazione di nuove figure: a un "tema" presentato all'inizio in tutta la sua compiuta struttura, seguono le variazioni.
Analoga, benché dissimile in certi aspetti, è la posizione del tema nella composizione su basso ostinato: Passacaglia, Ciaccona (specialmente sec. XVII-XVIII), ecc. Quivi infatti il tema è esposto, nel suo breve giro (da 2 a 8, raramente più, battute) come esordio, e nel corso della composizione assolve alla duplice funzione di modello e di voce contrappuntistica.
Questa seconda funzione viene a perdersi, almeno come obbligatoria, nella canzone (o nella danza) con variazioni; genere che ha illustri cultori già nel tardo sec. XVI, e che s'identifica con il tema con variazioni la cui fortuna giunge fino ai nostri giorni con tale prestigio da assorbire in sé stesso - nella terminologia odierna - l'intero concetto della composizione a variazioni. Il lasciar cadere le funzioni contrappuntistiche per ridursi a quelle di iniziale modello dà una somma di partiti diversi per le variazioni, alle quali - tra l'altro - si offre non solo la libertà ma anche il suggerimento di modificare il tema oltre che con diminuzioni, ecc. anche ritmicamente, cosicché avviene che una danza, nelle sue variazioni, dia origine ad un'altra o a più altre danze diverse, o anche che variazioni risolte in danze abbiano il loro modello in una canzone. E del resto, grande è la libertà di movimenti che i maestri del Seicento si consentono in queste loro variazioni che possono essere indicate come mirabili saggi di elaborazione (e, come s'è accennato più sopra, di amplificazione in senso ideale).
A tale libertà e a tale ricchezza di elaborazione, nella storia (specialmente italiana e francese) del tema variato sottentra, nel passaggio dalla strumentalità intimamente contrappuntistica alla concertante e alla monodico-accompagnata (tipiche non più tanto dell'organo quanto del clavicembalo, del violino e dell'orchestra), una tendenza a più semplici scritture, e cioè - in concreto - a variazioni ornamentali (fioriture, diminuzioni, ecc.) dell'elemento melodico del tema. Il che si nota con facilità se si passi dalla lettura delle variazioni di un Frescobaldi alla lettura di quelle d'un Corelli (per es., delle Variazioni sulla Follìa di Spagna contenute nell'op. V). Quivi ogni variazione si limita ad applicare al tema una data formula di figurazioni. Così anche si dica, in generale, dei Doubles che, specie presso i Francesi, vengono a ripetere il tema modificandone soltanto le figurazioni.
Nelle scuole germaniche, specie nelle organistiche: la scrittura contrappuntistica, che vi rimane in vigore più a lungo che non nei paesi latini, comporta, per la variazione come per gli altri tipi componistici, la possibilità di conservare in vita i procedimenti elaborativi, che saranno ricondotti a trionfo - analogo al frescobaldiano - da J. S. Bach. L'esame della variazione bachiana, praticata ch'essa sia nel corale, nella passacaglia o nel quadro della sonata, della partita, della suite, della cantata (cfr. Christ lag in Todesbanden, costituita da 7 variazioni del canto dato - già romano: Victimae paschali laudes - oltre a una "sinfonia" introduttiva), o esplicitamente nella collana di variazioni (Goldberg-Variationen), mostra appunto la difficoltà che - in fatto di grandi realtà artistiche - s'oppone alla riduzione d'una variazione nella categoria cosiddetta "ornamentale" ed anzi, in fondo, allo stesso concetto di "variazione ornamentale": anche nel più semplice corale figurato, l'arte bachiana è arte di elaborazione, che - rinnovando il mondo spirituale del tema - produce anche l'amplificazione.
Dopo J. S. Bach (e già nei tempi bachiani; cfr. la variazione di G. F. Haendel) anche le scuole germaniche s'avviano verso una scrittura leggiera e brillante, in cui i valori dominanti si riassumono, nel campo del tema variato, nell'elemento melodico. La variazione di J. Haydn e di W. A. Mozart è quasi sempre condotta con procedimenti ornamentali, quantunque anche qui vada osservato che i valori artistici ottenuti siano spesso valori di ideale amplificazione, come si vede nei molti haydniani andanti di sonata, di quartetto, di sinfonia, condotti appunto a tema variato. Naturalmente tale indirizzo alla maggior levità di scrittura, favorito dal clima cosiddetto "galante" dei tempi, doveva dare - se si prescinda dai grandi maestri - in una tendenza al minimo sforzo, pericolosa specialmente per l'arte della variazione. La quale sembra cadere, presso la maggior parte dei compositori dell'ultimo Settecento, al livello di un mero formalismo: lo stesso compositore che, scrivendo una sonata, mostra un certo artistico impegno, quando prende a variare un tema (e lo trae spesso da fortunate arie e danze d'opera teatrale) sembra abbandonarsi al più generico giuoco di formule: si tratta, per lui, di inserire in un comune calco il più gran numero di note, a scopi puramente virtuosistici.
A tale clima viene a reagire, sempre più radicalmente, la variazione beethoveniana. L'intelletto tipicamente elaborativo del Beethoven non può rinunziare a svolgere i mille partiti ch'esso sa intuire nel benché minimo disegno musicale, e quindi anche nel tema da variare. Anche quando limiti i procedimenti a quello dell'ornamentazione (e lo fa non di rado), Beethoven riesce ad "ornare" in modo tale da condurre il tema a superiore, o almeno a diverso valore lirico. Ma spesso il suo slancio tematico, quello stesso che alimenta i suoi sviluppi sonatistici, viene ad elaborare anche esplicitamente tutti gli elementi del tema, creando senza posa l'un dall'altro mondi musicali dialetticamente superiori. Così potenziata, la variazione offre all'architettura sonatistica una riserva di possibilità e di risorse analoga a quella data dal tematismo a svolgimento continuo, e - d'altra parte - in questa continuità finisce spesso per sconfinare: nel drammatico discorso d'una sonata, il tempo a variazioni viene così ad insistere con maggiore evidenza sopra certe idee cruciali, dal dramma e per il dramma create. Si osservi, a questo proposito, come il Beethoven si giovi della variazione per elevare edifici musicali che rappresentano il suo maggiore ardimento: le sonate per pianoforte op. 106, 109, 111 (per non dire delle precedenti), quella per violino op. 47, il quartetto op. 1277, le Sinfonie III (finale), V (andante), IX (adagio e finale). Quivi i teorici additano infatti i più chiari esempî di "amplificazione". Ma di amplificazione si deve parlare, presso Beethoven, anche riguardo a lavori di minore impegno, per es. alle grandi collane di variazioni, ambedue in do-minore, su di un tema proprio (le 32 del 1806) e su di un tema di Diabelli (le 33 del 1823). Nelle quali il Beethoven dall'esile "tema" sprigiona un complesso di ricchezze ideali che certo non sarebbe stato, neanche in piccola parte, prevedibile, e - fatto importantissimo - organizza la serie delle variazioni (come già aveva fatto J. S. Bach nelle Goldberg) in più blocchi, funzionali rispetto a un'architettura generale.
L'aspetto così raggiunto dalle due opere è veramente monumentale. E l'esempio dato dal Beethoven ai musicisti fu pienamente compreso: se i dilettanti, se i "virtuosi" continuano nell'800 a riempir di note i calchi offerti dalle arie in voga, gli artisti sanno ormai quel che la variazione possa dare all'espressione lirica, e la trattano con impegno pari a quello loro abituale in qualunque altro genere di lavoro. F. Mendelssohn, intitolando una sua composizione Variations sérieuses, non senza grazia distingue il suo "variare", che è cosa d'arte, da quello dei "fornitori di variazioni" al suo tempo troppo numerosi. E i romantici della prima come quelli della seconda scuola giungeranno talvolta alle loro massime altezze artistiche proprio nella composizione di variazioni. Il musicista delle scuole romantico-intimiste, da R. Schumann a J. Brahms, da F. F. Chopin a C. Franck, ama infatti non senza legittimità questo lavoro in profondità, questo continuo scrutar dentro alle ombre stesse di una immagine lirica, sempre ritornando ad essa e sempre più lontano portandone il ricordo. Non hanno bisogno di esplicite intenzioni amplificatrici, per ricreare tutto un mondo di sentimenti e di vibrazioni: si veda, p. es., quel che diventi il procedimento ornamentale nella Berceuse di Chopin. Ma lo Schumann e il Brahms praticano anche e spesso i procedimenti tipicamente elaborativi, sviscerando il pensiero originario in tutti i suoi elementi struttivi, come si vede, p. es., negli Studî sinfonici del primo e nelle Variazioni su temi schumanniani, haydniani e handeliani (oltre che in tempi di sonata e di sinfonia) del secondo. E C. Franck, nutrito specialmente da esperienze beethoveniane, attraverso l'elaborazione mira direttamente ai valori architettonici dell'amplificazione, offrendo nelle sue Variazioni sinfoniche per pianoforte e orchestra uno dei saggi più tipici ed esteticamente più importanti del genere.
La vittoria delle correnti romantico-titaniche condotte da R. Wagner contribuì ad un certo allontanamento dei compositori dall'ambito della variazione, ambito che - in clima romantico - era più propriamente intimista. Pagine concepite secondo gli stilemi della variazione non mancarono però del tutto anche nell'ultimo Ottocento e nel primo Novecento, ché lo stesso titanico R. Strauss compose appunto a libere variazioni il suo poema sinfonico Don Quixote, E. Elgar diede le sue Enigma-Variations, V. D'Indy il suo poema sinfonico Istar, congegnato a variazioni che, contrariamente all'uso, vanno dal più complesso al più semplice, concludendosi con l'esposizione del puro tema; il che è determinato dal "programma" ideale del poema.
Ad un ritorno alla variazione può probabilmente fornire condizioni propizie l'odierno rinnovato interessamento ai valori struttivi della musica del quale ritorno - annunziato già in tempi postromantici dall'isolato bachiano M. Reger - possiamo già vedere indizî, nella recente produzione italiana, presso I. Pizzetti (1° Quartetto), A. Casella (Partita per pianoforte e orchestra, II° tempo [Passacaglia]), V. Tommasini (Il Carnevale di Venezia: Variazioni alla Paganini per orchestra), E. Desderi (Variazioni su un tema di Beethoven), G. F. Malipiero (Variazioni senza tema, per pianoforte e orchestra), ecc., mentre nella produzione straniera un singolare intervento della variazione (come di altre forme classiche) si dà nell'opera teatrale Wozzeck di A. Berg, non senza notevole rispondenza ai fini espressivi del dramma.