Varietà notarile: scorci di vita Economica e sociale
Il 7 novembre 1570 si presentarono davanti al notaio Pietro Giovanni Mamoli quattro fiorentini ed un genovese. Erano tutti sensali da cambi. Operavano in un segmento importante del mercato del credito. Avevano un problema di concorrenza. Desideravano risolverlo bene, con una legge servizievole che vietasse ai sensali ordinarii di Rialto di fare senserie di cambi.
Uno dei cinque, il fiorentino Marco Lachi, si impegna a far approvare in capo ad un anno "dall'illustrissimo et eccellentissimo Consiglio di Dieci o da altri eccellentissimi consigli a' quali tal materia può spettar" una delibera che oltre a riservare l'esclusiva ai sensali da cambi contenesse una "espressa proibitione alli altri sensali ordinari di mercantie et altro di far tali sensarie di cambii".
Dal canto loro gli altri quattro garantiscono al Lachi il rimborso delle spese ed un onorario, da proporzionare all'esito. Il Lachi fu autorizzato ad offrire alla Repubblica un contributo di 120 ducati all'anno per quanto fosse durata la guerra (1).
Nell'imbattersi in un privato, straniero oltretutto, che si dichiara capace di manipolare il consiglio dei dieci a vantaggio di una associazione di categoria, la prima reazione è di sconcerto. Difficile impedirsi di considerarlo un episodio di intraprendenza ambigua, parente stretto di quelle società costituite per sfruttare segreti come lieviti per metalli od altri di congenere filosofalità (2).
Senonché quello di sensale da cambi, a Venezia poi, non era un mestiere per creduloni. Vale la pena di fare un controllo. Il 24 di ottobre del 1571, ad un paio di settimane dal termine pattuito tra i cinque, il consiglio dei dieci deliberò che "alli fidelissimi Marco Lachi et compagni, mezzani da cambii in Rialto, sia concesso che possino eriger una scuola sotto il nome di quel santo che li parerà". Venne accettata l'oblazione di 120 ducati. I provveditori di comun furono incaricati di esaminare gli statuti della Scuola, sentito prima il parere dei savi alla mercanzia (3).
Nel testo della legge non si fa parola del monopolio ma l'autorizzazione a costituirsi in scuola lo prevedeva. Ad informarcene è un'altra delibera del consiglio dei dieci, del luglio del 1576, che accoglieva parzialmente le ragioni opposte dai sensali al privilegio "per il quale detti sanseri ordinarii vengono privati di far senserie di cambi non intrando in quella scolla". Non interessa qui seguire lo sviluppo della vicenda che ad ogni modo è a lieto fine. Fu trovato un compromesso (4).
Senza passare per il notaio, stando esclusivamente al registro del consiglio dei dieci, come non considerare quell'offerta di galeotti una bella iniziativa patriottica, una tra le tante che germogliarono durante la guerra di Cipro?
Quanti notai c'erano a Venezia nel '500? Una legge del 1514 fissò in sessantasei il numero dei notai abilitati a rogare in città. Questo vuol dire che nella Venezia del primo Cinquecento c'era un notaio ogni duemiladuecento abitanti: un po' più o un po' meno a seconda dei periodi. Per i criteri odierni sono moltissimi. La legge del 1514 però aveva uno scopo restrittivo. Va tenuto presente che nelle principali città italiane la densità dei notai era generalmente maggiore. Lo stesso accadeva nei piccoli centri. A Sacile tra il 1614 ed il 1618 a fronte di poco più di mille abitanti erano attivi non meno di quindici notai.
La varietà di genti, persone, affari, così tipica in una città che, bene o male, continuava ad essere una delle capitali del mondo, forse non ha fonte che la serva meglio. A volte saranno spigolature minime: ecco due fratelli ebrei che ordinano da Costantinopoli "una cassetta con un pezzo de formaggio piasentin" (5). Da Palermo è in arrivo un bastimento carico di "barilli doi tagliadelle, botte sette macaroni e vermicelli" (6). E quali lavori avrà mai fatto l'intagliatore faentino Andrea Foschi? Cosa sarà accaduto dei "dui apostoli et dui anzoli quali hanno da esser compiti et consignati per esser stati pagati"? Nella sua casa di San Vitale, chiusi in uno scrittoio di abete dipinto di verde "de dentro et de fuora con figure et prospettive" teneva i trattati di architettura di Vitruvio, dell'Alberti, del Vignola, del Palladio e del Serlio, una raccolta di vite di santi, un "libro in stampa di rame senza coverte de diversi dissegni di prospettive di sepolchri de prencipi stampato l'anno 1563, in quarto, nella prima carta comenza Hieronimus Cock excudebat" (7).
Talora ci si spalancano davanti peripezie condensatissime dalle esigenze di economia, bimbi rapiti in fasce e ritrovati uomini, con tanto di nomi fiabeschi, agnizioni e lieto fine, come a teatro. Giacomo Nores, cipriota, "preso schiavo di anno uno e mezo nelle brazza di una donna sua baila chiamata Chinacù" fu ritrovato a Pera ad anni ed anni dalla cattura, non sai se "per buona sorte o per voler divino". A chi lo riscattò dal mercante turco presso cui stava a servizio, Giacomo disse di aver gran desiderio di "veder sua madre et ritornar alla primiera sua fede", ma glielo disse in turco, l'unica lingua che sapesse (8), dettaglio che spappola la commedia.
Soltanto un giurista saprà catalogare in modo appropriato il complesso dei servizi resi dai notai alla loro clientela; l'osservatore curioso può segnalare che le parti ogni tanto facevano mettere per iscritto cose che a giudizio nostro starebbero bene solo dette e in tutta circospezione. Il 4 ottobre 1595 Bartolomeo Bontempelli si impegnò a mantenere Apostolo, un cipriota che aveva la carica di aguzino sulla galera di Alvise Bragadin, "libero da ogni molestia, danno, spese et interesse che per qualunque via et modo detto missier Apostoli patisse o in alcun modo fosse per patir per occasion di lassar d'i ferri misier Polidoro, fiol de misier Adrian dal Sale, di Gazani, Riviera di Salò, in modo che, in evento che detto misier Polidoro scampasse" (9), ecc.
L'atto non dice se Apostolo fu pagato per l'evasione di Polidoro, ma è silenzio irrilevante. L'episodio ci restituisce una importante caratteristica del mondo notarile veneziano: un costume di riservatezza catafratta, di cui è ben leggibile la matrice mercantile. In una memoria presentata dal collegio dei notai nell'estate del 1599 leggiamo che notaio "altro non vuol dire che huomo il quale tenga secreto et riservato in sé li contratti et negotii de gli huomini, sicome il scrigno tiene chiuso et serrato il danaro posto in esso" e senza segretezza "si può dire il notaio corpo senz'anima et materia senza forma" (10). I protocolli dei notai insomma sono altro e di più che una sequela alloppiante di compravendite e procure. Ma si tratta di una ricchezza che non si lascia maneggiare facilmente.
Mettiamo di trovare un atto di compagnia da cui risulti l'impianto nella giurisdizione friulana della Meduna di una fabbrica per la produzione di ceneri per le vetrerie veneziane, oppure la fideiussione offerta da una vedova di Udine a garanzia del lino affidatole da un mercante di Venezia; che ci capiti tramite l'inventario di una bottega di fare esperienza di quanto numerosi fossero i tipi di aghi in commercio. Ognuno di questi atti rinvia certamente a questioni degne quali i rapporti economici tra Venezia e Terraferma, la struttura del mercato interno, ma è difficile andare lontano per questa strada poiché quella varietà così prodiga di suggestioni si rivela un rosario di notizie curiose.
Allo scopo di risolvere questa difficoltà negli ultimi decenni alcuni studiosi hanno analizzato l'attività dei notai secondo criteri quantitativi. Il procedimento consiste nel suddividere gli atti secondo alcuni tipi generali e nel contarli. La domanda per cui si cercava una risposta era: qual è il principale settore di attività? Jean-Paul Poisson, che di questo indirizzo di studi è stato promotore e capofila, fondandosi sull'esame di centinaia di studi attivi in Francia in luoghi e tempi diversi ha concluso che il nucleo era il credito (11). Da noi Poisson non ha trovato seguaci. Ad ogni modo la sua idea sembra sostanzialmente giusta a chiunque abbia pratica di protocolli notarili. La questione ha implicazioni storiografiche. Gli studi dedicati alle classi dirigenti prima dell'industrializzazione segnalano l'importanza del credito concesso a privati nella composizione del reddito. Ciò risulta vero anche per Venezia nella seconda metà del '500. Per dirla con un osservatore veneziano "di capitali poi de dennari contati, sebene è difficil cosa il saperlo, pure, da quel che si vede e che d'altri se n'ha notizia, vi sono molti danari" (12). Fare delle stime era difficile allora e resta difficile.
Il principale strumento giuridico per mezzo del quale a Venezia si praticava il credito privato - stiamo parlando di somme cospicue, non delle piccole anticipazioni al consumo era - il contratto di livello, il cosiddetto livello francabile (13). Lo descrivo per come appare normalmente in un protocollo. Innanzi tutto troviamo una compravendita, e sarà una casa, un pezzo di terra, o quant'altro si possa vendere. Fatta la compravendita il compratore concede al venditore il godimento del bene appena venduto in cambio di un canone annuo, il livello appunto. Nell'atto si specificano parecchie altre cose: la più importante era che il venditore aveva facoltà di recuperare la proprietà del bene ceduto restituendo il denaro. Nella sostanza il prezzo di vendita è il capitale. Il livello annuo rappresenta l'interesse.
La differenza più rilevante tra il livello ed il ben più noto censo consegnativo sta nel fatto che nel livello il prestatore aveva facoltà di determinare la durata del prestito. Questa differenza non bastava a fare del livello un contratto illecito, anche se non mancarono, nel Cinquecento come in seguito, canonisti che sostennero questa opinione.
Chi voglia farsi un'idea delle dimensioni del credito privato a Venezia deve passare per i notai. È vero che nelle condizioni di decima, le denunce dei redditi dei Veneziani, capita sovente di imbattersi in livelli attivi, ma è vero anche che i contribuenti si regolavano in maniera discrezionale.
Ma come districarsi con sessantasei notai? Certo si possono guardare tutti, anno dopo anno, ma non basta una vita, per tacere del gusto. Si dirà che bisogna procedere per campione, scegliere alcuni notai e lavorare su quelli. Il principale assunto contenuto in questo consiglio è che tra i notai esistessero sì differenze nella riuscita professionale, nel volume del giro di affari, ma non una specializzazione vera e propria. Un secondo assunto è che i notai si limitassero alla fornitura di servizi legali senza esercitare funzioni di intermediazione finanziaria. Può anche essere che nei centri minori le cose stessero così. A Venezia è diverso. Da una ricerca condotta sugli atti di livello rogati nel 1591 risulta che quasi il 18% dei capitali censiti esce dai protocolli di Gerolamo Luran.
Luran, Giovanni Andrea Catti, Marco Antonio Figolin, Pietro Partenio e Marin Renio rogarono più degli altri trentaquattro notai considerati (51,8 % della somma censita). Se procedere per campione significa scegliere a caso, si tratta di una falsa scorciatoia. La specializzazione del notaio, a guardar bene, mi pare che derivi in primo luogo dall'appartenenza ad uno specifico ambiente, dall'essere egli integrato in una rete di relazioni determinata. Mi spiego con un esempio. I mercanti di origine bergamasca sono numerosi, e numerosi tra essi i merciai. In un notaio come Francesco Alcaini la significativa presenza di merciai credo dipenda dalla sua origine bergamasca almeno quanto da una scelta razionale di specializzarsi nel settore mercantile; tanto è vero che tra i suoi clienti si incontrano anche parecchi facchini.
Mi rendo conto che sottolineare l'influenza dell'ambiente rispetto all'orientamento professionale volontario può apparire cavilloso: è più che probabile che a qualche punto della carriera un notaio con una larga esperienza in contratti assicurativi o in livelli finisse coll'essere preferito da operatori esterni al suo ambiente di origine (14). Così come è possibile, se esaminiamo la cosa dal punto di vista dei clienti, che uomini con una rete di affari articolata, quindi in contatto con ambienti diversi, fossero nella necessità di servirsi di più notai. Ciò nonostante ammettere che ogni ambiente esprima i suoi notai implica sul piano del metodo che la scelta casuale, oltre a non fornire dati validi sulle dimensioni del fenomeno, non consenta nemmeno analisi sociali attendibili. Nella seconda metà del '500 e nella prima metà del '600 parecchie congregazioni religiose regolari risultano attive sul mercato veneziano dei capitali. Si approvvigionavano di denaro a Venezia tramite i loro monasteri lagunari o veneti perché a Venezia il denaro costava meno che in molte altre piazze italiane. Esse ottenevano tassi del 4,5 %, 5%, più bassi quindi di quel 6% che costituiva l'uso nei contratti di livello, poiché erano in grado di offrire ai risparmiatori due cose che ai risparmiatori di allora premevano molto: sicurezza e durata. Le congregazioni avevano dei loro notai di fiducia. I Cassinesi utilizzavano Marin Renio. I canonici lateranensi del monastero della Carità nel primo '600 si servivano di Fabrizio Beazian. Un campione che non comprenda questi notai non è in grado di registrare la presenza delle congregazioni nel mercato, ovverosia manca di dar conto di un segmento della domanda notevole sia per la sua entità che per la sua organizzazione, visto che si trattava all'incirca di uno sportello aperto in permanenza. Tra il 1599 ed il 1605, un giro d'anni cruciale nella storia dei rapporti tra la Repubblica veneta e la Chiesa romana, i Cassinesi raccolsero 132.743 ducati.
Nel 1591 a Venezia si fecero livelli per almeno 280.000 ducati. Non sono rimaste le carte di tutti i notai e quindi non si può dire altro se non che si tratta di una soglia minima. Si tratta tuttavia di una bella somma. Più dei due terzi risultano essere stati pagati in contanti o tramite accrediti in banco o in qualche altra cassa pubblica. Questo dato testimonia che attraverso i livelli passava denaro fresco.
L'84,7 % della somma censita fu concessa ad un tasso annuo del 6%. Per il 2,1% si registrano tassi superiori al 6%. Il resto andò a tassi compresi tra il 4 ed il 5,5%. Ad una sommaria analisi sociale risultano almeno tre fatti significativi:
- 1) i patrizi veneziani non monopolizzano né l'offerta né la domanda. Quanto alla domanda essi rappresentano meno del 40%. Per l'offerta la quota patrizia è prossima al 50%;
2) quasi il 15 % del denaro dato a prestito proviene da vedove;
- 3) diversamente da quel che risulta per altre città italiane l'offerta da parte di monasteri e conventi è trascurabile (1,7%).
Bartolomeo Bontempelli nacque a Lavenone in Valsabbia attorno al 1538 (15). Venne a Venezia molto giovane, non sappiamo esattamente quando, e si impiegò in una bottega di marzer. Un marzer trattava panni, d'ogni tipo e lavorazione, filati, manufatti come veli, fazzoletti, cuffie, cordelle, passamaneria, bottoni, ventagli. Li trattava al dettaglio ed all'ingrosso. La sua zona operativa poteva stringere quattro calli come andare dall'India all'Inghilterra. Talora organizzava la produzione delle merci che commerciava. Di Bartolomeo e di suo fratello Grazioso è stato scritto che "inventarono gli drappi a opera" e che erano "professori di primaria eccellenza" (16).
Parecchi marzeri erano molto ricchi; ne veniva che si offrissero loro opportunità di investimento in settori diversi dal tessile. Bartolomeo si occupò di granaglie, gioielli, ferro, debito pubblico, credito a privati, mercurio e quant'altro. Tra il 1594 ed il 1606 ebbe il monopolio dell'estrazione del mercurio dalle miniere dell'Idria.
La sua vicenda di uomo fattosi da solo è apparsa esemplare ai più recenti studiosi dell'economia veneziana tardo cinquecentesca, e significativa di "quali possibilità poteva ancora offrire l'esercizio della mercatura a Venezia sullo scorcio del Cinquecento" (17).
Negli ultimi anni della sua vita il Bontempelli rese parecchi servizi alla Repubblica. Per conto del senato effettuò pagamenti per le milizie di stanza a Candia ed a Corfù (18). Nel 16o6, durante la crisi dell'interdetto, come "svisceratissimo suddito", si offrì di pagare 10.000 ducati "ogni qualvolta si venisse alle armi con sua Santità" (19). Sempre nel 1606 lo troviamo fideiussore di un frate arrestato a Bologna dall'Inquisizione con l'accusa di aver rivelato al consiglio dei dieci il contenuto di alcune lettere inviate segretamente da Roma (20). L'ambasciatore inglese a Venezia nel 1614 si sentì proporre da Bartolomeo il rinnovo gratuito di tutta quanta la mobilia dell'ambasciata, stoviglie e tappezzerie comprese. A Dudley Carleton l'offerta parve più che inconsueta "and I must believe [scrisse ad un suo amico> he hath some such public respect in that he is a man with whom I never yet exchanged a word" (21). Prestò parecchie decine di migliaia di ducati al duca di Mantova (22). Nel 1616 una sua lettera di cambio per 50.000 ducati venne pagata al duca di Savoia (23).
Di Bartolomeo non ci sono rimaste carte private, non lettere, non registri. Egli appartiene a quella schiera di personaggi della Venezia cinquecentesca la cui importanza effettiva è offuscata da una documentazione troppo frammentaria anche se niente affatto scarsa. Vale la pena di cercarli nei notai (24).
Bartolomeo morì l'otto novembre 1616 ad una età prossima agli ottant'anni. Il proposito di seguire la sua attività attraverso i documenti notarili deve fare i conti con tanta longevità. Anche ammettendo che egli, da uomo metodico, tendesse ad avere col notaio rapporti di una confidenza tale che uno ed uno solo fosse il notaio che poteva veramente dirsi suo, nei cinquant'anni e più che durò attivo dovettero succedersi in questo ruolo privilegiato più notai (25). A raccogliere il suo testamento fu Fabrizio Beazian. La circostanza risolve il problema di chi fosse il notaio di fiducia dei Bontempelli negli anni ultimi. Si tratta di compiere una marcia a ritroso. Per il periodo compreso tra il 1582 ed il 1603 il notaio essenziale è Francesco Alcaini (26). Tra il 1573 ed il 1578 l'attività di Bartolomeo risulta largamente documentata nei protocolli di Pier Giovanni Mamoli (27). Qui la catena si interrompe. Per il periodo anteriore al 1573 so poco o niente. Le carte di Carlo Bianco, che v'è qualche ragione per credere sia stato il suo notaio nei suoi primi anni di residenza a Venezia, sono lacunose (28). La documentazione non è distribuita in modo uniforme attraverso i decenni. Gli anni che Bartolomeo passò da garzone di bottega sono destinati comunque a lasciare tracce rade. Infine il fatto che Bartolomeo avesse un notaio di fiducia non significa che non si valesse dei servizi di altri: una presenza sporadica non è lo stesso che affari marginali. Sovente è vero il contrario.
Offro qui alcune notizie relative a due aspetti poco noti della vita di Bartolomeo, gli esordi ed i rapporti che tenne con Lavenone.
Nel 1568 il notaio Carlo Bianco registrò l'accordo intervenuto tra Bartolomeo e sua moglie Marietta da una parte e Gioacchino, Salvatore ed Anna Rubbi dall'altra (29). I Rubbi erano fratelli, figli di Marietta Zappa e di Giacomo q. Bernardo Rubbi, un bergamasco originario della Val Brembana che aveva bottega di merceria a San Salvador, all'insegna del Calice. Giacomo Rubbi morì nel 1557. Marietta si risposò con Bartolomeo Bontempelli. Non so quando, ma certamente prima del 1565. Dall'accordo del 1568 si ricava che:
- 1) Bartolomeo aveva cominciato a lavorare nella bottega del Calice alle dipendenze di Giacomo. Si può presumere che si trattasse del suo primo impiego a Venezia. Nel 1557, alla morte di Giacomo, egli infatti non aveva ancora vent'anni.
- 2) Dopo la morte di Giacomo egli aveva continuato ad occuparsi della bottega del Calice.
- 3) Al tempo stesso egli aveva messo in piedi una sua propria bottega di merceria cui aveva dato il nome di "Alla Luna".
- 4) Marietta doveva essere parecchio più anziana di lui, sicché egli si trovò nella scomoda situazione di essere patrigno di coetanei.
Con l'accordo del 1568 Gioacchino, Salvatore ed Anna Rubbi, tre dei quattro figli di Giacomo e Marietta, entrano in possesso dell'eredità paterna ponendo termine all'amministrazione fattane dalla madre in qualità di commissaria. Veneranda, la maggiore, si era sposata nel 1565 con una dote di 3.000 ducati che rappresentava la sua quota di eredità. Questo è il motivo per cui Veneranda non compare nell'accordo del 1568.
Nel febbraio del 1569, a pochi mesi dalla divisione, Gioacchino e Salvatore Rubbi costituirono una compagnia con Bartolomeo, da soci questa volta. Le quote di capitale non erano paritarie. Bartolomeo mise 7.000 ducati contro i 12.000 dei Rubbi. Questo atto ci fa capire il senso autentico della richiesta di divisione avanzata dai fratelli Rubbi nel 1568. Essi desideravano fosse determinata la loro parte, non rompere con Bartolomeo; meno ancora estrometterlo dalla gestione del loro patrimonio. I 12.000 ducati che essi conferivano nella compagnia infatti erano tutto quel che possedevano, senza residui; vi erano perfino compresi i 3.000 ducati della dote di Anna, la sorella minore.
La compagnia sarebbe dovuta durare sette anni. Continuò fino al 1577, anno in cui tra i Rubbi e Bartolomeo esplose una crisi, passeggera ma aspra.
Il 24 maggio del 1577 vennero nuovamente divise le due botteghe: il Calice ai Rubbi, la Luna a Bontempelli (30). Quanto al capitale, ai Rubbi andarono i 12.000 ducati che avevano conferito nel 1568. In essi non erano inclusi i 6.000 ducati versati ad Anna in conto di dote. Altri 9.000 ducati li ebbero in tanti titoli del debito pubblico acquistati da Bartolomeo per loro conto tra l'aprile del 1573 ed il giugno del 1575. Nei sette anni compresi tra il 1569 ed il 1575 (data che scelgo sulla base dell'ultimo acquisto di titoli del debito pubblico) il capitale dei Rubbi, compresa la dote di Anna, passò da 12.000 a 27.000 ducati: con un incremento del 125%. Il rendimento effettivo fu superiore poiché dal conto restano fuori i beni immobili acquistati da Bartolomeo a nome dei figliastri, vale a dire 150 campi tra Bibano, Feletto e Codognè, ed il palazzo di Conegliano. Una gestione brillantissima. Anna aveva avuto una dote doppia rispetto a quella della sorella (31).
Gioacchino Rubbi temeva, a parte ogni altra considerazione che venga in mente di fare, che la bottega del Calice fosse fagocitata da Bartolomeo. Nel luglio del 1577, a due mesi dalla divisione della società, Gioacchino e Bartolomeo giunsero ad un accordo i cui termini sono quanto mai rivelatori dello stato d'animo di Gioacchino. Per quanto formulato come assicurazione reciproca, l'impegno a non "incalciare in alcun tempo le botteghe che hora cadauna di esse parti possiede quietamente" non lascia incertezze su chi si sentisse minacciato. Nell'eventualità che i proprietari dei muri della bottega del Calice decidessero di vendere, Bartolomeo si impegnava a riconoscere ai fratelli Rubbi il diritto di prelazione. Non solo. Quando i Rubbi non fossero in condizione di esercitarlo, e ammesso che la proprietà finisse in mano sua, Bartolomeo si impegnava a lasciare i Rubbi affittuali per lo stesso canone. Soprattutto Bartolomeo non doveva far cadere la sua ombra sulla bottega del Calice, doveva proprio starne lontano: "non possa né per sé né per conto di compagnia con altri, né sotto altro pretesto tuor ad affitto alcuna delle tre botteghe che sono per mezzo della detta del Calice [...> et meno le due botteghe che sono dalli lati della detta del Calice" (32).
Quest'ultima condizione fa intendere come già attorno al 1577 insegna del Calice e Bartolomeo fossero tutt'uno nell'ambiente mercantile. Nell'ottobre del 1577 i Rubbi fecero istanza presso i conservatori alle leggi perché fosse vietato a Bartolomeo di "usar il nome del Calese né in partide de bancho né in lettere de aviso né in alcuna scrittura o pubblica o privata" (33).
Sui motivi che tra il 24 maggio ed il 12 luglio del 1577 possano aver portato alla rottura si possono avanzare solo congetture, per esempio che Marietta fosse morta. Ad ogni modo il dissidio coinvolge i più stretti collaboratori di Bartolomeo. Il braccio destro di Bartolomeo, Gerolamo Gritti da Scutari, scelse di stare con i Rubbi. Bartolomeo gli revocò la procura generale concessagli qualche anno prima (34).
Nel novembre del 1577 l'acme è passata; i Rubbi si risolsero a seguire la via maestra nelle controversie mercantili, quella del compromesso amichevole alla veneziana; tutto venne affidato al giudizio di due persone di fiducia; per Bartolomeo il patrizio veneto Alvise Giustinian q. Bernardo, per i fratelli Rubbi Francesco Ferro q. Martino. Essi richiesero i libri contabili ed i bilanci. Nell'aprile del 1578 infine ci si rimise al giudizio definitivo di un mercante bergamasco, anche lui merciaio, Battista Rubbi (35). La sua bottega delle Tre Montagne era una di quelle tra la Luna ed il Calice. La mediazione ebbe buon fine. L'8 luglio del 1578 Bartolomeo, Gioacchino e Salvatore contraggono "buona e leal compagnia", segno che i fratelli Rubbi se non altro avevano cambiato parere relativamente al fatto di essere stati truffati per "molti migliara di ducati".
La compagnia costituita nel luglio del 1578 prevedeva il conferimento delle due botteghe e di 12.000 ducati di capitale (36). Ma si trattò di qualcosa di più profondo di un accordo economico. Salvatore di lì a poco lascerà Venezia per Conegliano dove si dedicherà agli interessi fondiari della famiglia, anche se per poco. Morì nel 1582. Gioacchino gli subentrò. Conegliano sarebbe diventata anche per lui il centro dell'attività, ed il palazzo nella contrada di Sant'Antonio, acquistato dal mercante tedesco Alessandro Paradaiser, la sua residenza. Il testamento che egli dettò nell'imminenza della morte nell'agosto del 1587 ci rende il ritratto di un uomo in pace piena con la sua vita. "Noté" disse al notaio, "ch'io lasso et constituisco in mio pié il spectabile meser Bortholamio dal Calese, mio paregno, fino ch'el viverà; al quale meser Bortholamio non voglio ch'alcuno gli possa domandar conto o administratione delli nostri negotii né di altre nostre facende insomma in conto alcuno". A Bartolomeo di far parte tra gli eredi, se crederà, altrimenti che "alcuno non lo possa sforzar". Lo stesso per tutto quanto il resto, piena confidenza "nel petto del preditto messer Bortholamio Callese", compreso il necessario alla salute dell'anima (37). Era allo stremo; parlare gli sarà costato pena e di qui la rescissione del disposto; fatta questa riserva quella carta trasmette un sentimento di abbandono, chissà se filiale o fraterno, talmente assoluto da far dubitare che la causa vera della controversia del 1577 con Bartolomeo fossero conti che non tornavano.
Ma torniamo a chiedere ai nostri atti notarili quel che possono dire. Bartolomeo rimasto vedovo non stette molto che si risposò con un'altra Marietta, anche lei vedova di un merciaio bergamasco originario di Almenno, quel Battista q. Guglielmo Rubbi con bottega alle Tre Montagne che era stato arbitro nella controversia con Gioacchino e Salvatore. Anche qui manca la data precisa. Battista Rubbi fece testamento il 26 dicembre 1580 (38). Morì poco dopo. Alla fine di febbraio del 1581 l'inventario dei suoi beni era completato e gli eredi si divisero l'eredità di 34.000 ducati. A Marietta andarono 7.000 ducati, il resto fu diviso tra i due figli, Cristoforo e Giovanni Antonio. Cristoforo continuò nell'attività paterna (39). Il primo documento a me noto in cui Marietta compare come moglie di Bartolomeo è del luglio 1583 (40).
Per il tramite degli inventari dei beni di Giacomo Rubbi prima e di Battista poi, possiamo farci un'idea degli interni di casa e di bottega, proprii di quel ceto di mercanti immigrati a cui Bartolomeo aspirò negli anni della giovinezza e della prima maturità (41). Cominciamo dalle botteghe.
Le merci erano costituite da stoffe di lana, di seta, di cotone, di lino; da filati e da prodotti finiti come cuffie, calze, grembiuli, federe, coperte, passamanerie e bottoni. Si tratta di un elenco sbrigativo che fa torto allo straordinario assortimento di lavorazioni, di colori, di luoghi di provenienza. L'attrezzatura consisteva innanzitutto di banchi e scansie. Alle Tre Montagne, i banchi erano tre, uno grande e due piccoli.
Tre anche gli sgabelli, due di abete ed uno di noce. I ferri del mestiere propriamente detti erano le forbici: da Battista ne contarono tre, poi un martello ed una tenaglia. C'erano risme di carta e rotoli di spago per i pacchi, bilance per pesare il denaro ed una tavola per contarlo. Questo per le vendite al minuto. Poi i libri contabili, tenuti a partita doppia. In entrambe le botteghe, appeso al muro, c'era un quadro raffigurante la madonna. Solo i pegni di minor valore come oggetti di peltro, vestiti usati, erano conservati da basso. I preziosi venivano portati di sopra per esser chiusi a chiave in qualche cassa.
Le stanze di casa fungevano anche da deposito per le merci. Giacomo Rubbi in camera sua ne aveva pieni un armadio e due casse; un altro cassone colmo stava nel portico.
In bottega di Battista furono descritti un materasso, un cuscino, due lenzuola e una coperta, probabilmente lì per comodo del giovane di bottega, mezzo opera buona e mezzo rimedio contro i ladri. Vien da chiedersi se la prima sistemazione di Bartolomeo a Venezia, appena arrivato da Lavenone, non sia stata suppergiù come questa.
Le case dei Rubbi non paiono grandi. Costituivano nondimeno un discreto capitale. Lo spazio nel cuore commerciale della città era costoso. All'interno dei 26.993 ducati della facultà netta lasciata da Battista Rubbi, casa e bottega con i loro 6.000 ducati di stima rappresentavano il 22,5%. Seimila ducati erano una bella somma, ma a vedere bene la casa si riduceva a quattro camere vere e proprie e ad una cucina, servita da una cameretta in cui si faceva il pane. C'erano poi un magazzino, due porteghetti, ed una soffitta. In entrambi gli inventari troviamo dei quadri. Giacomo oltre ad una madonna aveva tre scene della vita di Cristo, un presepio, una domenica delle palme, un'ultima cena. Battista oltre ad alcuni quadri di soggetto religioso possedeva un suo ritratto, fatto che ci dice di un buon sentimento di sé, non raro nei ceti in ascesa.
Anche Bartolomeo da vecchio si fece ritrarre con suo fratello Grazioso. Ritratti alle pareti, ma merci dappertutto, negli armadi, nei corridoi: il tono di queste famiglie si riassume in questa combinazione genuinamente borghese. Rame per pignatte e secchi dell'acqua. La posateria era di peltro. Vi son forchette e saliere d'argento ma han più l'aria di pegni che non d'oggetti d'uso quotidiano. Alle donne di casa tuttavia non mancavano i gioielli. La seconda Marietta oltre ad anelli, collane di granati, un filo di 47 perle, ed alcune pietre preziose aveva "uno diamante in tavola ligado in oro alla francese".
Come abbiamo visto dal notaio si va per costituire società o per scioglierle; questo significa che in merito all'attività mercantile il notaio ci dà informazioni sui progetti o sulle crisi. La gestione ordinaria appare in lontananza, riducendosi ad una lista di corrispondenti e di procuratori.
I notai non suppliscono all'assenza dei libri contabili. L'atto più comune è la procura. Dalla sua bottega di San Salvador, sull'angolo della calle degli stagneri, a pochi metri dalla chiesa, Bartolomeo dirigeva una azienda con interessi sparsi ovunque. Non so di viaggi che facesse se non in Riviera di Salò e a Conegliano. Buona parte della sua vita la spese tra la sua bottega e Rialto, spazi angusti per quanto cosmopoliti. Si servì di numerosi procuratori. Si possono suddividere secondo le funzioni. Un primo gruppo consta di pochissime persone, una o due al massimo per ognuna delle fasi della sua vita. Troviamo in un primo tempo Gerolamo Gritti da Scutari, poi Alvise de Mezzi, infine Bartolomeo Fava e Melchiorre Antonioli.
A Venezia sbrigavano il necessario nei vari uffici governativi e presso i banchi; lo sostituivano nei periodi di assenza. Se talora viaggiavano era sempre per cose importanti, come accordarsi per il monopolio del mercurio con l'arciduca d'Austria. Erano dei dipendenti ma sappiamo che avevano anche affari in proprio. Fava ed Antonioli venivano dalla Riviera di Salò, all'incirca dei compaesani. I loro rapporti con Bartolomeo erano strettissimi, quasi familiari. Dallo stato d'anime della parrocchia di San Salvador del 1594 risulta che Bartolomeo Fava, presumibilmente rimasto vedovo, viveva in casa del Bontempelli (42). Fu il Bontempelli a pattuire con Lorenzo Contarini e Carlo Hellmann il salario spettante a Giacomo Fava, figlio di Bartolomeo, "per il suo andar nelle Indie" (43). Melchiorre Antonioli viveva per conto suo, ma stavano porta a porta. Almeno fino al 1591 fece parte di questo gruppo anche il minore dei tre fratelli, Grazioso, formalmente socio alla pari.
Ben distinti da questi vi sono poi numerosi procuratori incaricati di affari specifici. Gli atti di conferimento dell'incarico ci consentono di tracciare una geografia approssimativa della rete di interessi di Bartolomeo. Entro i confini della Repubblica i luoghi per i quali si hanno più procure sono la Riviera di Salò e Vicenza. Seguono Conegliano e Belluno, poi Udine, Bergamo, Crema. Fuori dei confini sono i quattro angoli del mondo, dall'Egitto ad Anversa, da Napoli a Costantinopoli. Il nucleo più consistente riguarda tuttavia zone prossime, Mantova in primo luogo, e naturalmente Graz, stante l'appalto delle miniere di mercurio dell'Idria che Bartolomeo tenne dal 1594 al 16o6(44). In gran parte le procure riguardano la riscossione di crediti (tanto che potrebbe trattarsi di una geografia dei contenziosi più che degli affari).
Vi è infine un altro mazzetto di procure con le quali Bartolomeo delegava persone al fonte battesimale. Tutte le richieste di padrinato gli vennero da nobili: due coneglianesi, un mantovano, un vicentino; quest'ultimo un conte Francesco Franceschini, marito di Ippolita Collalto, a riprova che avere Bontempelli per compare non era distinzione di cui si lusingassero solo oscuri patrizi di provincia (45).
Nel catastico bresciano di Giovanni da Lezze, redatto nel 1610, Lavenone ci viene descritto come un borgo di 800 abitanti, con un forno da ferro e sei fucine. I terreni arativi assommavano complessivamente a poco più di sessanta ettari (200 "piò"). V'erano inoltre circa 500 ettari di bosco. Questi dati fanno intendere come l'emigrazione maschile fosse obbligatoria o, come si dice, una caratteristica strutturale di quell'economia. Si trattava per la massima parte di una emigrazione specializzata: "la maggior parte di questi huomini sono buoni maistri de lavorar ferri. Vanno continuamente fuori a lavorar nelle fucine, parte in terra todesca, in Schiavonia, in l'Abrucio, Romagna, Fiorenza, Parma et altri luoghi, perché non hanno trattenimento sul stato, et a casa non vi restano se non le donne" (46).
Tra i numerosi mandati che Grazioso Bontempelli affidò ai suoi esecutori testamentari ce n'è uno relativo a 10.000 ducati fatto "per esseguire anco in parte la intentione et volontà del q. signor Bortolamio mio fratello". Dei denari provenienti dalla messa a frutto di quella somma egli voleva che 300 ducati "s'intendino in perpetuo applicati [...> per insegnar alli figliuoli della terra di Lavinon di Valsabia la dottrina christiana, leger, scriver, abbaco et gramatica" (47). Gli insegnanti avrebbero dovuto essere un sacerdote ed un notaio. Nell'elenco del da Lezze manca Venezia, omessa forse per riguardo all'ovvio. I notai veneziani danno conto di una colonia lavenonese ben folta, attiva in molteplici settori della vita economica cittadina. C'è di tutto, dal barbiere ai grandi mercanti. Il Gerolamo Bontempelli morto nel giugno del 1606 "in Balsarà, in paese turchesco", dove si era recato per commerciare, non era parente stretto di Bartolomeo, ma era come lui di Lavenone (48) A queste diverse presenze corrispondono anche atteggiamenti diversi nei confronti del paese d'origine: per alcuni la casa e i campetti della valle erano il perno dell'esistenza; la lontananza soggettivamente sempre temporanea, anche se capace di durare decenni; regolari i ritorni per sposarsi e far figlioli (49). La scelta di Bartolomeo fu diversa fin dalla sua prima maturità: già nel 1573 per mezzo di un prestito aveva ottenuto dai frati di San Salvador "l'arca posta nel mezo del primo tondo ove si ascende all'altar grande della chiesa di San Salvator", arca in cui "egli possa far sepelire le ossa delli suoi antenati, il corpo suo et delli suoi heredi et successori, et poner la sua arma, innscrittione et titoli" (50). Nel 1579 ottiene la cittadinanza veneziana e perfeziona l'accordo con i frati per la sepoltura (51).
Tuttavia non si deve credere che il paese natale per Bartolomeo, fattosi adulto, ricco e cittadino veneziano, si fosse ridotto ad una riserva di memorie infantili. Non c'è spazio qui per seguire minutamente i suoi interessi in valle; senza dire che i notai veneziani non sono la fonte più adatta per ricostruirli. Bartolomeo in Valsabbia aveva dei procuratori. Sappiamo di numerose operazioni di piccolo credito, di compravendite di terreni effettuate valendosi di notai di Lavenone e della Riviera. Quel che ci dicono i notai veneziani è che la bottega del Calice fu un punto di riferimento per i lavenonesi in emigrazione. Bartolomeo, trattandosi di compaesani, si occupava di persona anche di pagamenti di poche lire, oppure di combinare matrimoni. Più d'una delle ragazze che gli servirono in casa andò in moglie a bravi giovani di Valsabbia. Per un certo periodo le ragazze vennero da Zoldo e dalla Val Fiorentina. Gliele procurava suo fratello Giovanni Antonio, trasferitosi a Forno di Zoldo negli anni '60, probabilmente per commerciare nel settore del ferro. Giovanni Antonio morì in Zoldo nel 1586. Ebbe una figliola di nome Bonetta che sposò il patrizio bellunese Ludovico Butta, dando origine al ramo bellunese dei Bontempelli, i Butta-Calice, in cui confluiranno nel 1627 le ricchezze di Bartolomeo e di Grazioso (52).
Tornando a Lavenone sappiamo che Bartolomeo seguiva con attenzione le vicende paesane, era riconosciuto come persona considerevole, e svolgeva sia pure da lontano funzioni proprie di un notabile. Il 10 ottobre del 1586 la merceria del Calice era piena di valsabbini, convenuti lì per sottoscrivere un atto di pace che mettesse fine in nome della santissima Trinità alla "lunga inimicizia" tra le famiglie Roberti e Pedrali ed i loro aderenti. Bartolomeo si era adoperato non soltanto con "le molte essortationi" ma anche col farsi garante per mille ducati del sincero proponimento dei Roberti (53).
Nel ritratto dei due fratelli dipinto da Sante Peranda Grazioso appare in secondo piano, quasi al margine. Si nota una forte differenza d'età. Grazioso ha capelli lisci, pettinati all'indietro, neri: Bartolomeo è canuto. Bartolomeo rende uno sguardo di tensione contratta. La luce cade da sinistra. Grazioso è letteralmente nell'ombra del fratello. È tutta l'impostazione grafica, per non dire della diversa intensità dello sguardo, a segnalare la condizione subordinata di Grazioso. "Essendo io Gratioso Bontempelli sempre stato dominato dalla molta autorità di messer Bortholomio non ho mai potuto esercitar quele ragioni che nelle facoltà insieme acquistate [...> mi competiscono". Sono parole dettate al notaio Gerolamo Luran nel 1591. Grazioso, sposatosi ormai da due anni, intende metter su casa per suo conto "dovendomi partir, per convenienti rispetti, di casa dove fin hora son stato per andar con mia moglie" (54). Vuole dodicimila ducati, una somma che par di capire egli considerasse la sua parte. Ha già alle viste una casa nella parrocchia di Santa Maria Mater Domini, la casa in cui avrebbe abitato fino alla morte. La moglie si chiamava Anna. Anche Anna era vedova di un merciaio, Andrusiano Andrusiani (55). Non è altri che Anna Rubbi, la figlia di Giacomo e Marietta, la sorella di Gioacchino, l'Anna a cui erano stati dati 6.000 ducati di dote, la già figliastra di Bartolomeo. Grazioso l'aveva sposata nel 1589 obbedendo alla volontà del fratello. "È un matrimonio che lui, mio fratello me ha fatto far". Anna era una dei tre eredi designati da Gioacchino nel suo testamento del 1587. Morto Salvatore, morto Gioacchino, liquidata Veneranda, una fetta cospicua del patrimonio di Giacomo Rubbi che Bartolomeo aveva amministrato in gioventù si saldava di nuovo a quello dei Bontempelli. I moderni storici chiamano questi incastri di esistenze strategie, consegnandoli, stanti gli incontestabili effetti patrimoniali conseguenti, alla luce meridiana del calcolo razionale. Quanto di ossessivo vi fosse alla radice della messa in atto di quelle architetture non lascia tracce che non siano le folate di ribellione che abbiamo visto in Gioacchino ed in Grazioso.
"Et statte sopra il tutto allegro, che me vi racomando". Sono parole di una lettera che Domenico Gritti scrive a Bartolomeo, a Brescia per affari (56). Quel raccomandargli di stare allegro da parte del suo più stretto collaboratore, magari è una formula convenzionale, senza che sia affatto necessario immaginare un Bartolomeo perseguitato da una coazione al calcolo, incapace di requie, padre di tutto e di tutti. Nel suo testamento, redatto nel 1625, Grazioso ripete di continuo che le sue disposizioni adempiono l'"intentione et volontà del q. Bortholamio mio fratello", come se solo questo radicale abbandono potesse rassicurarlo della legittimità del suo disporre. Anche per lui, come era stato per Gioacchino quarant'anni prima, l'avere col tempo imparato a conformarsi al giudizio di Bartolomeo par valere come definitiva scoperta di sé, assoluta. Grazioso, diversamente da Gioacchino, non testava in fin di vita. Morì due anni più tardi, nel 1627.
14. L'esistenza di una forte specializzazione nel senso comune del termine è attestata dalle classiche ricerche di Alberto Tenenti, Naufrages, corsaires et assurances maritimes à Venise, Paris 1959 e di Wilfrid Brulez, Marchands flamands à Venise, I, 1568-1605, II, 1606-1621, Bruxelles-Rome 1965-1986.
15. Si veda Ugo Tucci, Bontempelli, Bartolomeo, in Dizionario Biografico degli Italiani, XII, Roma 1970, pp. 426-427.
16. Giovanni Grevembroch, Gli abiti de' Venetiani di quasi ogni età con diligentia raccolti e dipinti nel secolo XVIII, III, Venezia 1981, s.v. Mercadante.
17. Domenico Sella, in questo stesso volume. La frase citata è in U. Tuggi, Bontempelli.
18. A.S.V., Senato Zecca, reg. 1, cc. 88, 119, 149-150. Su questi aspetti dell'attività del Bontempelli cf. Luciano Pezzolo, L'oro dello stato. Società, finanza e fisco nella Repubblica veneta del secondo '500, Venezia 1990, pp. 151-155.
19. A.S.V., Ospedali e luoghi pii diversi, b. 628, c. ir. Non ho potuto cercare il documento originale causa una norma, vigente oramai da anni in A.S.V., che esclude dalla consultazione in quanto alti, pezzi che effettivamente risultano raggiungibili solo con una scala.
20. Per la vicenda relativa alla fideiussione prestata in favore di frate Vincenzo Durazzo cf. Calendar of State Papers and Manuscripts, Relating to English Affairs, Existing in the Archives and Collections of Venise and in Other Libraries of Northern Italy, X, 1603-1607, a cura di Horatio F. Brown, London 1900, p. 377, nota al documento del 21.7.1606.
21. Dudley Carleton to John Chamberlain 1603-1624. Jacobean Letters, a cura di Maurice Lee, New Brunswick, New Jersey 1971, p. 172.
22. A.S.V., Notarile, Atti, Fabrizio Beazian, b. 600, cc. 256r-257r, 6.3.1617. L'atto riassume la storia dei rapporti tra il duca e Bartolomeo. Il prestito assommò complessivamente a 150.000 ducati.
23. Testo della lettera e chiarimento delle circostanze politico-diplomatiche in Enrico Stumpo, Gli aiuti finanziari di Venezia al duca Carlo Emanuele I di Savoia nella guerra contro la Spagna (1616-1617), "Rassegna degli Archivi di Stato", 34, 1974, p. 432 (pp. 428-461).
24. Lo schema di ricerca ha dato buoni risultati trattandosi di fornire una cronaca delle attività mercantili "in assenza dei libri contabili, distrutti o comunque irreperibili", v. Alberto Tenenti, Luc'Antonio Giunti il Giovane stampatore e mercante, in AA.VV., Studi in onore di Armando Sapori, II, Milano 1957, pp. 1023-1060.
25. A.S.V., Notarile, Testamenti, Fabrizio Beazian, rosso, nr. 163, 10.9.1625.
26. Ibid., Atti, Francesco Alcaini, bb. 24-44.
27. Ibid., P.G. Mamoli, bb. 8277-8304.
28. Ibid., C. Bianco, bb. 2-3.
29. Ibid., b. 2, cc. 344r-350r, 29.11.1568.
30. Ibid., P.G. Mamoli, b. 8298, cc. 235v-250v, 24.5.1577.
31. Non ho trovato l'atto. Esso è citato nell'atto notarile di cui alla n. 30.
32. Ibid., b. 8299, cc. 313r-315r, 12.7.1577.
33. Ibid., cc. 528r-529r, 6.11.1577. La richiesta era stata presentata il 31.10.1577.
34. Ibid., c. 432r, 12.9.1577.
35. Ibid., b. 8300, cc. 169v-170r, 15.4.1578.
36. Ibid., cc. 304r-305v, 8.7.1578. La data d'inizio fu fissata nel primo febbraio del 1578. Mi pare un segno della completa sistemazione delle pendenze.
37. L'attività a Conegliano dei fratelli Rubbi è documentata nei protocolli del notaio Giovanni Andrea dal Tempio, di Conegliano, Treviso, Archivio di Stato, Notarile I Serie, b. 934. Per il testamento cf. il protocollo XI, cc. 41r-42r, 5.8.1587.
38. Il testamento di Battista fu rogato da Antonio Callegarini. Esso è richiamato nell'atto A.S.V., Notarile, Atti, A. Callegarini, b. 3113, cc. 62v-63v, con il quale alla fine di gennaio del 1581 venne dato incarico a Sebastiano Rubbi ed a Gian Pietro Oroboni, entrambi bergamaschi e merciai, di procedere alle divisioni dell'eredità tra i due figli maggiorenni di Battista, Cristoforo e Giovanni Antonio. L'inventario dei beni fu pronto il 6.2.1581, ibid., b. 3113, cc. 81r- 109v. Il 21.2.1581 i fratelli Rubbi liberano la madre Marietta per l'amministrazione da lei fatta in qualità di commissaria del patrimonio di Battista, ibid., b. 3113, cc. 141v-142r.
39. Il 21.3.1581 Cristoforo procede alla nomina di un procuratore che riscuota crediti a lui spettanti nelle Marche, ibid., b. 3113, c. 215r.
40. Ibid., F. Alcaini, b. 25, cc. 41r-42v, 13.7.1583.
41. Per l'inventario dei beni di Battista Rubbi si veda la n. 39. L'inventario dei beni di Giacomo Rubbi è ibid., Carlo Bianco, b. 2, cc. 58r-67r, 11.11.1557.
42. Lo stato d'anime del 1594 conservato in Venezia, Archivio della Curia Patriarcale, Censimenti parrocchiali fine secolo XVI-primi XVII, b. 3, è trascritto in Annalisa Bruni, S. Salvador. Storia demografica di una parrocchia di Venezia tra XVI e XVII secolo, Università di Venezia, Facoltà di lettere e filosofia, a.a. 1983-84, pp. 282-343. Ringrazio la dottoressa Bruni per avermi permesso di attingere dalla sua tesi.
43. A.S.V., Notarile, Atti, P. Partenio, b. 10698, cc. 267r-268v, 11.7.1600. Al Fava sarebbero andati 600 ducati netti all'anno per tre anni, più 150/200 ducati all'anno per le spese di mantenimento. Spese di viaggio a carico dello Hellmann.
44. Ibid., F. Alcaini, b. 41, cc. 92v-93r, 18.4.1601. Procura a Melchiorre Antonioli per trattare con Ferdinando arciduca d'Austria e la Camera Aulica e per riscuotere a suo nome sia denaro che mercurio. Sull'appalto del mercurio si veda Helfried Valentinitsch, Das landfürstliches Quecksilberbergwerk. Idria 1575-1659. Produktion, Technik, rechtliche und soziale Verhaeltnisse, Betriebsbedarf, Quecksilberhandel, Graz 1981, pp. 307-320. Antonioli sarebbe ritornato a Graz come plenipotenziario nel 1604, cf. ibid., p. 313. A p. 308 c'è la riproduzione del sigillo del Bontempelli.
45. A.S.V., Notarile, Atti, F. Alcaini, b. 36, c. 284r, 14.12.1596, per una figlia di Giulio Danese di Conegliano, procuratore Gerolamo Montalbano; b. 40, cc. 232v-233r, 21.11.1600, per Giulio Danesi di Conegliano, procuratore Giovanni Andrea Caronelli; b. 42, c. 2r, 31.12.1601, per Elisabetta Franceschini, procuratore Strozzi Cicogna; b. 42, c. 242r, 14.2.1602, per il figlio di Feliciano Arrigoni, nobile mantovano, procuratore Vincenzo Arrigoni.
46. Il Catastico Bresciano di Giovanni da Lezze (1609-1610), a cura di Carlo Pasero, III, Brescia 1969, pp. 312-313.
47. A.S.V., Notarile, Testamenti, Fabrizio Beazian, rosso, nr. 163, 10.9.1625, testamento di Grazioso Bontempelli.
48. Ivi, Giudici di Petizion, b. 343/8, n. 31, 30.6.1606. Gerolamo Bontempelli era in società con Giovanni Pietro Bagozzi. Numerose notizie sulla loro attività mercantile (erano merciai) e patrimoniale nei protocolli di Francesco Alcaini.
49. Alcune caratteristiche della immigrazione a Venezia dalla montagna lombarda sono analizzate in dettaglio da Glauco Sanga, La colonia in patria. La funzione della cultura tradizionale nella costruzione dell'ideologia premanese, in AA.VV., Premana. Ricerca su una comunità artigiana, Milano 1979, pp. 271-528. I premanesi erano fabbri e calderai.
50. A.S.V., Notarile, Atti, P.G. Mamoli, b. 8300, cc. 295v-297v, 5.7.1578. In allegato il testo dell'accordo del 1573. I frati erano padroni dei muri della bottega della "Luna" e della casa che la serviva. Bartolomeo prestava denaro ai frati.
51. Ivi, Senato Privilegi, b. 3, c. 3ov, 2.4.1579. Registrata la cittadinanza de intus concessa dal senato il 31.3.1579.
52. L'inventario dei beni, denari e scritture di Giovanni Antonio Bontempelli redatto il 29.8.1586 è la principale fonte di informazioni su questo terzo fratello Bontempelli emigrato da Lavenone in Zoldo, cf. ivi, Notarile, Atti, F. Alcaini, b. 24, cc. 105r-122r.
53. Ibid., b. 26, cc. 152v-154r, 19.10.1586.
54. Ibid., Gerolamo Luran, b. 7869, cc. 623v-624r, 18.9.1591.
55. Quella degli Andrusiani era una conosciuta famiglia mercantile, con interessi nel commercio di Levante e indiano, cf. Ugo Tucci, Mercanti veneziani in India alla fine del secolo XVI, in AA.VV., Studi in onore di Armando Sapori, II, Milano 1957, p. 1093 (pp. 1091-1111).
56. A.S.V., Miscellanea Gregolin, b. 12 ter, Gritti a Bartolomeo Bontempelli. La lettera è dei primi anni '70.