varietà
Ogni lingua ha al suo interno differenziazioni collegate con fattori sociali ed extralinguistici ed è articolata in varietà. Le varietà di lingua rappresentano le diverse attualizzazioni, ognuna distinta per alcuni tratti dalle altre, in cui si manifesta concretamente il sistema della lingua nei suoi impieghi presso una comunità. Varietà (di lingua) è quindi un termine generico per designare tutte le forme in cui si realizzano le lingue: lingua standard, ➔ dialetti, parlate locali, registri (➔ registro; ➔ linguaggi settoriali). L’articolazione di una lingua in varietà di diverso genere fu riconosciuta già da importanti autori di fine Ottocento, come H. Paul e W.D. Whitney, e compiutamente teorizzata dalla ➔ sociolinguistica, soprattutto europea, nella seconda metà del XX secolo.
Una varietà di lingua si può definire come un insieme coerente di elementi (forme, strutture, tratti, ecc.) di un sistema linguistico che tendono a presentarsi in concomitanza con determinati caratteri extralinguistici, sociali (Berruto 2004). È quindi sempre un’entità che presuppone una correlazione tra fatti linguistici e fatti non linguistici, e deve essere caratterizzata sulla base di entrambi. Una definizione più tecnica di varietà di lingua è: un insieme solidale di varianti di variabili sociolinguistiche (➔ variazione linguistica).
Una lingua si può quindi considerare, dal punto di vista sociolinguistico, come un insieme di varietà aventi un nucleo comune e una costellazione di elementi e fenomeni particolari che le distinguono l’una dall’altra. Nella lingua italiana, per il suo essersi formata ed essere convissuta per secoli con i dialetti in un ambiente linguistico e culturale fortemente frammentato e diviso, per le note vicende storiche e culturali del nostro paese, e per la storia stessa interna della lingua, l’articolazione e differenziazione in varietà è particolarmente spiccata.
Anche il ➔ repertorio linguistico di una comunità, paese o nazione va generalmente considerato come una somma di varietà di lingua, varietà appartenenti allo stesso o a differenti sistemi linguistici. È questo anche il caso dell’Italia, dove coesistono l’italiano con le sue diverse varietà, i dialetti con le loro varietà, le lingue minoritarie con le loro varietà.
Le varietà di lingua hanno uno status differenziato all’interno della comunità parlante (Ammon 1989; Berruto 1995: 201-227), e una varietà di lingua può fungere da indicatore sociale. Attraverso la varietà che parlano, i membri di una comunità rivelano, e possono affermare, in maniera conscia o inconsapevole, la propria identità socioculturale; e inversamente l’uso di una varietà di lingua fornisce indicazioni sulla collocazione socioculturale del parlante.
Le varietà di lingua vengono classificate sulla base della dimensione di variazione a cui fanno capo o su cui si collocano. Abbiamo quindi quattro classi fondamentali di varietà:
(a) varietà diacroniche, la cui differenziazione si situa lungo l’asse del tempo (per es., l’italiano contemporaneo, l’italiano delle origini, l’italiano del Seicento);
(b) varietà diatopiche o geografiche (➔ variazione diatopica), differenziate in base ai luoghi in cui sono parlate (per es., dialetto di città, dialetto di campagna; ➔ Roma, italiano di; ➔ Milano, italiano di; ➔ italiano regionale);
(c) varietà diastratiche o sociali (➔ variazione diastratica), differenziate in base all’appartenenza dei parlanti a diversi strati, fasce e gruppi sociali (per es., lingua dei ceti colti, lingua dei parlanti non istruiti, lingua dei giovani);
(d) varietà diafasiche o situazionali (o anche funzionali-contestuali; ➔ variazione diafasica), differenziate in base alle situazioni di impiego della lingua (per es., lingua della conversazione quotidiana, lingua della pubblicità, linguaggio burocratico, linguaggio tecnico-scientifico).
Trasversalmente a queste distinzioni si riconoscono anche varietà diamesiche (➔ variazione diamesica), differenziate in base al mezzo o canale della comunicazione (➔ lingua parlata; ➔ lingua scritta).
Sono correnti in sociolinguistica denominazioni di tipi di varietà costruite con l’elemento -letto, col senso tecnico di «varietà» (ricavato dal comune termine generale dialetto): oltre appunto a dialetto come termine generale per «varietà geografica», si possono avere socioletto (per «varietà sociale»), e anche tecnoletto (per «varietà tecnico-scientifica»), xenoletto (per «varietà per, o rivolta a, stranieri»; cfr. § 3; ➔ foreigner talk), ecc. Si noti anche che nella linguistica anglosassone il termine dialect ha un valore più ampio di dialetto, in quanto designa qualunque varietà sociale o geografica di lingua.
Le varietà di lingua, classificate secondo le dimensioni viste nel § 2, si dispongono gerarchicamente in un certo spazio linguistico secondo una rete di rapporti che costituisce quella che è stata chiamata da Eugenio Coseriu «architettura della lingua» (cfr. Berruto 1987: 19-27).
L’architettura di una lingua è un continuum multidimensionale rappresentabile, per es., con uno schema a tre assi (v. fig. 1), ciascuno dei quali costituito da una delle tre principali dimensioni di variazione in sincronia, e lungo i quali si collocano le diverse varietà. Il concetto di continuum implica che i confini fra le categorie che lo formano (nel caso, le diverse varietà di lingua) non siano netti e drastici, ma graduali e sfumati, con punti focali ben distinti ma margini in sovrapposizione. Gli assi diastratico (verticale nello schema) e diafasico (obliquo) sono a loro volta dei continua polarizzati e orientati, con un polo alto e uno basso; l’asse diatopico (orizzontale) è invece un continuum non polarizzato e non orientato, in cui si passa linearmente (e non secondo un ordine gerarchico in base alle proprietà sociolinguistiche) da una varietà a un’altra. All’interno del continuum le varietà sono riconoscibili come zone di addensamento lungo un asse, nelle quali si infittiscono tratti linguistici caratterizzanti (Berruto 1987: 27-42). I punti di addensamento sono dati dall’assommarsi di tratti linguistici che possono essere sia posseduti unicamente da una varietà sia condivisi da questa con altre varietà. Nel continuum si passa in maniera graduale da una varietà a un’altra, senza che vi siano confini netti, categoricamente tracciabili (cfr. § 4).
Il continuum delle varietà di lingua si attua nella sincronia, e nell’architettura della lingua in genere non è contemplata la diacronia: la variazione diacronica viene per così dire messa fra parentesi. Ma il tutto si muove naturalmente lungo l’asse del tempo, e quindi avvengono cambiamenti non solo nei tratti linguistici propri delle diverse varietà, ma anche nei rapporti reciproci fra varietà e quindi nell’architettura della lingua.
Sia nella sincronia che nella diacronia, lungo l’asse diatopico si dispongono le diverse varietà di italiano regionale e locale. Lungo l’asse diastratico si collocano varietà corrispondenti agli usi dei parlanti in relazione a fattori che identificano differenti appartenenze sociali (quali le disponibilità di beni materiali e culturali, il grado d’istruzione, la condivisione di abitudini e stili di vita, l’identificazione in gruppi, ecc.): ai due estremi dell’asse si trovano dunque l’italiano colto (dei parlanti colti) e l’italiano incolto (dei parlanti incolti). Lungo l’asse diafasico si collocano varietà dipendenti dalla situazione comunicativa, che vanno dall’estremo alto dell’italiano scritto formale (molto accurato) all’estremo basso dell’italiano parlato informale (trascurato). Varietà che si identificano allo stesso tempo sia sull’asse diastratico che diafasico, in quanto sono sia proprie di un gruppo sociale determinato sia impiegate in situazioni particolari, sono i gerghi (➔ gergo), che sono tipicamente anche dei sottocodici.
Fra le varietà dell’italiano contemporaneo che sono state riconosciute come oggetto di attenzione si possono ricordare:
(a) l’italiano aulico, varietà diafasica tipicamente scritta, caratterizzata da alta elaborazione lessicale e sintattica e dall’impiego di costrutti e termini letterari, formali e poco comuni;
(b) l’italiano parlato formale, varietà diafasica impiegata nelle situazioni di maggiore impegno sociale e in ambiti come le occasioni pubbliche e l’insegnamento scolastico;
(c) l’italiano burocratico, varietà diafasica di uso per lo più scritto, ma anche parlato, tipica dei domini della burocrazia e dell’amministrazione (➔ burocratese; ➔ giuridico-amministrativo, linguaggio);
(d) l’italiano tecnico-scientifico, che rappresenta in effetti più che una singola varietà un insieme diafasico di varietà, di uso per lo più scritto, ma anche parlato, impiegato nei vari rami e discipline della scienza, della ricerca, della tecnologia (➔ scienza, lingua della; ➔ tecnica, lingua della; ➔ terminologie);
(e) «l’italiano dell’uso medio» (Sabatini 1985; a volte definito anche «italiano neo-standard»: Berruto 1987), varietà parlata e scritta, primariamente diastratica, impiegata dalla generalità delle persone almeno mediamente colte, dai giornali e dai mass media in genere (➔ italiano standard);
(f) l’➔ italiano popolare, varietà diastratica propria degli incolti e semicolti e di chi parla prevalentemente dialetto, e che quindi si manifesta tipicamente nel parlato (ma può emergere anche nello scritto);
(g) l’italiano colloquiale, varietà primariamente diafasica e parlata, tipica della conversazione quotidiana non impegnata (➔ colloquiale, lingua);
(h) l’italiano parlato informale, varietà diafasica tipica delle occasioni comunicative meno sorvegliate ed espressivamente connotate;
(i) l’italiano gergale, gamma di varietà diafasiche e allo stesso tempo diastratiche tipiche dell’uso parlato in determinate situazioni di gruppi sociali con forte identificazione interna.
Le varietà da (a) a (d) si collocano nel quadrante in alto a sinistra dello spazio linguistico a tre assi rappresentato nella fig. 1, le varietà da (f) a (i) si collocano nel quadrante in basso a destra, mentre la varietà (g) sta all’incirca nel centro, all’incrocio fra i tre assi.
Intersecandosi e cumulandosi, le dimensioni di variazione danno luogo alle varietà di lingua, che hanno quindi numerose sovrapposizioni fra loro (specie nei punti ove non vi siano addensamenti di tratti, cfr. sopra), il che ha condotto alcuni autori a ritenere difficile, se non impossibile, definire in maniera rigorosa l’appartenenza di ogni produzione linguistica a una certa determinata varietà, e riportare ogni varietà a una sola specifica dimensione di variazione.
L’insieme delle varietà di lingua impiegate in una comunità sociale costituisce il repertorio linguistico di quella comunità. Una comunità parlante italiana media ha un repertorio schematizzabile grosso modo come costituito da due sistemi che occupano rispettivamente il gradino alto e il gradino basso (➔ bilinguismo e diglossia). Sul gradino alto si colloca l’italiano, presente nei parlanti – oltreché in diverse varietà diafasiche – in almeno due varietà socio-geografiche differenti: un italiano regionale medio (nelle varie regioni del nostro paese si sono formati e consolidati, soprattutto nell’ultimo cinquantennio, standard regionali) e un italiano regionale marcato, da considerare italiano popolare. Sul gradino basso si situa il dialetto, anch’esso di solito presente in almeno due varietà, un dialetto regionale (o urbano) e un dialetto locale (o rustico; cfr. Berruto 1993).
I ➔ dialetti sono varietà linguistiche che hanno particolare rilevanza nel panorama sociolinguistico italiano. I dialetti italiani (o, più precisamente, italoromanzi, in quanto membri dell’insieme delle varietà linguistiche neolatine che appartengono al gruppo così identificato in base alle caratteristiche linguistiche) non vanno considerati varietà diatopiche della lingua italiana (tali sono invece gli italiani regionali), ma sono lingue a sé, con una propria autonomia e una propria storia. Secondo un’utile distinzione introdotta da Coseriu (cfr., per es., Coseriu 1980), si tratta infatti di «dialetti primari», vale a dire di varietà linguistiche formatesi (con la dissoluzione del latino negli usi parlati e la sua trasformazione nelle lingue neolatine) contemporaneamente al fiorentino, che nella sua forma letteraria è alla base di quella che è diventata lingua nazionale e standard. I volgari italiani medievali, quando nel Cinquecento uno di essi è stato promosso a lingua, sono diventati dialetti (Alinei 1984). Dialetto è infatti una nozione che si può definire propriamente solo in termini sociolinguistici, in relazione oppositiva con quella di lingua (standard): dialetto e lingua sono sistemi linguistici allo stesso pieno titolo, differenziati dalla loro collocazione nella comunità sociale, avendo la lingua prestigio ed essendo sviluppata per rispondere alla più ampia gamma di esigenze comunicative, anche a quelle per le quali il dialetto (non per impossibilità in sé, ma per le condizioni storiche e socio-culturali che riflette) non ha le risorse linguistiche.
La distanza strutturale dei dialetti rispetto all’italiano è in più casi abbastanza alta e riguarda tutti i livelli di analisi. Non solo dunque i livelli più appariscenti, il lessico e la pronuncia, ma anche la morfologia e la sintassi (cfr. Maiden & Parry 1997). In molti dialetti, per es., la formazione del ➔ plurale dei nomi e degli aggettivi maschili avviene con meccanismi morfologici diversi rispetto a quelli dell’italiano: morfema zero (come in piemontese: ’l can «il cane» / i can «i cani»; ), plurale metafonico (come in romagnolo: spos «sposo» / spus «sposi», ner «nero» / nir «neri», o in teramano: [ˈlɛtːə] «letto» / [ˈlitːə] «letti»; ➔ emiliano-romagnoli, dialetti; ➔ metafonia), plurale sottrattivo (come in lombardo: [la ˈvaka] «la mucca» / [i vak] «le mucche»), ecc. I dialetti del Nord, e anche il fiorentino (➔ toscani, dialetti), hanno un sistema, a volte complesso, di pronomi ➔ clitici soggetto che è estraneo all’italiano: piem. (chièl) a dis, lombardo (lü) el dis, veneto (elo) el dise, toscano (lui) e’ dice; ma italiano (lui) dice. Vari dialetti, diversamente dall’italiano, hanno ➔ negazione postverbale (come il piemontese, [a ˈmaŋdʒa nɛŋ əl pum] «mangia non la mela») o discontinua, con particelle preverbale e postverbale (come l’emiliano, [a n ˈverve ˈmia a ˈporta] «non apre la porta»).
Un carattere di molte situazioni italiane è la presenza di un continuum di varietà italiano-dialetto, avente ai poli estremi da un lato l’italiano standard e dall’altro la parlata locale, fra cui si collocano varietà intermedie (dovute all’interferenza reciproca fra i due sistemi) via via più distanti dall’italiano standard e più vicine al dialetto. Un esempio abruzzese è fornito da Telmon (1993: 119):
(1) ho mangiato troppo ora sono sazio e devo prendere
(2) ho mangiato troppo adesso sono abboffato e devo pigliare
(3) sono mangiato troppo mo sso’ abbottato e ho da pigliare
(4) sso’ magnato troppo mo sso’ abbottato e tengo a piglià
(5) sto magnato troppo mo sto abbottato e tengo a piglià
(6) ʃto magnate troppe mo ʃto abbottate e teng a piglià
(7) ʃto magnète troppe mo ʃto abbottète e teng a piglià
(8) [ˈʃtɛŋgə maˈɲɛtə ˈtrɔp:ə mo ˈʃtɛŋgə abːoˈtːatə e teŋg a piˈʎa].
Le diverse varietà di lingua rappresentate in queste otto versioni della stessa frase sono marcate da tratti variabili ai diversi livelli di analisi.
(a) Tratti lessicali:
(i) ora / adesso / mo, dove si passa dallo standard formale ora al lievemente più colloquiale adesso e al mo marcato in diatopia come centromeridionale;
(ii) sazio / abboffato / abbottato, dove si passa dallo standard e formale sazio alla forma espressiva e colloquiale abboffato a quella marcatamente regionale e dialettizzante abbottato;
(iii) prendere / pigliare, il primo standard e il secondo più espressivo e informale, e soprattutto corrispondente al termine dialettale;
(iv) si può ritenere un tratto lessicale anche mangiare / magnare, anche se qui non è più questione di tipi lessicali diversi, ma semplicemente di diverse forme dello stesso tipo lessicale: entrambe da lat. mandŭcăre (➔ allotropi).
(b) Tratti morfosintattici:
(i) ho / sono / sto come forma dell’ausiliare (si noti che nelle parlate abruzzesi il tipo esse, ed equivalenti, invade contesti in cui l’italiano, e altri dialetti, prevedono invece il tipo habēre);
(ii) devo / ho da / tengo a, espressioni del valore deontico via via più marcate regionalmente.
(c) Tratti morfologici:
(i) pigliare / piglià, con passaggio alla forma tronca dell’infinito;
(ii) sono / sso’, anche qui con apocope della sillaba atona.
(d) Tratti fonetici:
(i) [st-] / [ʃt-], con palatalizzazione della fricativa alveolare sorda in posizione preconsonantica;
(ii) [a] / [ɛ], con palatalizzazione (anteriorizzazione) della vocale centrale bassa in posizione tonica;
(iii) [o] / [ə], con riduzione in fine di parola della vocale posteriore media atona a centrale indistinta.
La combinazione dei diversi valori di queste variabili diatopiche dà luogo a una gamma di varietà via via più dialettalmente marcate, nella quale però non è affatto agevole porre confini precisi tra una categoria e l’altra. Se non c’è dubbio che il primo gradino, la versione (1), sia in italiano standard, priva di marcatezza regionale (che in ogni caso non si potrebbe cogliere, non essendo rappresentata la pronuncia effettiva in trascrizione fonetica), e che l’ottavo gradino, la versione (8), sia nettamente dialetto, non è affatto chiaro dove porre altri confini tra i gradini intermedi, non solo per quel che riguarda diverse varietà di italiano, ma anche per quel che concerne la distinzione fondamentale tra italiano e dialetto, sistemi linguistici diversi.
A seconda dei criteri che si utilizzano e della marcatezza che si attribuisce alle varianti, il confine fra italiano e dialetto potrebbe essere situato, per es., fra (6) e (7), se si assume la palatalizzazione di [a] come tratto diagnostico, o addirittura molto più in alto, fra (3) e (4), se si dà valore diagnostico al realizzarsi simultaneo, che si ha appunto in (4) rispetto a (3), di apocope nelle forme verbali e della scelta della forma lessicale magnare. Sta di fatto che i confini fra i gradini intermedi, appunto, non sono netti, permettendo nel continuum ‘tagli’ diversi non privi di argomenti.
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