Varrone e la riflessione sulla cultura e sulla lingua
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Pochi uomini come Varrone sono riusciti a coniugare l’impegno politico personale e diretto, sino ai campi di battaglia della guerra civile, e un’attività culturale senza pari nel mondo romano, che lo porta a scrivere sui temi più vari dello scibile: il suo ritratto, unico tra i viventi, nella prima biblioteca pubblica aperta a Roma all’indomani della morte di Cesare sancisce la sua eccezionale statura intellettuale. Della sua vastissima produzione rimane a noi ben poco: un trattato sulla gestione della proprietà agricola e una ridotta porzione dell’opera sulla lingua latina che inventava per la prima volta a Roma il lessico della grammatica e della linguistica.
Marco Terenzio Varrone è il più grande erudito romano di tutti i tempi: un dotto con una competenza enciclopedica, autore di opere che spaziano in quasi tutti i campi del sapere, al quale per generazioni i letterati delle età successive hanno attinto a piene mani; eppure, della sua vastissima produzione è giunto a noi integro il solo De re rustica, un dialogo in tre libri che si occupa di agricoltura e allevamento, e i libri 5-10 del De lingua latina, composto in origine da 25 libri. Di tutto il resto – trattati grammaticali, scritti di critica letteraria, opere filosofiche, matematiche, teologiche, satire e molto altro ancora – abbiamo solo frammenti o informazioni indirette ricavate dagli autori che utilizzarono Varrone.
Nonostante questa intensissima attività intellettuale, Varrone è profondamente impegnato nelle tormentate vicende dell’ultimo secolo repubblicano: ricchissimo, proprietario di terre e ville, fortemente legato al cuore antico e più tradizionale del Lazio (a Rieti possedeva numerosi fondi, e perciò viene detto Reatino, pur essendo nato a Roma nel 116 a.C.), Varrone si schiera quasi naturalmente con l’ala conservatrice dell’élite: partigiano di Silla, poi di Pompeo, è questore verso l’86 a.C., quindi tribuno della plebe e pretore; segue Pompeo nella campagna contro i pirati del 67 a.C. e poi ancora nella guerra civile contro Cesare; sconfitto in Spagna da quest’ultimo nel 49 a.C., viene graziato e si vede affidare il compito di istituire a Roma la prima biblioteca pubblica, anche se l’uccisione del dittatore fa naufragare il progetto; sotto i triumviri Varrone è proscritto, ma riesce a salvare la vita, e nel 39 a.C. è l’unico fra i viventi ad avere l’onore di un ritratto nella biblioteca aperta dall’ex cesariano Asinio Pollione. Ormai vecchissimo, assiste all’ascesa di Augusto e muore quasi novantenne nel 27 a.C.
Il De re rustica, composto nel 37 a.C., è tramandato in un manoscritto che riporta anche il De agri cultura di Catone il Vecchio: dell’enorme produzione dei due letterati gli antichi scelgono di salvare soprattutto testi di immediata utilità concreta. Si tratta di un dialogo in tre libri: il primo offre informazioni generali sulla conduzione di una proprietà agricola, il secondo è consacrato all’allevamento, il terzo contiene una descrizione dettagliata degli animali da cortile.
L’opera non è destinata ai coltivatori diretti, ma semmai ai grandi aristocratici, per i quali la campagna è anzitutto fonte di rendita, oltre che occasione di ozio piacevole; ai precetti sulla gestione degli schiavi, sugli attrezzi agricoli, sul modo più razionale di allevare pesci e uccelli si alternano descrizioni della lussuosa villa posseduta da Varrone nell’agro di Cassino, in un quadro che assegna alla fruizione estetica della campagna un’importanza pari alla sua redditività economica. Anche la veste letteraria marca la differenza tra l’opera di Varrone e quella di Catone: tanto quest’ultima è secca, asciutta, tutta fondata sulla successione di precetti impartiti attraverso la martellante reiterazione dell’imperativo, altrettanto quella di Varrone è letterariamente curata, discorsiva, variata, fondata su un’accurata disamina delle fonti non meno che sul ricorso all’esperienza personale e diretta.
I 25 libri del De lingua latina erano un vasto affresco di etimologia, morfologia e sintassi del latino, il primo composto a Roma. I primi tre libri in nostro possesso (5-7) trattano il problema dell’etimologia; Varrone individua al riguardo quattro possibili livelli di ricerca: l’etimologia immediatamente trasparente, accessibile a qualsiasi parlante; quella praticata dai filologi nella spiegazione dei testi poetici; quella cui può accedere la sola filosofia, in particolare quella stoica, attenta a cogliere il rapporto necessario tra segno linguistico e significato; infine un quarto livello, per Varrone pressoché inattingibile, che risale alle origini stesse del linguaggio. Nell’esemplificazione concreta l’autore individua i meccanismi che determinano le variazioni di una parola nel tempo, postula la necessità di confrontare costantemente il latino con il greco (dal quale a suo giudizio deriva) e con i dialetti italici, documenta i cambiamenti di significato di un termine nella storia dei suoi usi.
Nei libri 8-10 la discussione verte invece sul confronto fra teorie “analogiste”, fondate sulla prevalenza della regola, e teorie “anomaliste”, che postulano invece l’importanza decisiva dell’uso. Varrone propone una conciliazione fra i due modelli: l’imposizione dei nomi presenta un certo grado di arbitrarietà, ma la flessione di sostantivi e verbi presuppone l’esistenza di una declinazione regolare, a sua volta condizione indispensabile per la creazione di una grammatica.
“Mentre ci aggiravamo come stranieri nella nostra stessa città, tu solo ci hai fatto conoscere chi siamo e dove siamo”: questo giudizio di Cicerone esprime il senso che i contemporanei individuarono nelle monumentali Antiquitates, un’indagine a tutto campo sulla storia, la geografia, le istituzioni politiche e religiose di Roma. In un certo senso, Varrone è il massimo antropologo di Roma antica: un antropologo che non lavora su culture “altre”, ma sulla propria, preoccupandosi di raccoglierne tradizioni, costumi, notizie, cultura materiale. È una ricerca tutt’altro che neutrale: la cultura latina è per Varrone superiore a tutte le altre e la Roma arcaica costituisce un modello irripetibile di frugalità, senso dello stato, onestà e valore militare.
A noi sono note soprattutto le tesi sostenute nella seconda sezione dell’opera, le Antiquitates rerum divinarum, grazie al fatto che i cristiani polemizzarono ripetutamente con essa: in quella sede Varrone non solo forniva una messe di notizie sulla più antica religione romana, su culti, cerimonie, festività del calendario sacro, sacerdozi e templi, ma elaborava una distinzione teorica fra teologia “favolosa”, costituita dai miti dei poeti, teologia “naturale”, relativa alle opinioni dei filosofi in merito alla divinità, teologia “civile”, legata ai culti e alla religione della città, che va osservata per ragioni di rispetto della tradizione e di controllo sociale.
Nonostante il naufragio quasi totale della sua opera, Varrone influenza tutta la cultura successiva: tra l’altro, fissa una volta per sempre la fondazione di Roma al 753 a.C., individua fra decine di falsi le 21 commedie autentiche di Plauto, che sono esattamente quelle giunte fino a noi, inventa il lessico della grammatica e della morfologia, che è quello tuttora insegnato nei nostri licei.