APULI, VASI
. 1. Questa (come gli equivalenti nelle varie lingue europee e gli equivalenti italiani vasi pugliesi, vasi di Puglia o delle Puglie) è la denominazione di gran lunga più usata, ed in ogni caso la più sicura, comprensiva e corretta, per designare una classe di vasi dipinti italioti (cioè dell'Italia meridionale sotto influenza greca), generalmente a figure rosse (cioè del color naturale dell'argilla arrossata dalla cottura; colore talvolta rinforzato da ingubbiatura di argilla più rossa o che più si arrossava nel forno figulino) risparmiate sul fondo di cosiddetta vernice nera, ossia rivestimento di sostanza parzialmente vetrificante e più o meno lucida. La tecnica, che col tempo ammise parecchie varietà, derivò dalla Grecia, e particolarmente dalle celebrate officine di Atene, nel sec. V a. C.; non però lo stile, tranne, e parzialmente, in alcuni periodi iniziali e in qualche fabbrica; e meno ancora lo spirito, ossia i soggetti figurati, la maniera di trattarli, l'intenzione con la quale di tali soggetti si ricopersero le pareti dei vasi, il significato attribuito alle figurazioni anche quando i motivi, singolarmente analizzati, si trovino già nella ceramografia della Grecia propria. Come tecnica, cioè per quel che concerne impianto di officine, metodi di lavorazione e in parte repertorio di singoli motivi di figura e d'ornato, si può parlare di trapianto dal suolo greco al suolo italico. Come arte, la ceramografia italiota si rivela ben presto indipendente, locale, caratteristica in sommo grado, e svolge nell'immensa massa del materiale a noi pervenuto tendenze e forme in tutto rispondenti all'indole, ai bisogni, alle credenze delle popolazioni indigene, che dei prodotti di quest'arte fecero larghissimo uso per destinarli a corredo delle tombe, e che, sebbene più o meno grecizzate in varî aspetti della cultura, erano però sempre sostanzialmente differenti dai Greci, né mai si erano amalgamate in unità di nazione con le famiglie elleniche delle colonie costiere. La grande produzione di vasi dipinti italioti è fenomeno in tutto omologo a quello di Vulci e di Falerii, ove avvenne lo stesso trapianto di tecnica, non già di stile né di spirito; i quali ultimi, nonostante le peculiarità caratteristiche dell'ambiente etrusco o sotto forte influenza etrusca, hanno manifesta affinità con lo spirito e lo stile dei vasi italioti. Che l'abbondanza e il carattere dei vasi dipinti italioti non abhiano come causa la presenza di città coloniali greche sulle coste, sembra indicarci il caso della Sicilia, ove non mancavano colonie elleniche anche più grandi e splendide di quelle dell'Italia meridionale (basta pensare a Siracusa), ma fatti simili nella produzione di ceramiche dipinte locali non si riscontrano. Quando invece si pensi che gli Etruschi furono avidissimi importatori di vasi greci, appunto per destinarli a corredo di tombe, e poi fabbricanti di prodotti d'imitazione locale, non si andrà troppo lungi dal vero opinando che il coefficiente etnico e sociale di tale produzione in tutta la penisola sia piuttosto da ravvisare in quella, sia pure imperfetta, unificazione preromana delle stirpi italiche, nell quale, specialmente in fatto d'arte applicata a culti ed a tombe ci appaiono maestri e duci appunto gli Etruschi.
2. Non tutte le regioni dell'Italia meridionale parteciparono alla produzione di vasi dipinti. Ne rimaneva fuori tutto il Sannio; ne era del pari escluso tutto il Bruzio. Le tre regioni attive erano: Campania, Lucania, Apulia; ed esse costituiscono fin da età preistorica un territorio intercomunicante per alcuni dei più frequentati valichi appenninici. Dei vasi propriamente italioti, a figure rosse, l'Apulia ebbe la produzione più importante e ricca, fors'anco la più antica; ma non è da dimenticare che mentre in Campania, nelle colonie greche costiere e sotto la loro influenza, si producevano fin dal sec. VIII a. C. vasi geometrici e derivati, nelle città interne dominate dagli Etruschi (quasi certamente a Capua si producevano buccheri simili a quelli dell'Etruria propria, ma con caratteri locali; e posteriormente, forse sotto influenza mista, ma certo non senza quella degli Etruschi (stante l'affinità con le idrie "ceretane" e simili), si ebbe in quella regione una produzione di piccoli vasi a figure nere, stilisticamente anteriori, e secondo ogni probabilità anche per cronologia assoluta, alla produzione dei vasi a figure rosse; e tanto di questi, come dei buccheri, si fece largo uso nelle tombe delle città etrusco-campane (Capua, Nola). Non è quindi improbabile che, anche nel vasto territorio comprendente le tre regioni, l'influenza etrusca fosse sentita direttamente, prima col desiderio generico di vasi per le tombe, in parte d'importazione greca (caratteristica l'abbondante importazione di anforette attiche dette nolane), poi con le fabbricazioni locali e col trapianto dell'industria di tecnica atticizzante.
3. Alcuni dotti, in omaggio all'ipotesi da essi accolta, che i vasi apuli si fabbricassero a Taranto, li denominarono tarantini. Ma tale designazione è in ogni caso scorretta, perché, anche se a Taranto fosse esistita una fabbrica di vasi dipinti, non è possibile attribuirle tutta la produzione pugliese, nella quale si distinguono almeno due grandissime fabbriche, Ruvo e Canosa; e la produzione di esse era in notevolissima parte d'uso locale, specialmente per i vasi colossali di Canosa, collegati alle vaste tombe a camera di quell'antica città, mentre solo per eccezione, com'è naturale, taluno di questi più grandi vasi di Canosa e anche di Ruvo fu rinvenuto, per importazione antica, in altra località. A Ruvo si trovarono anche, dagli scavatori che misero in luce quell'enorme quantità di vasi di cui si arricchirono collezioni locali e napoletane e molti musei di Europa, avanzi delle antiche officine ceramiche, con forni, colori ed altri attrezzi. Queste due fabbriche sono perciò fatti assodati; una fabbrica di Taranto, pura ipotesi: anche chi ha osservato de visu quasi tutto ciò che in fatto di vasi italioti e apuli in ispecie si trova in Europa, difficilmente riesce a distinguere uno stile che si possa attribuire a una fabbrica diversa da quelle di Ruvo o di Canosa. A stento si ritrova qualche gruppo non troppo numeroso di vasi più strettamente legati insieme per essere stati eseguiti o da un medesimo artefice o da un medesimo reparto d'una grande officina o da una officina minore del medesimo centro industriale. Tale è il caso di quel gruppo col quale fu proposto di assegnare a Bari una fabbrica piccola e di poca durata; il che non parve probabile, ma se mai davvero tale piccola fabbrica dovesse costituirsi, non sì vede come sarebbe possibile assegnare a Taranto la produzione di alcuni vasi che esclusivamente a Bari si trovano in gruppo; come esclusivamente a Ruvo si presenta, integro e in esuberante ricchezza, tutto quanto lo sviluppo formale e stilistico della fabbrica maggiore non solo d'Apulia, ma di tutta Italia.
4. I vasi apuli hanno forme svariate e talora ricercate: anfore, idrie, crateri, brocche od oinochoai, cantari; ciascuna con parecchie varietà. Caratteristica è l'anfora, la cui forma evolve insieme con lo stile del disegno, e da esemplari robusti e ventricosi, simili alle anfore attiche del sec. V, recanti figure che riecheggiano ancora il tardo stile severo di Atene, va man mano ad esemplari di forma piti svelta, con colli e piedi assottigliati e allungati, con lusso di ornati che limitano e dividono le due abituali zone di figure nei grandi esemplari di parata (Prachtamphoren), mentre lo stile delle figure e della composizione riecheggia man mano lo stile bello, il pittorico e midiaco dell'Attica, sino a forme locali, a poco a poco più frettolose e sommarie, rilevate però, negli esemplari di pregio, da abbondante policromia sovrapposta. Evoluzione identica nello stile delle pitture ed analoga nelle forme tettoniche del vaso mostrano le altre fogge.
Gli aspetti più antichi dello stile disegnativo e tettonico sono rappresentati solo a Ruvo: Canosa appare come una fabbrica diramatasi più tardi dalla maggiore, e specializzatasi nei vasi colossali, il cui desiderio, suscitato dagli ampî ipogei locali che dovevano ornarsi di ricchi corredi funebri, indusse a impiantare un'apposita officina nel luogo stesso. Caratteristiche di Canosa sono pure le sovrapposizioni in color rosa (in più del giallo, bianco e rosso-bruno usati a Ruvo e comunemente nella ceramica italiota), il disegno alquanto più libero o trascurato, con panneggi più cascanti, maggiore abbondanza di figure muliebri discinte, capelli e barbe di aspetto irsuto, a riccioli singolarmente disegnati e la predilezione per alcune forme, come l'anfora a thymiaterion, la grande patera a manichi verticali, la brocca pugliese caratteristica (ingrandimento della oinochoe con sagoma locale: ventre ampio tondeggiante, alto collo e bocca trilobata).
Non crediamo che la fabbricazione di Ruvo sia da distinguere in 5 periodi di 50 anni ciascuno, come pensò il Macchioro (se mai in 3, e con limiti meno precisi e più ampî: inizio, fioritura, decadenza); né che le si possa applicare rigorosamente il principio da noi posto per la fabbrica di Pesto, che la piena romanizzazione segni la fine della ceramografia. E ciò anche, in Puglia, a cagione della trasformazione, graduale, spontanea e non tardissima, della consueta pittura vascolare figurata nel nuovo stile di Gnathia. Qui i Romani avrebbero ucciso un cadavere.
5. I soggetti sono naturalmente più atticizzanti nelle fasi iniziali, ma tuttavia già vi mancano quelli che rispecchiano direttamente, spregiudicatamente, minutamente la vita, già sono presenti conversazioni indeterminate tra coppie all'aperto e inseguimenti di persone amate, che preludono alle scene più chiaramente elisiache delle fasi posteriori e che invano si cercherebbero eguali sui vasi attici; né fan difetto scene mitologiche che, inquadrate nella sintassi decorativa delle altre scene, fanno pensare d'essere state scelte non senza una speciale intenzione o allusione alla destinazione funebre del vaso dipinto e alla sorte sperata nell'al di là per i cari parenti: cosa che anch'essa diviene, col tempo, più chiara, e in Apulia e nelle altre regioni. Identiche nei motivi alle suddette conversazioni o rincorse erotiche, ma pur caste, quasi bambinesche, sono alcune scene che si svolgono in un giardino (gli Elisi) e in cui i personaggi recano attributi o presentano forme mitiche di tiasoti bacchici (satiri o menadi); le donne hanno talvolta l'attributo del canestro, che è quello delle Naiadi facenti parte dei cortei bacchici di defunti nella celebre iscriz. metrica di Doxato in Macedonia (Corp. Inscr. Lat., III, 686). Tali scene non sono mitologiche come quelle dei vasi attici, sì perché non rappresentano vere e determinate azioni, sì perché in varî casi a satiri e menadi sono mescolati personaggi senza attributi e forme mitiche (sempre giovani idealizzati, in nudità eroica, e donzelle in lunghe vesti): si tratta di una coloritura speciale dionisiaca che nelle credenze locali (ma anche altrove) prendeva la beatitudine degli Elisi; i morti cioè erano concepiti come beati tiasoti al seguito di Dioniso, ritenuto dio salvatore dalla morte e datore della felicità eterna (concezione aiutata, tra l'altro, anche dalla diffusione della setta orfica, ma non rigorosamente legata a questa e tanto meno sorvegliata o guidata nelle manifestazioni di un'arte popolare, qual era sostanzialmente la ceramografia). Ma soprattutto ciò che colpisce il visitatore di qualunque raccolta di vasi italioti è la presenza, sui rovesci dei vasi, di rappresentazioni di sepolcri in forma di edicola (heroon) oppure di stele o di tumulo, e di onoranze rese a queste tombe o di conversazioni (elisiache) svolgentisi attorno; e ciò su numerosi esemplari, e sopra vasi d'ogni foggia, mentre in Atene i vasi funebri o di soggetto funebre erano di determinate fogge e perfino di tecniche speciali (lekythoi bianche). E nulla fa meglio comprendere l'ufficio dei vasi dipinti italioti; come nei vasi a figurine si sintetizzavano in un solo oggetto due offerte, quella del vaso (o del suo contenuto) e quella dell'essere simboleggiato dalla forma del vaso (servo, animale, ecc.), e come si davano fin da età arcaica ai morti, per mezzo di tali figurine, scimmie, attori comici, ecc. per divertimento di quelli nell'altra vita; così le popolazioni italiote davano anche ai morti, in simbolo rappresentato, sulle pareti del cratere pieno di vino (realmente o simbolicamente), il loro divertimento teatrale.
Quale esempio dei vasi apuli valga quello che è rappresentato nella figura e che può dirsi il capolavoro dell'arte italiota: il cosiddetto vaso dei Persiani, trovato a Canosa, ora al Museo di Napoli. La guerra contro i Persiani è idealizzata e trattata come un mito nel quadro principale: esso è diviso in tre zone, di cui la mediana rappresenta il re Dario che in mezzo ai suoi consiglieri delibera la guerra; nell'uomo salito su plinto (dipinto di giallo-oro) preferiamo vedere non una personificazione del popolo persiano, di cui l'uomo non veste il costume (la scritta ΠΕΡΣΑΙ è per noi semplicemente il titolo di tutto il quadro, come si ha da altri esempî), bensì il rappresentante di una o più città greche tributarie, che arriva or ora (è in calzari da viaggio) ad ammonire il re esser cosa audace il far guerra ai Greci; secondo l'usanza riferita da Eliano, egli sale su un plinto d'oro che gli verrà donato se il re gradirà il consiglio; ma in ogni caso sarà frustato per aver osato parlare contro il parere già manifestato dal sovrano. In basso il tesoriere raccoglie sacchi di monete e pile di vasi preziosi come tributi di guerra; e nobili giovani persiani, fuori del gabinetto del tesoriere (delimitato da due thymiateria), fanno, rivolgendosi al re, l'atto d'omaggio inviso ai Greci (la προσκύνησις "prosternazione"). Ma le divinità, che guardano dalla zona superiore ristabiliscono l'equilibrio contro il peso preponderante delle immense ricchezze persiane: e mentre l'Asia, riccamente vestita e adorna, è accecata dalle faci della personificazione dell'inganno (Apate, vestita da Furia) la Grecia è accolta, protetta, incoraggiata dal sommo Zeus e dalla sua figliuola Atena, e segnata a dito da Nike, la Vittoria. Sul collo, dal medesimo lato, è una Amazonomachia, mito glorioso per gli eroi greci (Eracle, Teseo) che con l'aiuto della divinità sconfiggono le avversarie e conquistano poi la beatitudine: mito simbolico più comune, del quale il tema dei Persiani è una variazione, cioè un'apoteosi della Grecia, riassumente quelle di Eracle e di Teseo. Al rovescio è il mito di Bellerofonte che uccide la Chimera, e contenente anch'esso il concetto di lotta (vita) che con l'aiuto della divinità (iniziazione, per gl'iniziati: fede e speranza per gli altri) conduce al trionfo (beatitudine elisiaca). E, a spiegazione di tutto il concetto, quest'ultima, sotto coloritura dionisiaca, è rappresentata sul rovescio del collo del vaso.
Oltre al pregio del concetto e dell'adeguata rappresentazione di esso per mezzo di scene figurate, questo colossale vaso ha l'altro della rarità o forse unicità del soggetto storico: giacché non ci sembra probabile che le rassomiglianze tra una pittura vascolare apula e il quadro della battaglia d'Alessandro copiato nel noto mosaico di Pompei si possano spiegare mediante derivazione anche della pittura vascolare dal medesimo quadro (il che costringerebbe a forzare la cronologia dei vasi e ad ammettere un Alessandro barbato!), bensì all'opposto, mediante uso da parte dell'autore del dipinto (o dell'autrice Elena, come il Rizzo è recentemente riuscito a render probabile) di motivi assai più antichi, che appaiono anche nella pittura vascolare, relativa a fatti più antichi o ad un mito non spiegato.
Bibl.: Oltre alle storie gnerali dell'arte e della ceramica greca: G. Patroni, La Ceramica antica nell'Italia meridionale, in Atti Accad. Napoli, XIX, II, Mem. [1897]; id., Questioni vascolari, in Rendic. Acc. Lincei, cl. sc. mor., 1912, p. 549 segg.; id., l'Orfismo ed i vasi italioti, ibid., 1918, p. 333 segg.; id., in Athenaeum, n. s., VI (1928), p. 18 segg.; V. Macchioro, in Röm. Mitteil., 1911, pag. 187 segg., 1912, p. 21 segg.; 163 segg.; Fr. Vanacore, I vasi con heroon, in Atti Accad. Napoli, 1906, p. 175 segg.; C. Albizzati, in Dissertazioni Accad. Pont. di archeol., 1920, p. 147 segg.; P. Mingazzini, Le rappresentazioni dell'apoteosi di Eracle, in Mem. Accad. Lincei, s. 6ª, I (1925), p. 413 segg. (importante conferma offerta dallo studio di questo mito alle interpretazioni dionisio-elisiache dei vasi italioti).