Vedi ATTICI, Vasi dell'anno: 1958 - 1973 - 1994
ATTICI, Vasi
Questo articolo si occupa solo dei vasi a. compresi tra l'inizio del VI sec. e la fine del IV a. C.: per le fasi anteriori, v. geometrico, stile e protoattici, vasi. Per le questioni generali e le forme vascolari v. ceramica. Mentre degli stili ceramici dei singoli centri artistici abbiamo storie distaccate, limitate generalmente ad una generazione o due e che raramente abbracciano un periodo più lungo, della ceramica a. si può scrivere la storia dalla metà dell'VIII sec. a. C. alla fine del IV.
Durante i secoli anteriori al VI, non può dirsi che la ceramica a., pur mantenendosi ad un livello abbastanza alto e conservando una sufficiente autonomia, abbia esercitato un influsso preminente su tutti gli altri stili; ma dall'inizio del VI sec. in poi, la sua superiorità tecnica ed artistica è cosi netta, che ben presto essa diviene la prima, e, dal 520, la sola ceramica greca degna di questo nome; e se alla fine del V sec. sorsero nell'Italia meridionale fabbriche che le contesero parte del commercio quasi per tutto il IV sec., esse rimasero quantitativamente e qualitativamente assai al disotto (tranne pochi, eccezionali prodotti àpuli) della ceramica a., per quanto questa fosse decaduta dell'antico splendore.
Si suole dividere la storia della ceramografia a. in quattro periodi: dei vasi a figure nere arcaici: 600-530; dei vasi a figure nere più recenti e dei vasi a figure rosse di stile severo: 530-480; dei vasi a figure rosse di stile preclassico e classico: 480-400; periodo della decadenza: 400-320.
Il primo periodo ha inizio nello stesso momento in cui anche la grande plastica si afferma in Grecia. Nelle figure dei vasi del primo trentennio del VI sec., già incomincia a palesarsi l'ideale classico della figura umana, che resterà norma per oltre un millennio. Questi vasi a. della prima generazione del VI sec. non lasciano dubbio che Atene raggiunse, e ben presto sorpassò, i maestri argivi, sicionî e corinzî.
Pochi sono i vasi di questo periodo a noi giunti. La scarsezza è in parte dovuta al fatto che l'esportazione dall'Attica verso l'Etruria non era ancora avviata, in parte al fatto che la produzione doveva essere ancora limitata. Uno dei vasi più antichi è l'anfora del Pireo. I cavalli ivi dipinti presentano, in alcuni particolari, reminiscenze dei cavalli dell'anfora protoattica di New York, ma, al tempo stesso, presentano differenze cosi spiccate, che - se non lo sapessimo per altre vie - saremmo portati a pensare ad un intervallo, tra i due vasi, più lungo dei due decennî (610-590) che dobbiamo postulare. Una distanza anche minore (forse un solo decennio) dobbiamo ammettere tra l'anfora del Pireo ed il lebète di Egina. Al 580 circa deve appartenere l'anfora di Nettos.
Con l'affermarsi dell'egemonia di Pisistrato (e probabilmente in concomitanza con essa) si inizia un'esportazione in massa di prodotti ceramici. Se non proprio il primo, certo uno dei primi vasi a. esportati in Etruria è il vaso François, firmato da Klitias come pittore e da Ergotimos come proprietario della fabbrica. Di questo massimo monumento dell'arte pittorica del tempo, basti dire, in questa sede, che lo stile nitido e preciso sino alla minuzia (si esaminino per esempio i disegni dei ricami sulle vesti femminili) non può non rispecchiare un ideale comune con gli artisti del bulino e dell'intarsio (cfr. l'Arca di Cipselo, del 570 circa).
Questo cratere è tra i primi vasi a. esportati in Etruria; e non è un caso che, eccetto il solo Sophilos, che è leggermente più vecchio, Klitias sia la più antica firma attica a noi giunta (v. Tavola a colori).
Nel trentennio che intercede fra il 570 ed il 540 possiamo distinguere due tendenze artistiche fondamentali (oltre ad una terza, deteriore, che sa più di mestiere che di arte), gli artisti "della forza" e quelli "della grazia", i cosiddetti artisti dorici e i cosiddetti artisti ionici.
Come "pittori della grazia" possiamo dunque considerare tutti i cosiddetti Miniaturisti, la cui attività si estese sino al 525 circa. Su coppe dalla sagoma elegantissima, essi scrissero le loro firme, fiancheggiate da graziose figurine, o da palmette, o da sfingi, o da altri animali, riserbando al medaglione interno le vere e proprie scene figurate.
Naturalmente, in questi vasi di piccole dimensioni, nei quali la sagoma del recipiente aveva più importanza della decorazione (ed infatti sono assai più numerose le firme dei proprietarî della fabbrica che quelle dei pittori), accade talora che le figure siano banalmente ripetute e tirate via senza amore. Se il caso è sporadico nelle coppe dei Miniaturisti, esso è frequente invece nelle cosiddette anfore tirreniche (v.) e nei vasi affini. A causa del loro numero, del buono stato di conservazione ed anche della difficoltà dell'esegesi iconografica questi vasi occuparono a lungo, negli studi, un posto maggiore di quel che meritassero. Tuttavia, anche fra i decoratori vi furono artigiani che seppero talora raggiungere un livello notevole. Di alcuni di essi possediamo le firme. Essi sono il Pittore di Amasis e il Pittore di Lydos, che alcuni identificano (probabilmente a ragione) con Sakonides, il quale decorò tanto coppe di tipo miniaturistico, quanto vasi di grandi dimensioni.
Il rappresentante massimo dell'ideale della forza e della grandiosità è invece Exekias, dalla cui officina uscirono però anche deliziose opere miniaturistiche, come i grandi recipienti simili a caldaie, che portavano dipinta nell'interno dell'orlo una serie di navi da guerra che sembravano galleggiare sull'acqua. Le fabbriche di Nearchos e di Ergotimos furono assai fiorenti, sì che le continuarono rispettivamente Tleson figlio di Nearchos, ed Eucheiros figlio di Ergotimos, i quali nella firma vantano la discendenza da vasai famosi. Tleson ha anche firmato un vaso a figure rosse.
Verso il 540 abbiamo il secondo momento critico della ceramica a., la cui concomitanza - temporale e causale - con le ricerche di grandi artisti (si ricordi, però, che una distinzione fra grande e piccola arte in questo periodo non è ancora stabilita) è non solo deducibile da numerosi elementi stilistici, ma anche documentata dalle fonti. Plinio ci dice che "Eumares da Atene osò imitare ogni genere di figure e che Kimon di Kleonai ne sviluppò le invenzioni". Queste "invenzioni" (il termine greco corrispondente è, in questo periodo, σοϕίαι) erano, egli dice, i κατάγραϕα (ossia, diremmo noi, figure di scorcio); consistevano nel "fare immagini oblique e volti disposti in vario modo, secondo che guardassero indietro, in giù, o in su; inoltre egli distinse le muscolature delle varie parti del corpo, fece risaltare le vene ed infine distinse, nel panneggio, le pieghe sottili da quelle più rigonfie".
Plinio non ci dà la data delle innovazioni di Eumares e di Kimon; ma per altra via sappiamo che Kimon lavorò nell'ultimo decennio del VI sec.; Eumares dovette perciò essere attivo verso il 540. All'incirca in questa epoca, quindi, dobbiamo collocare i primi timidissimi tentativi dello scorcio nelle arti disegnative.
I vasi confermano in pieno, dal vaso François in giù, quanto Plinio ci dice. Nel vaso François già vediamo i due lembi del manto, ricadenti ai lati dell'avambraccio, distinti mediante una riga sottile. Più tardi vediamo il lembo inferiore del manto terminare, anziché con una linea orizzontale, con una diagonale. È questa una delle invenzioni di Eumares: lo scorcio è nato. Lentamente, ma progressivamente, le diagonali si succedono, si moltiplicano, si complicano, si diversificano, gli angoli si arrotondano, le curve dei manti rigonfi si ripiegano con diversa ampiezza e con diverso ritmo; sinché, verso il 480 a. C., cessato l'entusiasmo della ricerca, si torna ad una stilizzazione più semplice. Un'altra invenzione prospettica è l'ovale: le ruote dei carri e l'interno degli scudi rotondi sono resi con un'ellissi. Ancor più importanti sono gli scorci nell'anatomia. Per millenni l'occhio si era dipinto di prospetto anche sul viso di profilo; ora la pupilla si sposta verso l'angolo interno, questo si apre impercettibilmente sino a che l'occhio è reso con perfetto profilo. Più difficile era lo scorcio della figura animata: dallo schema arcaico che colloca una testa volta in una direzione su un corpo volto in direzione opposta, si passa allo schema che, ad un corpo visto di fronte, dà una testa vista da un lato ed i piedi volti dal lato opposto; in seguito si lascia la cassa toracica di prospetto, i particolari interni si spostano, e i piedi sono di nuovo di prospetto; infine si ottengono scorci totalmente persuasivi. Dello sforzo che costò rompere il gioco della frontalità ci dànno una idea i tentativi di scorcio mal riusciti di alcuni pittori minori (uno di essi è il Pittore di Ambrosios).
Lo scorcio era una grande conquista nella generale tendenza alla resa della corporeità e della "realtà obiettiva" per i pittori del periodo dello stile severo (530-480). Nella ricerca dell'espressione della corporeità, la resa dei particolari interni del corpo umano aveva la massima importanza e soprattutto l'avevano le sfumature che distinguevano i muscoli e le vene tra loro. Ora, queste sfumature era quasi impossibile ottenerle mediante la tecnica del graffito interno alla figura nera, dipinta sul fondo giallo del vaso; viceversa era facilissimo renderle col pennello passato sulle figure lasciate nel colore del vaso e contornate dalla vernice nera. Non è quindi un caso che verso il 540, insieme ai primi tentativi di indicare lo scorcio, faccia la sua apparizione la tecnica a figure rosse: dapprima assai timidamente, su vasi qualitativamente belli, ma poco numerosi (v. Andokides), quasi esclusivamente costituiti da coppe (v. Oltos, Epiktetos, Skythes), poi anche su anfore (v. Euphronios, Euthymides, Phintias), per merito di proprietarî di officine amanti ed estimatori del nuovo (v. Kachrylion). Con la fine del secolo si può dire che la nuova tecnica abbia trionfato in pieno; col 480 la tecnica a figure nere è morta del tutto, eccetto nelle anfore panatenaiche (v.), dove si mantiene per ragioni di tradizione.
Lo studio delle varie personalità di artisti che dipingono prevalentemente, o esclusivamente, a figure rosse durante l'ultimo trentennio del VI sec., ha fatto trascurare un poco i pittori di vasi a figure nere ad essi contemporanei, alcuni dei quali meritano invece ogni attenzione. Purtroppo questi pittori non si sono quasi mai firmati; i proprietarî invece sì, ma sono proprio le firme meno importanti. Il proprietario che si è firmato più spesso è Nikosthenes; altre firme assai numerose sono quelle dei Miniaturisti. Fra questi primeggia per numero Tleson che raggiunge le cinquanta firme; poi Hermogenes con venti; Xenokles con diciannove. Fra i pittori a figure nere eccelle invece il Pittore di Antimenes. Buono è anche il Pittore di Philippides, che sembra coincida col Pittore di Andokides. Alcuni pittori, che dipinsero soprattutto lèkythoi e brocche, continuarono la tecnica a figure nere sino al 480, con un disegno rapido ed incisivo, sottolineato da un largo uso di ritocchi bianchi.
Anche durante il trentennio che vide gli incunaboli della nuova tecnica (540-510) i pittori possono raggrupparsi nelle due categorie consuete: Oltos fra i pittori della "forza", Epiktetos fra i pittori della "grazia"; mentre nel decennio seguente (510-500), dominato da Phintias, Euphronios ed Euthymides, questa distinzione non può farsi: i tre artisti sono talmente presi dall'ardore di multiplicare veritatem, che gli altri problemi passano in seconda linea.
Per i singoli maestri si rimanda alle singole voci: sia qui notato soltanto che pochi ceramografi, forse nessun altro, incorporarono l'ideale della forza con la completezza di Kleophrades. Ma in ciò egli resta isolato; la bellezza del ritmo e dell'armonia affascinavano tutti. Nessuno come Onesimos espresse l'ideale dell'eleganza; a lui si avvicina il Pittore di Panaitios. Altri sommi temperano un ideale con l'altro: il Pittore di Berlino darà pose bellissime ai suoi muscolosi atleti; Douris un'inquadratura perfetta a scene dense di significato; le figure del Pittore di Brygos saranno pervase dal ritmo anche nelle situazioni più scabrose e nelle scene più movimentate; Makron comunicherà una vita intensa anche ai panneggi delle figure femminili. I minori svilupperanno ognuno almeno uno speciale atteggiamento: Myson continuerà, pur nella tecnica mutata, a raffigurare le scene grandiose di contenuto narrativo come i pittori dei vasi a grandi dimensioni a figure nere; il Pittore di Providence amerà le figure ricche di panneggi ed agitate da una intima passione; il Pittore di Colmar chiuderà una figura entro un cerchio con la perfetta distribuzione delle parti nell'interno di una cornice, che tanto avevano amato i Miniaturisti delle generazioni precedenti; il Pittore della Fonderia imiterà il Pittore di Brygos, appropriandosi delle doti sue migliori; il Pittore (o i Pittori) del gruppo di Antiphon proseguiranno l'indirizzo di Douris della linea fluida ed armonica con costanza anche maggiore.
Fra il 480 ed il 470 si verifica il terzo momento critico della ceramografia attica. L'apogeo è passato e s'inizia una lenta decadenza, ricca tuttavia di molte opere squisite.
Quali le cause? Le guerre persiane non pare che influiscano: difatti la plastica proseguì il suo cammino glorioso, senza lasciarsi turbare né da vittorie, né da sconfitte. Né la produzione ceramica subì alcun detrimento quantitativo; se l'esportazione verso l'Etruria avvertì un rallentamento (dovuto, del resto, a cause economiche interne dell'Etruria), questo non fu tale da influire (né avrebbe potuto, per la sua stessa natura, anche se fosse stato più durevole) sulla qualità artistica della ceramica attica. Le cause vere sono interne ad essa. Sino al 480 circa fra pittori intenti a decorare vasi e pittori intenti a decorare pareti di case, o di templi, o di tombe (sia che dipingessero direttamente su muri, o su tavole di legno, o su lastre di terracotta da applicare sui muri), non vi era stata altra differenza all'infuori di quella costituita dalle dimensioni: le tombe di Tarquinia sono abbastanza probative a questo riguardo. Tutt'al più vi sarà stata una differenza di stato economico o sociale fra pittori addetti a compiti più umili e pittori addetti a compiti più alti, che avrà permesso, a colui che coltivava l'arte più per un bisogno dello spirito che per il compenso, di sviluppare la personalità artistica propria e di cercare (o di applicarli se trovati da altri) quei mezzi tecnici che servissero a dare al proprio ideale l'espressione voluta. Ma con l'avvento di Polignoto la situazione cambia. Infatti, sino a che tutta la pittura consisteva in un puro disegno, il pittore di vasi poteva tutt'al più sentirsi ad un livello leggermente più basso del pittore di quadri; ma il giorno in cui il pittore di pareti adoperò i colori, il pittore a semplici linee (giacché i decoratori di vasi sentivano troppo bene quanto poco si adattassero alla superficie curva del vaso lo scorcio, le prospettive ed il chiaroscuro) doveva inevitabilmente scendere non solo di grado, ma anche di livello e, per conseguenza, l'artista distinguersi dall'artigiano. Naturalmente, il processo fu graduale e solo alla fine del secolo fu completo; ma col 480 esso s'inizia. Di guisa che avremmo questo contrasto: la eccellenza della pittura causò nella ceramografia quella decadenza che l'eccellenza della plastica non causò nell'arte del rilievo. A ciò sì aggiunga una seconda ragione, che riguardò solo una parte (ma una gran parte) della ceramica attica fra il 480 ed il 420: l'influsso dell'ethos (ossia della sublimità) di Polignoto e dei Tragici. Quella nobile semplicità mista a tacita grandezza che il Winckelmann ed i suoi seguaci (Goethe, Burckhardt, Furtwängler sino a molti archeologi tedeschi di oggi) giudicavano il segno più certo della Grecità (scambiando - ahimé - molto spesso il classico col classicistico), mentre lo è solo di un cinquantennio di plastica greca (e nemmeno di tutta, ma solo di quegli scultori che piacquero al mondo greco-romano nel tempo in cui venne di moda far eseguire copie di capolavori del passato); questo ideale, che noi ci siamo abituati a chiamare classico, creò opere stupende sino a che trovò grandi anime degne di comprenderlo; ma, perseguito da spiriti meno elevati (o almeno non intimamente consoni a quello ideale) produsse - soprattutto dopo il 450, quando il nuovo movimento, con la scomparsa dei vecchi ceramografi, aveva definitivamente trionfato - talora opere spaventosamente vuote e noiose, tali da far rimpiangere la vitalità goffa, ma sempre fresca ed ingenua dei pittori del periodo arcaico.
Il rappresentante più caratteristico dello stile grandioso è il Pittore dei Niobidi, cosi chianiato dal suo lavoro più bello, sul quale sono già applicate le innovazioni polignotee delle figure disposte sui varî piani ed in parte nascoste dai dislivelli del terreno; particolari documentari, che han dato al vaso ed al pittore più fama di quella che avrebbe conseguito per i soli meriti artistici. Il Pittore di Altamura per le sue numerose gigantomachie (gliene vengono attribuite ben sette!) ed il Pittore dei Niobidi per le numerose amazzonomachie, ambedue per le centauromachie, sono stati probabilmente ispirati, per quanto riguarda i soggetti ed alcuni particolari, dalle grandi scene dipinte di Polignoto e di Mikon nel Thesèion e fors'anche da quelle della Stoà Poikìle; se e quanto siano stati fedeli allo spirito degli originali, è ben difficile sapere.
Una traccia reale dell'ethos di Polignoto, un'eco lontana, ma sincera della grande personalità sua tutti crediamo, anzi sentiamo, di trovarla in alcune composizioni del Pittore di Pentesilea, e soprattutto nei due grandi tondi, dipinti, senza l'ausilio della cornice, nell'interno di due grandi coppe. La scena, così densa di senso tragico, di Achille che si avvede dell'amore di Pentesilea per lui, soltanto nel momento in cui la uccide e le coglie nello sguardo la confessione dell'intimo sentimento, ci rivela di Polignoto più di quel che non facciano dieci amazzonomachie contemporanee; e così pure la scena dell'uccisione del gigante Tytios per opera di Apollo. È ben difficile ammettere che lo stesso artista abbia dipinto anche l'interno delle medesime coppe rappresentanti efebi presso i loro cavalli, o in conversazione. Il Pittore dei Cavalli appartiene invece ad un gruppo di tendenza ben diversa, che si allontana volutamente dall'armonia e dal ritmo, per sottolineare la espressività nella disarmonia (naturalmente, per quel poco che ciò era concesso ad un artista antico). I cavalli ch'egli ha dipinto non si può certo dire che siano modelli di bellezza, ottenuta innalzando alla sfera delle idee una immagine tratta dal mondo sensibile, ma sono volutamente brutti ed in compenso nervosi. Similmente, un movimento, tutt'altro che armonico, ma pieno di impeto nervoso anima alcune figurazioni dipinte dal Pittore di Telefo; ed il Pittore di Zeffiro, ripetendo il tema vecchissimo del satiro che sta per assalire una menade, dà all'atteggiamento del satiro ed ai visi dei due personaggi sagome che non rispondono davvero a quello che comunemente viene definito come il tipo ideale greco.
Erano, si capisce, anche allora delle eccezioni; ma bisogna riconoscere, ad onore dell'arte greca, che gli artisti corretti e noiosi - come il Pittore di Lewis, Hermonax, il Pittore di Euaion, il Pittore di Codro, il Pittore della Gigantomachia del Louvre, il Pittore di Villa Giulia, Polygnotos, Kleophon - non furono i più numerosi. Accanto ad essi vi furono altri che seppero sottrarsi al fascino della falsa grandiosità, coltivando un genere grazioso e miniaturistico, o ricco di una grazia e di una poesia, il cui profumo non è svanito attraverso i secoli, o carico di un intenso sentimento intimo, che s'incontra nel dialogo degli sguardi. Il Pittore di Achille rifulge, fra tutti i pittori del trentennio che intercorre fra i frontoni di Olimpia e quelli del Partenone, per la forza di sentimento e la grandiosità interiore delle immagini create dalla sua fantasia. Se altre considerazioni non lo vietassero, volentieri lo identificheremmo col Pittore di Pentesilea: certo gli è fratello nello spirito e degno continuatore. Sue sono le numerose lèkythoi a fondo bianco di uso funerario e decorate con scene allusive allo scopo al quale erano destinate, scene quasi sempre improntate a grande serenità, e numerosi sono i pittori che a lui, direttamente, o indirettamente, si ispirano, come il Pittore di Saburow, il Pittore del Tymbos, il Pittore di Thanatos, il Pittore dello Hermes; questi però dà ai defunti una mestizia meno serena che non il Pittore di Achille.
Anche le scene mitologiche di questo periodo sono piene di intimo silenzio. L'addio di Eracle à Piritoo (secondo un'altra versione, Teseo che si risveglia dal sonno della morte per opera di Erade che lo libera dalla prigionia dell'Hades) del Pittore di Alchimachos, i Traci avvinti dalla musica di Orfeo (la prima raffigurazione della potenza della musica), Erifile sedotta da Polinice per mezzo della collana di Armonia, le Muse sull'Elicona del Pittore di Achille, ci dànno dell'anima greca un'immagine ben diversa da quella sognata dai neo-classici.
A differenza di questi maestri, Sotades seppe infondere alle sue fanciulle intente a cogliere le mele il soffio delicato di un canto di Saffo, al quale forse l'artista si ispirò; e, nella danza delle Nubi, gli riuscì di animare di vita poetica un fenomeno naturale; il Pittore di Eretria seppe distribuire con mano lieve una gentile schiera di fanciulle entro il corteo di Dioniso, quello stesso corteo che l'arte arcaica aveva raffigurato tanto scomposto; il Pittore del Bagno seppe darci scene di gineceo, soffuse, con tocco leggero, dell'atmosfera trepida del di delle nozze.
Verso il 420 si prepara il quarto periodo critico della ceramografia attica. Durante il periodo 480-420, i mediocri pittori della energia retorica si erano fatti largo, sospingendo ai lati i maestri della forza vera, ossia di quella spirituale ed i pittori della vera eleganza, quella costituita dall'uso discreto e sorvegliato dei propri mezzi: tuttavia gli artisti bravi erano pur sempre numerosi, più numerosi di quel che non appaia dall'enumerazione fatta poco sopra. Ma adesso i buoni scompaiono quasi del tutto; e se anche sussiste la polarità della forza e della grazia, i cultori dei due campi sono all'incirca mediocri in egual maniera.
In quello della grazia, di meno; o almeno così sembra a noi moderni. Le opere di Aristophanes, di Aison, del Pittore della Gigantomachia di Melos e di Napoli ci lasciano assai meno soddisfatti delle pitture del Pittore di Meidias. Il mondo ateniese era evidentemente stanco degli ideali di grandezza e sognava di riposarsi là dove tutto è bellezza e voluttà. Poche cose di questo periodo si salvano artisticamente: Pelope ed Ippodamia sul carro di Posidone, la parodia di Eracle sulla quadriga dell'apoteosi e l'interno di una coppa del museo di Würzburg, ammirevole per il modo decoroso con cui l'artista ha saputo raffigurare una cosa che non lo è affatto. Tutti vasi che, se non sono di Meidias, appartengono però al suo influsso più o meno diretto (v. tavola a colori).
Accanto a Meidias ed al suo ciclo domina, nel periodo 420-370, il Pittore del Deinos di Berlino, che conserva ancora molto, della sobria linea classica. I suoi seguaci furono numerosi ed il suo influsso si protrasse nella generazione seguente al 370, il che non avvenne con Meidias, forse perché le linee rigide della classicità erano - come sempre - più facili ad imitarsi che non lo stile fiorito.
Quali le cause di tanta decadenza? Analoghe a quelle della crisi del 480. Per quanto le fonti letterarie siano estremamente avare di particolari tecnici, risulta chiaro che dei tre grandi maestri della fine del V sec., Parrasio, Apollodoros e Zeusi, il primo raggiunse l'espressione del volume attraverso la linea, gli altri due attraverso il colore. Su alcuni vasi abbiamo un pallido riflesso della tecnica di Parrasio: su una lèkythos funeraria il disegno ci dà appunto il volume mediante le linee. Ma una indicazione eccessiva del volume e della profondità spaziale avrebbe nociuto alla natura decorativa della pittura vascolare; e i ceramografi vi dovettero rinunziare. In tal modo la ceramografla poté sussistere ancora un secolo; ma il distacco fra artisti ed artigiani si fece maggiore. Ancor più profondo si fece il distacco in seguito alla tecnica del volume reso attraverso il colore, introdotta da Zeusi e da Apollodoros. Abbiamo, è vero, durante il periodo 400-380, un improvviso abbondante uso, da parte di alcuni pittori, del colore bianco, il cui effetto - e quindi certamente anche il cui scopo - era di aumentare la corporeità delle figure e di rendere più evidente lo scaglionamento delle figure su vari piani; abbiamo anche, nello stesso periodo, un abbondante uso di vernice diluita per indicare il fondo delle pieghe e, quindi, la massa del panneggio; abbiamo un frammento di vaso àpulo del IV sec. sul quale appaiono i riflessi lucidi; ma, in linea generale, i vasi a. del IV sec. evitano, come si è detto, la corporeità perché contraria al loro senso decorativo. In tal modo, il distacco fra artista ed artigiano si approfondì sempre più e nessuno che avesse, o credesse di avere, capacità di artista si rassegnò più a restare un semplice operaio.
La ceramografia a. del quarantennio intorno al 400 a. C. si presenta con poche opere buone, che attestano le grandi capacità artistiche dell'artigianato attico, in mezzo ad una massa enorme di vasi insignificanti. Consci della distanza sempre maggiore che li separa dalla grande arte, i ceramografi a. si limitano generalmente ad animare la superficie dei vasi sul lato anteriore con immagini di divinità raggruppate, ritratte in atteggiamenti sempre uguali e senza più alcun significato (nella metà almeno dei casi trattasi di Dioniso fra satiri e menadi) e, sul lato posteriore, tre figure di efebi ammantati, sempre gli stessi, oppure - più di rado - tre efebi nudi, sempre gli stessi. A distanza di quasi due secoli la ceramografia a. era tornata esattamente allo stesso punto in cui si trovava al tempo delle anfore tirreniche. E come allora vi era ogni tanto un pittore un po' meno mediocre che si spingeva sino a dare una reale scena mitologica, così anche ora abbiamo, in qualche raro caso, miti determinati, come i preparativi per la gara fra Pelope ed Oinomao, il mito del gigante Talos vinto dai Dioscuri, o i preparativi per la rappresentazione teatrale con la partecipazione del famoso auleta Pronomos.
Questi vasi appartengono tutti al primo ventennio del IV secolo. Dopo il 380 alcuni artisti più intelligenti tentano di rialzare le sorti della ceramografia, abbandonando ogni idea più ambiziosa e coltivando il genere grazioso di Meidias, secondo le proprie possibilità. Fra il 380 ed il 350, abbiamo tre Pittori: di Europa, di Eracle, di Elena; circa la metà del secolo, il Pittore della Processione; fra il 350 ed il 320, il Pittore di Tetide, delle Esperidi ed altri anonimi. Del Pittore della Processione abbiamo una bella oinochòe con la basilissa (la moglie dell'arconte-basileo), che si spoglia innanzi a Dioniso nelle feste delle Antesterie: in questo vaso abbiamo forse un lontanissimo riflesso dello spirito (non della tecnica) di Nikias, il pittore amico di Prassitele, che con somma diligenza (dice la fonte antica) dipinse le donne. La ricerca della corporeità è cercata ed ottenuta nella bellissima hydrìa di Kamiros, ma non per mezzo del colore, bensì della linea. Nudo femminile e panneggio sono sentiti in modo mirabile; ed anche qui viene spontaneo di pensare a Nikias, ed ai panneggi della plastica del IV sec. In qualche vaso vediamo l'influsso della tridimensionalità lisippea (siamo giunti al 320 a. C.).
Erano questi gli ultimi aneliti. Già da tempo i ceramisti più avveduti avevano rinunziato alla decorazione pittorica in favore di una decorazione a rilievo (documento anch'esso di un bisogno di corporeità sempre maggiormente sentito). Con l'avvento dell'ellenismo cessa quest'arte che aveva così nobilmente tenuto il campo per più di mezzo millennio.
Bibl.: Per i vasi a figure nere: J. D. Beazley, Attic Black-figure; a Sketch, Londra 1928 (ivi la bibl. essenziale anteriore); id., Groups of Attic Blackfigure, in Hesperia, XIII, 1944, p. 38 ss. Per Lydos-Sakonides: A. Rumpf, Sakonides, Lipsia 1937. Per i pittori maggiori e minori della seconda generazione del VI sec.: J. D. Beazley, Groups of Mid-sixth-century Black-figure, in Annual of the British School at Athens, XXXII, 1931-32, p. 1. Per i vasi a fig. nere posteriori all'invenzione della tecnica a fig. rosse: J. D. Beazley, The Antimenes-Painter, in Journ. Hell. Stud., XLVII, 1927, pp. 63-92, nonché id., Attic Black-figure; a Sketch, Appendix V, pp. 41-42; P. N. Ure, Droop-Cups, in Journ. Hell. Stud., LII, 1932, pp. 55-71; J. D. Beazley-H. G. G. Payne, Attic Black-figure Fragments from Naucratis, in Journ. Hell. Stud., XLIX, 1929, pp. 253-272 (a p. 271, aggiunte alle liste precedenti). Sull'identità del Pittore di Philippides col Pittore di Andokides, J. D. Beazley, Attic Black-figure, a Sketch, p. 40 (ivi lista di opere attribuite al Pittore di Lisippides); A. Rumpf, Sakonides, p. 22, nota 59; K. Peters, Studien zu den Panathenäischen Preisamphoren, Berlino 1942. Su altri artisti minori a fig. nere: J. D. Beazley, Attic Black-figure, a Sketch, pp. 43-46 (Pittore di Leagro) 46-47 (Pittore di Acheloo); C. H. E. Haspels, Attic Black-figured Lekythoi, Parigi 1936. Sulle pelìkai a fig. nere: D. von Bothmer, Attic Black Figured Pelikai, in Journ. Hell. St., LXXI, 1951, figg. 40-47, tav. XX-XXII. Sulle anfore panatenaiche: K. Peters, Studien zu den Panathenäischen Preisamphoren, Berlino 1942, p. 32 ss. (ivi lista dei pittori del gruppo di Euphiletos), con elenco di anfore panat. del V. sec.; K. Peters, in Jahrbuch, LVII, 1942, pp. 143-157 (elenco di anf. pan. del IV sec.). Per i vasi a fig. rosse: J. D. Beazley, Attic Red-figured Vases in American Museums, Cambridge 1918, pp. 27-28 (studio critico sui pittori del periodo 510-500); G. M. A. Richter, Attic Red-figured Vases, New Haven 1946. Sul Pittore di Ambrosio ed i suoi errori nello scorcio: J. D. Beazley, Attische Vasenmaler des rotfigurigen Stiles, Tubinga 1925, ad vocem; E. Langlotz, Griechische Vasenbilder der stengrotfigürlichen Vasenmalerei, Heidelberg 1922 (studio critico su tutto il periodo di stile severo). Sulle cause della decadenza della ceramografia attica verso il 480: J. D. Beazley, Red-fig. in Am. Mus., pp. 141-142. Il Pittore dei Cavalli non è disgiunto dal Pittore di Pentesilea, in H. Diepolder, Der Penthesilea-Maler, Lipsia 1936. Studio critico sui pittori delle lèkythoi attiche a fondo bianco di età periclea in E. Buschor, Grab eines attischen Mädchens, Monaco 1939. Liste di pittori maggiori e minori di lèkythoi a fondo bianco in E. Buschor, Attische Lekythoi in der Parthenonzeit, Monaco 1925. Per tutti i pittori a fig. rosse del VI e V sec., J. D. Beazley, Attische Vasenmaler des rotfigurigen Stiles, Tubinga 1925. La stessa raccolta, completata ed estesa a tutto il IV sec., in Beazley, Attic Red-figure Vase-Painters, Oxford 1942. Sui riflessi dell'arte di Parrasio nella ceramografia, E. Bielefeld, Archaeologische Vermutungen, Würzburg 1938; A. Rumpf, in Am. Journ. Arch., LV, 1951, pp. 1-12; R. Bianchi-Bandinelli, in La Critica d'Arte, III, 1938, pp. 4-11. Sui riflessi dell'arte di Nikias: A. Rumpf, in Jahrbuch, XLIX, 1934, pp. 6-23. Su Apollodoros ed Agatharchos: A. Rumpf, in Journ. Hell. Stud., LXVII, 1949, pp. 10-21. Sul periodo 420-380: W. Hahland, Vasen um Meidias, Berlino 1930 (ivi, a pp. 18-21, lista die singoli pittori e dei vasi loro attribuiti); G. Becatti, Meidias, Firenze 1947; E. Zevi, Un nuovo vaso del pittore di Oinomaos, in Rend. Acc. Pontif., XV, 1939, pp. 37-45. Sulla ceramografia del IV sec. posteriore al 380: K. Schefold, Kertscher Vasen, Berlino 1930; id., Untersuchungen zu den Kertscher Vasen, Berlino 1934; H. Schoppa, Beiträge zur att. Vsenmalerei nach Meidias, in Archäol. Anzeiger, 1935, pp. 33-50.