TIZIANO, Vecellio
Pittore, nato presumibilmente tra il 1488 e il 1490 a Pieve di Cadore, morto nel 1576 a Venezia. Fu condotto novenne a Venezia per impararvi l'arte, nella bottega di Sebastiano Zuccato, poi in quelle di Gentile e Giovanni Bellini. Giorgione lo attrasse, e quando quest'innovatore frescò la facciata del Fondaco dei Tedeschi che guarda sul Canal Grande, T. dipinse l'altra verso la Merceria. Della sua arte di frescante restano saggi a Padova nella scuola del Santo (1511) e nell'altra del Carmine. Ricercato quale pittore dalla corte pontificia (1513), preferì "poner ogni suo inzegno et spirito fino haverà vita" nel dipinger la Sala del Gran Consiglio nel Palazzo Ducale a Venezia. Mentre si dibatteva nel Collegio dei Pregadi la questione del compenso a T. per i quadri di quella sala, compreso il "teller" della Battaglia navale, il pittore tenne rapporti con la corte di Ferrara nel 1516 e nel 1517, per i quadri dei Baccanali che dovevano ornare i camerini di Alfonso I d'Este, eseguendo intanto nel 1518 l'Assunta per Santa Maria Gloriosa dei Frari a Venezia, nel 1519 l'Annunciazione per il duomo di Treviso, nel 1520 un San Sebastiano per il legato pontificio Altobello, nel 1521 la facciata della scuola di Santa Maria Nuova a Conegliano. Intento a queste opere, T. non dava compimento a quelle di Alfonso I, e quando finalmente, nel 1523, portò a termine la tela di Bacco ed Arianna, cominciarono altri rapporti con Federico II Gonzaga, signore di Mantova, e, dal 1532, col duca d'Urbino, da cui gli vennero commissioni per quarant'anni. Ma, giunto in Italia l'imperatore Carlo V, gli donò fiducia; i suoi segretarî, i suoi favoriti gli chiesero pitture a gara; l'imperatore l'innalzò al grado di cavaliere dello Speron d'oro.
La posizione dell'artista si fece eccezionale: pittore ufficiale della Serenissima, succeduto nel 1516 a Giovanni Bellini, ricercato dalle corti di Ferrara, di Mantova, di Urbino, di Roma, onore delle confraternite di Venezia, per la Madonna di San Niccolò, già nel chiostro di Santa Maria dei Frari, ora in Vaticano (1523), la Madonna di Casa Pesaro in quella chiesa (1526), il San Pietro Martire in San Giovanni e Paolo, distrutto da incendio (1530), il San Giovanni elimosinario per la chiesa di questo santo in Venezia (1533). A gara i principi chiedono ritratti al Vecellio: il marchese Federico Gonzaga ne riceve uno di Pietro Aretino e un altro del defunto Girolamo Adorno, ambasciatore di Carlo V a Venezia (1527), desidera quello di Cornelia, dama d'onore della contessa Pepoli, si vanta del proprio ritratto "in armi" (1530), e gli fa eseguire un altro ritratto di Carlo V, in abito di gala, col suo cane accanto (1533). In quest'anno il cancelliere imperiale si fa inviare in Spagna il ritratto del duca Alfonso I d'Este, insieme con altre opere di Tiziano. E Tiziano sembra moltiplicarsi per il ritratto allegorico di Davalos del Vasto, tornato vittorioso dei Turchi, e per quello del cardinale Ippolito de' Medici, abbigliato da capitano ungherese, al comando dei moschettieri a Vienna contro il Turco (1533). Prepara intanto il Vecellio la pittura d'una donna per il cardinale Ippolito de' Medici; ma il Cardinal di Lorena, veduta l'opera, se l'appropria, lasciandola solo per la promessa di una simile fattagli dal pittore (1534). Da un precedente ritratto, riproduce Isabella d'Este ancora con i lineamenti di novella sposa (1534); rievoca le fattezze del duca Alfonso I di Ferrara (1535-1536); scolpisce coi pennelli Francesco Maria della Rovere e sua moglie Eleonora (1536-1537); compie il ritratto del Gran Solimano, traendolo da una medaglia, per Federico Gonzaga, che a un tempo alloga al pittore le immagini dei dodici Cesari per adornarne un'aula del castello di Mantova (1537-38). Succede Pietro di Lando, nella carica di doge, ad Andrea Gritti, e, al solito, T. ne dipinge l'effigie per la sala del Gran Consiglio (1539). Contemporaneamente, ritrae il parente del doge, Agostino di Lando, poi assassino di Pier Luigi Farnese di Parma; e l'anno successivo, Vincenzo Capello, comandante generale della flotta veneta, Alessandro dagli Organi, Elisabetta Quirini sorella al patriarca di Venezia, il cardinal Pietro Bembo. Insediato doge Pietro di Lando, Davalos del Vasto, assistente alla cerimonia, commise a T. l'allocuzione, nella quale egli è raffigurato in attitudine d' arringare i propri soldati (1539-1541). L'attività del Vecellio non ha posa. Ha finito appena, rapidamente, l'opera per il Davalos, che, con velocità pittorica, figura la Pentecoste, portata poi dalla chiesa di Santo Spirito a quella di Santa Maria della Salute.
Il 1542 non è meno carico di opere tizianesche: il ritratto della figlia decenne di Roberto Strozzi; una Natività per la cattedrale di Novara; una pittura votiva in onore del doge Lando, che doveva esser posta nella Sala d'Oro; l'effigie di don Diego di Mendoza, allora ambasciatore di Carlo V a Venezia, "tutto intero e in piedi", come scrisse il Vasari, "che fa bellissima figura". Non basta, che l'Aretino scrive all'ambasciatore una lettera, accompagnandola di un soscritto col quale canta la donna amata dallo Spagnolo, ritratta da Tiziano.
Nel 1543, il pittore è a Roma, e porta il ritratto del pontefice Paolo III alla corte pontificîa, dalla quale si parte il 10 luglio, regalato di cinquanta ducati d'oro per le spese del viaggio di ritorno a Venezia. Torna a Roma nel 1545, di ottobre, ed è accolto trionfalmente, non solo dal cardinal Bembo, ma dallo stesso pontefice. Dimora nell'Urbe sino alla prima metà del 1546, onorato da tutti quale principe della pittura. Il municipio romano il 19 marzo di quell'anno gli conferisce la Cittadinanza. La sua fama, sempre più alta, diviene europea, e Carlo V suo ammiratore lo chiama ad Augusta. Per lui ha già eseguito, nel 1544, sopra il modello d'una pittura forse fiamminga, due ritratti della defunta imperatrice Isabella di Portogallo. Alla corte imperiale (1547 1548), ritrae non solo l'imperatore e i suoi prigionieri Giovanni Federico elettore di Sassonia e Filippo d'Assia; ma la vedova regina Maria d'Ungheria, e le sue due parenti; dopo di esse, Maria Giacomina di Baden, vedova di Guglielmo I di Baviera, e le sue quattro sorelle. Lo stesso re Ferdinando, fratello di Carlo V, dipinge "in armi, ma senza il morione", e, dopo lui, i suoi figli Massimiliano e Ferdinando, Emanuele Filiberto di Savoia, Maurizio di Sassonia in armi e il duca d'Alba con corazza e sciarpa. Carlo V posava davanti al pittore, che lo rappresenta anche in armi sul destriero alla battaglia di Mühlberg. Era veramente inesauribile, tanto da render quasi impossibile seguirlo passo per passo: volgendosi indietro sul cammino del sommo pittore, è facile riconoscere che molte tra le opere note, tra quelle ancora esistenti, non sono state tutte raccolte per l'aumentar continuo di esse. Prima di recarsi ad Augusta, aveva compiuto una pala d'altare per la chiesa di Serravalle (1547), il ritratio di Giovanni de' Medici dalle Bande Nere (1546), e prima ancora la "terribile maraviglia" di quello di Pietro Aretino, di Daniel Barbaro, di Guidobaldo II d'Urbino, di Marcantonio Morosini, di Giulia Varana (1545). Quanti avevan rapporti con l'imperatore Carlo V: Ferrante Gonzaga, il cardinal Farnese, il segretario del Gonzaga, tutti volevano opere del pittore, le copie di quelle già eseguite per sua maestà cesarea. Tornò in Germania nel 1550, e fu occupato a lavorare per don Filippo d'Austria, principe di Spagna, futuro re Filippo II: il suo ritratto in armatura d'acciaio fu mandato nel 1553 dalla regina Maria d'Ungheria a Maria Tudor, che voleva conoscere il suo futuro consorte. Tornato a Venezia, il pittore è in comunicazione continua col "molto alto e molto poderoso Signore" Filippo di Spagna, e ininterrottamente gli manda pitture, la Santa Margherita, un Paesaggio, la replica d'una Regina di Persia, poi Adone e Venere, Perseo e Andromeda, Medea e Giasone e un' "opera devotissima" "la quale", scriveva il pittore, "tengo nelle mani già dieci anni, dove spero che Vostra Serenità vedrà tutta la forza dell'arte che Tiziano suo servo sa usare nella pittura". E in quel mentre l'artista inviava a Carlo V l'Addolorata e la Trinità. Già nel 1550, nel secondo soggiorno della corte imperiale ad Augusta, l'imperatore aveva desiderato da Tiziano un dipinto in cui fosse rappresentata la lotta religiosa del suo tempo e il proprio desiderio di riposo; e T. propose di figurare la corte e il Cielo con le tre persone della Trinità attorniate dal seguito celeste, in atto d'intercedere per la reale famiglia. Aveva T. portato con sé ad Augusta un Ecce Homo, e, nel 1554, vi mandò a riscontro un'Addolorata, e, con essa, la Trinità, "tenuta specialmente", al dire del segretario Francesco Vargas, "per un miracolo d'arte". Ancora Filippo II desiderò un San Lorenzo per ornarne la chiesa dell'Escoriale, a compimento del voto fatto al Santo, nel 9 agosto 1557, alla battaglia di San Quintino. Oltre quell'"ex voto", fu inviato a Filippo II un Christo morto nel sepolcro, che non arrivò mai a destinazione; poi Diana e Atteone, Diana e Calisto, una Deposizione richiesta per sostituire quella smarrita, Cristo nell'Orto, Europa sul toro, Atteone lacerato dai cani, l'Adorazione de' Magi, una Maddalena, il ritratto della sorella di Filippo II, Regina dei Romani, la grande Cena dell'Escoriale, ed altri ed altri. A Venezia, oltre la serie di ritratti dei dogi che si succedettero, fece quello del prelato Beccadelli, inviato papale, e, a novant'anni, dipinse una Nostra Donna per il duca d'Urbino, donò a Pio V e al cardinale Alessandro Farnese tre tele, replicò ritratti, ma in tutto fu molto aiutato dai discepoli, specialmente da Orazio suo figliuolo.
Visse il gran vecchio a Venezia, in una casa piena di ricchezza e di godimenti, di fronte al mare, circondato da amici, tra cui i due intimi Pietro Aretino e Iacopo Sansovino, il maggiore architetto e scultore del suo tempo in Venezia. Con essi formò il "triumvirato" cui tutta Venezia colta e ricca si inchinava.
Il Priscianese, in calce ai sei libri della lingua latina (Venezia 1553) rappresenta al vivo Tiziano nella sua casa: "messer Tiziano Vecellio dipintore, come ognun sa eccellentissimo, è persona veramente atta a condire con le sue piacevolezze ogni onorevole convito. Erano convenuti col detto M. Tiziano, perché ogni simile il suo simile appetisce, alcuni de' più pellegrini ingegni, che oggi si trovino in questa città, e de' nostri principalmente M. Pietro Aretino, nuovo miracolo di natura, ed appresso il grande imitatore di quella con l'arte dello scalpello, come col pennello il M. del convito, messer Iacopo Tatti, detto il Sansovino e M. Iacopo Nardi, ed io, sicché fui quarto fra cotanto senno. Quivi avanti che si mettessero le tavole, perché il sole, benché il luogo fosse ombroso, faceva ancor sentir molto delle forze sue s'andò passando il tempo con la contemplazione delle vive immagini delle eccellentissime pitture, delle quali era piena la casa, e col parlare della vera bellezza e vaghezza del giardino, con singolar piacere e meraviglia d'ognuno, il quale è posto nell'estrema parte di Venezia sopra il mare, là onde si risguarda la vaga isoletta di Murano ed altri luoghi bellissimi. La qual parte del mare, tosto che il sole fu andato sotto, fu ripiena di mille gondolette, ornate di bellissime donne, e risuonanti di diverse armonie e musiche di voci e d'istrumenti che insino alla mezza notte accompagnarono la nostra lieta cena...".
Così visse Tiziano Vecellio. Ebbe dalla moglie Cecilia, morta nel 1530, tre figli: Pomponio, Orazio, Lavinia. Al primo, votato alla carriera ecclesiastica, furon concessi benefici per le raccomandazioni e per i quadri paterni; il secondo fu aiuto al padre, ed è principalmente noto per l'aggressione subita da Leone Leoni, che voleva rapirgli il denaro riscosso dalla tesoreria milanese; la terza, l'unica figlia, immortalata dal padre, andò sposa a Cornelio Sarcinelli di Serravalle nel 1555. Come i ritratti della figlia, così altri non qui elencati si trovano ovunque, e sembrano infiniti, come le stelle nel firmamento. La vita instancabile, l'arte sempre rinnovantesi, ebber fine nel 1576, quando per ultimo, a 99 anni, creò la Pietà della Galleria di Venezia, da Iacopo Palma il Giovane condotta a compimento, poiché, preso da peste, il 27 agosto, morì il mago del pennello che aveva esaltato la bellezza eterna della Laguna col proprio inestinguibile splendore. Il quadro più antico di Tiziano giunto sino a noi è la pala di San Pietro del museo di Anversa. Eseguita nel 1502, non ci rivela più nulla dello stile dei suoi maestri, e nulla ancora di quello di Giorgione. Le forme sono timidamente ispirate a Giovanni Bellini e a Cima da Conegliano, ma il colore già contrasta con le timidezze formali, il chiaroscuro tradizionale è già trascurato per usare colori locali, messi talora crudamente l'uno accanto all'altro, in modo da lasciar osservare anche oggi i limiti di qualche singola pennellata, buttata sprezzantemente di primo getto. Non solo, ma anche già si palesa il predominio del rosso sull'intera gamma, predominio che sarà poi la base della colorazione successiva. Mentre quindi T. si rivela sin dalla prima opera primitivo e tradizionale nella composizione e nella forma, egli è già personale e avvenirista nell'uso del colore, e le sue facoltà naturali lo fanno già pittore rivoluzionario.
La pala di San Marco, nella sagrestia della chiesa di S. Maria della Salute a Venezia, ci rivela come il pittore abbia già imparato a vedere la natura coi proprî occhi di spontaneo realista, e ad un tempo com'egli abbia imparato a stilizzarla secondo l'ideale romantico di Giorgione. Ma, ciò che più importa, egli ci presenta una visione complessa di luce, più di quella da alcun pittore attuata sino a quel tempo, capricciosa nel suo movimento che serve a coprir d'ombra ciò che deve essere appena suggerito, a mettere in evidenza quanto abbia importanza, a far vibrare i colori intensi per la gioia degli occhi. Contemporaneamente T. dimostra di aver perfettamente assimilato l'ideale di bellezza proprio di Giorgione, e di saper creare, con pennello fresco, facile, scorrevole, capolavori degni del prototipo, sia con la Madonna del museo di Vienna, detta la Zingarella, sia col ritratto, a torto detto d'Ariosto, nella National Gallery di Londra.
Nel 1508 il Vecellio frescò una facciata del Fondaco dei Tedeschi a Venezia, a concorrenza d'altra dipintavi da Giorgione; e la tradizione vuole che egli riportasse la palma. Oggi quegli affreschi sono perduti; ma come T. frescasse in quel tempo è palesato da tre scene nella Scuola del Santo a Padova, dipinte nel 1511. Rappresentano tre miracoli di Sant'Antonio; e l'illustrazione di avvenimenti doveva facilitare a T. la rivelazione della sua tendenza al movimento drammatico. Una donna sta per essere uccisa dal suo amante: lo scorcio della donna, che si contorce a terra per evitare il pugnale, lancia nella violenza la scena, che per la mossa ritenuta dell'uomo assume eroica compostezza. E l'altra composizione del Bambino che discolpa la madre fornisce occasione di rappresentare una folla in cerchio con svariati sbattimenti di luce, con atteggiamenti diversi che si fondono nell'insieme, così che ogni personaggio mantiene la sua personalità pur non isolandosi dalla massa: l'energia dell'azione, crescente di mano in mano che s'avvicina al centro, dà a questo affresco carattere chiaro e forte di drammaticità.
I quadri del medesimo tempo hanno carattere diverso a seconda che sono sacri o profani. I sacri rappresentano la "Sacra Famiglia", non più come una serie di figure in ischiera, esposte dall'altare ai fedeli, sacre immagini da adorare, quali i pittori del Quattrocento avevano concepito; ma le figure si movono verso il centro, in atto di manifestare il loro pensiero. Contemporaneamente, la figura si amplia, prende aspetto rigoglioso; le giovani sante splendono di floridezza, carni dorate, capelli biondi, lineamenti delicati, tipo di bellezza femminile che rimarrà con il nome di T. E i vecchi santi con la lunga barba bianca, con gli occhi grandi e profondi, assumeranno aspetto di nobili patriarchi o di solenni profeti, il cui pensiero si risolve in una straordinaria energia d'azione. A tale tendenza appartengono le Sacre Famiglie degli Uffizî a Firenze (n. 633), del museo di Vienna (n. 180), del Prado a Madrid (n. 434), del Louvre a Parigi (n. 1577), e principalmente quella del museo di stato a Dresda (n. 168), in cui per la prima volta il centro non è più costituito da una figura dominante, ma dal rapporto tra due figure, dallo sguardo, cioè, pieno d'amore, di Gesù bambino per Santa Caterina. Ai medesimi principî obbedisce il Cristo della moneta del museo di Dresda.
Nei quadri profani, cioè nelle scene di fantasia, T. si attiene più fedelmente ai modelli di Giorgione, e tuttavia sa creare alcuni dei suoi più famosi capolavori. Nel cosiddetto Amor sacro e profano della Galleria Borghese a Roma, due donne, l'una ignuda, l'altra riccamente vestita, attorno ad una vasca, appaiono davanti a una campagna lussureggiante sotto il cielo in tramonto. L'ignuda, Afrodite, ha incitato l'altra all'amore e attende la risposta che non giunge, perché la sedotta segue i suoi pensieri con lo sguardo lontano. Giovani, magnifiche, piene di vita, le due donne hanno un leggiero velo di tristezza che risuona nella natura al tramonto. Della medesima fantasia sono impressi il quadro delle Tre Età a Bridgewater House di Londra, la Salome della Galleria Doria a Roma, la Flora degli Uffizî a Firenze. Il Concerto della Galleria Pitti conduce T. al più alto dei suoi voli fantastici, nel periodo in cui ancora non si è liberato dall'influsso di Giorgione: una figura tutta nera, con un volto emaciato e forte, e due occhi vibranti di passione, un monaco pienamente dominatore di sé, atttua la sua passione sopra una tastiera, per mezzo di dita flessibili e pur costrutte d'acciaio; e due assistenti rimangono nell'ombra, dominati dalla passione musicale del monaco. Straordinaria è la forza drammatica dell'apparizione, tutta concentrata in potenza.
Lo sviluppo del movimento, la creazione pittorica della folla, lo sviluppo del dramma, liberarono T. da ogni, anche lontano, ricordo di Giorgione, e gli permisero di purificare totalmente la propria personalità, così da divenire da allora in poi, e per 50 anni, il conduttore della pittura veneziana. Questo avvenne nel 1518 con la creazione dell'Assunta di Santa Maria Gloriosa dei Frari. In basso, il gruppo degli Apostoli, accortosi dell'Assunzione, si agita: chi si raccoglie, chi è in preda a commozione, chi prega, chi si meraviglia, chi si esalta in uno slancio d'amore con le braccia sollevate. Nel cielo, entro un alone d'angioli, s'innalza monumentale la Madre di Dio, che il Creatore scende ad accogliere. I colori parlano: oscuri, contro lume, gli Apostoli ricevono sprazzi di luce, così come sprizza la gioia tra il turbamento; gli angioli sono già pieni della luce, che si concentra nello spazio intercedente tra la divina Madre e il Creatore: ivi l'atmosfera assume un colore caldo vibrante, si diffonde in un'intera sinfonia di ottoni. L'accordo fra le singole parti è perfetto: la folla degli Apostoli è una, e ciascuno di essi, in quell'unità, assume un atteggiamento proprio, conserva la sua personalità; la grande figura della madre, svolgendosi ad elica, non grava col suo peso nell'aria, ma anzi si slancia decisa verso l'alto. La ricchezza dorata del colore, la composizione monumentale, lo slancio del movimento, la trattazione sommaria d'ogni figura perché non sia individuata troppo tra la folla: ecco i caratteri fondamentali dello stile proprio di T., libero ormai da qualunque influsso di scuola, padrone per tutta la sua lunga e intera vita di sé e di tutta la pittura veneziana contemporanea.
La Festa di Venere (Museo del Prado a Madrid, 1518), il Baccanale (ivi, 1520 circa); Bacco e Arianna (National Gallery, Londra 1523), palesano il nuovo stile di T. nelle scene mitologiche. Nessun criterio più di simmetria, nessun atteggiamento più alla giorgionesca, alla romantica, bensì scene di vita, corse al piacere, sfrenate e pur fresche e gioconde, perché giovanili, tutte immerse in un paese lussureggiante. Nessuna figura è concepita se non in movimento; tutte le forme scorciano, ondulano, si slanciano, con lo scopo di fornire piani curvi alla luce che guizza, ai colori che risplendono di ricchezza non raggiunta mai più. Nei quadri religiosi contemporanei le figure scemano di numero e divengono più grandiose e solenni. T. sente il dramma religioso, e lo rappresenta con la forza di un atleta preso da commozione e da fremiti. La Deposizione del Louvre (Parigi, 1523 circa) è costituita da una composizione ellittica in cui tutte le figure si curvano verso la salma di Cristo nel centro. Le luci sbattono violente attorno, mentre sfumato nell'ombra è il busto del Dio martire, così come le urla, le strida del dolore, si calmano religiosamente davanti al mistero religioso, alla scena funerea che per le nubi rosse prende violenza sanguigna. Nella Madonna e Santi (San Domenico in Ancona, 1520; Galleria Vaticana in Roma, 1523), nella Resurrezione (Ss. Nazaro e Celso di Brescia, 1522), la scena assume un movimento a spírale verso l'alto; le figure sono plasticamente formate, come statue a tutto tondo, oppure sono immerse nella luce, compenetrate di luce e di penombre, così che mantengono contemporaneamente la loro vita individuale e reale, e la loro leggerezza eterea nello spazio. La Madonna di Ca' Pesaro (Venezia, Santa Maria dei Frari, 1526) corona tale tendenza. La linea della composizione, nettamente diagonale, attua la profondità; e perciò l'aria circola liberamente attorno a tutte le figure, e lo spazio profondo crea l'impressione della grandiosità, del carattere eroico della scena. Nel Martirio di S. Pietro martire (oggi distrutto; 1528-30) tutte queste qualità di movimento e di colore luminoso erano al servizio d' una scena tragica di assassinio, la quale assumeva tale violenza da esser considerata per tutto il Seicento e il Settecento come il capolavoro di T. Il mondo pianse la sua perdita, e avrebbe potuto piangere l'altra della Battaglia di Cadore, pure distrutta dal fuoco, nella quale, come si rileva dall'incisione, non solo i soldati, ma le montagne intere si contorcevano per vulcaniche convulsioni. Un po' più tardi, nella Presentazione al tempio della Galleria di Venezia (1538-40), T. non si preoccupò né di movimenti, né di drammi, ma soltanto delle diverse riflessioni della luce e del colore sulla folla, sulle cose, sul paese, giungendo a una sinfonia calma e sonora, semplice e pure ricchissima, con varietà e profondità di vita chiaramente esposta al pieno sole. In questo periodo dell'arte sua, quel che non era rappresentazione religiosa esaltata da forze drammatiche, assumeva valor di ritratto.
Il ritratto è certo idealizzato da T., perché la realtà è trasformata in una speciale vibrazione splendente di colore: è un'idealizzazione puramente cromatica, non sentimentale come nel periodo anteriore al 1518.
Nei ritratti di Tommaso Mosti (Firenze, Pitti), dell'Homme au gant (Parigi, Louvre), permane ancora la trasfigurazione romantica, di ricordo giorgionesco. Nei ritratti successivi, invece, il sognatore lascia il posto all'osservatore, così che la realtà dell'effigiato appare in tutta la concretezza, anche se resa eroica da splendore cromatico. I ritratti di Federico Gonzaga nel Prado a Madrid, di Eleonora Gonzaga nella galleria Pitti a Firenze, mettono in rilievo il nuovo indirizzo del pittore: il fondo unito ha apparenza atmosferica, ma tale che la figura se ne stacca gradatamente e può con piena vivacità. Non basta d'altronde più al pittore di mostrare il busto e le mani, ma vuol far apparire anche il corpo nella sua concretezza, e perciò il taglio della figura discende alle gambe. Il secondo dei suddetti ritratti è famoso col soprannome di Bella di Tiziano. Naturalmente una bella giovane signora presentata con tanta energia di vita, con tanto splendore di colorito, perde il suo carattere individuale, per divenire "una bella". Mantenne il pittore quei lineamenti medesimi della duchessa d'Urbino quando dipinse la sua prima Venere distesa (Firenze, Uffizî): la ricca alcova, il cagnolino, le ancelle che traggono ve. sti da una cassapanca, dànno un ambiente reale efficace al bellissimo corpo biondo di carni e di capelli; nulla turba, perché nulla è volgare in tale ricchezza di gioventù e d'ambiente. Concepire come ritratto una Venere nuda, e saper dare alla realtà riprodotta una nobiltà che non deriva da nessun sentimento particolare, ma solo dall'arte dei colori, fu questo il risultato del genio.
Quando quella realtà fosse apparsa all'osservatore meno evidente e precisa nei suoi particolari, meno rotonda nei suoi rilievi, meno definita nei suoi contorni, ma più suggerita, come avvolta da penombra, essa avrebbe ricevuto una maggiore spiritualità, una maggiore impronta nobiliare. Ciò fu compreso da T., che, graduando sempre più la luce e l'ombra nel colore, in modo da non cominciar mai una forma e non finirla mai in un punto preciso, per dare ad ogni immagine la continuità di movimento oscillante propria dell'onda luminosa, ottenne non più il segno, ma la massa avvolta di penombra, come etereo fantasma. Le immagini, diventando meno concrete, diedero del mondo una visione commossa; l'amor della luce infuse negli esseri la vita: il dramma umano divenne il dramma del cielo e della terra. Alla morte di Cristo scoppia l'uragano; le ombre, le tenebre, son veli di lutto; la luce erompe, divina aureola al Crocefisso. Il cielo stesso riflette la passione degli uomini; si tinge di sangue, nel crepuscolo della vita di Carlo V; copre torpido, greve, gli ebbri di piacere. La pennellata diviene rapida e intensa: par che a colpi di spugna intrisa di colore s'infiammi il cielo dietro Venere che benda Cupido. È uno scrosciar di colori sui campi dorati dall'autunno, sul verde bruciato dal sole, sulla terra ardente. All'applicazione del principio da noi accennato, T. deve i capolavori creati negli ultimi quarant'anni di vita. È vero che non sempre, in quel lungo periodo di attività, egli si attenne all'applicazione del suo principio.
Talvolta la realtà esterna fece sul suo spirito troppo immediata impressione perché egli potesse immergerla nella penombra, e perciò la sua produzione fu un continuo oscillante aspirare all'artistica interpretazione della luce.
La prima opera in cui chiaramente questo principio novatore si afferma è il ritratto dell'imperatore Carlo V (Prado, 1533), in piedi, vicino al suo cane, tutto avvolto in una nobilitatrice atmosfera satura di colore. Nei due ritratti del duca e della duchessa d'Urbino (Firenze, Uffizî, 1537), e specialmente in quello di Francesco I (Parigi, Louvre, 1538-39), la qualità idealizzatrice si attenua, mentre s'accentua la vivacità di vita reale e d'osservazione psicologica. Così avvenne anche quando, circa il 1550, egli dipinse il ritratto di sua figlia Lavinia (Berlino, Museo di stato). Intento a mostrare sua figlia bella, piena di vita e di giovinezza, di nobiltà e di opulenza, poco si preoccupò di luce e di colore. Fece un capolavoro di vita, più che un capolavoro d'arte. Nel ritratto invece di Paolo III fra i suoi nipoti, T., prima del Velázquez, intona una prodigiosa sinfonia di rossi con l'amaranto scolorito della mantellina papale, il rosso cuoio del baldacchino, il rosso di lana del tappeto, il rosso aurato della mantella di Alessandro Farnese, il rosso purpureo del berretto del Cardinale, il rosso fulvo della pelliccia, il rosa della pantofola pontificia. Tiziano improvvisa. Si ferma a inquadrar la pallida testa del vegliardo, a renderne l'astuto sguardo pungente, e poi scopre col sole le pieghe della mantellina amaranto svanito; modella appena la mano che esce dal grande involucro della pelliccia d'ermellino; a pennellate fulminee diffonde il sole sul camice di raso bianco e vi riflette il rosseggiare del baldacchino, del tappeto, dell'abito cardinalizio di Alessandro Farnese. Il rosso trasuda da ogni cosa, anche dalla casacca scura, dalla pelliccia del cavaliere Ottavio.
È il colore di Tiziano che scalda e avviva, mentre la luce inargenta i contorni, lampeggia sull'elsa di Ottavio, s'ingialla sul rosso della mantellina papale, nelle piume del berretto. Ed ecco tutto l'ardore del rosso smorzarsi, estinguersi, avvicinandosi al centro della scena, al pontefice, rudere umano incenerito dagli anni: la stessa luce d'argento che contorna la mantellina divien nivea, i bianchi azzurreggiano; il camauro stinto ha perduto il suo colore; il tono delle carni è pallido, fioco: tutto il centro di quella grotta affocata s'intirizzisce, come il sangue esausto delle vene del vecchio alle soglie della tomba. Va spegnendosi il fuoco dei rossi; l'esile persona s'incurva, mucchietto di cenere che sta per spargersi al suolo. Ma ancora arde una favilla di volontà nell'occhio lungimirante e acuto; tutta la vita della figura disfatta par si raccolga nello sforzo visivo dello sguardo. Così Tiziano, mentre oggettivamente individua ogni immagine, la immerge in una eccezionale ricchezza cromatica. Quando dipinge Carlo V alla battaglia di Mühlberg (Prado, 1548), evoca un fantasma eroico in una luce di sangue; e quando avvolge in un'atmosfera fredda e trasparente il cosiddetto Giovine inglese, da identificarsi con il giureconsulto Riminaldi di Ferrara, rende la raffinatezza d'un superuomo (Firenze, Pitti, 1548 c.). A Filippo II dona tutta la magnificenza regale, il lusso più raro, facendo tuttavia tenue la fulgida armatura, perché la sopporti quella gracile vita, e donando splendore, fascino, alla molle esangue figura. Sorride stanco il fiore cresciuto nelle serre imperiali di Castiglia, Isabella di Portogallo; in un dibattito d'intense luci appare il sontuoso ritratto di Iacopo Strada; in uno scintillio che come potenzialità di spirituale trasfigurazione supera la penombra dei precedenti ritratti. Né diversamente Tiziano evocò sé stesso nella tela del Prado, non ad alto rilievo, ma come fantasma ombrato, irrigidito, in una vita interna di veggente, oltre la vita reale; la maestà del pensiero illumina sul fondo scuro il volto del vegliardo, pallido, ardente, nella sua grana d'oro. Non, come al Museo di Berlino e agli Uffizî di Firenze, trova la forza per insorgere: la vecchiaia ha ingiallito e increspato il volto e le carni, ha spento la fiamma dell'occhio; ma la mano, sfatta, plasmata in una massa d'oro, tiene ancora, fra le deboli dita, il pennello glorioso. Il volto è monocromo; la barba cade all'ingiù, l'occhio è fisso; la luce schiara la fronte, i grandi lineamenti logori. Quel giallore della vecchiaia, quell'assopimento dell'essere sul fondo grigio verdognolo, quell'abito nero, diffondono nell'atmosfera silenziosa tristezza. La luce che penetra l'immagine è luce di cielo denso d'acqua. Lo sfolgorante Tiziano entra nell'ombra.
Nelle scene fantastiche, il Vecellio poté effettuare la sua trasfigurazione luminosa con facilità anche maggiore: se nel periodo precedente era possibile distinguere nell'opera sua il genere profano e il genere religioso, ora non più, perché luce e colore, niente altro, costituiscono la fantasia del maestro. L'Assunzione del duomo di Verona (1533-1540) assume, di fronte all'altra di S. Maria Gloriosa dei Frari (1518), uno spiccato carattere d'opposizione, una grandiosità assai minore; è quasi annullata quella logica disposizione di atteggiamenti che riunisce e trascina con sé l'effetto drammatico. Invece tutto è più luminoso, tutto è immerso in una sola luce, più leggiero, delicato, fine. Così nell'Annunciazione (Venezia, S. Rocco, 1540 c.), in penombra tranquilla, i movimenti si calmano, le figure, come l'ambiente, si raccolgono in sé, timidamente, pensosamente.
Nello stesso tempo, T. si preoccupa tanto dell'ambiente sino a creare il suo primo paesaggio puro, che si vede nel palazzo reale di Londra; e rappresenta una distesa di colline boscose, vedute dopo un nubifragio, quando le ombre sono umide fredde azzurre, e le luci rapide, scoppiettanti, non sanno ancora distendersi attorno. Un mandriano con le sue mucche, le pecore e l'asinello, non sono se non il pretesto per il quadro. Di fronte al "paese" di Giorgione, T. ha effettuato un nuovo stile, più oggettivo, meno sentimentale, e soprattutto più fuso: ogni oggetto è penetrato di luce e di ombra, perde il carattere di zona determinata per assumere quello di vibrazione luminosa.
La Danae (Museo Nazionale di Napoli, 1545 c.) dipinta per il sensualismo di Ottavio Farnese, esorbita pienamente dallo scopo per immedesimarsi nella natura luminosa. Le carni della dea, come la pioggia d'oro, hanno una sola qualità: la luce; una luce grave e dorata, che costituisce lo spazio racchiuso nel quadro. Ormai la figura umana trova nell'atmosfera ambiente la sua continuità. E questa visione del mondo, per cui un'immagine è tutta penetrata d'atmosfera, e per cui l'atmosfera riceve il riflesso dell'immagine, nobilita, idealizza, rende eroico il soggetto profano, tanto che il medesimo spirito crea la Madonna col Bambino (Monaco, Pinacoteca), la Santa Margherita (Prado a Madrid), la Cena in Emmaus (Parigi), la Deposizione (Prado a Madrid), la Pentecoste (Venezia, S. Maria della Salute); la Trasfigurazione e l'Annunciazione (Venezia, San Salvatore); Venere che benda Amore (Roma, Galleria Borghese). In tutte queste opere, create fra il 1545 circa e il 1567 circa, un equilibrio si mantiene fra l'importanza data all'immagine penetrata dalla luce e quella data alla luce formatrice dello spazio. Ma la luce ottiene sopravvento assoluto in altre opere, nelle quali l'immagine perde ogni concretezza, non giunge mai all'occhio dell'osservatore come una quantità definita. E la continua vibrazione della luce, che sconvolge l'ombra in mille modi, assume una speciale logica propria atta a darci del mondo una visione commossa. Il San Sebastiano (Leningrado, Ermitage) presenta una figura immersa in un caos di luci scoppianti, come se per il dolore dell'eroe cristiano cielo e terra sieno sconvolti. La Trinità (Madrid, Prado, 1554) rappresenta l'affannosa aspirazione di molte confuse braccia verso l'atmosfera radiosa da cui la Divinità appare calma e verso cui sale sicura la Madonna velata. La Sapienza vuol diffondere lieta luce; e due figure sono prese a pretesto per attuare riflessi argentini con una varietà e ricchezza di risonanze quali mai la natura ha saputo creare neppure nella madreperla. La Ninfa e il Pastore (Museo storico artistico a Vienna) ottiene più forse che qualunque altra opera l'espressione del volume atmosferico nelle immagini sfumate. Il martirio di San Lorenzo (Venezia, Gesuiti) e l'Incoronazione di Spine (Monaco, Pinacoteca) non sono più ormai che luci nella notte, ora a guizzi e a sprazzi violenti, ora languide come carezze dolorose, ora capaci di suggerire l'impressione di uno spazio infinito, ora modestamente limitate a fissare la natura di un breve oggetto, un elmo o l'elsa perlacea di una spada. Nella tela di Monaco, dalle faci, alte nell'ombra notturna, cade una luce argentea, madreperlacea, sul drappo sanguinante, sulle carni sanguinanti di Cristo. Il manigoldo di sinistra s'inarca nello stringer la verga sul capo della vittima, e così indietreggia quello che gli sta di fronte, nell'ombra. Par che muovano a danza barbara i feroci. La luce cade in larghe falde d'oro sulle maniche del comandante; ribolle d'argentei chiarori nell'azzurro del corsetto; striscia di bianco il gonnellino rosso morello. E la testa canuta del manigoldo a destra, nei riflessi di fuoco, sembra una fiaccola ardente. Tutto è fatto col pennello tra il fumo e le tenebre, avvampato dalle faci; e, nel mezzo, arde la face vivente del Cristo. Più che in ogni altra opera, T. dissolve la forma in nebulosa di luce nella Madonna allattante di Casa Mond, ora nella National Gallery di Londra. Ivi il tessuto delle carni e delle vesti s'intenerisce e si sfiocca, l'azzurrino della veste di Maria volatilizza, e il drappo che le avvolge spalle e capo riverbera fuoco sulle gote del fanciullo, arrotondate nei vapori d'oro dell'atmosfera. Non v'è più limite tra l'ambiente indefinito e le immagini che sembrano continuarsi nell'atmosfera grigio oro, in un incessante scambio di luci colorate, pigre, senza più violenze, senza più squilli, morbidissime. La luce si calma, s'irretisce, quasi in immobili tà di morte, ed ecco la Pietà (R. Galleria di Venezia, 1576). Mentre s'irretiva la luce, il grande spirito di Tiziano, a 99 anni, s'irrigidiva nella morte; e l'opera rimase incompiuta.
Sino alla fine, nel proceder del tempo, ad ogni mutamento di modi, d'osservazioni, di vita, T. creò capolavori su capolavori, tanto da non render possibile di segnare, nell'attività di lui, come si suole per altri sommi pittori, l'apice, il culmine, la vetta, perché essa è tutta una serie di culmini che si susseguono giganteschi, inarrivabili. Tiziano aveva circa settant'anni quando eseguì i grandi quadri farnesiani, e a quell'età sembra acquistare nuovo fervore di vita, e procedendo negli anni, ricevere ondate sempre nuove di giovinezza: il suo genio non conosce il tempo che per dominarlo.
Genius loci, il Maestro ispirò quanti nei secoli si recarono a Venezia. Il gran pubblico conosce, apprezza, esalta assai più Raffaello che Tiziano; il pittore moderno trova nelle opere di T. da imparare assai più che nelle opere di Raffaello. La ragione di tale contrasto consiste in questo fatto: l'arte dell'Urbinate ha anche un valore intellettuale, di cultura e morale; l'arte di T. è soprattutto pittura. E il pubblico, che giunge a comprender l'arte a traverso la propria esperienza umana, comprende il lato culturale e morale dell'arte di Raffaello, il lato che in senso largo può chiamarsi letterario, mentre più difficilmente comprende tutta la complessità, la profondità delle sensazioni e dei problemi puramente coloristici, che il Vecellio ha, volta per volta, posto e risolto, perché a comprenderli, a riviverli e a valutarli è necessaria una sensibilità visiva che il gran pubblico non può avere. (V. tavv. CXLIII-CL e tav. a col.).
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