VEDA
. Il vocabolo significa "scienza", "dottrina"; più precisamente, "sapere sacro o religioso". In senso ristretto, indica, nella letteratura religiosa dell'India, le quattro raccolte (samhitā) del Rigveda (Veda degl'inni), del Sāmaveda (Veda delle melodie), del Yajurveda (Veda delle preghiere e delle formule), dell'Atharvaveda (Veda degli incantamenti). In senso più ampio, che è anche quello tradizionale, designa tutto un complesso di monumenti letterarî che, movendo dal Rigveda, attraverso i Brāhmana e gli Āranyaka giungono fino alle Upanisad, le quali sono considerate la fine (anta) del Veda e costituiscono la base di quel sistema filosofico che si chiamerà appunto Vedānta.
La questione dell'età del Veda riguarda le due date che dovrebbero segnare il principio e la fine del periodo entro il quale collocare i testi ora accennati. Come termine d'arrivo possiamo prendere il sec. VIII a. C., considerando che in quel tempo già si affermano con successo correnti di pensiero in contrasto con l'ortodossia brahmanica quale si esprime nel complesso della letteratura vedica: osserviamo tuttavia che da parecchi si persiste, secondo noi a torto, a scendere fino al sec. VI a. C. Quanto alla data iniziale, la questione si riduce a determinare l'età del documento più antico, il Rigveda, o, per dir meglio, l'età probabile delle parti più antiche della raccolta. Le opinioni in proposito sono tuttora divergenti. La vecchia ipotesi di F.M. Müller (a cui l'autore del resto non volle mai dare un valore definitivo), secondo cui il Rigveda sarebbe da porre intorno al 1000 a. C., è senz'altro da respingere, e non avrebbe mai dovuto essere accettata. Quanto oggi sappiamo intorno allo sviluppo letterario e religioso dell'India, ci obbliga a risalire a un passato ben più lontano. Fissare una data precisa, è forse impossibile; ma pur restando nel campo delle approssimazioni plausibili, non si vede quali argomenti veramente decisivi si siano saputi addurre contro la teoria dello Jacobi, secondo cui la civiltà vedica primitiva sarebbe da collocare fra il 4500 e il 2500 a. C., e la raccolta del Rigveda, nella parte più recente di questo periodo. In conclusione, l'ipotesi che meglio si armonizza con quanto possiamo sapere e intuire intorno allo sviluppo storico della civiltà indiana, è questa: che l'età vedica (inteso il vocabolo nel senso più ampio su riferito) si estenda da circa la fine del 30 millennio a circa l'800 a. C.
Delle quattro raccolte vediche, le prime tre erano destinate a fini liturgici, e costituivano, diremmo quasi, i manuali per tre delle quattro categorie di sacerdoti che insieme celebravano il sacrificio. Il Rigveda serviva al hotar, l'"invocatore", che da esso traeva gl'inni in lode degli dei che erano invitati a prendere parte al sacrificio; il Sāmaveda conteneva le melodie su cui l'udgātar, o "cantore", intonava i canti con cui accompagnava la preparazione e la celebrazione del sacrificio; lo Yajurveda comprendeva le formule e le preghiere con cui l'adhvaryu, o prete officiante, accompagnava i varî atti, da lui eseguiti, del sacrificio. Il brahnan, o sacerdote sovrastante, sorvegliava il complesso del rito dal principio alla fine, controllando l'opera degli altri tre: era quindi tenuto a conoscere tutte e tre le raccolte. Solo più tardi si volle, per desiderio di simmetria, mettere in rapporto con il brahman la quarta raccolta, l'Atharvaveda; ma questa occupa un posto a sé. Più recente delle altre quanto a redazione, è assai antica per il contenuto, e ha un'importanza di primissimo ordine per il folklore in genere. L'Atharvaveda ebbe solo tardi un riconoscimento ufficiale, che non fu mai né pieno né incontrastato, sicché la formula tradizionale per indicare la sacra scienza è trayī vidyā, "la triplice scienza", con cui si indicano le altre tre raccolte.
Le quattro raccolte ora dette costituiscono il primo strato della letteratura vedica: si noti tuttavia che la loro redazione è avvenuta, per ciascuna di esse, in età diversa: così lo Yajurveda e l'Atharvaveda sono da ascriversi verosimilmente al secondo periodo della letteratura vedica. Questo è caratterizzato dai Brāhmana, testi in prosa in cui si tenta una esegesi fra il pratico e il teologico del sacrificio e del rito. Il terzo periodo della letteratura vedica si esprime negli Āraṇyaka e nella Upaniṣad. Gli Āraṇyaka, di cui alcuni sono autonomi e altri invece inclusi nei Brāhmaṇa o aggiunti ad essi come appendici, contengono le meditazioni, attribuite ad asceti ritiratisi a vita contemplativa nelle selve, intorno al significato mistico del sacrificio come tale. Le Upaniṣad, che stanno con gli Āraṇyaca in un rapporto analogo a quello che unisce gli Āraṇyaka ai Brāhmaṇa, rappresentano un progresso notevole sulla via della speculazione, e contengono i presupposti del monismo vedantistico.
I tre strati letterarî ora accennati sono dalla tradizione indiana messi in una stretta connessione reciproca: ogni testo appartenente a uno dei tre gruppi dei Brāhmaṇa, degli Āraṇyaka e delle Upaniṣad, è considerato come facente corpo con uno degli altri due gruppi e con una o l'altra delle quattro (cinque, considerando le due diverse redazioni dello Yajurveda) raccolte dei Veda. Una simile concatenazione di testi è in parte fondata sul fatto che sovente una data Upaniṣad è contenuta in un Āraṇyaka o messavi in appendice, e l'Āraṇyaka alla sua volta è connesso con un determinato Brāhmaṇa. I monumenti letterarî in parola dovettero un tempo essere assai più numerosi che oggi non siano, perché le diverse scuole di sacerdoti e di cantori possedettero ciascuna la propria recensione delle raccolte (saíhitā).
@@@@@La tradizione indiana postula dunque un'intrinseca unità fra i tre strati della letteratura vedica: unità che noi possiamo ricostruire, a patto d'intenderla come una continuità di evoluzione, di cui le fasi sono tuttavia qualche volta separate da una profonda diversità. E notiamo subito che il mondo mitologico rappresentato nel Rigveda si distingue nettamente dagli aspetti successivi della religione indiana. Come fu osservato dal Winternitz (Geschichte d. ind. Litter., I, p. 66), noi abbiamo qui una mitologia in formazione. Gli dei sono dapprima le forze o i fenomeni della natura: non il dio della luna, del sole, del fuoco, ecc., ma la luna, il sole, il fuoco come tali. Solo a poco a poco i fatti naturali si cambiano in figure mitiche e in personaggi divini. Il carattere naturalistico del pantheon del Rigveda si rivela alla critica anche in quelle creazioni mitologiche nelle quali esso non appare senz'altro evidente, come Varuna, Mitra, Aditi, ecc. In altri casi un epiteto, inteso a mettere in evidenza un particolare aspetto di qualche divinità, assume in seguito una consistenza propria e diviene esso stesso una divinità: così Savitar, "l'eccitatore", il vivificatore", Vivasvat "il risplendente" furono dapprima epiteti, poi divennero nomi del sole, e infine divinità del sole come Sūrya. Talune figure sono desunte da altri gruppi etnici o entrate nella mitologia vedica in età diverse: ad es., Pūṣan, Mitra, ecc., originariamente divinità anche esse solari prima di assumere il particolare carattere con cui appaiono nel Rigveda (cfr. Winternitz, l. cit., p. 66-67). Una vera e propria gerarchia non esiste: gli attributi di una divinità passano a un'altra, per modo che le diverse figure mitiche risultano sovente agguagliate in un'uniformità che toglie loro il rilievo personale. L'elemento folkloristico vero e proprio, e la religione popolare, sono scarsamente rappresentati: siamo di fronte a una mitologia, la quale, se anche rivela alla critica un'evoluzione di antichissima data, tuttavia si riflette in prodotti letterarî che servivano a fini essenzialmente liturgici.
Il sacrificio era il centro della pratica religiosa e aveva una finalità nettamente utilitaristica. Tuttavia, negl'inni più recenti appaiono divinità che hanno la loro origine in un processo di astrazione che supera il ritualismo: ad es., Viśvakarman "l'artefice dell'universo", Prajāpati, "il signore delle creature", e simili. Così pure si hanno i primi accenni di una curiosità speculativa, che si manifesta, sia nella tendenza a ravvisare l'unità del divino nella molteplicità degli dei, sia nel bisogno di proporsi domande o questioni, in cui si anticipano quelli che saranno i massimi problemi dell'indagine filosofica.
Il sacrificio, a cui gl'inni vedici servono di accompagnamento, diviene nei Brāhmaṇa e negli Āraṇyaka oggetto di meditazione. Esso è essenzialmente un'opera di magia, che permette, se celebrata esattamente secondo le norme, di raggiungere il fine: non è quindi offerto agli dei, che sono soltanto invocati come ausiliatori, ma è invece un atto che reca in sé la pienezza del suo significato. Si ha perciò uno scadimento continuo degli antichi dei e un concentrarsi di tutto l'interesse intorno al sacrificio, di cui i varî atti, e gli strumenti materiali con cui questi si compiono, assumono un significato recondito e appaiono animati da un occulto potere: il sacrificio finisce insomma con diventare una forza cosmica superiore agli uomini e agli dei. In pari tempo, si afferma l'idea del brahman: il quale vocabolo indicò dapprima la sacra parola e la sua magica potenza, e in seguito valse a designare una mistica forza, che domina e pervade l'universo ed è l'origine prima dell'essere.
Nelle Upaniòad, il brahman è messo in rapporto con le forze che si credevano operanti nel sacrificio; e poiché s'immaginò l'universo in figura di uomo (puruòa), per un naturale trapasso d'idee si vide nel brahman il principio animatore del cosmo, come l'ātman (psiche; poi, anima) è il principio animatore dell'individuo. Si hanno così i presupposti di ulteriori sviluppi speculativi, rivolti a chiarire i rapporti dell'anima individuale e del mondo con il brahman. Varie sono le soluzioni proposte; ma già si delinea quella tendenza monistica che avrà poi il suo pieno sviluppo nel vedānta. Si tenga tuttavia presente che noi abbiamo qui, non una vera e propria filosofia sistematica, ma piuttosto intuizioni e tentativi di formulazioni teoretiche talvolta luminose, ma non di rado vaghe e contraddittorie.
Notiamo infine che la dottrina della trasmigrazione e quella, ad essa strettamente connessa, del karma, non esistono nel Rigveda, ma si vanno invece sempre più chiaramente delineando negli strati successivi della letteratura vedica, fino ad assumere un valore panindiano. Nello stesso tempo, il valore, dapprima preminente, dato all'osservanza dei riti e delle cerimonie (karmamārga, via delle opere), cede dinnanzi alla nuova concezione per cui l'uomo deve cercare la salute per mezzo del sapere (Jnānamārga, via della conoscenza): sapere, che è pur sempre di carattere religioso, ma mistico e teosofico, e non più soltanto ritualistico.
Bibl.: F. M. Müller, History of ancient sanskrit Literature, 1859; Physical Religion (trad. tedesca di R. O. Franke, Lipsia 1892); H. Jacobi, Über d. Alter d. Rigveda, in Festgruss an R. v. Roth, Stoccarda 1893, pp. 68-75; Beiträge zur Kenntnis d. ved. Chronologie, in Nachr. d. k. Ges. d. Wiss. zu Göttingen (phil.-hist. Klasse), pp. 105-116; Beiträge zu unserer Kenntnis d. ind. Chronologie, in Actes du Xe Congrès des Orient., I, Ginevra 1894, pp. 103-108; M. Winternitz, Gesch. d. indische Litteratur, I, Lipsia 1908, pp. 47-258; A. A. Macdonell, Vedic Mythology, Strasburgo 1897; H. Oldenberg, Die Religion d. Veda, 2ª ed., Stoccarda 1917; A. Hillebrandt, Vedische Mythologie, 2ª ed., II, ivi 1927-29; O. Strauss, Indische Philosophie, Monaco 1925.