Veglio di Creta
Tra le varie figurazioni allegoriche che caratterizzano la Commedia, quella del V. di Creta, nel c. XIV dell'Inferno, ha un suo particolare fascino poetico, alla cui suggestione non si sottrasse neppure il Croce, non certo benevolo verso le allegorie, se dichiarò che " quella statua non è priva di una singolare efficacia, mezza com'è tra la figura e il geroglifico, un geroglifico che, pur nel suo chiuso aspetto, s'impone al sentimento e dice qualcosa all'anima mormorando, senza che si riesca a percepirla distintamente, una storia lontana, e accennando a un misterioso destino " (La poesia di D., Bari 1940, 87). Questa grandiosa raffigurazione simbolica nasce quasi come un singolare pretesto per enunciare l'origine dei fiumi infernali (v. FIUME: I fiumi dell'Inferno e del Purgatorio).
I due poeti hanno appena lasciato Capaneo e proseguono il cammino restando bene accosto alla selva dei suicidi e badando di non porre i piedi nel sabbione infuocato, quando D. osserva spicciar dalla selva un picciol fiumicello (If XIV 77) di un color rosso raccapricciante, i cui argini e fondo sono di pietra e non di rena. Qui Virgilio afferma che nulla di ciò che ha fin qui visto è notabile come 'l presente rio, / che sovra sé tutte fiammelle ammorta (vv. 89-90). Richiesto da D. di chiarirne la ragione, Virgilio risponde, risalendo ab ovo, con la descrizione del V. di Creta.
Nel centro del Mediterraneo è posta un'isola, culla dell'umanità felice e innocente sotto il regno di Saturno, di nome Creta. In essa sorge una montagna che già fu lieta / d'acqua e di fronde, che si chiamò Ida, ora intristita e arida come cosa vieta (vv. 97-99). Essa fu scelta da Rea per generarvi e allevare il figlio Giove di nascosto, e per celarlo meglio, / quando piangea, vi facea far le grida (vv. 101-102). Dentro al monte sta ritta l'immensa statua di un vecchio con le spalle volte a Damiata e il viso verso Roma. La sua testa è di fin oro formata, / e puro argento son le braccia e 'l petto, / poi è di rame infino a la forcata; / da indi in giuro è tutto ferro eletto, / salvo che 'l destro piede è terra cotta; / e sta 'n su quel, più che 'n su l'altro, eretto (vv. 106-111).
Tutte le varie parti, a eccezione della testa d'oro, hanno una fessura da cui gocciano lagrime, che raccolte tutte insieme ai piedi della statua foran quella grotta e si dirocciano nell'Inferno, dove formano Acheronte, Stige e Flegetonte: poi, precipitate nel baratro più profondo, ristagnano formando Cocito (vv. 112-120).
La fonte diretta del V. è senza dubbio la statua apparsa in sogno a Nabucodonosor, di cui parla la Bibbia (Dan. 2, 31-45). La descrizione della statua fatta al re babilonese da Daniele corrisponde quasi perfettamente alla rappresentazione dantesca: " Huius statuae caput ex auro optimo erat, pectus autem et bracchia de argento, porro venter et femora ex aere, tibiae autem ferreae, pedum quaedam pars erat ferrea, quaedam autem fictilis " (ibid., 32-33). Le uniche differenze sono dunque che il V. dantesco è di rame infino a la forcata, mentre la statua biblica fino al ginocchio, e che il V. ha di terracotta solo il piede destro, mentre la statua di Nabucodonosor ha entrambi i piedi parte di ferro e parte di argilla.
Ma la fonte biblica non è la sola. La Bibbia aveva lasciato indeterminato il luogo dov'era collocata la statua: poiché il V. doveva simboleggiare l'umanità, D. dà a esso una precisa collocazione geografica: l'isola di Creta, perché questa era considerata dagli antichi poeti il centro della terra e sede della prima età umana. A Creta era collegato il mito di Saturno e quindi dell'età dell'oro e delle successive degenerazioni (Virg. Aen. III 104-105, VIII 324-325; Buc. IV 6; Giovenale Sat. VI 1-2). Ovidio poi aveva rappresentato (Met. I 89 ss.) la successione e il deterioramento delle varie età dell'uomo indicandole con i metalli che, pure nell'ordine, corrispondevano a quelli del racconto biblico. Di un'ultima peggiore età, che nessun metallo poteva designare per la sua indegnità, parlava infine Giovenale (Sat. XIII 28-30). E non mancava neppure un dato ‛ storico ': Plinio il Vecchio ricordava il rinvenimento, dopo un terremoto, all'interno di una montagna dell'isola di Creta, di un uomo gigantesco (Nat. hist. VII XVI), fatto di cui D. trovava menzione anche in s. Agostino (Civ. XV 9).
Oltre alle fonti classiche si sono poi anche segnalate leggende medievali di statue piangenti o di fiumi di lagrime, sia di origine occidentale che orientale (Silverstein, Pagliaro), ma in questi casi non si va oltre a somiglianze assai vaghe e generiche. Stazio d'altronde aveva presentato Cocito e Flegetonte come fiumi " lacrimis atque igne tumentes " (Theb. VIII 30) e Stazio è autore ben noto e presente in Dante. Inoltre sull'etimologia dei fiumi infernali non va trascurata l'autorità di Isidoro (Etym. XIV IX 7), per cui Cocito " nomen accepit Graeca interpretatione, a luctu et gemitu ", o di Servio (nella chiosa a Aen. VI 132). Il Pézard accenna infine anche a un'altra fonte, dimenticata finora, che forse rivelerà quando attuerà la promessa di " montrer, avant de mourir, ce que signifie l'énigmatique allégorie du Vieillard de Crète " .
Dire dunque quale di queste fonti sia stata quella che maggiormente ha agito sulla fantasia del poeta è difficile, per non dire impossibile. Certo l'ascendenza diretta del V. alla statua biblica sembra assolutamente sicura; ma il ricordo di Creta, dell'età dell'oro, della mitica infanzia di Giove provano a sufficienza che l'elemento biblico è stato contaminato con quello classico. D'altronde, non è certo nuova in D. la fusione di elementi biblici e classici: la Bibbia e gli autori, e specialmente i poeti, latini erano le auctoritates a cui D. e tutto il Medioevo attingevano come a documentazione sicura del proprio pensiero.
Nell'episodio del V. questa contaminatio di varie fonti ha creato quell'atmosfera favolosa che circonda la raffigurazione di questa statua singolare e ne proietta il racconto in un clima di arcana leggenda. E appunto d'" inizio da grande leggenda " parlava il Momigliano a proposito delle prime terzine del passo, che paragonava poi a un " andante, largo, lento, a ritmati distacchi " che " descrive tempi remoti, contrade romite, un'umanità leggendaria e solitaria " .
I particolari mitologici, invece di appesantire il discorso poetico, l'innalzano in una sfera di alta poesia, e i simboli, che pur appaiono evidenti, conferiscono a tutto l'episodio la solennità di un mito arcaico e misterioso.
Di questa figurazione allegorica commentatori antichi e moderni della Commedia hanno dato le più varie interpretazioni: alcune evidentemente inaccettabili perché frutto di pura fantasia, o costruite sulla base di una preconcetta allegoria. Il Filomusi Guelfi, ad esempio, volle vedere nella statua il simbolo della superbia, di cui l'oro sarebbe la superbia buona, ossia la gloria celeste o terrena che viene da Dio, e gli altri metalli e l'argilla i beni mutevoli da cui nasce la superbia cattiva, origine di tutti i vizi capitali (i fiumi infernali). Caso limite può sembrare quello del Valli, che inserisce l'interpretazione del V. nell'intricato complesso dei suoi simboli della croce e dell'aquila; e per lo meno discutibile può apparire anche una delle ipotesi del Tommaseo, quella che vedeva nella successione dei metalli le varie nature degli uomini: santi (oro), buoni (argento), meno buoni (rame), cattivi (ferro), pessimi e vili (argilla). Accennando quindi solo alle più probabili, per quanto è possibile nel campo dell'allegoria, occorre avvertire che nell'ambito delle singole interpretazioni non sono poi mancate correzioni e integrazioni circa i vari particolari.
Gli antichi commentatori sono per lo più concordi nel ritenere che la statua raffiguri il corso dell'umanità nella sua progressiva decadenza, le cui varie età sono simboleggiate nei diversi metalli, dall'oro al ferro e all'argilla. Questa interpretazione che fu seguita anche da molti moderni (Porena, Grabher, Momigliano, Sapegno, Chimenz, ecc.) e che forse è ancora la preferita, presuppone evidentemente il prevalere, pur con evidente contaminazione di elementi biblici, dell'ispirazione classica.
La posizione della statua con le spalle volte a Damiata e lo sguardo a Roma simboleggia il cammino dell'umanità da oriente a occidente: Roma sede naturale del Papato e dell'Impero è meta dell'umanità e sintesi della sua storia. Le lagrime sarebbero i peccati degli uomini commessi nelle varie età: è solo escluso il breve tempo trascorso dai progenitori nel Paradiso terrestre, simboleggiato infatti dall'oro del capo che non ha alcuna fessura. I due piedi sono per alcuni le due potestà: quello di ferro l'Impero, quello di argilla la Chiesa, guasta e accecata dalla cupidigia di potere temporale; per altri il piede di terracotta sarebbe invece allusione alla prossima fine del mondo. Il Paratore, che sostiene questa interpretazione che potremmo chiamare ‛ classica ', suggerisce però d'intendere il piede di argilla come l'estremo limite della corruzione umana e lo sguardo rivolto a Roma non solo come riferimento alla meta dell'umanità, ma anche come sferzante allusione alla città sede di un papato simoniaco e corrotto, perché " solo così - egli dice - si può veramente penetrare il senso e l'acre forza di quel come suo speglio " (p. 27).
A questa prima e più diffusa interpretazione sono state mosse due obiezioni di un certo peso. In primo luogo, che in nessun passo dell'opera dantesca è cenno a una periodizzazione della storia umana secondo lo schema ovidiano, anzi in Cv II XIV 13 è seguita la ripartizione in sei età secondo s. Agostino (In Iohann. II 10-16); in secondo luogo che nella periodizzazione secondo lo schema classico, viene a essere assente il principale evento della storia umana: la redenzione. Per questo il Poletto, che ravvisò nel V. il simbolo del processo di decadenza morale dell'umanità, distinse questa in " due grandi periodi rinnovantisi, da Adamo a Cristo e da Cristo in giù " (p. 193). Alla quale interpretazione era però facile ribattere che in tal caso avremmo non una, ma due statue di V., una pagana scomparsa e una cristiana sostituita a questa, ma di ciò non è parola nel testo dantesco.
Verso gl'inizi dell'Ottocento, all'interpretazione ‛ classica ' se ne affianca una ‛ storico-politica '. Ne fu precursore il Costa, seguito dall'Ozanam, che ritenne la statua rappresentare " la Monarchia, tal quale cattivi principi l'hanno fatta... La successione dei metalli raffigura quella degli imperi, delle forme politiche, delle età che vanno degenerando ", dichiarando di aver accettato la proposta del Costa perché aveva ritrovato il sogno di Nabucodonosor spiegato in modo quasi identico in Riccardo di San Vittore (p. 102 e nota). In effetti il " Magnus Contemplator " nel De Eruditione hominis interioris libri III, occasione accepta ex somnio Nabucodonosor apud Danielem, pur interpretando misticamente il sogno di Nabucodonosor, accenna però anche (I 31-32) a un'interpretazione politica, analogamente a quanto lo stesso Daniele nella Scrittura fa al re babilonese (Dan. 2, 37-45). Perciò, sulle orme dell'Ozanam, riferendo al senso politico dell'interpretazione biblica e di Riccardo le teorie dantesche, si volle vedere (Lubin, Bottagisio) nei diversi metalli la successione e il deterioramento dei vari governi civili dell'umanità dall'aurea Monarchia universale. È noto però che la spiegazione data da Daniele al sogno di Nabucodonosor, che si riferiva solo alla successione dei regni dopo il monarca babilonese, era stata interpretata dagli esegeti biblici come il succedersi delle grandi monarchie della storia dal regno babilonese all'Impero di Roma.
Poiché D. concepiva la monarchia di Augusto come perfetta (Mn I XVI 1), alcuni commentatori (Andreoli, B. Bianchi, Del Lungo, ecc.) preferirono vedere nel V. la decadenza dell'Impero romano da Augusto (oro) ai tempi del poeta (argilla); la biforcazione delle gambe simboleggerebbe la divisione dell'Impero d'Oriente e d'Occidente e il piede di argilla il prevalere del turbolento e tumultuoso governo popolare. Le lagrime sarebbero in tal caso le dolorose conseguenze del progressivo degenerare della forma monarchica, mentre lo sguardo rivolto a Roma la speranza di un risorgimento politico con il ritorno alle origini. Questa teoria, che il Del Lungo abbandonò poi nel suo commento alla Commedia, per avvicinarsi all'interpretazione precedente, ha avuto invece un valido sostenitore in Salvatore Santangelo.
A questa interpretazione storico-politica mosse il Vandelli un'obiezione non facilmente eliminabile: " se tutte le parti fesse del Veglio - dice il critico - goccian lacrime tuttora, è logico pensare che esso significhi condizioni che durino tutte ancora piuttosto che anche condizioni appartenenti al solo passato " .
Lo scritto sopra citato di Riccardo di San Vittore, che aveva ispirato al Costa, all'Ozanam e al Lubin l'interpretazione storico-politica del V., suggerì invece al Busnelli una nuova interpretazione etico-religiosa, più vicina d'altronde all'interpretazione mistica del Vittorino. Ultima in ordine di tempo, essa è generalmente ben accetta a quei critici che insistono particolarmente sulla cultura teologica medievale come mezzo d'interpretazione della Commedia. In realtà già il Pascoli e il Flamini avevano affermato che il V. rappresenta la decadenza del genere umano in conseguenza del peccato di Adamo: il Pascoli aveva additato nella fessura stillante lagrime (che egli immaginava una sola e non diverse) la " vulneratio naturae " indicata da Beda, di cui parla s. Tommaso nella Summa.
Riprendendo il discorso aperto dal poeta e dal critico e portandolo alle sue estreme conseguenze, il Busnelli in due suoi saggi, partendo dall'interpretazione mistico-etica di Riccardo di San Vittore (De Eruditione, cit., passim e in particolare I 22-24, 26, 30, ecc.) e arricchendola con riferimenti di s. Agostino, di s. Bernardo e di s. Tommaso (quindi nell'ambito della cultura teologica del Medioevo), vede nel V. il simbolo dell'uomo corrotto dopo il peccato originale. La statua di Nabucodonosor non ha età, mentre la rappresentazione dantesca è quella di un vecchio: sarebbe quindi ispirata al concetto paolino del vetus homo che nell'interpretazione di Agostino e di Tommaso si contrappone all'uomo nuovo rigenerato da Cristo. L'obiezione già citata a proposito della redenzione non si può applicare a questa interpretazione, che chiaramente esclude la presenza di una corruzione graduale e cronologica: col sacrificio di Cristo l'uomo " sveste per infusione della grazia la vecchiezza del peccato, non isveste però la vecchiezza del fomite e degli altri effetti della colpa di origine, perché continua sempre in lui il medesimo stato della natura corrotta, ossia rimangono sempre in lui le cause interne della colpa " (La concezione..., p. 178). Passando poi all'interpretazione dei singoli particolari della statua, il Busnelli pensa che la testa d'oro potrebbe simboleggiare lo status naturae integrae, cioè l'età del Paradiso terrestre (e paganamente l'età dell'oro), e il resto del corpo lo status naturae corruptae che successe al peccato originale e che perdura tuttora. Ma ancor meglio, sulla scorta del pensiero mistico del Vittorino e della filosofia di s. Tommaso (Sum. theol. I II 74 2), il capo d'oro potrebbe simboleggiare il libero arbitrio, primo movente di ogni potenza e intatto, nella libertà naturale, anche dopo il peccato di origine, rappresentato quindi dalla nobiltà del metallo e dall'assenza di ferite. Le altre parti della statua sarebbero invece le quattro potenze dell'anima: ragione, volontà, appetito irascibile, appetito concupiscibile, ferite tutte, secondo la filosofia tomistica, dal peccato originale (vulnerationes naturae), simboleggiate quindi dalla materia più vile progressivamente, solcate dalle fessure che gocciolano lagrime. Tali vulnerationes sono: l'error, che ferisce la ragione, la malitia, che ferisce la volontà, l'infirmitas e la cupiditas, che feriscono rispettivamente l'appetito irascibile e concupiscibile. Le lagrime che sgorgano da tali fessure sono i peccati e le pene che ne derivano. In quanto allo sguardo che si specchia in Roma, esso " vuol significare che Roma dee specular se stessa, la propria sordidezza, infermità, miseria e confondersi dell'incontinenza, della superbia, della durezza in cui vive " (pp. 190-191).
A questa interpretazione, che piacque al Rossi e in parte anche al Barbi, fecero buon viso, tra gli altri, il Vandelli, il Fallani e più recentemente il Bigi, che, accettandola in generale, la corresse in qualche particolare. Si tratta di un'interpretazione raffinata e sottile, sorretta da una profonda base teologica, che in ogni sua parte poggia su precisi testi medievali; ma se pensiamo alla dolorosa visione del presente così accoratamente continua nel poema, alla visione del passato così nostalgicamente vagheggiata, " pare difficile rinunciare all'idea d'una decadenza progressiva rappresentata dalla sempre minore nobiltà della materia di cui la statua è fatta " (Bosco).
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