Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Personaggio flemmatico e solitario, Velázquez rifugge l’enfasi e il servilismo e segue il filo interiore di una ricerca figurativa, dove la presa diretta sugli aspetti più fuggevoli della realtà viene trasfigurata in valori di pura pittura. Isolato e inattingibile nella sua grandezza, è assillato dal problema della nobiltà del suo operare. L’esigenza di una pittura colta lo spinge a sottili rivisitazioni dei temi storici e mitologici e la porta a un confronto serrato con le maggiori tradizioni della pittura italiana, studiata in due lunghi viaggi. Il naturalismo di certe invenzioni e l’estrema libertà pittorica, ne fanno un precursore della pittura più moderna dell’Ottocento.
La formazione a Siviglia
Abbandonando lo stile tardomanierista dei suoi maestri, Velázquez è fin dall’inizio folgorato dalla modellazione per forza di luce del caravaggismo, risolto in termini più pittorici. Nel San Giovanni a Patmos del 1618 il chiaroscuro vigoroso plasma la figura contro un fondo bruno, quasi monocromo, attraverso una materia ricca e corposa, come nel pittore Orazio Borgianni attivo in Spagna, o nel toledano Luis Tristán.
L’astratto schema iconografico adottato nella Immacolata Concezione è tipicamente sivigliano e consueto al maestro diVelázquez, Francisco Pacheco. L’immagine però risulta altamente drammatica, nei contrasti di luce quasi spettrale che ricordano la pittura contemporanea di Zurbarán anch’egli di Siviglia.
Il genere cosiddetto inferiore, quello ispirato a un soggetto senza tradizione accademica, vede impegnato il giovane pittore nella Mulatta. Il tema è nobilitato come bodegón a lo divino, inserendo al fondo della scena di cucina un soggetto sacro (la Cena di Emmaus).
Velázquez si vale di precedenti fiamminghi come quello di Pieter Aertsen: la decifrazione del soggetto si fa così più criptica, in linea col concettismo in voga tra i letterati spagnoli, ma soprattutto si legittima la pittura di tranches de vie, innestata entro la più nobile pittura di storia, in polemica con un teorico come Vicente Carducho.
Nel genere prediletto dei bodegones e delle cocinas, di cui La friggitrice di uova rappresenta l’acme (1618), si coglie l’interesse per la resa dei gesti e degli oggetti della vita quotidiana, ricorrendo a modelli studiati dal vero, come il ragazzino che compare anche in altri dipinti giovanili. Secondo Pacheco, Velázquez teneva con sé il fanciullo, ritraendolo “in varie pose, ora piangendo, ora ridendo”.
L’attenzione agli aspetti più umili dell’esistenza è priva di enfasi pietistica o derisoria, ed è la chiave per capire più tardi, la serie di ritratti, così intensi, dei buffoni di corte.
L’adorazione dei Magi, dipinta a Siviglia nel 1619 quando Velázquez aveva vent’anni, è in sintonia con la pittura caravaggesca di Zurbarán. La composizione spoglia e serrata è giocata su una netta partitura di luci e ombre, che ne accresce la serietà e investe di sacralità le cose della vita quotidiana.
Nell’Acquaiolo di Siviglia la limpidezza dei dettagli (i riflessi entro il calice di cristallo, le gocce d’acqua e lo smalto luccicante sui cantari di terra) e la solennità del vecchio di profilo, vestito di stracci, traspongono la banalità del soggetto in un’atmosfera oltre il tempo; il presagio degli esiti più maturi è già negli accorgimenti che danno respiro d’ambiente, come lo scarto tra la precisione ottica del primissimo piano e la sfocatura della figura allontanata nell’ombra, o il taglio del grande cantaro, che poggia fuori campo.
Nell’aprile 1622 Velázquez si reca a Madrid, spinto dal suocero Pacheco, per farsi conoscere a corte e dare prova delle proprie abilità di ritrattista: non potendo effigiare il nuovo re Filippo IV ritrae il celebrato poeta Luis de Góngora: immagine enigmatica e folgorante, segnata da tagli di luce netti e precisi, secondo la maniera caravaggesca degli anni sivigliani.
Affacciandosi sulla scena madrilena nel 1622, Velázquez si presentava non già come pittore provinciale, ma come un campione del caravaggismo internazionale, irradiato da Roma e da Napoli. In un quadro come La cena di Emmaus sorprendenti sono le analogie con lo stile del pittore napoletano Battistello o con l’olandese Ter Brugghen, attivo a Roma: la luce violenta e il taglio audace danno il senso di un’istantanea.
La scelta cromatica è ristretta a poche tinte, abbassate di tono, che alimentano un effetto di pulviscolo atmosferico.
L’insediamento a Madrid (1623) e il primo viaggio in Italia (1629-1631)
Se Velázquez si stabilisce a corte a partire dal 1623, venendo nominato il 6 ottobre tra i pittori del re, è grazie alla protezione del sivigliano conte duca di Olivares, eminenza grigia alle spalle del giovane sovrano Filippo IV. Inizialmente è impegnato soprattutto in ritratti ufficiali, specie a figura intera, come appunto quello del conte duca di Olivares, dove sperimenta tagli disinvolti contro fondali quasi monocromi nel gioco vivace delle ombre proiettate a terra, accentuando così il piglio deciso del personaggio.
“Tutta la sua bravura si limitava a saper dipingere una testa”: l’abilità di ritrattista, cui deve il primo successo a corte, viene contestata a Velázquez come un limite che egli si impegna a smentire senza tradire la sua vocazione naturalistica. Nel 1627 vince la gara per un quadro di tema storico, La cacciata dei Mori dalla Spagna (episodio avvenuto nel 1610), contro altri pittori di corte come Vicente Carducho, Eugenio Caxés e Angelo Nardi. Purtroppo l’opera è perduta.
Il “quadro di Bacco”, pagatogli il 22 luglio 1629, è il primo con tema mitologico, suggeritogli forse da Rubens, che soggiorna per quasi un anno alla corte spagnola a partire dall’agosto 1628. In una contaminazione audace Velázquez prova a innestare la sua esperienza di pittore di bodegones sul tema mitologico, per lui nuovo, e a rivestirlo dei panni della prosa, in coerenza con l’essenza del lascito caravaggesco. La verità di certi dettagli (i lustri delle terraglie smaltate o i riflessi nella coppa colma di vino) e delle teste contadine di questi che verranno chiamati semplicemente “i bevitori” (los borrachos) è messa a fuoco a contrasto con la pittura appena abbozzata della figura di quinta, sulla sinistra, e di quella al fondo, sulla destra.
Nel giugno 1629 Velázquez ottiene licenza, anche per intercessione di Rubens, per un viaggio in Italia protratto fino al gennaio 1631. Dopo aver visitato Venezia e Cento, dove conosce Guercino, si stabilisce a Roma. Qui, nel 1630, dipinge La tunica di Giuseppe e La fucina di Vulcano, tele che riporterà con sé in Spagna e che rappresentano la sua risposta più alta al problema della pittura di storia e della resa degli “affetti”, così attuale nel milieu artistico romano. In Velázquez la recitazione degli “affetti” è però ambigua, sempre sospesa tra ironia e gravità: l’assoluto della tragedia, il dolore cieco di Giacobbe, sfuma nel sorriso beffardo dei fratelli nell’ombra, nel guaito del piccolo cane in primo piano. La gravità, che a Roma poteva venirgli da Poussin, è addolcita dal gioco accidentale della luce, che fa recedere nella penombra il protagonista, il vecchio Giacobbe, mentre colpisce in pieno i due corpi nudi sulla sinistra, colti di spalle.
Di nuovo in Spagna dopo il viaggio italiano, Velázquez affronta i temi religiosi cercando di rendere domestico il senso del sacro, ma combinando con disinvoltura dettagli realistici nello stile di Zurbarán e libertà pittoriche alla maniera di Guercino e di Guido Reni. È a partire da questo momento che i pentimenti sono sempre più vistosi, segno di un’elaborazione tormentata e del desiderio di far vibrare i profili (come quello dell’angelo che sta imponendo la cintola di castità al santo, sfinito dalla lotta contro la tentatrice in fuga) per meglio rendere la transitorietà dei moti e degli stati d’animo.
Vari quadri molto emozionanti sono eseguiti al ritorno dall’Italia: nel Cristo e l’anima cristiana l’iconografia tradizionale spagnola è riletta alla luce del caravaggismo più intimista degli ultimi epigoni che Velázquez poteva aver conosciuto a Roma, come lo Spadarino, arricchito però da una pennellata più corposa e quasi vellutata. Rari sono i disegni di Velázquez, che usava correggere fino all’ultimo ogni dettaglio direttamente sulla tela, magari ritoccandola dopo anni: nella Testa virile, uno studio a matita nera, forse per la testa di Cristo flagellato nel Cristo e l’anima cristiana, l’interesse prevalente è per la modulazione tonale e luministica, come nei caravaggeschi, fino al dettaglio dell’ombra proiettata di una ciocca di capelli.
L’affermazione come pittore di corte
Nel 1635 Velázquez dipinge per il Salón de Reinos (Salone dei Regni) nel palazzo del Buen Retiro, (su commissione del duca di Olivares) il suo quadro storico di maggiore impegno, La resa di Breda, sancita il 5 giugno 1625. Il confronto con Rubens è sempre incombente per Velázquez e per la sua committenza: ciò giustifica la grandiosità della scena e la sontuosità pittorica, che sarà comune a tutti i ritratti equestri dipinti per lo stesso salone. La fama europea di Rubens lo spinge a rivisitare con crescente interesse i grandi modelli della pittura veneta del Cinquecento (presenti nelle collezioni reali di Spagna e accresciuti per merito dello stesso Velázquez, che nel 1634 fa acquistare ancora un Tiziano e uno Jacopo Bassano). All’allegoria encomiastica, Velázquez preferisce la cronaca dell’evento, il momento in cui il borgomastro, sconfitto, rimette le chiavi di Breda nelle mani del comandante Spinola. Il risultato precorre per modernità narrativa il romanzo storico dell’Ottocento: così la veduta a perdita d’occhio dei campi ancora fumanti, sconvolti dalle ferite della battaglia, allontanati nell’atmosfera azzurrina, si emancipa dal limite cartografico di tante documentazioni figurative seicentesche, come le vedute dell’assedio di Breda di Peeter Snayers.
Sempre per il Salón de Reinos Velázquez dipinge, verso il 1635, cinque grandiosi ritratti equestri di Filippo IV e della consorte Isabella di Borbone, dell’infante Baltasar Carlos, dei predecessori Filippo III e Margherita d’Austria.
Ovvio è il confronto con due illustri precedenti, entrambi a Madrid, il Carlo V a Mühlberg di Tiziano e il Filippo II di Rubens.
A differenza di questi due modelli il monarca non cavalca al passo, ma di corvetta (cioè avanzando solo sulle zampe posteriori): così sarà pure nel monumento equestre a Filippo IV, fuso in bronzo dal fiorentino Pietro Tacca sulla base di un bozzetto fornito da Velázquez.
Verso il 1640 Velázquez dipinge il Marte per la Torre de la Parada. È un’immagine non a caso sfocata nei margini, realizzata con grande libertà pittorica.
La rappresentazione antieroica di Marte come un qualsiasi guerriero spogliato, sorpreso in un attimo di stanchezza, è stata tacciata di volgarità e di sarcasmo, ma l’ambiguità, tipica di Velázquez, è di grande significato: eludendo l’esaltazione trionfalistica delle virtù guerriere, il volto di Marte recede nell’ombra e fa meditare su ciò che i trionfi della guerra nascondono.
Numerosi sono i ritratti dei buffoni di corte, in pose inconsuete, come quello di Juan Calabazas detto Calabacillas, morto nel 1639. La naturalezza della posa compensa il tributo pagato al concettismo di moda con la raffigurazione delle zucche, che alludono all’insania del buffone e al suo soprannome. I profili sono sfumati, mossi e imprecisi, tanto che lo spigolo delle pareti non è completato sulla sinistra.
In tali artifici è il segreto della palpabile verità atmosferica delle opere mature di Velázquez.
Come scriveva il collezionista Pierre-Jean Mariette, sono “audaci e incredibili che a distanza fanno il loro effetto, sorprendente fino al punto di produrre un’illusione perfetta”.
Dal secondo viaggio in Italia (1649-1651) agli ultimi capolavori
Dal 1643 Velázquez è nominato soprintendente della galleria reale e dal 1647 è incaricato di allestire la pieza ochavada de palacio, la camera ottagonale che doveva rivaleggiare con la Tribuna degli Uffizi. Per comperare dipinti e statue antiche viene inviato nel 1649 in Italia, dove si tratterrà fino al giugno 1651.
Nell’anno giubilare è a Roma.
Dopo il mulatto Juan de Pareja, ritrae il pontefice Innocenzo X in un dipinto memorabile che ancora nel Novecento ha ispirato il pittore Francis Bacon. È un omaggio a un prototipo illustre, il Ritratto di Giulio II di Raffaello, trasformato però da una pittura di tocco neotizianesco, tale da suscitare l’approvazione entusiasta del veneziano Marco Boschini: “Retrato veramente de valor, fato col vero colpo venezian”. L’aderenza al modello sconcerta lo stesso pontefice, che vedendolo esclama: “Troppo vero!”.
A lungo si credette che Las hilanderas rappresentasse semplicemente un gruppo di filatrici nella Fabbrica reale di Santa Isabel, una sorta di presagio del realismo sociale dell’Ottocento.
Come in alcuni bodegones giovanili (per esempio La mulatta), esiste invece un cripto-soggetto mitologico che giustifica la tranche de vie ingigantita in primo piano. Il lavoro artigianale rimane in realtà nell’ombra, rischiarato di riflesso dalla luce che spiove da sinistra, sullo sfondo: in un locale più elevato dove si suona il violoncello, tre dame contemplano un arazzo con il castigo di Aracne, la tessitrice che aveva osato sfidare Minerva. L’allusione dovrebbe essere alla superiorità delle arti sul lavoro meccanico, insomma al tema della nobiltà della pittura, assai caro a Velázquez che fino alla morte inseguirà il titolo cavalleresco dell’Ordine di Santiago, conferitogli dopo molte difficoltà nel 1659. Per l’ultimo Velázquez il confronto d’obbligo è sempre più quello con Rubens e con le opere tarde di Tiziano (l’arazzo tessuto da Aracne, che si intravvede sul fondo, è per l’appunto una copia di Rubens dal Ratto d’Europa di Tiziano): ma la loro sontuosità cromatica è trasfigurata in valori atmosferici, per cui le figure lontane paiono disfarsi investite da troppa luce, mentre quelle in penombra sono sfocate, sì da rendere il movimento affannato delle mani intorno all’arcolaio o quello velocissimo della ruota della rocca. Su tutto pare depositarsi un pulviscolo greve, come polvere di lana.
Sarebbe difficile pensare a Velázquez senza Las meninas, il capolavoro dipinto solo quattro anni prima della morte, nel 1656, probabilmente per celebrare l’erede al trono, l’infanta Margherita, nata dalle seconde nozze di Filippo IV con Marianna d’Austria. È una delle opere più moderne, di effetto quasi fotografico nel combinare il nitore del primo piano con le sfocature dell’interno in penombra. Al tempo stesso è una delle opere più concettuali, tanto che Anton Raphael Mengs la dirà dipinta piuttosto con la volontà che con la mano. Si è parlato, come per Leonardo, di prospettiva aerea: non è uno spazio prospettico certo e concluso, ma la sezione accidentale di un continuum spaziale che prosegue oltre i limiti del quadro, come fa intuire la grande tela posta di sbieco o lo sguancio della finestra da cui filtra la luce, appena visibile sulla destra.
Analoga è la concezione accidentale del tempo. Il dipinto coglie l’attimo in cui il nano Pertusato salta sul cane, la menina Maria Agustina offre una brocca all’infanta distratta, mentre don José Niero si affaccia oltre la porta al fondo della sala; il pittore sta fissando il suo modello, la coppia reale riflessa dallo specchio, per studiarne le fattezze: tra un secondo il suo sguardo tornerà sulla tela.
La vita di Velázquez si svolge, così, fino alla morte, all’interno della corte. Qui la sua posizione diviene sempre più importante con la nomina nel 1652 ad aposentador mayor de palacio (maresciallo maggiore del palazzo), nomina che gli conferisce la responsabilità di tutti i principali apparati decorativi.