velo
vélo s. m. – L’obbligo islamico del v. non trova nel Corano che un generico riferimento (XXIV, 31; XXXIII, 32-33); tuttavia l’invito coranico al pudore e alla modestia rivolto alle donne è stato poi interpretato dalla tradizione come legato all’adozione di un particolare tipo di abbigliamento. Il v., hijāb (ḥiğāb) nell’accezione più generica, ma assume altri nomi a seconda delle sue diverse tipologie, viene introdotto su imitazione degli usi bizantini e sasanidi e, in un primo tempo, limitato alle donne di più alto lignaggio, in particolare alle mogli del Profeta, come segno di distinzione. Il processo di urbanizzazione che la società arabo-musulmana vive a partire dall'8° sec. ne consolida l’uso con una conseguente maggiore segregazione delle donne di tutti i ceti, a esclusione di quelli più bassi e dei ceti rurali. L’avvento dei turchi accentua la separazione dell’universo maschile da quello femminile: le donne recluse negli harem, da cui non possono uscire se non per andare a sposarsi e per un altro limitato numero di circostanze, alimentano l’immagine di mistero e sensualità della donna musulmana che i viaggiatori europei hanno trasmesso all’Occidente. Attualmente il v. riflette realtà diverse tra le donne, dalla madre di famiglia alla militante, e assume dunque molteplici significati. Frantumata la tradizionale divisione degli spazi con l’ingresso delle donne nello spazio pubblico, una volta di dominio maschile, il v. può essere scelto come simbolo di identità religiosa e culturale o come segno di lotta, anche se spesso continua a essere imposto dalle convenzioni sociali. In ogni caso, che esso venga indossato o meno, nella visione occidentale del mondo islamico in quanto altro da sé, il v. è inevitabilmente associato alla donna musulmana. Negli ultimi anni è divenuto popolare in Europa il termine burqa, che indica il particolare capo di abbigliamento delle donne in afghane consistente in un v. che copre l’intero corpo e che consente a colei che lo indossa di vedere, in genere, attraverso una sorta di retina posta all’altezza degli occhi. Nell’uso corrente burqa è divenuto sinonimo di niqāb, il v. integrale di colore nero che lascia scoperti solo gli occhi. Entrambi, burqa e niqāb,sono stati oggetto di violente campagne di stampa e soggetti a divieti per ragioni ricondotte sia alla pubblica sicurezza, sia alla tutela della dignità e dei diritti della donna. È invece ormai accettato in tutta Europa il foulard islamico (hijāb), che copre la testa, ma non il volto della donna, spesso colorato e abbinato al resto dell’abbigliamento. In Italia la questione del v. integrale sta suscitando un vivace dibattito. Nell’ottobre del 2009 la Lega nord propose una legge per punire chi «in ragione della propria affiliazione religiosa» indossa in pubblico indumenti che rendano «impossibile o difficoltoso il riconoscimento». Il testo si basava sulla l. 152/1975, che punisce con l’arresto da uno a due anni e l’ammenda da 1000 a 2000 euro «l’uso di caschi protettivi o di qualunque altro mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo», nonché «l’uso predetto in occasione di manifestazioni che si svolgono in luogo pubblico o aperto al pubblico, tranne quelle di carattere sportivo che tale uso comportino». Già nel luglio 2004 due ordinanze dei sindaci di Drezzo (Como) e Azzano Decimo (Pordenone) hanno incluso per la prima volta nel divieto fissato dall’art. 5 della l. 152/1975 il «v. che copra il volto». Tale interpretazione estensiva andava ben oltre le competenze comunali, tuttavia ha costituito un precedente, così che anche il sindaco di Novara ha emesso all’inizio del 2010 un’ordinanza analoga. Il 27 novembre 2008 il Tribunale di Cremona ha escluso che al concetto di «altri mezzi atti a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona» possa essere ricondotto il burqa, il cui uso è riconducibile piuttosto a motivazioni di carattere religioso e culturale. In questi termini si è espresso il Consiglio di Stato (sentenza n. 3076 del 19 giugno 2008), stabilendo che l’uso del v. integrale «generalmente non è diretto a evitare il riconoscimento, ma costituisce attuazione di una tradizione di determinate popolazioni e culture». Al giudice non compete entrare nel merito dell’utilizzo del v. né valutarne la spontaneità; sotto il profilo giuridico è rilevante soltanto se si è in presenza di un mezzo finalizzato a impedire senza giustificato motivo il riconoscimento. Dunque l’art. 5 della l. 152/1975 consente che una persona indossi il v. per motivi religiosi o culturali; le esigenze di pubblica sicurezza sono soddisfatte dal divieto di utilizzo in occasione di manifestazioni e dall’obbligo per la donna che indossi il v. integrale di sottoporsi all’identificazione e alla rimozione del v., ove necessario a tal fine. Tra l’aprile 2008 e l’ottobre 2010 sono state depositate alla Camera una decina di proposte volte a proibire per legge l’uso del v. integrale; il 19 ottobre 2011 è stato adottato un testo unificato che vieta esplicitamente l’uso di burqa e niqāb e, seguendo l’esempio francese, punisce la «costrizione all’occultamento del volto» sanzionandola con la preclusione all’acquisto della cittadinanza italiana. La discussione sul v. in Italia ricalca quella avvenuta o in corso in altri paesi europei. La Francia ha vietato nel 2003 la presenza di simboli religiosi nelle scuole pubbliche, incluso l’uso del velo. Anche Paesi Bassi e Gran Bretagna hanno messo al bando il v. dalle scuole pubbliche. Dall’aprile 2011 è in vigore in Francia una legge che vieta l’uso del v. integrale nei luoghi pubblici, stabilendo al primo articolo che «negli spazi pubblici nessuno può portare indumenti atti a nascondere il volto». Proposte di legge analoghe sono state fatte anche in Spagna e Belgio. In Gran Bretagna il dibattito pro e contro il v. integrale vede coinvolte varie associazioni musulmane, per es. il Muslim educational centre di Oxford, che chiede che il v. venga bandito, mentre l’organizzazione Pro-hijab, nata nel 2004 e di cui fanno parte molte ragazze musulmane di seconda o terza generazione, si batte affinché se ne riconosca il valore culturale. Le proposte di legge che presuppongono il divieto del v. integrale si basano sulle esigenze di garantire la sicurezza e l’ordine pubblico, ma si sottolinea anche come il v. (in modo particolare quello integrale) sia un simbolo di dominazione maschile e di oppressione delle donne. Tuttavia tali proposte nascono spesso da un diffuso sentimento antislamico successivo ai fatti dell'11 settembre 2001 e si mostrano poco attente alle concrete dinamiche sociali, culturali e religiose dell’islam in Europa. Schiacciate da un logica, volta soprattutto a prevenire, esse non riescono a cogliere e a dare una vera risposta alla complessa gestione dei cosiddetti reati culturalmente orientati. Come già messo in luce dall’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa (risoluzione 1743 2010, Islam, islamism and islamophobia in Europe), c’è il fondato timore che un divieto formale del v. integrale abbia come effetto la scomparsa delle donne musulmane che lo indossano (soprattutto se costrette) dagli spazi pubblici, invece che favorirne l’integrazione nelle società europee.