veltro
Cane da caccia, di cui è peculiare la velocità (ogni bontade propria in alcuna cosa, è amabile in quella: sì come... nel bracco bene odorare, e sì come nel veltro ben correre, Cv I XII 8).
L'immagine dell'animale in corsa appare infatti nella vivace scena di caccia di Rime LXI Sonar bracchetti, e cacciatori aizzare, / lepri levare, ed isgridar le genti, / e di guinzagli uscir veltri correnti..., v. 3; e anche in CIV 102, dove con li neri veltri D. indica i Neri, metaforica allusione, in un contesto di caccia, a coloro che la guidano e che prendono il sopravvento. La stessa immagine ritorna nel canto dei suicidi, per dare un'idea, in sede di paragone, della velocità delle cagne che inseguono i due scialacquatori: Di rietro a loro era la selva piena / di nere cagne, bramose e correnti / come veltri ch'uscisser di catena (If XIII 126; si noti anche il ripetersi di correnti, " sfrenate alla corsa ", come opportunamente nota il Chimenz). Per If I 101, v. oltre.
Il Problema del veltro nell' " Inferno " di Dante. - Il passo di If I 101-102 Costituisce un enigma. La sola affermazione certa che possiamo fare al riguardo è che, nel passo, v. denota colui che attuerà, o i mezzi con cui si attuerà, la liberazione del mondo dalle spoliazioni della lupa, nella quale è impersonata la cupiditas, oppure, come suggerisce il Freccero, la concupiscentia.
Con l'uso della forma femminile lupa - sia in questo passo sia in Pg XX 10, dove pare riferirsi nuovamente al v. - D. probabilmente intese suggerire al lettore la nota leggenda di Roma, nella cui curia papale egli riteneva che, a quel tempo, fosse concentrata in gran parte l'avidità terrena. A tal proposito è opportuno accennare all'esistenza di rappresentazioni artistiche e letterarie medievali, nelle quali il cane simboleggia la fides e anche la sagacia, l'alacrità e la fedeltà dei difensori del gregge cristiano contro la voracità dei lupi, mentre il lupo simboleggia tanto la rapacità e l'astuzia, quanto il demonio e i suoi accoliti, e anche Roma (per queste e altre interpretazioni e relativa bibliografia, v. Lexikon der christlichen Ikonographie, Friburgo i.B., II, 1970, 334-336; IV, 1972, 535-539).
Dopo che la lupa ha sbarrato a D. la via verso il dilettoso monte (v. 77), il poeta incontra Virgilio che lo induce a scegliere una strada diversa. Virgilio pronuncia allora (vv. 100-111) una profezia che, come ben gli si addice, è sibillina, sia per il tono enigmatico, sia per l'impiego della simbologia animale, che la rendono simile al tipo di responsi di alcune tra le più diffuse Sibille medievali. Virgilio dichiara che molti sono gli animali con cui la lupa s'ammoglia, e saranno ancor di più, finché non verrà 'l veltro che la farà morir con doglia. Esso non si nutrirà né di terra né di danaro (non ciberà terra né peltro), ma di sapienza, amore e virtute, cioè degli attributi caratteristici delle tre persone della Trinità. La sua nazion (non si sa se il termine significhi " nascita " o " elezione ") sarà tra feltro e feltro (per l'enigma di quest'espressione, v. FELTRO), e salverà l'umile Italia (cfr. Virgilio Aen. III 522-523) dando la caccia alla lupa per ogni città, fino a ricondurla nell'Inferno.
Quanto al viaggio che D. deve intraprendere per sfuggire alla lupa, Virgilio dice che potrà fargli da guida per una parte soltanto di esso, dopo di che qualcun altro (cioè Beatrice) lo sostituirà. A questo punto (vv. 131-135) D. chiede a Virgilio di portarlo là dove potrà vedere la porta di san Pietro (v. 134), vale a dire la porta del Purgatorio.
Per una di quelle coincidenze dantesche, che probabilmente coincidenze non sono, sarà proprio dalla bocca di Beatrice e di s. Pietro che D. udrà più tardi alcune profezie, che costituiscono il complemento delle parole pronunciate da Virgilio a proposito del veltro. In Pg XXXIII 34-45 Beatrice predirà infatti l'avvento di un cinquecento diece e cinque (v. 43) come erede dell'aquila imperiale, mentre s. Pietro, in Pd XXVII 55-63, nel denunciare i lupi papali come prossimi a bere il sangue dei santi, affermerà: Ma l'alta provedenza, che con Scipio / difese a Roma la gloria del mondo, / soccorrà tosto, sì com'io concipio.
Il riferimento al ruolo provvidenziale di Scipione, per il passato, e dell'erede dell'aquila, per il futuro, indicano da che parte D. attendesse la liberazione. Tanto più che nel Convivio D. afferma che a perfezione de l'umana vita la imperiale autoritade fu trovata, e che lo Imperadore... sia lo cavalcatore de la umana volontade. Lo quale cavallo come vada sanza lo cavalcatore per lo campo assai è manifesto, e specialmente ne la misera Italia, che sanza mezzo alcuno a la sua governazione è rimasa! (IV IX 1 e 10). Spetta infatti all'imperatore, al Romanus princeps, di sopprimere le manifestazioni di cupidigia - che rappresentano il funesto retaggio della colpa di Adamo - e di guidare gli uomini alla felicità terrena, consentendo loro di convivere in libertà e in pace (Mn III XV 10-11). È forse questo il compito del veltro? D. afferma che per compiere ciò è necessario un imperatore onnipotente, che eserciti un controllo su tutto e che nulla più abbia a desiderare (Cv IV IV e Mn I XI-XIII).
Per D., dalla colpa di Adamo in poi, l'unica volta che fu instaurata una pace universale e una perfetta monarchia fu sotto Augusto, il cui governo fu consacrato a preparare la via all'avvento di Cristo. Un'unica volta, quindi, l'Impero adempì adeguatamente alla sua funzione. È evidente che anche il governo del v. sarà perfetto, dal momento che caccerà la lupa per ogne villa, / fin che l'avrà rimessa ne lo 'nferno, / là onde 'nvidia prima dipartilla (If I 109-111).
Niente di più probabile, quindi, che nel primo dell'Inferno Virgilio, il grande celebratore di Augusto, predìca l'avvento di un futuro imperatore che dovrà regnare su tutta quanta la terra. È tuttavia assai dubbio che D. ritenesse di sapere di quale governante si sarebbe trattato. Se il termine nazion viene interpretato nel significato più ovvio di " nascita ", e non di " elezione " come sostenne A. Regis (nel qual caso feltro designerebbe le urne foderate di feltro in cui gli elettori dell'imperatore deponevano con discrezione i loro voti), allora il futuro sarà assume una grande importanza.
Esso, difatti, starebbe a indicare che nel 1300, che è la data fittizia della Commedia, il v. non era ancora nato. Se D. non dà indicazioni su quando apparirà il suo salvatore - e ancora in Pg XX 13-15 si dimostra incerto - resta comunque il fatto che, almeno nel 1300, la fine della lupa sembra tutt'altro che imminente: in If I 100-101 è detto infatti che essa prima di essere condotta nell'Inferno avrà ancora tempo per ‛ ammogliarsi ' con altri animali.
Di fronte a tali incertezze, i primi commentatori si mantennero cauti nell'attribuire una specifica identità al v., mentre maggiore audacia hanno spesso mostrato i commentatori posteriori, nonostante s'ignorasse l'epoca di composizione del primo canto dell'Inferno. Tuttavia, più che l'identità del v. - ammesso pure che D. ritenesse di conoscerla - quello che importa è il suo ufficio e, soprattutto, la sua funzione: quella cioè di purificare il mondo da quel veleno dell'avarizia da cui D. lo riteneva infetto.
Tra i primi commentatori, molti ritennero che questa opera di purificazione doveva aver luogo sotto l'influenza di stelle propizie. Il primo di essi, Iacopo, pensò che esse avrebbero segnato l'inizio di un'età nuova (rappresentata dal v.) destinata a rimpiazzare l'avidità di quella presente (rappresentata dalla lupa). Una tale configurazione astrale sarebbe sorta tra feltro e feltro, vale a dire " tra cielo e cielo " . Iacopo, comunque, segnalava anche l'opinione di coloro che credevano " che 'l detto veltro debbia essere alcuno virtudioso che per suo valore da cotal vizio [la cupidigia] rimuova la gente ". In quest'ultimo caso feltro denoterebbe " drapo di vile condizione " .
Il Lana offre una spiegazione astrologica più elaborata. Egli dice infatti che D. (come Albumasar) distingueva sette età del mondo, corrispondenti ai sette giorni della settimana. La prima, quella di Saturno, fu un'età virtuosa; la settima, quella presente dominata dalla Luna, è caratterizzata dall'avarizia. In seguito ritornerà l'età di Saturno e " le genti saranno tutte larghe e cortesi; e mette che 'l mondo venerà ad uno signore lo quale amerà sapienza, amore e virtude " . Quanto all'espressione tra feltro e feltro, essa può significare o " tra cielo e cielo " o " di assai vile nazione " . L'Ottimo, da parte sua, segue assai da vicino questa interpretazione, ma sembra dubitare che in essa sia riflesso il pensiero personale di D.: " Questo si dice per lo Autore poetando, e recitando l'opinione di coloro, che vollono che 'l mondo sia eterno, e reggasi per costellazione " .
Il Boccaccio, il Buti e il Landino seguono anch'essi l'interpretazione astrologica, anche se omettono qualsiasi menzione delle sette età. Per il Boccaccio la profezia del v. riguarda " alcuna costellazione celeste, la quale dee negli uomini generalmente imprimere la vertù della liberalità ", e, nel significato allegorico, si riferisce a quel " virtuosissimo uomo " in cui per primo appariranno gli effetti della nuova costellazione. Quanto a tra feltro e feltro egli confessa di non conoscerne il significato, e si limita a riportare solo opinioni altrui. Di queste ne rigetta due: che il v. sia Cristo, in quanto proviene dal cielo, o che sia il Gran Can tartaro, avvolto, ai funerali, in un drappo di feltro. Una terza opinione egli considera più verosimile, cioè quella che interpreta feltro come veste molto rozza, sì che si possa vedere nel v. un uomo di umile lignaggio, reso virtuoso dalla benignità delle stelle. Il Boccaccio non accenna invece all'interpretazione che identifica feltro e feltro con le due città di Feltre e di Montefeltro; un'interpretazione questa già riportata, ma senza condividerla, da Pietro e dall'Anonimo, e che il Vellutello sarà il primo importante commentatore ad accettare.
Il Buti e il Landino, senza scostarsi dai primi commentatori, interpretano tra feltro e feltro nel senso di " tra cielo e cielo ". Il Buti dice peraltro che " l'autore intese allegoricamente per questo veltro una influenza di corpi celesti... che tutto il mondo si disporrà a sapienza, virtù e amore ", mentre il Landino afferma che " sarà adunque el veltro tale influentia la quale nascerà tra cielo et cielo, overamente quel principe el quale da tale influentia sarà prodocto " .
A mostrare interesse per le influenze astrali è anche il loro predecessore Pietro Alighieri, il quale asserisce che a disporre il mondo a virtù sarà una congiunzione di Saturno e di Giove. Egli però, assai più di loro, presta attenzione all'ufficio e alla funzione del capo alla cui carriera queste influenze astrali dovranno presiedere. Egli non identifica il v. semplicemente in un uomo virtuoso o in un principe, ma in un imperatore, e tenta di suffragare quest'interpretazione con dei paralleli letterari convincenti. Citando infatti alcuni, appropriati, passi virgiliani dalle Bucoliche e dall'Eneide, dice che è lecito riferirli non soltanto a Cristo (com'era uso normale nel Medioevo, sulla scorta di Agostino), ma anche ad Augusto; e come Augusto, anche il v. avrebbe regnato su tutta quanta la terra. Pietro paragona inoltre la funzione del v. con quella dell'" uomo nuovo " descritto da Alano di Lilla nell'Anticlaudianus, in quanto ambedue avrebbero combattuto la peste dell'avarizia e restaurato la virtù nel mondo.
Quest'interpretazione è contenuta nella prima redazione, stampata, del suo commento, molti elementi della quale sono presenti anche nella seconda versione (ms. Laurenziano Ashburnhamiano 841, ff. 11r-12v) e nella terza (ms. Vat. Ottoboniano lat. 2867, ff. 11v-12v). In queste ultime però compaiono anche importanti aggiunte (con lievi varianti tra i due manoscritti). In esse il v. è esplicitamente identificato col cinquecento diece e cinque di Pg XXXIII 43-45, e descritto come un imperator et dux la cui funzione sarà quella, in generale, di dominare l'avarizia e d'instaurare la pace, e in particolare, di spogliare delle loro illecite ricchezze i prelati. Pietro suggerisce inoltre la possibilità che il v. sia il " re dei Cristiani " predetto da Metodio (che lo chiamò anche Rex Romanorum): quell'ultimo imperatore, cioè, che un ruolo tanto preminente ebbe nella fantasia storica medievale, a cui sarebbe toccato di sconfiggere gl'Ismailiti (cioè i Maomettani) e di sottomettere tutte le nazioni alla sua pace, instaurando in tal modo una finale età aurea, precedente la venuta dell'Anticristo e il secondo avvento di Cristo.
Per quanto riguarda il luogo, il momento e il popolo da cui questo capo sarebbe sorto, Pietro ritiene che D. sia rimasto volutamente nel vago. Per l'interpretazione di tra feltro e filtro, pur suggerendone svariate, Pietro non vuole impegnarsi in nessuna in particolare. Per quanto attiene l'avvento del v. egli preferisce collocarlo senz'altro nel futuro, come sembra fare D. stesso in Pg XX 13-15. L'identificazione del v. - da parte di Pietro - sia col cinquecento diece e cinque sia con l'ultimo imperatore di Metodio, oltre che farne al tempo stesso l'erede di Augusto e il messaggero di Cristo, ha il merito di conferire il dovuto peso all'aspetto escatologico del poema dantesco. Nessuno dei precedenti commentatori può competere con Pietro, sia per l'acutezza della sua analisi del problema del v. sia per la compiutezza con cui tenta di delucidarlo attraverso l'esegesi degli altri passi di rilievo della Commedia.
Non mancò, comunque, chi avanzò un'interpretazione escatologica perfino più spinta, identificando il v. nella figura di Cristo che viene a giudicare il mondo. L'equazione v. = Cristo è di antica data nella critica dantesca; essa si ritrova già nel Bambaglioli (1324 circa) e in Guido da Pisa (1340 circa). Ambedue ritennero possibile un'interpretazione dell'enigma a due livelli: uno umano - come sovrano giusto - e uno divino - come Cristo. Il Bambaglioli pensò che il sovrano giusto poteva essere o un papa o un imperatore o, ancora, un uomo di grande prudenza e virtù. Guido da Pisa, invece, assimilando il v. a Scipione e paragonando la sua nobilità a quella del popolo romano, diede alla sua interpretazione un'intonazione romana e imperiale.
Quanto a Benvenuto, egli sembra fondarsi sull'interpretazione di Guido, tentando inoltre di combinarla con alcuni aspetti di quella di Pietro. Nel contempo egli rigetta l'idea che il termine veltro voglia significare " il grande giorno " di una nuova configurazione astrale o di una nuova età. Benvenuto asserisce che con la profezia del v. il poeta imita il Virgilio della quarta Bucolica. Come il passo di Virgilio può venir riferito tanto ad Augusto che a Cristo, così pure il v. può essere spiegato o come Cristo che verrà a punire l'avarizia nel giorno del giudizio, o come un " futuro principe romano " che porrà termine alla depravazione di avidi prelati. Benvenuto sembra considerare queste due interpretazioni, più che complementari, alternative, il che è strano in quanto il pensiero storico medievale era solito considerare ogni buon sovrano come un precursore del secondo avvento di Cristo e, come suo precursore immediato, quell'ultimo imperatore del mondo che, secondo Metodio, avrebbe posto la propria corona sulla vera croce di Cristo prima che questa fosse trasportata in cielo.
Va detto che nei primi due secoli di esegesi sul v. dantesco, scarsi furono i tentativi d'identificare la profezia in un personaggio storico definito. Frasi adulatorie come quella del Summacampagna, grammatico alla corte di Cangrande (" quel can che fuga la lupa fallace ") e così pure le analoghe allusioni segnalate dal Selmi in manoscritti fiorentini del XIV e XV secolo, devono essere considerate eccezioni. Il primo a dar sviluppo all'ipotesi di una identità v.- Cangrande, tanto da dare una piena spiegazione dei due grandi enigmi danteschi, fu il Vellutello. Egli interpretò il cinquecento diete e cinque come riferito a Enrico VII, e il v. come il suo fautore e vicario Cangrande. A quest'indicazione si attennero molti critici successivi, tra cui il Witte, il Kampers e il Casini. Altri invece hanno seguito la tesi del Troya, avanzata la prima volta nel 1826, secondo cui il v. sarebbe un altro sostenitore dell'Impero, Uguccione della Faggiuola. Altri ancora hanno sostenuto l'identificazione del v. con Enrico VII, che è teoria difesa di recente da F. Mazzoni (v. ENRICO VII). Contro questa tendenza a orientare in senso ‛ ghibellino ' la profezia, è sorta un'interpretazione ‛ guelfa ', per la quale il candidato naturale è sembrato papa Benedetto XI (ad es., per il Betti, il Giuliani, il Marchese e il Renucci), anche se questo implica l'attribuzione di una data di composizione assai precoce al I dell'Inferno, precedente cioè alla morte di Benedetto nel 1304. Un'interpretazione più curiosa, che identifica il v. con D. stesso, è quella divulgata per primo da Ruggiero della Torre nel 1887. Il Della Torre, comunque, ebbe a sottolineare che si trattava di una nozione già comparsa in una lettera di Pompeo Azzolino a Gino Capponi, pubblicata nel 1837. La stessa ipotesi avanzò anche Melchiorre Missirini nel 1844, in ciò seguito, nel nostro secolo, dal Borromeo, dal Benini, dall'Olschki e dal Getto, a cui vanno aggiunti il Crescimanno e lo Hardie i quali, con analoga interpretazione, sostengono che per D. il v. era la stessa Commedia. E questo nonostante che Beatrice in Pd XXVII 140-141 dica: pensa che 'n terra non è chi governi; / onde sì svïa l'umana famiglia. Se è probabile che D. ritenne la Commedia un mezzo per rendere consapevole il mondo della propria mancanza di governo, certo ben difficilmente poteva supporre di poter fornire, lui stesso, mediante la Commedia, quel governo di cui il mondo, a suo avviso, aveva il più disperato bisogno.
Non sono mancati neppure gli esaltati e i propagandisti, i quali - valendosi di un metodo esegetico simile a quello con cui gli scrittori medievali cristiani cercarono di far profetizzare a Virgilio la nascita del Salvatore - hanno colto prontamente la profezia del v. per applicarla a personaggi che D. non avrebbe mai potuto conoscere. Così il Mezzani salutò nel v. Carlo IV; il Rossetti, Lutero; il Barlow, Garibaldi; lo Scarabelli, Vittorio Emanuele II; lo Stedfeld, l'imperatore Guglielmo I; il Bassermann (nell'ultimo anno della sua vita), Hitler; D. de Minicis, D. Venturini, G. Forte e D. Merežkowsky, B. Mussolini. Persino uno storico eminente come A. Solmi dichiarò nel 1944 che la lupa della cupidigia sulla quale il v. dantesco stava per avere il sopravvento era rappresentazione delle plutocrazie occidentali, per fortuna contrastate dalle due nazioni che, già congiunte una volta nell'Impero di D., erano nuovamente unite nel tentativo di redimere il mondo.
Gli studiosi recenti, comunque, hanno in gran parte evitato di attribuire un nome al v., contentandosi di portare argomenti in favore di una o l'altra delle tre alternative ‛ umane ' prospettate dal Bambaglioli, e cioè: un imperatore (o un vicario imperiale), un papa, o, semplicemente, un riformatore virtuoso. Pascoli, Döllinger, Cian, Medin, Schneider, Ercole, Solmi, Barbi, Nardi, Gmelin, Von Richthofen, Töpfer, Singleton e Sarolli, sono tra coloro che inclinano per la teoria imperiale. Più breve, ma pur sempre lungo, è l'elenco di coloro che preferiscono l'ipotesi di un papa santo e, tra questi, D'Ancona, Torraca, Davidsohn, Bonaiuti, Dempf, Tondelli, Porena, John e Ciocco. Alcuni dantisti comunque (ad es. il Pietrobono, il Vallone, il Sapegno e il Petrocchi) hanno rifiutato d'impegnarsi in una delle varie posizioni, e preferiscono identificare il v. con un ignoto riformatore. Qualcuno, come il Parodi, preferisce pensare che all'atto della composizione del I dell'Inferno, le idee di D. fossero ancora abbastanza vaghe, e che giunsero a concentrarsi chiaramente su Enrico VII solo nel periodo in cui furono scritti gli ultimi canti del Purgatorio.
La serie delle altre interpretazioni è vasta. Di queste ci limiteremo a menzionare le seguenti: il v. rappresenta il Gran Can dei Tartari (Bassermann, prima di venir accecato dall'insulsa interpretazione v.-Hitler; Matrod); l'ordine francescano e quello domenicano (Salvadori, Kaske); un'età dell'oro (Ungaretti); lo Spirito Santo (Cassel, Filomusi Guelfi); Cristo (Chistoni); oppure nessuna specifica persona ma semplicemente la volontà virtuosa che combatte la volontà malvagia, rappresentata dalla lupa (Fenaroli).
Il progresso maggiore che possiamo osservare nella critica più recente rispetto a quella precedente sta nel crescente interesse per il reperimento di profezie analoghe e coeve, da mettere a confronto con quelle di Dante. Il Kampers, ad esempio, rifacendosi al nesso istituito da Armannino Giudice (v. ARMANNINO) tra la profezia del v. e quelle del mago Merlino, pubblica una profezia guelfa: " Lupa vero lacerando Veronensium canes / coadiuvante leone devorabit ", che egli definisce l'inverso di quella di D., nella sua ostilità contro Cangrande. Partendo dallo stesso punto di vista, il Grundmann indica in un Liber regum (oggi perduto) scritto al più tardi nel 1304-1305, una possibile fonte del v. dantesco (bisogna comunque ricordare che al tempo di D. era uso comunissimo porre una profezia sotto il nome di Merlino, spesso insieme con quelli della Sibilla e di Gioacchino; cfr. ad esempio L.A. Paton, Les prophécies de Merlin, I 154, e Salimbene Cronica, ediz. O. Holder-Egger, in Mon. Germ. Hist., Scriptores, XXXII 247, 360, 532, 539-542). Sempre su questa linea I. Del Lungo segnalò una profezia celebrativa di Enrico VII (" Dei missus dux a dextris / ponet lupum in fenestris ") e il Casini un sirventese romagnolo indirizzato a Guido da Montefeltro, nel quale un leone combatte un v., e in cui sono usate le stesse rime (veltro, peltro, feltro) del passo dantesco.
Se le precedenti sono tutte profezie politiche, sotto l'aspetto religioso va ricordata la scoperta da parte del Tondelli di un'importante opera (da lui edita nel 1939) contenente alcune figure gioachimitiche, tra le quali una di un canis a guardia del gregge dei fedeli di Cristo. Questo fatto indusse il Tondelli, e con lui un certo numero di studiosi, a ritenere che la profezia del v. derivasse da idee gioachimitiche. Ma già una quarantina di anni prima il Kraus aveva richiamato l'attenzione su un certo numero di corrispondenze testuali, qualcuna forse immaginaria ma altre di un'impressionante vicinanza, tra D. e Ubertino da Casale (v.), un francescano radicale che subì l'influsso delle concezioni storiche gioachimitiche. Il Kraus prospettò l'idea che il praedicator di Ubertino, che dà inizio all'età di riforma successiva all'impossessamento mistico del trono papale da parte dell'Anticristo, poté costituire il modello del v. dantesco.
Di recente due studiosi, il Kaske e il Sarolli, si sono avvicinati al problema del v. attraverso quello del cinquecento diece e cinque, che translitterano in DXV. Indipendentemente l'uno dall'altro sono giunti alla stessa conclusione, secondo cui il DXV è un " simbolo cristomimetico ", preso da un monogramma rintracciabile in molti messali e sacramentari del Medioevo. In questo monogramma le lettere V e D (iniziali delle parole Vere dignum con cui esordisce il prefazio del canone della Messa) sono congiunte per mezzo di una croce. Sicché per il Kaske, come anche per il Sarolli, il simbolo DXV sta per Cristo. Il Kaske pensa che il v. rappresenti i due ordini mendicanti e anche l'ondata di entusiasmo religioso da essi suscitata per una riforma universale che prepari il mondo alla seconda venuta di Cristo. Il Sarolli, d'altro canto, vuole identificare il DXV con il veltro. Tutti e due rappresenterebbero a loro volta sia Cristo, sia anche un suo precursore. Il Sarolli dice infatti che la V è 5 o D, la T è un diverso modo di rappresentare la croce, e l'o è omega, l'Ultimo, cioè Cristo: DXV e VTO (veltro) possono di conseguenza considerarsi equivalenti. Essi designano non solo Cristo, ma anche l'imperatore o il papa (probabilmente il primo) come typus Christi, del quale indicano il secondo avvento. Quale che sia l'opinione che possiamo avere sul modo di procedere del Sarolli per arrivare alla sua conclusione, è sufficiente notare che questa elaboratissima, recente interpretazione dell'enigma del v. ci riporta, mutatis mutandis, a quelle di Pietro e di Benvenuto.
La conclusione che scaturisce da questa verifica è che il v. rappresenta una concezione escatologica identificabile, plausibilmente, con il Cristo del giudizio finale e con il suo grande precursore imperiale. Escatologia, però, anche ai tempi di D. non vuol dire necessariamente gioachimismo. Resta dubbio se D. fosse o no in attesa del sorgere di una terza età, quella dello Spirito Santo, che avrebbe portato la specie umana a uno stadio totalmente diverso da quello precedente. Ma occorre andar cauti anche nell'attribuire agli spirituali francescani una simile teoria. Quanto a loro è innegabile che tra il V libro dell'Arbor Vitae di Ubertino, la Lectura in Apocalipsim dell'Olivi (v.) e If XIX e Pg XXXIII, esiste una stretta somiglianza nel modo di rappresentare, con immagini derivate dall'Apocalisse, la corruzione della Chiesa papale di allora. Basta pensare a Pg XXXIII, If I e Pd XXVIII per rendersi conto che D. vive nell'attesa di una futura grande riforma, da iniziarsi, probabilmente, con un'opera di correzione del Papato da parte dell'Impero. Tuttavia D. sembra nutrire un ardente desiderio non tanto per delle innovazioni storiche quanto piuttosto per una renovatio, per un ritorno, cioè, a quello che lui considera il buon tempo antico della Chiesa apostolica e dell'Impero universale (un Impero, beninteso, ormai cristiano, e destinato non più a perseguitare, ma a proteggere i fedeli). Egli sembra vedere nel v. il portatore di quella finale plenitudo temporis, preannuncio dei giorni finali, proprio come la prima plenitudo, quella di Augusto, aveva preannunciato l'era cristiana.
Niente prova una partecipazione di D. alle speranze gioachimitiche più radicali nell'avvento di un'età che avrebbe dovuto trasformare tutto quanto l'aveva preceduta. D., al contrario, afferma che gli scanni ancora vuoti in Paradiso sono ormai pochi (Pd XXX 130-132) e che tanto lui quanto i suoi contemporanei stanno già vivendo l'ultima età, nell'attesa della consummazione del celestiale movimento (Cv II XIV 13). E proprio questo insistere sulla ‛ fine ' è ciò che distingue D. da quei numerosi scrittori duecenteschi di Parte guelfa e ghibellina, che predicevano l'avvento di un governante virtuoso - raffigurato talvolta come povero e asceta - destinato a prevalere sui propri nemici. Benché, nella forma, la profezia di D. appaia strettamente legata ad alcuni di loro, nella sostanza essa presenta forse più stretta affinità con lo pseudo-Metodio, con Azzone, con la Sibilla Tiburtina, col loro predire il regno glorioso dell'ultimo imperatore del mondo, la cui propagazione universale della fede cristiana avrebbe preannunciato l'avvento dell'Anticristo e la seconda venuta di Cristo. Nel Medioevo, certo, ogni buon governante era considerato messaggero di quest'ultimo evento. Tuttavia sia il v. che il cinquecento diece e cinque - ambedue probabilmente riferiti allo stesso futuro e ignoto imperatore - sono scelti per combattere una manifestazione di male sino allora unica in ampiezza, e non dissimile da quella che avrebbe affrontato l'ultimo Rex Romanorum della tradizione apocalittica medievale. Compito del v. è uccidere la lupa, mentre compito del Rex Romanorum è sottomettere e convertire il mondo intero, compresi gl'infedeli Saraceni e gli avari Ebrei. Ma in realtà, il compito si rivela il medesimo quando si consideri che, per condurre la lupa all'Inferno, il v. di D. - al pari del suo ideale imperatore - non potrà non esercitare il governo effettivo del mondo. In questo senso il v. può venir considerato il successore cristiano di Augusto, l'unico sotto il quale, dice D., l'intero genere umano godette la tranquillità della pace. E proprio come Augusto bandì le contese nate dalla cupidigia e preparò in tal modo la strada alla nascita di Cristo-uomo, così il v., sradicando la cupidigia stessa, porterà la riforma nella Chiesa e la pace sulla terra, facendosi in tal modo - anche se D. non lo disse mai esplicitamente - messaggero del secondo avvento di Cristo.
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