Caccianemico, Venedico
, Personaggio della Commedia, nato intorno al 1228 da Alberto Caccianemico dell'Orso, capo della Parte geremea di Bologna; affiancò fin da giovane il padre nelle violente lotte civili che travagliarono a lungo la città. Riuscì nel maggio-giugno del 1274 ad aver finalmente ragione della fazione avversaria guidata dai Lambertazzi, e ne esiliò i maggiorenti favorendo nel contempo le mire ambiziose che nutrivano i marchesi di Ferrara su Bologna.
Dotato di senno politico oltre che di astuzia e coraggio, fu chiamato al governo di importanti centri: podestà di Imola nel 1264, capitano del popolo a Modena nel 1273-74, podestà di Milano nel 1275, di Pistoia nel 1283 e ancora di Milano nel 1286; alternò tali incarichi con quelli che gli derivavano dalla posizione di prestigio di cui godeva in seno ai consigli cittadini e della Parte. Nel 1287 conobbe per la prima volta l'esilio, pare per aver caldeggiato fra i suoi un accordo coi Lambertazzi; richiamato in patria, fu però esiliato un'altra volta due anni dopo (1289), a causa questa volta del suo aperto atteggiamento a favore degli Estensi. Nel 1297, alla morte del padre, fu riconosciuto tuttavia ufficialmente capo della sua casata, a cui d'altronde aveva già dal 1294 cominciato a dar lustro imparentandola alla famiglia d'Este tramite una stipulazione di nozze fra suo figlio Lambertino e Costanza di Azzo VIII. Sebbene già vecchio, nel 1301 fu esiliato ancora una volta, ma per breve tempo, a Pistoia, sempre per il suo atteggiamento troppo favorevole agli Estensi. Morì, pare, l'anno seguente, nella sua città; D. però lo dovette credere morto prima del 1300.
La colpa per cui D. lo pone nell'Inferno (XVIII 40-66), lenocinio esercitato nei confronti della sorella (I' fui colui che la Ghisolabella / condussi a far la voglia del marchese, / come che suoni la sconcia novella, vv. 55-57), non trova il benché minimo riscontro nelle cronache o nei documenti dell'epoca. Tanto più strano può sembrare il silenzio dei cronisti e degli storici, quanto più si fa caso al suonar della sconcia novella, in Bologna e fuori, riferita in cento modi, dato che " parea forte a credere che messer Venedico avesse consentito questo della sirocchia " (Anonimo). Ma la novità di D. non sta tanto nell'averne fatto menzione, quanto nella certezza che il fatto sia avvenuto davvero, tanto da farlo annunziare dal dannato stesso, e, a scanso di ogni possibile e plausibile dubbio, facendoglielo postillare con un aperto richiamo alla terra d'origine e all'avaro seno dei Bolognesi. I commentatori antichi, pur parafrasando il testo dantesco, sono tutti concordi nel narrare la vicenda parlando espressamente di lenocinio da V. esercitato per danaro (" elli condusse [la sorella] a fare la voglia del marchese Obizzo da Esti marchese di Ferrara, per danari ch'elli n'ebbe " [Buti]; " arruffianò madama Ghisola... per moneta " [Ottimo]; " conduxit sororem ad serviendum marchioni... ut fortius promeretur gratiam eius " [Benvenuto]). E invero, dai memoriali reperiti dallo Zaccagnini, risulta che V., specie negli ultimi lustri di sua vita, beneficiava di cospicui doni da parte degli Estensi. Ma abbia egli veramente operato da lenone, come pare ammettano i commentatori antichi, o solo anche si sia limitato a tollerare la tresca, è ammissibile l'ipotesi del beneficio che dalla relazione egli avrebbe tratto.
L'episodio dantesco si svolge " entro i termini del dibattito impietoso e serrato, tutto retto da formule subdole di ambigua ironia, sotto l'apparenza della corretta educazione, e svolto secondo lo spirito d'un sottile sarcasmo inquisitoriale " (Caretti). Nello spazio di 33 versi la scena è presentata e risolta. V. viene avanti come uno dei tanti peccatori ignudi che popolano la bolgia correndo sotto le scuriade dei diavoli. Nulla lo distingue da principio dai suoi simili, senza alcun rapporto con la posizione sociale che occupò da vivo. Tale irrisione non appare però chiara se non quando D. gli scandisce per esteso nome e cognome (v. 50), dimostrando, dopo un attimo di perplessità (Già di veder costui non son digiuno, v. 42), di averlo riconosciuto anche nello stato in cui si trova nell'Inferno. Onde la " domanda falsamente ingenua [che D. gli pone, Ma che ti mena a sì pungenti salse?], è d'una crudeltà sprezzante " (Sapegno), e di essa riusciamo a cogliere la portata solo quando il dannato, sforzato da quella così chiara favella che lo fa sovvenir del mondo antico, addiviene suo malgrado a confessare la sua colpa, e a denunziare i compagni bolognesi che popolano la bolgia, servendosi, per dar l'idea del numero, di una sarcastica perifrasi (determina infatti a pieno, come osserva il Caretti, un territorio linguistico, tra Sàvena e Reno, tramite un vocabolo spia: sipa, v. 60), atta a individuare la sua patria, i cui abitanti sono tutti affetti da un male capitale che egli indica qual causa del loro lenocinio (se di ciò vuoi fede o testimonio, / rècati a mente il nostro avaro seno, vv. 62-63). Sulla fama di lenoni che i Bolognesi godevano, piena luce offre Benvenuto: " Bononiensis naturaliter et comuniter non est avarus in retinendo, sed in capiendo tantum. Illi enim, qui sunt vitiosi, ibi prodigaliter expendunt ultra vires facultatis vel lucri; ideo faciunt turpia lucra, aliquando cum ludis, aliquando cum furtis, aliquando cum lenociniis, exponentes filias, sorores et uxores libidini, ut satisfaciant gulae et voluptatibus suis "; (e D., come egli aggiunge, stando a Bologna, sicuramente " ista omnia viderat et notaverat, et forte emerat ibi aliquando de tali merce ab aliquo bononiensi, sicut saepe scholares faciunt "). L'atteggiamento del dannato, che così vilmente cerca di gettare la colpa sui suoi concittadini, non può che provocare il disprezzo del suo interlocutore; e ben a tempo sopravviene un diavolo a sferzare e a richiamare all'ordine il dannato col sarcasmo di una frase in cui si risolve senza reticenze il giudizio morale del poeta (Via, / ruffian! qui non son femmine da conio, vv. 65-66).
Bibl. - G. Gozzadini, Delle torri gentilizie di Bologna, Bologna 1875, 212-217; I Del Lungo, D. ne' tempi di Dante, ibid. 1888, 197-270; G. Zaccagnini, Personaggi danteschi in Bologna, in " Giorn. stor. " LXIV (1914) 27 ss.; K. Vossler, La D.C. studiata nella sua genesi e interpretata, Bari 1927, II, 11, 92; G. Bertoni, Cinque letture dantesche, Modena 1933; G. Troccoli, Saggi danteschi, Firenze 1941; T. Gallarati Scotti, Lettura del XVIII canto dell'Inferno, in Lett. dant. 333 ss.; L. Caretti, D., Manzoni e altri studi, Milano-Napoli 1964; E. Raimondi, I canti bolognesi dell'Inferno dantesco, in D. e Bologna nei tempi di D., Bologna 1967, 233-237.