Veneto
Non ragioni critiche intrinseche giustificano la presente voce, e neppure ragioni storiche, se il V. come regione non esisteva ai tempi di D., e se la Marca Trevigiana che ad esso potrebbe in parte corrispondere non ebbe mai una sua esistenza politica, così che si fa sempre necessario il rinvio a questa o a quella città del V., ognuna con vicende e sorti diverse (e con l'anacronismo di una Verona che non si può escludere da una trattazione su D. e il V. mentre la città stessa, per D., apparteneva alla Lombardia: pur tenendo presente il concetto lato di Lombardia per quei tempi, essa non includeva la Marca Trevigiana). Ma le angolazioni e le prospettive tematiche adatte alla sensibilità delle nuove situazioni storiche sono, quando se ne vedano i limiti, lecite. Non per nulla il tema ebbe una sua particolare fortuna nell'occasione di tre celebrazioni centenarie dantesche: 1865, 1921, 1965.
1. Il Veneto ai tempi di Dante. - Entro la realtà storica di un pluralismo politico che viene prendendo forma e consistenza di contro alle concezioni universali di un tempo o alle concezioni dinastiche accentratrici d'oltralpe (e sarà questo pluralismo la causa prima della fine dell'indipendenza nazionale) si situa anche la storia del V. ai tempi di D., che si potrebbe racchiudere tra il periodo dell'unità raggiunta sotto il potere di Ezzelino da Romano (Verona, Vicenza, Padova, Treviso, Feltre, Belluno) tra il 1194 e il 1259, e il periodo della nuova unità raggiunta sotto il potere di Cangrande della Scala con la conquista di Treviso, nel 1328. Unità tanto più fittizia quanto più erano mutate le condizioni storiche: e la conquista di Treviso infatti stimolava l'intervento fatale di altre forze. Durante questo periodo di circa sette decenni, minati da gravi lotte interne ed esterne gli stati marginali, il principato di Trento e lo stato patriarcale del Friuli, i Visconti a Milano e gli Estensi a Ferrara, non ancora volta Venezia a conquiste in terraferma impegnata come essa era al dominio dei mari orientali di contro all'ostilità genovese, e preoccupata soltanto, per ora, di consolidare la propria struttura politica interna, l'unico stato in fase espansiva è Verona, che ormai è dominata dalla dinastia degli Scaligeri: da Mastino e Alberto, che ne fondano la potenza, sino a Cangrande che la porta al suo culmine. Questa politica, pur nelle intricate vicende, con mutamenti di fronte e di partiti, di questi anni, fu attuata con l'appoggio dell'alleata Mantova oltre che con frequenti improvvise alleanze occasionali; ebbe alla lontana la più o meno palese resistenza di Milano, di Firenze, di Venezia; da presso urtò contro la quasi ventennale fierissima resistenza padovana. Il ghibellinismo e il guelfismo offrirono la bandiera: ma nella realtà storica più profonda Verona fu, prima di Milano e prima di Venezia, il fulcro di un disegno politico unitario nel nord dell'Italia. Pertanto, il ritorno di D. a Verona dopo il fallimento dell'impresa di Enrico fu reso quasi fatale non soltanto dal vicariato imperiale che Cangrande strenuamente difese, o dalla fama della sua corte (come si dice nell'epistola omonima), ma anche da un'effettiva situazione storica che faceva di Verona un polo di attrazione necessario. Ravenna poi fu soltanto la pace e l'ultimo porto. Venezia era lontana, e, se si dovesse credere a qualche indizio, neppure vista con molta simpatia, da quel toscano ‛ natione et moribus ' che era Dante.
La situazione culturale corrispondeva perfettamente al pluralismo politico, ma alla distanza avrebbe rivelato assai minori forze di coagulazione, e più per ragioni politiche che per ragioni culturali è facile pensare che D. fosse venuto nel Veneto. Tuttavia la cultura letteraria latina (Giacomino da Verona aveva pur descritto una sua rozza visione dell'oltretomba), la cultura cavalleresca calata nelle forme del franco-veneto, la cultura scientifica aristotelica, tenevano il campo con un polimorfismo assai ricco che non poteva non suscitare l'interesse di Dante. A quella cultura D. venne dunque non solo per necessità, anche la ritrovò per elezione, e la seppe assimilare per quel tanto che poteva servire al suo gioco: certo la cultura di Firenze e del Dolce Stile, di Bologna, di Parigi forse, le biblioteche di conventi e di castelli fors'anche aggiunsero molti apporti all'ipotizzabile esperienza universitaria di Padova e di Verona: quando al soggiorno presso Cangrande non si vogliano attribuire contributi particolari in campo teologico, per le discussioni di teologia che si tenevano in quella corte, e per la corrispondenza tra il secondo periodo veronese e la composizione del Paradiso. Inoltre dovevano certamente attrarlo le voci di cortesia e di ospitalità della Marca verso i poeti, ove alcuni, esuli, trovarono rifugio, e tra questi il Guinizzelli.
2. Dante nel Veneto. - L'unica città del V. in cui D. abbia vissuto certamente e di cui si abbia notizia indubitabile è Verona (v.): il documento è dato dalle famose dichiarazioni del canto XVII del Paradiso, dove si allude a un duplice soggiorno veronese per la cortesia del gran Lombardo (v. 71) e per la magnificenza di Cangrande. Ma su questi due dati certi, bisogna poi lavorar d'induzioni, e molte volte d'ipotesi, senza certezza assoluta.
Il primo rifugio potrebbe offrirsi nell'autunno del 1302 quando D., se si ritiene di poter dar credito a una notizia di Flavio Biondo, si recò da Bartolomeo della Scala a chiedere aiuto di fanti e di cavalli per rientrare con i fuorusciti bianchi in Firenze; potrebbe essere avvenuto dopo la sconfitta di Puliciano, nel marzo del 1303, quando D. cominciò a entrare in rotta con i compagni di esilio, e fu sempre presso Bartolomeo; potrebbe infine avvenire dopo la sconfitta della Lastra, quando caddero le ultime speranze per gli esuli di rientrare in Firenze, e D. avrebbe in tal caso soggiornato presso Alboino, perché la sconfitta della Lastra avvenne il 20 luglio 1304 e Bartolomeo era morto pochi mesi prima, nel marzo. Possibili anche soluzioni intermedie, che D. fosse ospite due volte di Bartolomeo, chiedendo aiuto dapprima e poi rifugiandosi da lui; oppure che D., ospite di Bartolomeo, rimanesse per breve tempo ancora ospite di Alboino dopo la morte di quegli.
La questione è controversa, e non si può riassumere qui, ricca com'è di attestazioni contrastanti fra loro e senza prove decisive per l'una o per l'altra tesi. L'ultimo studio sull'argomento, del Petrocchi, con una serie di convincenti attestazioni, ritiene probabile il primo soggiorno veronese di D. proprio a guerra mugellana conclusa, dopo la sconfitta di Puliciano, tra la primavera del 1303 (quando il nome di D. non compare in un documento in cui sono i nomi di coloro che s'impegnano a pagare i mercenari dell'impresa) e la primavera del 1304 (quando D. nell'aprile stende la lettera per l'arbitrato del messo di Benedetto XI, il cardinale Ostiense). Il dato cronologico delle cinquanta lune profetate da Farinata (che cadono prima del luglio 1304, quando avvenne la battaglia della Lastra) e alcuni dati su Alboino, darebbero altre conferme alla tesi.
Il Manetti, l'umanista biografo di D., sulla scorta di notizie già date dal Villani e dal Boccaccio afferma che D. fu anche a Padova: da Verona sarebbe passato a Bologna, di qui a Padova. Il Cosmo ritiene probabile il trasferimento diretto a Padova, dove si ritirò alla morte di Bartolomeo, la vedova Agnese del Dente, e dove fu subito inviata da Alboino un'ambasciata in funzione antiveneziana; altri ritiene più facile il passaggio a Reggio dapprima, poi a Bologna, infine a Padova. Di qui sarebbe anche stato facile per D. passare, come alcuno sostiene, a Treviso, ospite di Gherardo da Camino, e anche a Venezia. Altri ancora traccia diverso itinerario: Treviso, Padova, Venezia, Reggio, Bologna. Non vi sono comunque documenti certi: il " Dantinus quondam Allegherii de Florentia qui nunc stat Paduae ", il quale appariva in un documento del 27 agosto 1306, è un omonimo di D., uno dei tanti, come ha provato il Da Re; l'incontro con Giotto che lavorava agli affreschi degli Scrovegni non è provato da alcun documento certo, anzi gli stessi storici dell'arte sono ricorsi all'episodio per datare quegli affreschi, che potrebbero invece essere stati terminati nel 1309. Ma a parte le incertezze cronologiche e le ragioni specifiche della venuta, che ci sono ignote, sembra di poter prestar fede alla tradizione. Essa, che ha il conforto di attestazioni anche negli antichi commentatori (Benvenuto e Giovanni da Serravalle), potrebbe esser giustificata dalla conoscenza in Padova di Aldobrandino Mezzabati e dai precisi riferimenti al volgare padovano che ritroviamo nel De vulg. Eloq.; quando non lo fosse per l'ingegnosa e sottile proposta di G. Folena, di un rapporto forse intercorrente tra l'araldica animale dei personaggi patavini nell'Inferno e il genero di Reginaldo Scrovegni, un Capodivacca, o il figlio di sua nipote, un Linguadivacca: particolari noti a chi è stato in loco. D'altra parte il periodo passato a Treviso da Pietro e la sua sepoltura colà, il ricordo evidentissimo dell'arsenale di Venezia che non può essere posteriore alla data di composizione del canto XXI dell'Inferno, sono altri fatti che sembrano confermare la tradizione. Circa la data, può essere esatto il periodo tra il 1304 e il 1306, tenendo presente tuttavia che in quel periodo stesso è probabile anche un breve soggiorno bolognese (ben si è detto che molte citazioni del Convivio composto in quegli anni potevano solo essere fornite da un ambiente culturale assai ricco come quello universitario, non dalle ben più modeste biblioteche locali, tanto più che non abbiamo alcuna prova di particolari rapporti con l'ambiente culturale veronese in questi anni, che non sono ancora quelli della composizione del Paradiso. Si è sempre parlato adunque, per il Convivio, dell'università di Bologna: a noi sorriderebbe anche l'ipotesi che esso abbia trovato i suoi testi anche nell'università di Padova, e nel fervido aristotelismo di quell'ambiente).
Puramente leggendarie, anche se incontrarono un certo credito, si ritengono in questo periodo le passioni amorose per Piera Scrovegni a Padova (che l'Amadi identificò, erroneamente, con la donna Pietra), e per la Lisetta del famoso sonetto, in Venezia, in un altro periodo; piuttosto il sonetto per Lisetta (che alcuni identificano con la ‛ Donna gentile ', Rime CXVII) si può far risalire al 1292 e alla conoscenza, prima della sua venuta nel V., col Mezzabati, capitano allora a Firenze, il quale in un sonetto di difficile interpretazione (Lisetta voi de la vergogna storce, Rime CXVIII) prese le difese della donna. In un altro sonetto (Rime dubbie VIII) dedicato all'amico veneziano (o fedele divulgatore, come sembra più certo) Giovanni Quirini, D. parla pure di una madonna Lisa, donna-orso tanto diversa dall'altra Lisetta: ma è un sonetto di attribuzione assai incerta, e nulla si sa ad ogni modo di questa madonna.
Il primo periodo veneto di D. si conclude comunque con il passaggio in Lunigiana presso Francesco Malaspina, secondo quanto ci prova il prezioso documento del 1306. La pace con il vescovo di Luni, di cui D. ebbe l'incarico, avvenne nell'ottobre: verso la fine del 1306 dunque. Il ritardo è opportuno se si pensi all'itinerario veneto dantesco, che non poteva essere compiuto in pochissimi mesi, e se si pensi che già all'inizio del Convivio, e quindi non dopo il 1306, D. denuncia le sue peregrinazioni in ogni parte d'Italia.
Altri studiosi propongono un soggiorno di D. nel V. anche tra il 1306 e il 1311, in relazione alle lodi rivolte a Gherardo da Camino e a un'eventuale ospitalità caminese in Treviso: ma siamo nel buio più completo, perché mancano i documenti. Nell'anno 1308 non si sa dove fosse l'esule, il quale forse, lasciata la Lunigiana, si era trasferito dapprima nel Casentino: vi è chi crede nella sua presenza a Lucca, chi a Forlì (ma fu equivoco del Troya, e bene il Barbi ha spostato quelle attestazioni al 1303), chi di passaggio al monastero di frate Ilario mentre si recava persino in Istria, e più precisamente al monastero di San Michele sopra Pola: si giustificherebbe in tal modo anche l'accenno ai sepulcri di Pola (If IX 113) sia pure con la necessaria conseguente posticipazione dell'inizio di composizione del poema. Altre fonti provano la presenza in Istria di esuli e di mercanti fiorentini e toscani: si tratta adunque di un viaggio di D. pur possibile, ma di esso non vi è prova certa.
Ancor meno certo il soggiorno di D. in molte località nelle quali la tradizione vanta invece la sua presenza: improbabile la sosta friulana del 1319 presso l'arcivescovo Pagano della Torre, a Udine, a San Daniele, a Cividale, o la visita alla grotta di Adelsberg (il Tambernicchi di If XXXII 28 sarebbe allora lo Javornik). Più facile pensare invece che da Verona, nei due periodi della sua vita trascorsi colà, e particolarmente nel primo periodo, D. abbia potuto spingersi in località vicine, a Sirmione sul Garda , in Val Lagarina nel castello di Lizzana ospite dei Castelbarco (e qui avrebbe visto gli slavini di Marco, cfr. If XII 4-5), a Paratico nel castello dei Lantieri, presso Brescia, a Vicenza. Ma siamo nel campo delle sole ipotesi, ed è bene dir subito che di brevi eventuali soggiorni non è da tener conto perché sono incontrollabili, possono essere stati molti, e difficilmente possono aver avuto importanza per l'opera del poeta. Importa invece il periodo del soggiorno veronese, più lungo e certissimo. Per una serie di dati convergenti (ad esempio il soggiorno nel Casentino quando D. " multum edidit libri sui " dopo il fallimento dell'impresa di Enrico, notizia di antica nobiltà; il soggiorno alla corte di Cangrande più probabile - vedi l'epistola omonima - nel periodo della maggior fortuna, tra il 1314 e il 1318, non nei tre anni prima in cui Cane subì sconfitte, e non nei tre anni seguenti in cui Cane dovette ridimensionare, per allora, le proprie ambizioni; l'andata a Ravenna, che può datarsi solo dall'ascesa al potere di Guido Novello, cioè dal 1316, e facilmente non fu immediata a quella ascesa) sembra si debba ritenere probabile il periodo del secondo soggiorno dantesco a Verona tra il 1314 e il 1317. Anche a Ravenna si sarebbe fermato in tal caso quattro anni, come vogliono alcuni tra gli antichi commentatori, dal 1318 al 1321: e tutto induce a credere che il soggiorno ravennate non sia stato infatti brevissimo. L'ipotesi del Petrocchi che la revisione dell'Inferno e del Purgatorio (revisione che riteniamo assai convincente per gli anni proposti, tra il 1313 e il 1315) sia avvenuta in Verona e non in altra sede (si è detto il Casentino, ma anche altri castelli e altri eremi potrebbero ambire alla designazione) è estremamente suggestiva ma richiederebbe ulteriori conferme.
Qualora si respingano i dubbi sull'autenticità della Quaestio rimane certo il ritorno un'ultima volta a Verona nel 1320, per la ‛ conferenza ' sul problema; ma in questo caso si trattò certamente di un soggiorno assai breve.
3. Il Veneto nell'opera di Dante. - A quanti volessero proporre un'origine puramente letteraria dei riferimenti a luoghi, personaggi o fatti storici del V. che ritroviamo nell'opera di D., si può obiettare facilmente, statistiche alla mano (compilate dal Mori), che dei circa 200 luoghi d'Italia citati in circa 400 passi della sola Commedia, i più numerosi sono della Toscana, seguiti da quelli dell'Emilia Romagna e da quelli del Veneto. I luoghi in cui D. non fu, nell'Italia insulare ad esempio, compaiono con frequenza assai minore, più che dimezzata. Un rapporto, dunque, esiste tra esperienza autobiografica e citazione geografica, e certissimo.
Raccogliamo anzitutto le citazioni della Commedia per i luoghi del V.: Pola e il Quarnaro (If IX 113); la ruina presso Trento (XII 4 ss.); gli argini della Brenta e la Chiarentana (XV 7 ss.; ma v. le diverse interpretazioni del secondo toponimo sub v. CARENTANA); il Garda, Peschiera e il Mincio (XX 61 ss.); l'arzanà di Venezia (XXI 7 ss.); il castello di Marcabò, alle foci del Po di Primaro (XXVIII 74 ss.); le paludi tra Padova e Venezia (Pg V 79 ss.); i confini della Marca Trevigiana (XVI 115); il monastero veronese di San Zeno (XVIII 118); il colle di Romano presso Treviso (Pd IX 25 ss.); i confini del V. dantesco (IX 43 ss.); la palude del Bacchiglione presso Padova (IX 46 ss.); Treviso, tra Sile e Cagnano (IX 49). Controverse sono le identificazioni di luoghi del V. in If XXIII 63 (Clugnì: per alcuni Cluny in Borgogna, per altri Colonia, oppure Cologna Veneta; v. CLUNY), in Pd IX 54 (Malta: per alcuno la Malta di Cittadella, tra Padova e Bassano, per altri la prigione di Viterbo o quella del lago di Bolsena) e in VE I VIII 8 (promuntorium illud Ytaliae: per il Revelli è l'Istria, per altri è il capo d'Otranto). Pure ipotesi, per quanto suggestive, sono gli accostamenti del paesaggio dantesco a certi aspetti del paesaggio veneto: il ponte di Teia nel Trentino per Malebolge, l'isola di Garda per l'isoletta del Purgatorio, le balze del castello di Paratico o del castello di Breno per le cornici del Purgatorio.
Passiamo ora alle citazioni dei luoghi della Commedia in cui si parla di personaggi veneti o legati al V.: Ezzelino da Romano (If XII 109-110); Giacomo da Sant'Andrea, figlio di Speronella Delasmaini e di Odorico da Monselice (XIII 133 ss.); Andrea de' Mozzi, vescovo di Vicenza (XV 112-114); Reginaldo degli Scrovegni e Vitaliano di Iacopo Vitaliani di Padova (XVII 68 ss.); i vescovi di Verona e di Trento (XX 67 ss.); Marco Lombardo, che secondo il Barozzi fu della casata veneziana dei Lombardi (Pg XVI 46); Gherardo da Camino e sua figlia Gaia (XVI 124 e 139 ss.); Gherardo II della Scala, suo padre Alberto e Giuseppe della Scala (XVIII 118 ss.); Cunizza da Romano, che ricorda il fratello Ezzelino, e la trista fine di Rizzardo e il tradimento - che agli storici sembrò accusa gratuita - del vescovo di Feltre Alessandro Novello (Pd IX 25 ss., 49 ss.); Bartolomeo della Scala (o per altri Alboino) e Cangrande (XVII 70 ss.).
Altri riferimenti a personaggi veneti e legati alla vicenda di D. nel V. sono meno diretti: come nel caso di Sordello, rapitore di Cunizza; di Guido da Castello, rifugiatosi anch'egli a Verona alla corte di Cangrande e celebrato anch'egli da D. - che forse fu suo ospite a Reggio - insieme col buon Gherardo; di Giovanni XXII che scomunicò Cangrande (Ma tu che sol per cancellare scrivi, Pd XVIII 130); degli Estensi Obizzo, Azzo VII e Azzo VIII, che furono in lotta con gli Scaligeri; di Monfiorito da Coderta di Conegliano, podestà di Firenze quando non erano più sicuri il quaderno e la doga (Pg XII 105), o anche di Benedetto XI, che al secolo fu il trevigiano Niccolò Boccassini. Non mancano poi accenni alle popolazioni, ai Veneti crudi al dovere verso Enrico (Pd IX 43 ss.), ai Padovani in lotta con i Vicentini alleati degli Scaligeri (IX 46 ss.), agli abitanti della Marca (Pg XVI 118 ss.).
Infine, abbiamo riferimenti a costumi, abitudini, fatti storici del Veneto. Un significativo accenno di costume (valido anche sul piano biografico, in quanto la corsa si teneva nella prima domenica di Quaresima: se la vide D., la vide di necessità agl'inizi del 1304, non nell'autunno del 1303, al tempo dell'ambasceria voluta dal Biondo, il che conferma la tesi del Petrocchi) è il palio verde (If XV 122), corsa veronese caratteristica perché il premio veniva dato anche al perdente, fatto che D. cita. Poi, i ricordi di fatti storici, diretti o indiretti: l'impero del buon Barbarossa (Pg XVIII 119), la tirannia di Ezzelino (If XII 110), l'eccidio di Feltre, l'assassinio di Iacopo del Cassero (Pg V 72 ss.) e di Rizzardo da Camino (Pd IX 49 ss.), la guerra tra Vicenza e Padova (vv. 46-48), le imprese di Cangrande (v.) e la sua scomunica. A tal punto i personaggi di D. e il suo raccontare si configurano nella situazione storica così come la viveva la sua passione di esule, che egli considera il Garda vedendolo dalla sponda veronese presso Peschiera (If XX 61 ss.; v. BRESCIA; pennino), o anche fa ricordare da Cunizza i disordini della Marca Trevigiana proprio per quelle città che non vollero sottomettersi a Cangrande (Padova, Feltre, Treviso; Pd IX 43 ss.).
Un accenno assai discusso è anche quello all'acqua della palude di Vicenza che i Padovani cambieranno: per proseguire la guerra immettendo il Brenta nel Bacchiglione, come vorrebbero gli studiosi locali, o perché arrosseranno di sangue quelle acque (come noi crediamo, per un'immagine che non è nuova in D., e per analogia con quanto abbiam detto: non sarebbe naturale che D. proprio qui [Pd IX 46-47] esaltasse i Padovani e la loro astuzia, a danno della scaligera Vicenza). Scontata invece l'identificazione di quel di Rascia (Pd XIX 140-141) con Stefano Urosio Il, re di Serbia, Croazia e Dalmazia, che tentò di falsare la moneta di Venezia (che male ha visto il conio di Vinegia, Pd XIX 140).
Nelle altre opere di D., il ricordo di paesaggi, personaggi o fatti storici del V. è assai meno frequente e significativo.
Nel Convivio (IV XVI 6) si ricorda senza simpatia Alboino della Scala, il presunto ospite: Albuino de la Scala sarebbe più nobile che Guido da Castello di Reggio: che ciascuna di queste cose è falsissima. Si loda invece, come nella Commedia, Gherardo da Camino (IV XIV 12 Pognamo che Gherardo da Cammino fosse stato nepote del più vile villano che mai bevesse del Sile o del Cagnano, e la oblivione ancora non fosse del suo avolo venuta: chi sarà oso di dire che Gherardo da Cammino fosse vile uomo?). Le epistole X e XIII portano con riverenza il nome di Cangrande, mentre la Quaestio, con Cangrande, ricorda anche il clero veronese. Nel De vulg. Eloq. (I XIV) si loda Aldobrandino di Padova, capitano a Firenze nel 1291-1292, come colui che si è allontanato dai barbarismi del dialetto veneziano per più avvicinarsi al volgare illustre auspicato da D.: il riferimento a conoscenza di cose veneziane è qui evidente, sia per il verso citato di un ignoto poeta (" per le plaghe di Dio tu non verras "), sia soprattutto per l'allusione all'orgoglio veneziano in fatto di lingua, che non doveva mancare sin da quei tempi. Le altre citazioni dei dialetti veneti nel De vulg. Eloq. sono pure interessanti perché mostrano la conoscenza di certi particolari fenomeni che non sempre paiono citati perché accolti da un testo quanto perché registrati nel libro della memoria come fatti particolari: il suono ispido e aspro dei dialetti bresciano, veronese, vicentino e padovano (I XIV 5), la diversità dei linguaggi secondo le varie regioni e persino secondo le varie località (IX 4; X 78); la più facile corruzione dei linguaggi in località di confine, come a Trento e a Torino (XV 8). Interessanti ma brevi anche le definizioni geografiche, sulle città confinanti con Mantova, tra le quali Verona (XV 2), su Venezia che è la porta del lato sinistro d'Italia (X 7), sulle due Marche oltre l'Appennino, la Marca d'Ancona e la Trevigiana (XI e XIV). Nella Quaestio infine è aperto il riferimento a Verona: in inclita urbe Verona (§ 87).
4. Fortuna di Dante nel Veneto. - D. mantiene costante nel V. una sua presenza, e tuttavia rimane un poeta nazionale; la vera internazionalità della fortuna dantesca nasce soprattutto con il Romanticismo, e non appare sempre evidente in una specifica angolazione veneta.
Certo il dantismo veneto - tra dantisti nati nel V. o ivi operanti - offre larga messe di nomi ed episodi minori, e insieme episodi e nomi prestigiosi. Non si tratta solo del primo fedele veneziano, Giovanni Quirini, di Pietro di D. e della triplice redazione, " tutta veronese ", del suo commento, dell'epitome di Pietro Gradenigo, di Sicco Polenton, citazioni di dovere: si tratta anche di più modesti lettori in pubblico dell'opera di D., o di più fortunati commentatori: da Gaspare Squaro de' Broaspini a Iacopo della Lana, che lessero il D. a Venezia; si tratta degli echi dell'opera dantesca che ritroviamo, sia pur lontano dallo spirito di D., nei poeti Niccolò de' Rossi trevigiano e Sabello Michiel, in Moggio de' Moggi e Gidino di Sommacampagna, nelle letture veronesi del Filelfo, in quelle padovane del Grifo, nell'ammirazione di Felice Feliciano. Con il trionfo dell'Umanesimo e dello spirito rinascimentale almeno in un primo tempo i due classici che tutti voglion citare tra i moderni sono D. e Petrarca. La lettura del poema si compie ormai anche nelle città minori, come a Brescia; ma la critica dantesca dell'epoca, di là dalle accuse, ad esempio, di un Castravilla, e di là dalle difese, ad esempio, di un Gratarolo, trova i suoi apporti più ricchi nel campo dell'editoria, per la quale Venezia divenne la capitale d'Italia, e trova la sua espressione più alta nell'edizione aldina curata dal Bembo (1502) e nelle principali edizioni, tutte venete o legate alla cultura veneta (si pensi al Trissino), delle opere minori. Ancora nelle Prose del Bembo è il giudizio che corrisponde al segnatempo più significativo: essere la Commedia come un bello e spazioso campo di grano ma disseminato di loglio e di erbe sterili e dannose (le discussioni dottrinali): era il frutto del formalismo cinquecentesco.
È inutile in questo breve profilo raccogliere nomi, da Trifon Gabriele e da Enselmino di Montebelluna a Panfilo Sasso ad Alberto della Piagentina, sino al bassanese Filippo Orboli e a Giulio Padovano: ci limiteremo alle linee essenziali. Così lasceremo alle specifiche ricerche del Vallone le indicazioni particolari per i secoli tra Cinquecento e Seicento: ma è certo che la fortuna di D. riprende nel V. con quella che il Carducci chiamava la letteratura del risorgimento italiano, cioè con il Settecento. Accanto ai molti e bei nomi del dantismo veneto e in particolare veronese troveremo allora gli episodi significativi del dantismo di un Maffei e di un Gasparo Gozzi: senza dimenticare che D. fu sacro anche all'Accademia dei Granelleschi presieduta da Carlo. Si dovranno ricordare anche le aperte esaltazioni di un Conti, di un Cesarotti, di un Algarotti, e di studiosi locali, come, a Treviso, Rambaldo degli Azzoni Avogaro. E non si trattava più di un dantismo esornativo o di un dantismo di passione, ma anche di un modo nuovo e più storico nell'impostare i problemi critici, come nelle ricerche testuali di un Perazzini, nelle ricerche biografiche di un Pelli, nelle proposte di un Dionisi, di un Giuliani, di un Torri. Padre Cesari raccoglieva nel suo purismo l'eredità dell'ammirazione dei classicisti per D., mentre altri studiosi ormai nel secolo romantico sviluppavano nuovi indirizzi d'indagini: in senso positivistico il Palesa, in senso spiritualistico e simbolistico il Perez, mentre uscivano, tra Settecento e Ottocento, nuove edizioni di D., come il commento veronese del Venturi del 1749 e l'edizione padovana della Minerva del 1822. Proprio su questa edizione si fermò come lettore appassionato il Tommaseo, uno dei più significativi dantisti del secolo, che in ambiente veneto vide alimentata la sua passione per D. e che a giornali veneti diede i suoi primi contributi danteschi: come in ambiente veneto si era formato anche, in realtà, il dantismo di un Foscolo. Con la formazione dell'unità italiana e con i successivi centenari celebrativi della nascita e della morte del poeta la fortuna di D. nel V. diveniva poi l'episodio regionale di una fervida vita nazionale. Tra Ottocento e Novecento l'elenco dei nomi si farebbe assai ricco: Fiammazzo, Poletto, Ferrazzi, Medin, V. Rossi, Busetto, Pompeati, Toffanin e tanti altri ancora.
La più significativa recente attestazione si potrà vedere nel volume D. e la cultura veneta, che a c. di V. Branca e G. Padoan raccoglie gli atti del convegno di studi svoltosi nelle tre città venete, Verona, Padova e Venezia, dal 30 marzo al 5 aprile 1966, e nella Lectura Dantis Scaligera promossa dalla città di Verona e diretta da Mario Marcazzan: due opere che superano ormai anche il mito di D. poeta della nazione per affrontare con più vivaci e aggiornate angolazioni critiche e con più sottile tecnica filologica D. poeta del suo tempo e D. poeta dell'uomo di tutti i tempi. Si dovranno aggiungere poi altre interessanti pubblicazioni occasionali del 1965, come quelle promosse dall'Accademia di Verona e dall'università di Padova, a cura, questa, di L. Lazzarini. Ad alto livello poi, col nome di G. Billanovich, col lavoro preciso di B. Maier (al quale dobbiamo anche la riedizione della Vita di D. e Guida a D. del Cosmo), con il gruppo della scuola padovana di V. Branca, Antonio Enzo Quaglio, Manlio Pastore Stocchi e in particolare Giorgio Padoan, con le ricerche del Chiarini si giunge al dantismo veneto dei nostri giorni, di vasta esperienza filologica.
Bibl. - Opere generali: T. Hell, Il viaggio in Italia di Theodoro Hell sulle orme di D., Treviso 1841; J.J. Ampère, Il viaggio dantesco, Firenze 1855; C. Loria, L'Italia nella D.C., ibid. 1872²; A. Bartoli, Della vita di D.A., ibid. 1884; G.A. Scartazzini, Prolegomeni della D.C., Lipsia 1890, 74 ss.; G. Trenta, L'esilio di D. nella D.C., Pisa 1892; L. Luchini, La politica di D. e le sue peregrinazioni, Bozzolo 1893; A. Bassermann, Orme di D. in Italia, Bologna 1902; N. Zingarelli, D., Milano 1903; P. Villari, D. e l'Italia, Firenze 1914; V. Turri, L'Italia nel libro di D., ibid. 1918; V. Alinari, Il paesaggio italico nella D.C., ibid. 1921; A. Mori, La geografia nell'opera di D., in Atti VIII Congresso Geografico Italiano, ibid. 1921; G. Andriani, La carta dialettologica d'Italia secondo D., ibid.; aa.vv., D. - La vita, le opere. Le grandi città dantesche. D. e l'Europa, Milano 1921; aa.vv., D. e l'Italia, Roma 1921; P. Revelli, L'Italia nella D.C., Milano 1923; I. del Lungo, Firenze e Italia nella vita e nel pensiero di D., Firenze 1925; M. Casella, Questioni di geografia dantesca, in " Studi d. " XII (1927); G.L. Passerini, Vita di D., Firenze 1929; C. Pedrazzini, Le peregrinazioni di D., Torino 1939; F. Cibele, Il paesaggio italico nella D.C., Vicenza 1957²; A. Sacchetto, Con D. attraverso le terre d'Italia, Firenze 1955; C. Marchi, D. in esilio, Milano 1964; O. Baldacci, I recenti contributi di studio sulla geografia dantesca, in " Cultura e Scuola " 13-14 (1965) 213-225. Il problema biografico tocca anche la data di composizione della Commedia: cfr. E.G. Parodi, La data di composizione e le teorie politiche dell'Inferno e del Purgatorio di D., in " Studi Romanzi " III (1905) 15-52 (poi in Poesia e storia nella D.C., Napoli 1920, 367-410); E. Gorra, Quando D. scrisse la D.C., in " Rendic. Ist. Lombardo " XLIX, 1907; G. Ferretti, I due tempi di composizione della D.C., Bari 1935. Inoltre: F. Egidi, L'argomento barberiniano per la datazione della D.C., in " Studi Romanzi " XIX (1928) 135-162; G. Vandelli, Per la datazione della C., in " Studi d. " XIII (1928) 5-29; G. Petrocchi, Intorno alla pubblicazione dell'Inferno e Purgatorio, in " Convivium " XXV (1957) 652-669 (rist. in Itinerari danteschi, Bari 1969, 83-118). Opere specifiche: N. Barozzi, Accenni a cose venete nel pensiero di D., Discorso, in D. e il suo secolo, Firenze 1865, 733-812; N. Di Lenna, Personaggi e luoghi del V. nella D.C., Padova 1921; G. Petrocchi, La vicenda biografica di D. nel V., in D. e la cultura veneta, a c. di V. Branca e G. Padoan, Firenze 1966, 13-28 (rist. in Itinerari danteschi, Bari 1969, 119-141); G. Fasoli, Veneti e veneziani fra D. e i primi commentatori, ibid., 71-85; A. Pertusi, Cultura greco-bizantina nel tardo medioevo nelle Venezie e i suoi echi in D., ibid., 157-197; F. Gabrieli, Cultura araba nelle Venezie al tempo di D., ibid., 199-205; G. Ineichen, La cultura scientifica araba a Venezia al tempo di D., ibid., 221-227; G. Folena, La presenza di D. nel V., in " Atti Mem. Acc. Patavina Scienze Lettere Arti " LXXVIII (1965-1966) 497 ss.; V. Zaccaria, D. e il V., in " Ateneo Veneto " n.s., VI (1968) 293-318.