Venezia dal Rinascimento all'Età barocca
La bella commissione in pergamena che la Serenissima Signoria di Venezia consegnava a Gasparo Contarini quando, verso il finire del 1529, lo inviava a rappresentarla a Bologna dove, dopo tanti anni di guerre, si sarebbe finalmente negoziata la pace tra la Repubblica, il papa Clemente VII e l'imperatore Carlo V, era ornata da una miniatura emblematica: l'imperatore e il doge figuravano sullo stesso piano, rispettivamente a destra e a sinistra del papa, il quale, assiso su di un trono, sovrastava nettamente sia l'uno che l'altro. Non dovevano esserci dubbi: per la Serenissima Signoria era al pontefice che toccava il primo posto. Ma a quella pace il papa sarebbe riuscito ad elevarsi di tanto al di sopra dell'imperatore; e soprattutto, la Serenissima Signoria di Venezia sarebbe stata in grado di condurre le trattative con l'imperatore su quell'ideale piano di parità che la miniatura auspicava (1)?
Chi non sa [aveva scritto nel 1510 Claude de Seyssel, in un libretto nel quale esaltava la strepitosa vittoria che Luigi XII di Francia e i maggiori principi europei collegati nella lega di Cambrai avevano ottenuto l'anno prima ad Agnadello sulla Repubblica di Venezia> che la Signoria e il nome stesso dei Veneziani erano assurti a tale potenza, in virtù delle grandi, continue acquisizioni territoriali realizzate da loro nel giro di cento anni, che incutevano timore non solo a tutta l'Italia, ma alla Germania, all'Ungheria, alla Dalmazia, oltre che a tutta la Grecia, fino in Asia, poiché avevano messo lo zampino in tutte quelle terre. E col tempo, dati i mezzi di cui disponevano, con frode e astuzia si proponevano di sottomettere tutto il resto d'Italia, e in secondo luogo di rendersi gli altri tributari, come a tempo loro avevano fatto i Romani (2).
Una disfatta che aveva sconvolto Venezia. Erano svanite le più recenti conquiste, città della Romagna e porti della Puglia, e Gorizia e Trieste al di là del Friuli orientale. Il Dominio di Terraferma era quasi tutto in mano dei vincitori. Le perdite più gravi le aveva causate il papa Giulio II, che era stato il promotore della lega antiveneziana. Egli non si era limitato a ricuperare le terre di Romagna, ma aveva voluto colpire al cuore la Serenissima Signoria imponendole nel 1510 un trattato di pace contenente clausole durissime: come la rinuncia al diritto di nomina alle diocesi dello Stato veneto e di riscuotere tributi e decime dagli ecclesiastici del Dominio, che erano prerogative da grande principe, di cui a Venezia si andava fierissimi; né era da meno il dover riconoscere ai sudditi pontifici il diritto di libera navigazione nell'Adriatico, che voleva dire la perdita del dominio assoluto su quel mare, il "colfo", dominio che i Veneziani ritenevano connaturato alla loro città. Il papa aveva detto di non voler distruggere la Serenissima Signoria, solo domarla, cosa che, per l'orgoglio veneziano, suonava bruciante quanto la distruzione. A completare questa umiliazione si era aggiunta la necessità di ricorrere al banchiere pontificio Agostino Chigi per averne un prestito necessario a superare la crisi finanziaria in cui ci si dibatteva (3). Un disastro: era sopravvenuto poi il timore che fosse stata colpita anche la linfa del commercio veneziano, dopo che i Portoghesi erano riusciti a rifornirsi di spezie direttamente dall'India, per via di mare, atrofizzando, si temeva a Venezia, le tradizionali fonti di approvvigionamento cui si rivolgevano i mercanti veneziani mediante la via del Levante. Si era visto in tutto questo la manifestazione di un castigo divino, dovuto alla protervia con cui ci si era comportati verso la Chiesa, alle trasgressioni di dettami religiosi e morali cui Venezia, la città dominante, indulgeva, alla eccessiva compiacenza per le proprie ricchezze... Era rimasta scossa anche la fiducia negli uomini che governavano, negli ordinamenti su cui ci si reggeva, nella capacità di amministrare saggiamente il Dominio (4).
Era parso che, dopo Agnadello, si rafforzasse tra i senatori il partito di chi voleva un rinnovamento nella politica della Serenissima Signoria, che significava rinuncia all'espansionismo aggressivo che l'aveva isolata, e scelta di una politica più cauta, di intesa con la Chiesa per difendere insieme la libertà d'Italia, nella realistica consapevolezza delle proprie forze così come di quelle dei grandi principi che si era trovata ad affrontare. Eppure nel 1526, nel pieno delle guerre con cui i maggiori di quei principi, la Spagna e la Francia, si contendevano la supremazia sull'Italia, la Repubblica aveva non solo aderito alla lega costituitasi a Cognac contro il re di Spagna e imperatore Carlo V d'Asburgo - vi partecipavano con lei il papa Clemente VII, il re di Francia Francesco I, il duca di Milano Francesco Sforza, la Repubblica di Firenze -, ma aveva spinto il suo esercito verso la Lombardia, riprendendo cioè la strategia seguita nelle guerre quattrocentesche contro il duca di Milano: veniva occupata prima Lodi, nel settembre capitolava Cremona (5).
Un'ostilità, quella della Serenissima Signoria, che era diretta contro tutta la casa d'Asburgo, l'imperatore e re di Spagna Carlo V e il fratello Ferdinando, arciduca d'Austria. Per contrastare il potere che essi proiettavano minacciosamente sull'Italia, Venezia aveva incitato segretamente il sultano Solimano a muovere il suo esercito dall'Ungheria, dove era appena entrato trionfalmente, verso Vienna: come se non bastasse, d'intesa con lo stesso Solimano essa appoggiava l'elezione a re di Ungheria del voivoda di Transilvania Giovanni Zapolya, malgrado Ferdinando d'Asburgo vantasse i suoi diritti su quel regno, così come su quello di Boemia, in quanto erede di suo cognato Luigi, il sovrano morto nello stesso 1526 a Mohacz combattendo proprio contro il Turco (6).
In Lombardia dell'esercito veneto doveva restare assai poco. Malgrado le difficoltà in cui si dibatteva, Ferdinando non solo teneva a bada il suo contendente al trono d'Ungheria Giovanni Zapolya - lo sconfiggerà nel 1527 alla battaglia di Tokai -, ma inviava dall'Austria in Lombardia dei rinforzi, che in breve ne consentivano la ripresa. Le truppe asburgiche non si erano fermate lì. Guidate da Georg von Frundsberg e da Carlo di Borbone, il connestabile di Francia che era passato dalla parte imperiale per divergenze con il suo re, esse si erano volte verso Roma, riuscendo, nel maggio del 1527, ad entrarvi e a saccheggiarla. Il papa doveva cercar rifugio in castel Sant'Angelo. La Repubblica non aveva esitato ad approfittare della situazione: con il pretesto di proteggere lo Stato della Chiesa, essa aveva occupato in Romagna Cervia e Ravenna, due città su cui aveva messo le mani nel 1503, e per le quali si era scatenata l'ira pontificia. Era dunque una rivincita nei confronti della Sede Apostolica. Rivincita che non si limitava alle questioni territoriali: nell'agosto di quell'anno la Serenissima Signoria rivendicava il suo diritto a nominare i vescovi del Dominio. Nell'aprile del 1528 si presenterà alla Repubblica l'occasione di ricuperare pure i porti della Puglia. Il re di Francia aveva inviato le proprie truppe nel regno di Napoli, un'altra terra di cui contendeva il dominio al re di Spagna. Venezia l'aveva appoggiato mandando a sua volta la propria flotta verso le coste della Puglia: i suoi uomini vi erano sbarcati, e così, uno dopo l'altro, Monopoli, Polignano, Bari, Trani, Brindisi avevano rivisto le insegne di San Marco (7).
Rioccupare le terre romagnole e pugliesi aveva dunque richiesto prontezza e spregiudicatezza di decisioni, nonché il sapersi muovere con tempismo tra amici e nemici, che erano capacità di cui la Serenissima Signoria aveva dato ampia prova nel corso del '400 e all'inizio del secolo attuale. Conservare quelle terre richiedeva però qualcosa d'altro, che la situazione non mutasse, e che gli amici non si accordassero con i nemici, in modo che restasse spazio per incunearsi tra gli uni e gli altri. Ma i protagonisti maggiori delle guerre d'Italia accusavano la stanchezza, e auspicavano la pace. L'ambiva soprattutto Carlo V. Egli aveva sulle sue spalle oltre al regno di Spagna, con i domini italiani e quelli che stavano nascendo al di là dell'Oceano, l'Austria e la Borgogna: gli richiedevano un'azione di governo straordinariamente impegnativa, da non lasciar requie. Senza dimenticare l'Impero, o Sacro romano impero, alla cui guida era stato eletto nel 1519. In pratica l'autorità imperiale si esercitava su un territorio limitato, il regno di Germania e buona parte dell'Italia settentrionale; su un piano ideale, si trattava della massima autorità secolare esistente sulla terra. Gravissime preoccupazioni venivano all'imperatore proprio dal cuore dell'Impero, la Germania, dove il movimento religioso suscitato sul finire del primo ventennio del secolo da Martin Lutero stava crescendo, con connotazioni dottrinali sempre più marcate e innovatrici, e alimentava sia le inquietudini spirituali dei fedeli, sia quelle politiche dei principi e quelle sociali dei ceti più umili: movimento le cui voci giungevano anche in Italia, e cominciavano a trovare, particolarmente a Venezia, orecchie disposte ad ascoltarle. C'era poi l'Impero ottomano, che si protendeva sempre più nel Mediterraneo, mirando a insediarsi sulle coste settentrionali dell'Africa, così da insidiare le coste della Spagna e le comunicazioni tra essa e i domini italiani, ma che nel contempo faceva gravare la sua minaccia sull'Austria (8). La pace la desiderava anche il papa Clemente VII. Non che lo spingesse la cura di dedicarsi alla soluzione dei mali da cui era affetta la Chiesa, dei quali la ribellione luterana era una delle espressioni, non l'unica. A detta di Carlo V e del suo cancelliere Mercurino da Gattinara, in un momento così drammatico per la cristianità Clemente VII non aveva in mente altro che una meschina concezione di potere territoriale: la difesa, a Firenze, degli interessi della sua famiglia; evitare ogni perdita territoriale allo Stato della Chiesa, e anzi, conseguire qualche suo allargamento in Emilia. D'altronde era proprio questa limitatezza di vedute del pontefice che consentiva a Carlo V, insieme al fratello Ferdinando che egli si era voluto associare, di stipulare più agevolmente il 29 giugno 1529, a Barcellona, un trattato di pace con il papa. Tra le clausole c'era l'impegno a far restituire dalla Serenissima Signoria alla Chiesa le due città della Romagna, Cervia e Ravenna. Si faceva anche una "confederazione" tra papa, imperatore e Ferdinando d'Asburgo. L'accordo col papa spianava a Carlo V la via per stipulare anche quello col suo grande rivale, il re di Francia. Esso veniva siglato a Cambrai all'inizio di agosto dello stesso anno. Anche qui, tra le clausole, ce n'era una che concerneva la Repubblica, la restituzione dei porti della Puglia al re di Spagna, nella sua qualità di sovrano del regno di Napoli (il re di Francia si impegnava a che fosse fatta entro quaranta giorni dalla pubblicazione della pace). Non restava all'imperatore che sistemare i suoi rapporti con la Repubblica. La tentazione di Carlo V sarebbe stata di attaccarla nel suo Dominio di Terraferma, per ripagarla dello sbarco in Puglia, e, soprattutto, dell'appoggio che, a quanto si diceva, essa dava a Solimano, il quale continuava a minacciare Vienna. Carlo V aveva optato per la pace. La si sarebbe stipulata entro breve tempo, a Bologna, con la mediazione del pontefice; vi sarebbe stato coinvolto anche questa volta il fratello Ferdinando (9).
Al senato veneziano non era sfuggito che il papa, malgrado le vicissitudini in cui si era trovato, sarebbe tornato rapidamente a un ruolo determinante nelle vicende italiane e che era opportuno pertanto ripristinare con lui buoni rapporti. Già all'inizio del 1528 si era deliberato di mandare a Roma quale ambasciatore uno dei senatori più brillanti e più attenti ai problemi della Chiesa, Gasparo Contarini. Il Contarini era stato anni prima ambasciatore presso l'imperatore, e con lui si era spostato dalla Germania alla Fiandra e infine in Spagna, così da fare subito esperienza diretta e vissuta dei personaggi e dei problemi che erano al cuore della politica europea, e da rendersi conto del ruolo che la Repubblica di Venezia avrebbe potuto sostenere in un mondo che stava sconvolgendo gli antichi rapporti di forza. Egli aveva avuto la possibilità di conoscere da vicino anche il movimento religioso suscitato da Martin Lutero, e se ne aveva ravvisato gli aspetti negativi, era riuscito a cogliere anche quelli positivi, le sollecitazioni a un rinnovamento spirituale della cristianità in cui egli stesso aveva confidato sin dalla giovinezza (10).
Il primo incontro tra il Contarini e Clemente VII non era stato dei più confortanti. "Siccome la persona vostra mi è molto gratta, così l'ambasciata mi è molto ingrata", aveva detto il papa, senza infingimenti, agli inizi di giugno. Né era servito mandare in visita al papa assieme al Contarini un autorevolissimo prelato veneziano, il cardinale Cornaro, appartenente a famiglia "papalista" e assai legata all'imperatore, a garantire la sincerità dei sentimenti che la Repubblica ora nutriva per Clemente e a ringraziarlo "del bon voler a la paxe et quiete de Italia" da lui dimostrati. Sulla questione bruciante di Cervia e Ravenna il papa era intransigente; quando il Contarini si era provato ad auspicare che si trovasse un accomodamento (la concessione alla Repubblica delle due cittadine dietro pagamento di un censo alla Sede Apostolica), Clemente VII aveva risposto che l'unico accomodamento era la restituzione - "voi sete maledetti", avrebbe aggiunto "fra li denti". Nell'agosto del 1529, dopo la conclusione delle paci di Barcellona e di Cambrai, il Contarini scriveva a Venezia che qualcosa era comunque riuscito ad ottenerla, da Clemente VII, l'ammorbidimento della sua posizione verso la Serenissima Signoria: il papa si era dichiarato "bon italian et amico di quella Signoria", assicurando che, se la Repubblica avesse deciso di far pace con l'imperatore, egli si sarebbe adoperato in suo favore (11). Quanto alle città della Romagna, niente.
D'altronde era lo stesso ambasciatore a non credere che si potesse ottenere qualcosa, e probabilmente a non auspicarlo. Le lettere che egli scriveva da Roma rivelano lo sforzo progressivo di arrivare a convincere il senato dell'inanità degli sforzi che egli andava facendo con Clemente VII per evitare la restituzione di Cervia e Ravenna. In una splendida lettera del 4 gennaio 1529 egli narrava di aver fatto ricorso ad argomenti miranti a richiamare il papa a una più alta visione del bene della Chiesa: non doveva farsi fuorviare dallo "stado temporal" che la Chiesa aveva acquisito di recente, e che costituiva per essa una semplice aggiunta; la Chiesa era altra cosa, "la università de tuti li cristiani", e il bene di essa, "de la vera Chiesia", consisteva "ne la pace et tranquillità de christiani". Erano parole dirette soprattutto ai senatori veneziani: i quali dovevano convincersi che anche il bene della Serenissima Signoria era riposto "ne la pace et tranquillità de christiani"; erano questi gli ideali che bisognava realizzare, all'interno della Repubblica, all'esterno nei rapporti con gli altri principi (12).
La pace voluta dall'imperatore, la pace d'Italia, la si tratterà a Bologna tra ottobre e dicembre del 1529, presenti tanto il papa che l'imperatore: la Serenissima Signoria vi era rappresentata dallo stesso Gasparo Contarini. Clemente VII non aveva visto di buon occhio l'"andata" di Carlo V a Bologna: farebbe meglio ad andare in Germania, senza dare "fastidio in Italia", aveva detto Clemente VII al Contarini. Era il convincimento che Carlo V avrebbe voluto comparire quale vincitore, arbitro della pace d'Italia, lasciando in ombra il papa: tanto che Carlo V intendeva che, a corollario della pace, il papa gli imponesse solennemente nella stessa Bologna la corona imperiale. La Repubblica di Venezia era dalla parte del pontefice. Ne era prova eloquente quella miniatura già ricordata che ornava la commissione membranacea che Gasparo Contarini recava con sé (13).
Il trattato di pace, concluso il 23 dicembre 1529 e ratificato, pure a Bologna, il 5 gennaio 1530, stabiliva che Cervia e Ravenna dovevano tornare a far parte dello Stato pontificio. Non vi si faceva cenno di revisione di quelle durissime clausole imposte da Giulio II nel 1510. Quanto a Carlo V, egli, che aveva già riavuto i porti delle coste pugliesi, riconosceva alla Serenissima Signoria il suo Stato di Terraferma. Ma la pace aveva richiesto da lui un grosso sacrificio, la rinuncia a tenere per sé, in dominio diretto, lo Stato di Milano - un dominio che né la Repubblica né la Sede Apostolica consideravano accettabile, la Repubblica perché si sarebbe trovata stretta nella tenaglia di casa d'Asburgo, la Sede Apostolica perché comprendeva che, con la Serenissima Signoria accerchiata dagli Asburgo, l'Italia intera sarebbe stata sotto il loro prepotere. Carlo V aveva dunque deciso di investire nuovamente Francesco II Sforza dello Stato di Milano (14).
Una rinunzia più apparente che sostanziale, sembrava voler dire rassicurante Carlo V al fratello Ferdinando in una lettera da Bologna di metà gennaio: Milano era ugualmente sotto controllo; e se Venezia, il più difficile dei principi italiani, avesse assunto una posizione ostile, la si sarebbe potuta ugualmente attaccare da due lati, ovest e nord. L'imperatore riteneva pertanto esaurite le ragioni della sua presenza in Italia. Egli pensava di trasferirsi in Austria, e di lì, unito al fratello Ferdinando (l'aveva fatto elegger poco prima re dei Romani, ossia erede del titolo imperiale), attaccare Solimano, costringendolo a ritirarsi verso l'Ungheria (15).
Nel senato veneziano non erano mancati dissensi riguardo alla pace stipulata a Bologna e irritazione verso chi da parte della Repubblica aveva condotto le trattative. Si era imputato al Contarini di aver fatto gli interessi del papa, anziché quelli della sua patria; si era addirittura chiesto che egli fosse messo sotto accusa, perché, contrariamente a quanto voleva la Serenissima Signoria, nel trattato era stata inserita una clausola che suonava ostile al Turco, la quale poteva esser foriera di rappresaglie da parte di questi verso la Repubblica e il suo Dominio da mar (inserimento dovuto al malinteso di un amanuense, si era poi cercato di spiegare). In realtà il Contarini voleva la pace; e sapeva che il cardine della pace era l'intesa con la Sede Apostolica; perché essa era in grado di rassicurare i Veneziani nei confronti di Carlo V, l'alleato di cui essi temevano che potesse coinvolgerli ancora in guerre (16).
L'intesa con la Sede Apostolica esigeva ovviamente dei sacrifici, grossissimi per taluni senatori: come il non pretendere di esercitare le prerogative che si erano ritenute indispensabili alla propria autorità sovrana, cioè il nominare i propri vescovi, il non esigere le decime dal clero... Dopo la pace di Bologna c'erano stati aspri dibattiti in senato, tra chi rivendicava tali prerogative malgrado l'opposizione pontificia, giungendo a evocare la minaccia di un ricorso al concilio, usata varie volte in passato. Ma quando, agli inizi del 1533, arrivava a Venezia per risiedervi quale nunzio pontificio, monsignor Gerolamo Aleandro aveva un'impressione nettamente positiva degli uomini di governo veneziani. Erano uomini di pace: "mi pare" diceva "che universalmente desiderano [la pace> esser il ben di l'una et l'altra parte, et di l'Italia, et di la cristianità tutta". Così che suggeriva al papa di andar loro incontro: "Considerata ben ogni cosa, quando questi signori si humiliassero debitamente a S. S.tà et usassero quelli buoni mezzi che si richiedono, buono sarebbe abbracciarli con benigno favore et gratia di S. S.tà" (17).
Di lì a un anno, conosciuti un po' più a fondo gli umori della città, quella sicurezza dell'Aleandro sulla attuale remissività dei cittadini veneziani si incrinava. Egli aveva capito che "i bassi nobili di questa città et il vulgo mosso da essi" non avevano messo da parte le speranze di rivincita e si chiedeva se morendo il papa Clemente VII sarebbe venuto loro in mente di fare un colpo di mano per ricuperare Ravenna e Cervia - bisognava esser vigili, raccomandava (18).
La Serenissima Signoria aveva ribadito le sue scelte politiche confermando il 20 maggio 1535 il trattato di Bologna. Due mesi dopo moriva improvvisamente Francesco II Sforza. La situazione si offuscava: ad aggravarla c'era il fatto che non molto prima era scomparso - si sussurrava di veleno - l'ultimo discendente di casa Sforza, che avrebbe dovuto succedere a Francesco. I Veneziani, aveva scritto da Venezia un buon conoscitore della politica della Repubblica quale Donato Giannotti, non potevano rassegnarsi alla prospettiva di una Milano in mano dell'imperatore. D'altro canto - era ancora il Giannotti ad osservarlo - i Veneziani non avevano alcuna possibilità di conquistare la città, e nemmeno, se pur ci fossero riusciti, di conservarla. Ma c'erano ben altri principi ad avanzare pretese su di essa. "La contesa non è di picciol cosa, ma della monarchia in Europa", commentava Paolo Giovio, ossia di chi era in grado di affermarvi il proprio predominio. C'era dunque il re di Francia, Francesco I, forte dei diritti storici tante volte conclamati dalla sua casa su Milano, e non potendola avere per sé, egli si accontentava che finisse in qualche altro principe francese. C'era Carlo V: e pur lui sarebbe stato disposto a rinunciare al suo dominio diretto in favore del fratello re dei romani, o del figlio di questi, pure di nome Ferdinando. Che era, questa, la soluzione più aborrita dai Veneziani, che si sarebbero trovati ancora più attanagliati da casa d'Asburgo. Carlo V si era deciso di tenere lo Stato di Milano per sé.
L'imperatore era in un momento di auge. Egli aveva compiuto nella primavera di quello stesso anno un'impresa navale contro Tunisi, dove aveva le sue basi il corsaro Aidireddin Barbarossa, il quale era stato nominato grande ammiraglio della flotta ottomana dal sultano Solimano, ed era infatti la punta avanzata dell'espansione turca lungo le coste del Mediterraneo occidentale. Un'impresa che si era giudicata trionfale, e che dava all'imperatore il prestigio che gli consentiva di risolvere in proprio favore la questione di Milano. La conseguenza di quella duplice vittoria, a Milano e nel Mediterraneo, era stata anche non solo di indurre Francesco I a riprendere le guerre d'Italia, mandando le sue truppe in Piemonte, attestandosi a ridosso dello Stato di Milano - era stato quasi cancellato il dominio del duca di Savoia -, ma di coinvolgere direttamente l'Impero ottomano nella vicenda europea. Francesco I aveva stipulato un accordo con il sultano Solimano in virtù del quale questi si impegnava ad affrontare Carlo V sul mare (19).
Dicembre del 1518: la Terraferma era stata quasi completamente riconquistata, la pace sembrava duratura, si stavano revocando leggi emanate negli anni passati per fronteggiare l'emergenza... I traffici però non riprendevano. "Le arte fa poco, perché la mercantia non core, li viazi non navega per causa di Portogallo", osservava tristemente Marin Sanudo nei suoi diarii. Luca Tron, uno dei senatori più vivaci ed attivi che annoverasse allora la Repubblica di Venezia, aveva invece fiducia. L'importante, diceva, era rendersi conto che "el mondo è mudato", e che si dovevano cercare strade nuove, senza intestardirsi a ripercorrere le vecchie: "secondo li tempi bisogna navegar e mudar ordeni", egli concludeva (20).
La sensazione che fosse in atto un profondo mutamento era diffusa in Europa, almeno dallo scadere del secolo passato. Lo attestavano i tanti diari che si erano scritti in quegli anni, per fissare la memoria degli avvenimenti straordinari che andavano via via verificandosi, e le opere in cui uomini come Thomas More, Machiavelli, Erasmo, Rabelais si soffermavano sulla società e il vivere civile, sullo Stato e la politica, sulla Chiesa e il cristianesimo, scavando nelle loro realtà, individuando i princìpi su cui si reggevano o avrebbero dovuto reggersi, mettendo in rilievo i progressi straordinari che si stavano facendo nella cultura (21). I libri più penetranti sulla costituzione veneziana venivano scritti agli albori del '500 e poco prima del 1530, negli anni cruciali della storia di Venezia quale "potenza italiana", due da illustri patrizi veneziani di inclinazioni oligarchiche, Domenico Morosini e Gasparo Contarini, l'altro da un repubblicano fiorentino esule a Venezia, Donato Giannotti (22).
Nel 1531 i consiglieri del re d'Inghilterra lamentavano con l'ambasciatore della Repubblica che le galee veneziane non venissero più a Londra a portarvi le spezie: la colpa, spiegava l'ambasciatore, non era della Serenissima Signoria, "ma dil mondo mudado". Ed era a causa del convincimento che per Venezia il mondo fosse proprio "mudado" che nell'ottobre del 1531 - lo annotava nei suoi diarii lo sconcertato Marin Sanudo - due nobili veneziani, Zuan Francesco Giustinian e Zuan Contarini "cazadiavoli", entrambi uomini di mare assai noti, avevano deciso di partire dalla loro città per recarsi a Costantinopoli, "dal signor Turco", nella speranza di aver da lui qualche incarico: il Giustinian voleva imbarcarsi "su l'armada ch'el [Signor Turco> vol mandar in mar Rosso contra Indiani et Portoghesi"; il Contarini si sarebbe semplicemente accontentato che gli si desse da fare "qualche nova cosa" (23).
Il problema della risposta da dare al "mondo mudado" si poneva dunque anche a coloro cui toccava la responsabilità di governo della Repubblica. I tentativi fatti per attuare ove possibile e necessario un rinnovamento; i successi e gli insuccessi conseguiti; le difficoltà e le resistenze incontrate: sono temi intorno a cui si snoda questo nostro volume della Storia di Venezia.
La Venezia del periodo intorno al 1530, che si dibatteva tra guerre e tregue, che cercava di riassestarsi nei suoi ordinamenti e nelle sue finanze, che aspirava alla pace senza rinunciare del tutto alla possibilità di conquiste, che conosceva problemi per lei quasi sconosciuti come gravissime carestie e il sussulto di disordini sociali, la Venezia dove si avvertiva la necessità di adattarsi a una realtà nuova, era nel contempo una città percorsa da inquietudine culturale e spirituale - la città in cui Manfredo Tafuri ci ha introdotto nel modo più penetrante e suggestivo (24). Vi era giunta la voce della devotio moderna, e con essa quella di Erasmo da Rotterdam, che invitava a una più scavata consapevolezza dei valori cristiani e a non fare del ricupero allora in auge dei valori della cultura antica un ideale concluso in se stesso, incapace di "far risuonare il nome di Cristo" (25). Lo stesso Tafuri e Antonio Foscari hanno messo in risalto il ruolo avuto e la traccia lasciata nella trepida atmosfera della Venezia di questi anni da figure quali il cardinale Domenico Grimani e il francescano Francesco Zorzi, e come questo incontro di cultura e di spiritualità abbia trovato espressione nell'architettura di chiese e complessi assistenziali di Jacopo Sansovino, in tele di Lorenzo Lotto, nel pensiero di un altro architetto, Sebastiano Serlio (26).
Aldo Stella analizza in questo volume come questa inquietudine spirituale abbia assunto connotazioni eterodosse: come Venezia si sia aperta presto all'ascolto della dottrina di Martin Lutero, alla lettura delle sue opere, alla circolazione di altre in cui quella dottrina veniva ripresa, adattandola al sentire e alle esigenze locali; come i gruppi eterodossi si siano progressivamente allargati e rafforzati, suscitando preoccupazioni e reazioni da parte delle autorità civili e religiose; e come si siano poi insinuati accanto ai gruppi luterani altri più radicali, quelli anabattisti. Paolo Prodi, che dedica le sue pagine alla Chiesa e alla società veneziane, spiega invece come sulla spinta della stessa vivacità spirituale Venezia sia diventata negli anni '30 il principale centro di attrazione "per tutti i movimenti di rinnovamento religioso ed ecclesiale che erano maturati nei decenni precedenti nel cattolicesimo italiano e non soltanto italiano", e come mai nel giro di pochi anni questo "progetto riformatore si sia infranto", e si sia passati "dall'età delle speranze all'età dell'inquietudine". Ne risulta un quadro denso, complesso, in cui tradizioni ed esigenze ecclesiali si intrecciano con le vicende politiche, ne vengono condizionate, riescono a prevalere (27).
Manfredo Tafuri ha sottolineato la necessità di cogliere nella loro unità, se si vuole comprenderne appieno il significato, le manifestazioni di renovatio che si profilano nel periodo del dogado di Andrea Gritti (1523-1538): renovatio culturale e spirituale, architettonica e urbanistica, di visione dello Stato territoriale e dei supi rapporti con la capitale, nell'organizzazione degli strumenti di governo e nel sistema giuridico: è da aggiungere la renovatio nella formazione del patriziato, che si cercherà di affidare a un organismo nuovo come la Compagnia di Gesù, di cui proprio un gentiluomo veneziano, il cardinale Gasparo Contarini, era stato uno dei patrocinatori più convinti e autorevoli (28).
Una grande manifestazione della volontà di rinnovamento emersa in quegli anni era stata la decisione di sottoscrivere il trattato di Bologna, il trattato della "pace d'Italia", e poi di confermarlo, e di tenervi fede, malgrado le rinunce che questo aveva comportato e comportava, malgrado si fossero aperti spiragli, in virtù di una duttile politica di alleanze, per tentare di ricuperare almeno qualcosa del perduto, e di riproporsi nel vivo delle vicende italiane. Era stata una poderosa inversione di rotta: si erano ridotti a minoranza gli uomini della parte che aveva guidato la politica veneziana lungo tutto il corso del Quattrocento, gli uomini ancora convinti che il destino di grandezza fosse irrinunciabile, elemento stesso della vita della Repubblica. Venivano riportate invece all'attualità, in tutta la loro saggezza preveggente, le convinzioni di coloro - un doge Tommaso Mocenigo, un Domenico Morosini, per limitarci a due nomi emblematici - che avevano sconsigliato di lasciarsi trascinare dalla sete inestinguibile delle conquiste. Ciò che importa sottolineare è che al fondo dei convincimenti di chi era prevalso, così come dei convincimenti di chi era rimasto soccombente, ci fossero differenze di concezioni politiche ed ecclesiali, ossia diverse idee dello Stato e dei suoi rapporti con la Chiesa, e un diverso modo di sentire la storia veneta, di interpretare i valori che si erano forgiati nel volgere del tempo, le tradizioni che erano nate e si erano via via tramandate ed evolute, e infine la cultura, la cultura che connotava la città. Era appunto nell'assunzione di un ordine di valori nuovi che doveva consistere l'opera educativa e pastorale della Compagnia di Gesù (29).
Il doge Andrea Gritti, Gasparo Contarini, i senatori che avevano preso in mano le redini della Repubblica sul finire degli anni '20 del Cinquecento, avevano dato un'impronta al governo che aveva subito colpito il nunzio pontificio Girolamo Aleandro al suo giungere a Venezia nel 1533: essi, egli scriveva, confidavano che gli ottimi rapporti istituiti col papa li garantissero da "rottura o guerra da qual banda si vogli"; "temono la guerra più che fuoco o pestilentia, né possono o vogliono sentire nominarla", aggiungeva (30).
Il Gritti, il Contarini, i loro amici, quelli che succederanno loro, erano riusciti comunque a conseguire pertanto qualcosa di più del consenso a contingenti scelte: avevano ottenuto che l'elezione della pace a ideale supremo, e della neutralità quale indispensabile strumento per realizzarlo, finisse per trasfondersi agli occhi del mondo nell'immagine stessa di Venezia, diventando un paradigma di quel mito - o idealizzazione di Venezia, nel suo passato e nel suo presente, nello splendore dei suoi ordinamenti, nella saggezza dei suoi governanti -, che con un'azione sapientemente intrecciata sul piano culturale e su quello politico ci si adopererà a diffondere. Lo mette ben in rilievo in questo volume John R. Hale: le cose erano state condotte con tanta credibilità ed efficacia che gli stranieri continueranno a parlare di Venezia come identificata con la pace e la neutralità anche quando, tra fine '500 e primi decenni del '600, al governo della Repubblica torneranno a prevalere uomini che contestavano la pace di Bologna e giudicavano pacifismo e neutralità come responsabili del declino politico e civile della Repubblica, quando la Serenissima Signoria spronerà il bellicismo del duca di Savoia, ed affronterà l'arciduca d'Austria nella cosiddetta guerra di Gradisca, finendo poi coinvolta, seppure marginalmente, nella guerra dei Trent'anni (31).
La pace di Bologna era stata approvata dal senato, o consiglio dei pregàdi, e altrettanto era stato per la sua riconferma, e per altre decisioni prese in quegli anni, conforme a quanto voleva l'ordine costituzionale. "Trattansi in questo Consiglio tutte le faccende grandi della Repubblica: come sono le deliberazioni delle guerre, delle paci, delle triegue, de patti; i modi del provedere danari per li bisogni della Repubblica", scriveva infatti del senato Donato Giannotti (32). Le cose non erano però andate de plano. In senato c'erano state le reazioni durissime di cui si è detto. Era parso però saggio non riaprire una questione di tanta delicatezza, che avrebbe contrapposto ancor più gravemente di prima la Serenissima Signoria da un lato, e l'imperatore e il papa dall'altro. Né erano mancate controversie con la Sede Apostolica riguardo alle pretese di Venezia di imporre tributi al clero (33).
Comunque, anche se si era riusciti a superare queste dispute, rimaneva negli uomini che condividevano l'orientamento di Gasparo Contarini il dubbio se sarebbe stato sempre possibile controllare il senato, ed evitare che in altre occasioni uomini degli spiriti di un Alvise Mocenigo e di un Sebastiano Foscarini non sarebbero riusciti a tirare dalla loro parte la maggioranza dei senatori.
Non era un problema nuovo, quello del senato: se lo era proposto all'inizio del secolo Domenico Morosini nel suo De bene instituta re publica. Era un'assemblea pletorica: oltre ai 120 senatori veri e propri, potevano partecipare alle sue sedute i membri di molte magistrature, anche se solo alle più importanti veniva riservato il diritto di voto. Ne derivava una composizione eterogenea, uomini di vasta esperienza di governo e altri che erano invece quasi alle prime armi, giovani accanto ai vecchi, ricchi con i poveri. Al senato si rivolgevano varie accuse: anzitutto che aperto com'era anche a chi non aveva una conoscenza adeguata dei problemi di governo, né consuetudine alle gravi responsabilità che il governare comportava, fosse facile a subire le suggestioni patriottiche e passionali di politiche avventurose, o gli allettamenti di vantaggi particolaristici, o l'essere sensibile agli umori del popolo che, secondo la tradizione veneziana, veniva spesso coinvolto nelle grandi vicende politiche in cui la Repubblica doveva impegnarsi - i fautori di pace non perdonavano al senato di aver fatto scatenare le guerre sotto la spinta di reazioni emotive o di interessi che a lor vedere non avevano a che fare con quelli superiori della Repubblica (34).
Nel corso del Quattrocento e ancor più all'inizio del Cinquecento si era affermata via via la soluzione di attribuire la facoltà di decidere questioni di particolare rilievo a un organismo di riconosciuta autorità, composto da un ristretto numero di patrizi reclutati tra coloro che avessero provata esperienza di governo, capace di decidere efficacemente, rapidamente e con la debita segretezza, quale il consiglio dei dieci: nel quale sedevano, oltre ai dieci veri e propri, il doge e i suoi sei consiglieri, integrato inoltre da consigli aggiuntivi, o "zonte", di cui facessero parte altri senatori - dai quindici ai venti - passati al vaglio delle cariche maggiori. Era inevitabile che l'attività di un tale organismo finisse col sovrapporsi a quella del senato.
Si convoca il senato "per tediar li senatori in lezer letere che nulla valeno", lamentava uno dei "pregadi" nel 1526; e qualche anno dopo, nel maggio del 1529, un altro aggiungeva risentito che "quando sona la campana di Pregadi è per conseiar la terra, et non per non far niente, come si fa al presente" (35). Esagerazioni, evidentemente, e basta dare una scorsa a filze e registri del senato per rendersi conto che da fare ne aveva sempre, e che, come ha fatto notare Luciano Pezzolo, in un settore come il finanziario al senato venivano riserbati settori importanti (36): ma ben altra era la sensazione di incisività e di attivismo che davano il consiglio dei dieci e la zonta (37).
La direzione della politica estera era però nelle mani del senato: lo dimostrava il dibattito sulla pace di Bologna; e anche la decisione di entrare nella lega antiturca a fianco del papa e dell'imperatore era stata presa nel 1538 dal senato, malgrado esistesse un forte partito contrario annidato particolarmente nel consiglio dei dieci. Nel 1539, dopo l'insuccesso navale della Prevesa, quando si facevano più forti le pressioni in favore della pace, il consiglio dei dieci tentava un'arditissima operazione di riforma costituzionale: il 17 novembre la maggioranza del consiglio "deliberava la costituzione di una giunta di cinquanta membri eletti dal senato tra i suoi componenti con diritto di voto, e approvati dal Maggior Consiglio", i quali "si sarebbero dovuti aggregare agli stessi dieci per trattare le questioni riguardanti la pace col Turco". A uno dei membri del consiglio, Marco Foscari, tutto questo non era bastato, tanto che aveva proposto un emendamento che prevedeva l'elezione di cinquanta "aggiunti" da parte dello stesso consiglio dei dieci con la "zonta ordinaria". Il tentativo era fallito, per l'opposizione del senato e del maggior consiglio, e il Foscari, considerato la punta di questa manovra oligarchica, aveva subito per qualche tempo una sorta di ostracismo da parte delle due grandi assemblee (38). Pochi mesi dopo il consiglio dei dieci e la zonta risolvevano per proprio conto la questione, facendo concludere la pace col Turco alle condizioni che a loro, non al senato, non alla città, erano parse convenienti (39).
Un coraggioso tentativo di porre un limite a quell'oligarchia l'aveva compiuto nello stesso 1540 Bernardo Cappello, un nobile di notevoli qualità letterarie, allora capo della quarantia criminal, proponendo in senato una legge che stabiliva la "contumacia" di un anno tra l'elezione a consigliere ducale e quella di membro del consiglio dei dieci: lo scopo era di evitare che nei due massimi organi di governo si alternassero sempre le stesse persone. Monsignor Agostino Valier, vescovo di Verona, futuro cardinale, che si riteneva un po' la coscienza politico-religiosa del patriziato veneziano e che scriverà in tal ruolo un'opera sugli ammaestramenti che i giovani avrebbero potuto trarre dalla storia della Repubblica, aveva osservato riguardo alla vicenda del Cappello che egli doveva aver agito o "per soverchio zelo verso la patria" o "perché allettato dalla vanagloria volesse farsi strada a più alti onori", non rendendosi conto che se fosse passata la sua proposta al momento opportuno il consiglio dei dieci o la Serenissima Signoria, di cui i consiglieri facevano parte, avrebbero potuto trovarsi privi di uomini "ammaestrati dall'esperienza", ossia, in altre parole, di quell'oligarchia che si riteneva dovesse essere effettiva depositaria del governo. Il consiglio dei dieci, convinto che il Cappello fosse personaggio "pernicioso e troppo popolare", aveva reagito con estrema durezza, condannandolo al bando perpetuo nell'isola di Arbe, in Dalmazia. Il maggior consiglio - il Valier non ometteva di segnalarlo - non l'aveva presa a quel modo: a dimostrare l'"odiosità" di cui si erano coperti i membri del consiglio, escluderà "non pochi di loro" dall'elezione al senato, ed eleggerà invece i fratelli del Cappello uno duca di Candia, l'altro "ad un molto onorifico e lucroso magistrato" (40).
Come si dirà a suo luogo, nel 1573 il consiglio dei dieci e la zonta concluderanno, pur di propria iniziativa e segretamente, ossia all'insaputa del senato, un'altra pace col Turco. "Il consiglio dei X ha auttorità suprema nella Republica", scriverà tutto tronfio, all'inizio del 1581, un suo influentissimo segretario, Antonio Milledonne (41).
Ciò che colpiva e preoccupava, al di là delle decisioni che prendevano e delle leggi che emanavano a concorrenza col senato, era il fatto che il consiglio dei dieci e la zonta stessero diventando sempre più un polo politico, disgiunto dal senato, un polo intorno a cui convergevano sempre più le massime cariche e le personalità più autorevoli della Repubblica. Era esemplare quanto accadeva in un anno denso di eventi come il 1529. Il 7 ottobre una legge del consiglio dei dieci e della zonta stabiliva che alle loro sedute dovessero esser presenti, pur senza diritto di voto, i savi del consiglio e di Terraferma, che erano il cervello del governo veneto. Un segnale ancor più eloquente dell'obiettivo cui si mirava, il consiglio dei dieci e la zonta l'avevano offerto pochi giorni prima, il 28 settembre: essi avevano istituito una seconda zonta, cosiddetta dei procuratori di San Marco, in quanto era riserbata a nove procuratori che non fossero riusciti ad entrare nella prima zonta, o l'ordinaria, come la si chiamava. Il numero dei procuratori, solitamente nove, tre per ciascuna delle tre procuratie, de supra, de citra e de ultra, era straordinariamente cresciuto negli ultimi anni, sino a 24, perché vi si erano ammessi coloro che, pur giovanissimi, ma con titoli di merito familiari se non proprio personali, fossero disposti a donare all'erario una fortissima somma di danaro; costituivano un'élite del censo e delle grandi casate; era parso utile consentire che una loro nutrita rappresentanza fosse sempre coinvolta nell'attività del consiglio dei dieci e della zonta, anche se solo con funzioni consultive (42).
Trifone Gabriello, protagonista de La repubblica de' vinitiani di Donato Giannotti, faceva intravvedere il timore che ci si trovasse ormai di fronte a una criptoligarchia, con un numero relativamente ristretto di gentiluomini che passava dall'una all'altra delle massime cariche di governo (43). Per Gasparo Contarini, il quale contribuiva con la sua attività in seno al consiglio dei dieci al rassodamento di questa criptoligarchia, le cose andavano invece viste in un'ottica affatto diversa: la creazione della zonta dei procuratori e la sua presenza alle sedute del consiglio dei dieci e della zonta avevano intenti antioligarchici (44). È una spiegazione che suona quanto meno stupefacente, sotto cui si cela qualcosa che il Contarini non osava rivelare: ossia che la concentrazione delle cariche più alte e delle maggiori personalità in una cerchia ristretta, o, per ripetere quanto già detto, la creazione del polo politico del consiglio dei dieci e della zonta, mirava, oltre che a controllare materie gravissime come quelle di guerra e di pace, ad impedire il verificarsi di un pericolo che si era profilato nel corso del '400 e che si continuava a temere negli anni intorno al 1530; il pericolo che certi dogi cedessero alla tentazione di esercitare un potere personale esorbitante, e che cercassero a tal fine appoggio nelle grandi assemblee, il senato e il maggior consiglio, ove non mancavano gentiluomini dagli spiriti inquieti. Un osservatore ben più severo del Contarini come Domenico Morosini non aveva avuto remore a dichiararlo nel suo De bene instituta re publica: per dogi cattivi, un'assemblea pletorica e percorsa da malcontenti e risentimenti come il maggior consiglio poteva costituire uno strumento e una tentazione molto pericolosi. Il Morosini aggiungeva il suo timore per il legame troppo stretto esistente tra il doge e una magistratura antica e prestigiosa, emblematica del repubblicanesimo veneziano e di sospetta tentazione tribunizia, come gli avogadori di comun - il doge stesso era definito il primo degli avogadori (45).
Le repubbliche, col loro eleggere le proprie autorità anziché riceverle per esclusiva scelta divina, avevano in sé qualcosa di popolare, di potenzialmente eversivo, che se induceva i re a guardarle con sufficiente disprezzo, faceva pensare ad altri che esse fossero più inclini ad accettare le novità (46). Era il repubblicanesimo veneziano che induceva protestanti d'oltralpe a confidare nell'aiuto che il loro movimento avrebbe potuto ricevere da Venezia. Filippo Melantone, indirizzando un messaggio ai Veneti che avevano a cuore il Vangelo ("studiosos Evangelii") perché contribuissero alla riforma della Chiesa, scriveva di farlo in nome della vera aristocrazia che a Venezia, unica in tutto il mondo, si era sempre conservata nemica della tirannide. Analogo invito indirizzava al doge e al senato una trentina d'anni dopo Mattia Flacio Illirico, ricordando che essendo Venezia una repubblica, e per di più aristocratica, ci si poteva aspettare che degli uomini generosi riuscissero a suscitare gli altri a una nobile impresa quale la riforma della Chiesa (47).
Il doge non è, come si suol dire comunemente, una mera "insegna di taverna", annotava nei suoi diarii Girolamo Priuli: egli era piuttosto convinto che, se lo voleva, un doge poteva fare quanto gli piaceva (48). Era un'osservazione esatta, a condizione che il doge fosse dotato di grande personalità e carisma. Proprio per questo nel corso del '500 si cercherà di sottoporre il potere dogale a controlli e a limitazioni (49), anche se d'altro canto si sottolineerà il valore simbolico-spirituale nel cerimoniale di San Marco, addirittura - lo hanno rilevato Gina Fasoli e Agostino Pertusi - con reminiscenze bizantine (50). L'attacco più insidioso al potere del doge sarà portato dai procuratori di San Marco, o più precisamente, dai procuratori di San Marco de supra, perché toccherà il suo giuspatronato sulla cappella ducale o basilica di San Marco, la sua condizione di "solus patronus et verus gubernator ecclesiae et capellae Sancti Marci", che era quanto il potere ducale aveva di più geloso, ciò che connotava di sacralità la sua carica e che valeva ad elevarla alla dignità dei re. Uno degli aspetti più interessanti della Venezia cinquecentesca, dal dogado di Andrea Gritti al periodo a cavallo tra '500 e '600, sarà proprio la rivendicazione dei procuratori de supra di un ruolo più incisivo nella renovatio politico-religiosa della città e la controversia tra il doge e i procuratori de supra, che era cosa nuova soprattutto per la durezza che assumeva, per le implicazioni politiche che rivelava, per le conseguenze che poteva avere sugli equilibri costituzionali (51).
La renovatio edilizia era iniziata prima dell'ascesa di Andrea Gritti al dogado, in un periodo in cui la cultura umanistica era ormai penetrata e si stava imponendo all'attenzione della città (52). Manfredo Tafuri ha ricordato il caso della chiesa di San Salvador (53). Quando l'incendio aveva distrutto nel 1514 l'intera isola di Rialto, un progetto di ricostruzione era stato subito presentato alla Serenissima Signoria da parte di fra Giocondo, un domenicano veronese affermatosi quale architetto: si trattava di "un'ipotesi di radicale trasformazione del luogo", di cui il nucleo centrale sarebbe stato "un foro alla maniera dei greci" (54). Ancor più innovatore, tale da provocare la necessità di ricostruire un'ampia zona anche nella parte opposta del Canal Grande, era il progetto che Andrea Palladio, un architetto ancor più famoso e che aveva il sostegno di patrizi illustri come Marc'Antonio Barbaro, presenterà per la ricostruzione del ponte di Rialto: progetto per un manufatto grandioso, in pietra e a tre arcate, rievocante nella sua traboccante maestà l'antico ponte di Nerva sul Tevere. Progetto discusso, osteggiato, accantonato, sostituito da altri più modesti, più intonati all'ideale "venezianità": Donatella Calabi e Paolo Morachiello ne hanno narrato le tormentate vicende (55).
Quello che a Rialto non riusciva, lo si otteneva invece a San Marco: sarà lì, tra piazza e piazzetta, cuore e mente della città, che avrà il suo epicentro quanto si potrà realizzare di renovatio urbis. Tre erano i grandi protagonisti di questa renovatio: il doge Andrea Gritti, che era stato salutato alla sua elezione, avvenuta nel 1523, come colui che avrebbe saputo schiudere a Venezia un momento di straordinario splendore culturale, all'insegna e sotto la spinta dell'umanesimo; il procuratore de supra Vettor Grimani, appartenente a una delle famiglie che più animavano la vita della città; Jacopo Sansovino, il grande architetto formatosi tra Firenze e Roma, che il Gritti e il Grimani avevano chiamato a Venezia all'indomani del sacco di Roma (56).
Probabilmente, ciò che aveva reso possibile l'attuazione di questa renovatio marciana, vincendo le resistenze di quanti l'oppugnavano, era la calorosa adesione della procuratia di San Marco de supra. Gran parte dell'area della piazza e della piazzetta, con i soprastanti edifici, apparteneva infatti al patrimonio della cappella ducale, amministrato dai procuratori de supra - l'intera area marciana, ha fatto rilevare Marino Zorzi, era soggetta alla polizia dei procuratori. I procuratori non si erano limitati a dare il loro assenso ai lavori: ne avevano addirittura assunto la responsabilità, nominando al loro servizio, quale "proto", o sovraintendente all'attività edilizia, Jacopo Sansovino (57).
Ciò che accomunava questi uomini, doge, Vettor Grimani, procuratori, Sansovino, era l'ammirazione per l'antica architettura romana, considerata la più perfetta, la più avvincente, delle forme architettoniche create nella storia dell'umanità. Per il Gritti, per il Grimani, per i procuratori de supra, come per gli altri patrizi che condividevano i loro convincimenti, c'era anche un altro ordine di considerazioni. La rinuncia alla tradizionale architettura veneziana gotico-bizantina, considerata da loro arcaica, goffa, stantia, per sostituirla con un'architettura dalle linee mutuate dai monumenti dell'antichità romana, intendeva esprimere la volontà e la capacità di rompere con l'idea di Venezia finora predominante, tutta ripiegata su se stessa, nel suo orgoglio particolaristico, nella fierezza della propria peculiare identità, che non aveva alle spalle altro retaggio che il proprio, forgiato attraverso i secoli nella indipendenza che l'aveva sempre accompagnata: e sostituirla con l'idea di una Venezia inserita in una continuità storica ben più ampia, in cui il suo passato e la sua civiltà si intrecciassero col passato e la civiltà di Roma, quale premessa indispensabile per l'attuale unità di ideali e di intenti politico-religiosi. Venezia poteva ora assumere il ruolo di una "nuova Roma": doveva dimostrarsene degna anche nel suo volto edilizio e urbanistico (58).
I procuratori de supra, infine, mettendosi in primo piano nella realizzazione di questa renovatio, dovevano proporsi di farsene strumento non solo per accrescere il loro potere sulla cappella ducale, ma per acquisire in virtù di esso un'autorità, istituzionale e morale, che consentisse loro di intervenire più efficacemente nel rinnovamento politico e religioso della città di cui Gasparo Contarini aveva ravvisato l'urgenza. Era indicativo il fatto che un paladino del puro repubblicanesimo come Donato Giannotti, critico, come si sa, della procuratia, non facesse alcun cenno delle prerogative che i procuratori de supra rivendicavano alla loro carica nella gestione della cappella ducale, mentre uno scrittore di tendenze oligarchiche come Gasparo Contarini vi si soffermava accuratamente: uno dei compiti dei procuratori de supra, scriveva il Contarini, era di far "ristorar questo Tempio [di San Marco> se in alcun luogo si guasta", un altro l'aver "cura de i sacerdoti di esso", e poi di provveder che in esso "secondo la dignità della Città et dell'Illustrissimo nostro Avocato Marco Evangelista, piamente si esserciti il culto divino". La renovatio della piazzetta era stata attuata in un giro di tempo relativamente breve: sul lato antistante il palazzo Ducale erano stati abbattuti tutti i vecchi edifici, e costruiti in loro luogo, su progetto di Jacopo Sansovino, la Zecca e la Libreria: all'angolo con la piazza San Marco, a ridosso del campanile, lo stesso Sansovino aveva costruito la loggetta che, per dirla con Manfredo Tafuri, nel quadro di questo "foro" aveva la funzione di arco di trionfo. Il Gritti avrebbe voluto costruire un'ala del palazzo Ducale, adibita ad appartamento del doge, al di là del ponte della paglia, secondo un progetto del Sansovino. Alla metà del secolo Zuanne da Lezze, un procuratore de supra che si era adoperato moltissimo nei lavori per la Libreria, faceva progettare da Jacopo Sansovino nel lato minore della piazza, prospiciente la basilica di San Marco, la chiesa di San Geminiano (59).
Febbraio del 1513. Le truppe veneziane cercavano di riconquistare Brescia, che era stata occupata dall'esercito del re di Francia dopo la rotta di Agnadello. Il podestà che il re di Francia vi aveva nominato, Girolamo Botticciuola da Pavia, "grandissimo giureconsulto", a detta di Luigi da Porto, incitava i bresciani a resistere ricordando i vantaggi procurati dall'esser soggetti alla sovranità francese. Se l'abbandonerete, arringava il Botticciuola, "si vedrà che voi l'avrete fatto (togliendovi dalla sovranità d'un sì gran re, col quale vivete con le leggi antiche imperiali, comuni a tutta la cristianità, fuorché a Vinegia [...>) per tornare soggetti ad una assai piccola repubblica, che si regge con private costituzioni, le quali non voglio dir leggi" (60). Discorso immaginario, quello riportato nelle Lettere storiche di Luigi da Porto, ma che toccava un argomento cui molta parte della cultura della Terraferma era assai sensibile, il diaframma tra il diritto comune (o imperiale), grande retaggio della romanità, che vigeva come fonte primaria di diritto nella Terraferma, prima che i Veneziani sovrapponessero il loro diritto, un diritto "proprio", nato nella loro città, espressione del loro rifiuto della grande cultura giuridica ereditata dall'antichità. Con l'assunzione al dogado di Andrea Gritti, si era pensato che fosse necessario tener conto di queste critiche attuando una renovatio del diritto veneto, con l'intento di attenuare fortemente, se non proprio di eliminare, quel diaframma culturale, quel particolarismo che aveva sempre ispirato la politica del diritto del Comune Veneciarum e poi della Serenissima Signoria. Il programma iniziale, dei primi tempi del dogado di Andrea Gritti, era semplicemente quello di metter ordine nel sistema legislativo veneto, dove ai vecchi Statuti di Jacopo Tiepolo si erano aggiunte leggi su leggi, pletoriche su taluni punti, carenti su altre, e spesso contraddittorie, o poco chiare, soprattutto poco conosciute, non solo nel Dominio in cui almeno parte di esse era vigente, ma nella stessa città lagunare. Un programma che si era allargato e approfondito. Ci si era resi conto cioè che non bastava far quell'opera di sfrondamento delle leggi, ma che era necessario "entrar sora il Statuto", perché, si diceva nel 1529, "ha bisogno di molta correttion": e nel 1531 si stabiliva che bisognava avere "uno novo libro dei statuti", affidando il compito di redigerli a una commissione di patrizi con la collaborazione di "dottori de leze et altri jurisperiti et pratici": ossia, di quei conoscitori e cultori del diritto romano - non potevano esser che tali i "dottori di leze" - di cui a Venezia si era sempre istituzionalmente diffidato. Era anche questa una grossa svolta: uno sforzo di omologare la cultura veneziana a una cultura che recava l'impronta della romanità. Una riforma che era fallita, dopo qualche anno di tentativi: Marco Bellabarba spiega accuratamente in questo volume quali siano state le ragioni di questo fallimento, e quali altri interventi legislativi si faranno nell'ambito della giustizia civile, restando sempre nell'alveo della tradizionale politica del diritto (61).
Ciò che si avverte, dietro questa ambiziosa e mancata riforma del diritto, così come dietro altre iniziative prese durante il dogado di Andrea Gritti, è il delinearsi di una nuova visione del Dominio di Terraferma e dei suoi rapporti con la città dominante: qualcosa di più fuso, di più amalgamato. È merito di Ennio Concina, Manfredo Tafuri lo ha ben sottolineato, l'aver individuato nei programmi di renovatio rei militaris messi a punto allora da Francesco Maria della Rovere, duca di Urbino e sovraintendente alla organizzazione difensiva dello Stato veneto, "uno dei più articolati e innovativi progetti a scala territoriale del '500 europeo" (62). Ne erano caratteristica la "territorialità dei piani di difesa, anzi, la considerazione del territorio della Repubblica come un organismo unitario, dotato di articolazioni interdipendenti", "l'integrazione di considerazioni squisitamente politiche a quelle di natura militare", "un'apertura verso l'innovazione tecnologica [...>" (63). Si stava anche manifestando, ha aggiunto Luciano Pezzolo, "una concezione più ampia del ruolo dello Stato", e di conseguenza dell'attività di governo, nei confronti del Dominio di Terraferma (64).
È un segnale che diventerà ancor più evidente nella seconda metà del secolo: che già colpisce, comunque, in questa atmosfera di ripensamento di tutta una politica, e di tutto un modo di far politica, che le vicende di guerra e di pace del primo trentennio avevano causato. La Terraferma si proponeva con una rilevanza di problemi, di interessi, di esigenze che non era possibile ignorare. Poteva dipendere dal fatto che un fenomeno come l'espansione demografica in atto provocherà la crescita del fabbisogno di viveri e di combustibili, e che l'agricoltura diventerà, per questa e altre ragioni, un investimento sempre più redditizio, più vantaggioso in termini economici, più sicuro quanto a valutazioni di rischio, di quanto non fosse il commercio marittimo - il contributo di Giuseppe Gullino a questo volume dimostra non solo l'entità degli investimenti dei Veneziani nella terra, ma come essi si integrassero con la costruzione di case, ad esprimere una scelta di vita, o di un'alternativa di vita, oltre che economica (65).
Sarà investito da questo mutamento anche il modo di concepire il ruolo e l'importanza di quel diaframma che separava Venezia dalla Terraferma, ossia la sua laguna. Nella visione tradizionale, di una Venezia che doveva stare in guardia nei confronti dei nemici che la potessero attaccare, la laguna era considerata il muro eretto dalla Provvidenza a salvaguardia della sua libertà, l'emblema della sua originaria indipendenza, e la difesa di essa, della intangibilità della sua dimensione e del suo regime acqueo, era pertanto considerato dovere primario della Serenissima Signoria. Intorno alla metà del '500 si contrapporrà a tale concezione, sostenuta sul piano tecnico dal "proto alle acque" Cristoforo Sabbadino, una diversa idea della laguna, meno drammatica, che aveva a suo portavoce Alvise Cornaro, un veneziano che aveva preso stabile residenza a Padova. Il Cornaro esprimeva la Venezia che aveva accettato la pace di Bologna, che si era rassegnata alla sua nuova realtà. Secondo il Cornaro, bisognava riequilibrare il ruolo di Venezia pure all'interno dello Stato territoriale, invitando i governanti a volgersi, oltre che ai traffici commerciali, alla grandissima potenzialità economica che riserbava l'agricoltura, senza troppo crucciarsi che l'estendersi delle aree ad essa destinate e l'incremento della colture recasse qualche detrimento alla laguna (66).
Non era in atto, beninteso, una revisione dei rapporti amministrativi e giurisdizionali tra Venezia e la Terraferma quali erano stati definiti nel primo secolo della conquista, nel senso di concedere alle sue città più ampi o più effettivi poteri, e di integrarle maggiormente nella gestione del Dominio. Tutt'altro. I poteri delle città suddite, e quelli stessi dei rettori mandati a risiedervi, piuttosto si attenueranno in favore di quelli della Serenissima Signoria (67). È la Serenissima Signoria, che si erge ulteriormente dalla città dominante, che accentra, che tiene le fila dello Stato, che interviene con atti sovrani. Da Venezia ci si occuperà con una attenzione più oculata di tanti aspetti della Terraferma, affrontandoli mediante circa una trentina di magistrature nuove, create a Venezia, operanti a Venezia, quali, per far solo qualche esempio, le magistrature sopra i beni comunali, sopra i beni inculti, sopra i feudi, sulle acque, corti per i giudizi civili d'appello, onde articolarne meglio i gradi secondo l'entità del contenzioso (68). Cose che inducevano sempre più a credere che tutto si risolvesse a Venezia, e che a Venezia bisognasse andare personalmente, o incaricando mediatori di fiducia, se si voleva sbrigare una pratica personale, o inviando ambascerie, quando si trattava di problemi cittadini, o istituendovi rappresentanze stabili (69). Verrà progressivamente meno, pertanto, il tramite sistematico tra centro e periferia costituito dalle troppo lente e onerose magistrature itineranti dei sindaci (70).
Un ruolo di primo piano in questa nuova visione dello Stato e del suo governo spetta alla giustizia penale, ben più che a quella civile, che era largamente vincolata non solo a organi giudiziari locali, ma alla particolare normativa degli Statuti delle varie città. L'importanza politica che si attribuirà alla giustizia penale emerge con tutta evidenza dalla preminenza che, come spiega Alfredo Viggiano, acquista su di essa, nell'ambito di tutto lo Stato, il consiglio dei dieci, a scapito non solo di antiche magistrature come gli avogadori di comun, ma dello stesso senato: esso legifererà sui crimini più gravi, e interverrà in tutte le difficili situazioni che via via emergevano e di cui i rappresentanti della Serenissima Signoria nel Dominio dovevano tenerlo informato, avocando a sé i casi più importanti, o concedendo la propria procedura a rettori di grandi città che dessero garanzia di saperla usare, e sarà così uno strumento primario per amalgamare il Dominio (71).
Altra testimonianza interessante di questo attento volgersi del governo verso il Dominio, e del suo contemporaneo radicarsi sempre più fortemente a Venezia, è fornita dalla magistratura dei riformatori dello Studio di Padova. A creare una magistratura che dovesse occuparsi dello Studio si era pensato già nel 1517, in quello scorcio di fiducia e di pace schiusosi allora dopo gli anni più bui, e poi nei successivi: ma si era trattato di iniziative dovute allo zelo di qualche patrizio particolarmente sollecito della salvaguardia della prestigiosa scuola patavina. Solo nel 1528 i riformatori dello Studio di Padova venivano formalmente istituiti. Essi dovevano occuparsi anche di altre questioni, attinenti comunque alla cultura. Veniva attribuita loro competenza sulla stampa, dovevano sovraintendere inoltre ai "pubblici storiografi", spettava loro occuparsi dell'insegnamento primario e secondario a Venezia, e un decreto del senato del 1551 li aveva addirittura incaricati di istituire per ciascun sestiere insegnamenti di umanità e grammatica. Il progetto delle scuole, benché approvato, non si riuscì allora ad attuarlo, forse per non far concorrenza alle scuole dei gesuiti preferite da molti patrizi per la completezza dell'educazione che potevano dare (72). Nulla esprime meglio la considerazione che si aveva a Venezia dell'importanza dello Studio della decisione presa dal senato nel 1545: acquistare a Padova il palazzo del Bo', ove avevano sede le due facoltà, degli artisti e dei giuristi, restaurarlo in un modo che mettesse in risalto la "dignità et ornamento" dello Studio, e collocare infine sulla facciata il leone di San Marco, ad attestare che lo Studio era posto sotto il dominio della Serenissima Signoria. Ormai, ha scritto François Dupuigrenet Desroussilles riprendendo un bel passo di Girolamo Arnaldi, "ormai lo Studio non imponeva più al mondo esterno l'immagine di Padova come libero comune aperto alle esigenze degli studi e della cultura", ma faceva parte dell'ordinamento della Repubblica veneta, contribuiva ad illustrarne il mito (73).
A dimostrazione eloquente dell'importanza politica connessa allo Studio, la carica di riformatore dello Studio sarà una delle più ambite dagli uomini più autorevoli della Repubblica: una carica su cui pertanto si proietteranno le tendenze politiche che caratterizzavano allora il patriziato, il partito dei pacifisti e "filoromani" e il partito di coloro che nei confronti di Roma terranno a tutelare soprattutto l'indipendenza della Repubblica (74).
Si realizzerà dunque, tra Venezia e Padova, una fitta circolazione di uomini di idee di libri, che contribuirà notevolmente ad arricchire la vita culturale veneziana nel momento della sua vivacissima fioritura rinascimentale.
Era davvero una grande stagione per la cultura veneziana, quella che si apriva intorno al 1530 all'ombra del dogado di Andrea Gritti. Lo dimostra Gino Benzoni, cui tocca di introdurci in un mondo vasto e composito, quello in cui, egli dice, "brulicano" intellettuali e letterati, veneziani e venuti da fuori, un mondo dove si avevano tutte le occasioni per incontrarsi con gente di ogni dove, di conversare e di leggere, di intrattenersi tra le botteghe, i circoli, le accademie. Compaiono in primo piano i patrizi, quelli che si sottraggono alla politica per dedicarsi alle lettere o agli studi, e quelli che fanno degli studi un'introduzione alla politica, o li integrano all'attività politica, interessandosi e scrivendo di filosofia, di storia, di scienza. Ci sono i puri uomini di lettere, tra i quali c'è chi riesce a "campare a colpi di penna", a cominciare dal più illustre di loro, Pietro Aretino, che, arrivato da Roma all'indomani del sacco e ben introdotto sia presso la Serenissima Signoria sia presso la nunziatura apostolica, riuscirà non solo a "campare", ma a far soldi su soldi, e a vivere da gran signore. Ci sono grandi personalità della scienza come un Tartaglia, o come un Benedetti che Venezia, sua patria, si farà sfuggire, o come Galileo, un toscano che Venezia non riuscirà a trattenere. Ci sono i maestri di scuola, protagonisti di una diffusione capillare del sapere (75). E tutt'intorno storici, poligrafi, libellisti ... (76).
Se Gino Benzoni sottolinea la parte che ha la fiorentissima editoria nella vita culturale veneziana, non solo per la circolazione di uomini e di idee e di libri, ma col creare possibilità di lavoro e di guadagni a un buon numero di "operatori culturali", copisti, traduttori, correttori di bozze, Claudia di Filippo Bareggi ci presenta l'editoria veneziana nelle sue strutture, spiegando le ragioni della sua crescita straordinaria, la sua organizzazione, intrattenendosi sugli uomini e sulle famiglie che emergevano, i legami che si intrecciavano tra loro, le differenze che si profilavano al loro interno, i primi approcci con problemi destinati via via a complicarsi, la concorrenza esterna, la censura (77). Marino Zorzi attira a sua volta l'attenzione su un aspetto della vita veneziana piuttosto trascurato dagli studiosi, l'importanza e il numero delle biblioteche pubbliche e private esistenti a Venezia. Era stata la Serenissima Signoria a dimostrare quale rispetto si dovesse a libri e a manoscritti, quando si era decisa a far costruire su progetto del Sansovino una Libreria - "basilica", la chiama Tafuri (78) - destinata anzitutto a sistemare quella straordinaria biblioteca che il cardinale Bessarione le aveva lasciato in eredità. C'erano poi le biblioteche dei monasteri, almeno venticinque, a giudicare dagli inventari. Ma è il numero dei privati che possedevano libri a stupire; e soprattutto il numero di patrizi che avevano biblioteche di tutto rispetto, come, per limitarci ad alcuni nomi, un Leonardo Donà, un Nicolò Contarini, uomini in primo piano nella politica veneziana (79).
Oltre che l'amore per i libri, si era diffusa a Venezia, in connessione con la ventata umanistica che aveva investito la vita culturale, la passione per i cimeli dell'antichità. Una passione che poteva comportare aspetti negativi, il depauperamento o la rovina, per iniziativa delle stesse autorità, di monumenti che sorgevano in città suddite: come l'asportare dalla basilica di Santa Maria Formosa, o dal canneto di Pola, colonne che dovevano servire per la Libreria, o, all'inizio del Seicento, l'invio a Venezia di pietre di un torrione demolito a Spalato dal rappresentante veneziano che vi risiedeva, utilizzate per la chiesa della Salute (80). Ma c'erano nel Cinquecento patrizi facoltosi che si permettevano il lusso di creare nelle loro case notevoli collezioni di "anticaglie e di medaglie", suscitando l'entusiasmo di Francesco Sansovino, figlio di Jacopo, che le illustrerà in quella splendida guida della città che sarà il libro Venetia città nobilissima et singolare [...> (81). Lo studio dell'antichità è particolarmente adatto ai nobili, aveva sentenziato Gerolamo di Domenico Cappello nel suo De disciplinis ingenuis, urbe libera liberoque iuvene dignis, al pari dell'architettura, o dell'agricoltura intesa non come attività pratica, ma come strumento per conoscere la natura (a differenza di un "genus vile et sordidum" come la mercatura) (82). Studio dell'antichità, che sembra particolarmente vivo in uomini di orientamento "papalino" e sostenitori della renovatio urbis architettonica ed urbanistica. Antesignani erano i Grimani, il cardinale Domenico e il patriarca di Aquileia Giovanni. Li aveva imitati il procuratore de supra Federico Contarini: al pari dei Grimani, scriveva Giovanni Stringa, curatore di una riedizione del libro di Francesco Sansovino, il Contarini "con infinita sua spesa" faceva venire il materiale archeologico, e in particolare le statue che erano il pezzo forte della sua raccolta, "da Athene, da Costantinopoli, dalla Morea, e da quasi tutte le isole dell'Arcipelago" (83). Le benemerenze di Giovanni Grimani e di Federico Contarini andranno ben oltre a quelle di collezionisti privati: essi saranno gli iniziatori di un vero e proprio museo archeologico, il nucleo originario di quello che esiste tuttora a Venezia. Promotore era stato il Grimani. All'inizio di febbraio del 1587 offriva alla Serenissima Signoria le sue "antichità", a condizione che venissero esposte in luogo pubblico, accessibili all'ammirazione di tutti. Il dono era stato senz'altro accolto: per la scelta del luogo ove riporlo bisognerà attendere il 1590, quando i procuratori di San Marco decideranno di sistemare la collezione nella Libreria e di eleggere alla carica di sopraintendente il loro collega Federico Contarini. Il quale non si limiterà a svolgere egregiamente questo lavoro, ma regalerà alla statuaria pezzi della sua collezione - altrettanto farà quasi alla fine del secolo un altro procuratore, Zuanne Mocenigo, l'uomo che condivideva con il Contarini la responsabilità di aver fatto tradurre a Roma Giordano Bruno (84).
Venezia, ha scritto David Bryant, era nel Cinquecento "uno dei centri propulsori non solo della cultura musicale italiana, ma anche di quella europea" (85). Il merito era di Adriano Willaert, un musicista fiammingo, e di Andrea Gritti, che l'aveva chiamato da Roma approfittando, come nel caso del Sansovino, del famoso sacco, e nominandolo maestro di cappella a San Marco. Il Willaert ne aveva riorganizzato e vitalizzato l'attività, facendo venire a sua volta altri musicisti di vaglia, suoi compatrioti o meno; e su quella scia ci sono Veneziani come Andrea e Giovanni Gabrieli. La musica della cappella ducale sarà, ancor più che le grandi tele celebrative fatte dipingere nella seconda metà del secolo a palazzo Ducale, ciò che meglio consentirà di esprimere e infondere il mito dello Stato veneziano, nelle sue connotazioni sacrali, nell'altezza dei suoi ideali civili e religiosi, accessibile com'era a tutti, i patrizi e i cittadini che gestivano il potere, e coloro che dovevano sostenerlo con il loro consenso (86). L'attività musicale della cappella di San Marco era integrata da quella delle Scuole grandi (87). Ma la musica permeava tutta la vita veneziana del Rinascimento; strumenti musicali si trovavano in moltissime case, in talune di esse addirittura strumenti per complessi di suonatori (88).
Né era da meno il teatro. Per la verità, all'incirca fino al 1540 la città preferiva altri tipi di intrattenimenti, quelle feste, quelle processioni o quei giochi pubblici che la stessa Signoria badava ad organizzare, conforme alla sua preoccupazione di creare attraverso di essi la fusione sociale che era base indispensabile per aver il consenso della popolazione alla sua politica. O c'erano rappresentazioni come le "momarie" o altre allestite per iniziative di gruppi privati come le varie Compagnie della calza, un'istituzione così tipica della Venezia rinascimentale. Ma quanto al teatro vero e proprio, Venezia restava in una posizione piuttosto "attardata" nei confronti del resto d'Italia. Le cose cambiavano poi rapidamente: e dalla metà del secolo, ha scritto Giorgio Padoan, il teatro trionfava, diventando una "componente essenziale" al punto da preoccupare le autorità e da provocare interventi del consiglio dei dieci per contenerne il successo (89).
Una grande pittura, inoltre. Nella quale si ritrovavano fianco a fianco uomini provenienti da ogni angolo del Dominio, da Venezia come Lorenzo Lotto e Jacopo Tintoretto, dal Cadore come Tiziano Vecellio, da Verona come il Veronese, dal Vicentino come i Bassano, da Treviso come Giorgione e Paris Bordone, dal Friuli come il Pordenone, fin da Brescia come il Moretto e da Bergamo come Palma il Vecchio e il Moroni. Il "genio di Venezia", è stata definita, in una mostra londinese, questa straordinaria fioritura cinquecentesca di personalità artistiche, che si manifesta in una circolarità di esperienze che integrano taluni influssi nordici a suggestioni romano-fiorentine, alla prepotenza vigorosa del cromatismo veneziano (90).
Questa città di cui noi abbiamo visto le ambizioni di renovatio politico-religiosa e la fioritura culturale, si anima e si colora, nelle pagine che le dedica Giuseppe Trebbi, della gente che la popola - una popolazione in progressiva crescita, sino alla peste del 1575-1576, che la decimerà (91). Trebbi la presenta in tutte le sue componenti, con un'analisi che si inoltra fin nelle pieghe più nascoste. I patrizi veneti, o nobiluomini, come essi preferivano ed erano chiamati, che vedranno la loro flessione numerica iniziare prima della peste; le famiglie ricche, influenti, potenti, con fonti di reddito che andavano dal commercio all'agricoltura alla finanza, talune investite addirittura di feudi, altre titolari di signorie rurali, alle prese con le strategie necessarie per la conservazione e la trasmissione della loro ricchezza; le famiglie povere, per le quali le cariche pubbliche erano una indispensabile voce di reddito, e che costituivano per la Serenissima Signoria uno dei più delicati problemi di governo. C'è il ceto cittadino, da cui si reclutava la burocrazia. C'è la categoria non facilmente precisabile dei "marzeri". Ci sono i "popolari", con la molteplicità di Arti e di Scuole in cui si suddividevano con criteri corporativi che si associavano a solidarietà devozionali; e si profilano su questo sfondo le istituzioni assistenziali, di cui tratta comunque esplicitamente in questo volume Giovanni Scarabello, mettendo in rilievo quanto le accomuna, quanto le distingue nei confronti di analoghe istituzioni di altri Paesi (92). A tutto questo mondo fa corona il numerosissimo novero dei religiosi, secolari e regolari. Poi ci sono le suddivisioni per nazioni, che erano spesso coincidenti con particolari identità religiose, acattoliche e acristiane: gli Schiavoni, i Greci, i Tedeschi, i Grigioni, gli Olandesi, gli Inglesi, gli Albanesi, i Turchi. Ci sono gli Ebrei, suddivisi a loro volta in nazioni, che accolti con qualche riluttanza e costretti anzi nel Ghetto dal 1516, riusciranno malgrado le ricorrenti difficoltà loro frapposte, dalla Sede Apostolica e dai Veneziani, a inserirsi nella città come una struttura indispensabile, a fare cioè della loro comunità - dotata di una propria tipografia - una delle più importanti d'Europa e del Mediterraneo. Ma Giuseppe Trebbi non dimentica altre condizioni di persone che increspano l'ambiente veneziano: le meretrici, i mendicanti, e i "bravi" che, con la loro comparsa massiccia dopo la metà del secolo, saranno emblematici del mutamento in corso nei rapporti politico-sociali, nella concezione dell'ordine pubblico, nell'atmosfera veneziana.
È l'idea stessa della città, ha scritto Ennio Concina, che cambia nel periodo a cavallo tra '400 e '500: Venezia acquista "una nuova coscienza e una nuova conoscenza di sé", la consapevolezza della "natura del proprio corpo", un corpo fatto di strisce di terra nello specchio acqueo lagunare (93). La testimonianza di questa evoluzione la troviamo in quel dibattito sulla laguna tra Alvise Cornaro e Cristoforo Sabbadino cui si è fatto già cenno. Sarà nel 1557 che il Sabbadino presenterà il suo progetto di sistemazione urbanistica, caratterizzato precipuamente dalla creazione di una fondamenta avvolgente la città, a ovest e a est. Ma Concina sottolinea che le discussioni e le riflessioni che si faranno sul "far" e sull'"ampliar" la città attraverso tutto il '500 e oltre si muovono lungo una idea precisa, il "fare della stessa forma urbis specchio dello Stato; del configurare lo spazio urbano, i suoi modi di organizzazione [...>".
La risposta data da Venezia alla constatazione che aveva fatto a suo tempo Luca Tron, "che il mondo era mudato", che bisognava muoversi per strade nuove, adatte a quel mutamento, la risposta alla sfiducia da cui erano stati presi uomini d'azione come Zuan Francesco Giustinian e Zuan Contarini "cazadiavoli" sull'avvenire riserbato alla loro città, la troviamo nelle pagine, così integrate tra loro, che Domenico Sella e Luciano Pezzolo hanno dedicato in questo volume all'economia e alla finanza veneziane. La ripresa di Venezia dopo il trattato di Bologna del 1530, soprattutto nel periodo di pace schiusosi dopo la guerra col Turco del 1536-1540 era stata rapida, spiega Sella. Ripresa che era indice di per se stessa del vigore delle sue strutture e dei suoi uomini: ne sarà espressione particolare lo sviluppo industriale, in campi consueti come il vetro e la seta, in altri nuovi come la stampa e il lanificio, sviluppo integrato da una fiorente attività commerciale - era ripreso il traffico delle spezie per la via di Ormuz - e da un'altrettanto alacre attività finanziaria. Per un sessantennio, osserva Sella, l'economia veneziana "darà prova di un forte dinamismo e [...> di una singolare capacità di adattamento di fronte a un'economia mondiale in rapida trasformazione" (94). Economia in espansione, finanza solida, insiste a sua volta Pezzolo. I Veneziani investivano con fiducia nel debito pubblico, e con la stessa fiducia gente di fuori, Genovesi, Fiorentini, faceva affluire a Venezia i propri capitali. Venezia restava ancora la città dalla proverbiale ricchezza (95).
La Venezia che aveva colpito l'immaginazione di Miguel de Cervantes, il quale aveva combattuto a Lepanto e, spagnolo, aveva forte il senso di quanto il mondo si fosse "mudato", diviso tra un "mondo antico", ove appunto Venezia primeggiava, e un "mondo nuovo", ove era Città del Messico la città che superava ogni altra:
[...> Venezia, città che, non fosse nato Colombo, sarebbe rimasta città unica al mondo: grazie al cielo e al valoroso Hernán Cortés, che conquistò la famosa Città di Messico, la grande Venezia ebbe in un certo senso una rivale. Queste due celebri città si somigliano per il fatto di avere vie tutte quante acquatiche: quella d'Europa, splendore del Mondo Antico, e quella d'America, meraviglia del Mondo Nuovo. La ricchezza di Venezia gli sembrò [a Tomás, protagonista della novella> infinita, saggio il suo governo, inespugnabile la sua posizione, grande la sua abbondanza, lieti i dintorni, insomma essa tutta ed in ogni sua parte degna della fama di cui gode nell'orbe, accreditata specialmente dalla macchina del suo famoso Arsenale, il luogo in cui si costruiscono le galee e altri innumerevoli vascelli (96).
Alla fine del '400 si era schiuso per l'Impero ottomano un periodo di continua espansione. La vittoria conseguita contro la Repubblica nelle acque di Lepanto nel 1499, la pace con cui era riuscito a toglierle Modone e Corone, i suoi due "occhi", come li si chiamava, puntati sul Mediterraneo orientale all'estrema punta del Peloponneso, avevano confermato al sultano Baiazid che la sua flotta era in grado di muoversi senza troppi timori in quei mari. Morto, nel 1512, Baiazid, gli era succeduto il figlio Selim: il quale, dopo essersi liberato della minaccia dei suoi fratelli uccidendoli, aveva volto la sua attenzione verso il potente Impero dei Safavidi, un movimento religioso che, assestatosi nell'Iran, aveva fatto sue le rivendicazioni antiottomane sollevate nella seconda metà del Quattrocento dai Turcomanni di Usun Hassan. I Safavidi avevano accentuato ulteriormente la loro potenza alleandosi con la flotta portoghese operante nell'oceano Indiano, e mettendosi così in grado di controllare le vie commerciali che da lì raggiungevano i porti del Mediterraneo orientale e centrale soggetti all'Impero dei Mamelucchi. Sconfitti nel 1514 i Safavidi, Selim si era poi spinto proprio verso Siria, Arabia ed Egitto, terre appunto del dominio dei Mamelucchi. Un Impero fatiscente, questo, che Selim aveva potuto debellare agevolmente: il risultato era la caduta nelle sue mani delle vie tra Mediterraneo e Levante, quelle per cui giungevano le spezie, così come delle vie di Ponente, quelle che portavano oro e schiavi africani. Non era di minor importanza il successo ottenuto da Selim sul piano politico-religioso, perché l'insediarsi sulle terre dei Mamelucchi aveva significato l'assunzione da parte dell'Impero ottomano della tutela dei luoghi sacri dell'Islam, Medina e la Mecca (97).
A Selim succedeva, nel 1520, il figlio Solimano. Nel suo lungo regno questi riuscirà non solo a realizzare nell'Impero ottomano un'attività organizzativa e legislativa così importante da meritargli di essere ricordato come "il legislatore", ma a condurre una poderosa azione militare sia ad oriente, per combattere i Safavidi, sia ad occidente, ove nel 1521 conquisterà Belgrado, cuore della penisola balcanica e porta dell'Ungheria, tappa obbligata per un futuro attacco all'Impero asburgico, e sia in mare, nel Mediterraneo orientale, tanto da insediarsi nel 1522, dopo un anno di assedio, nell'isola di Rodi, fortezza dei Cavalieri di San Giovanni. Egli aveva altresì continuato l'espansione sulle coste settentrionali del Mediterraneo avviata da suo padre Selim, annettendo il principato di Algeri, e conferendolo al corsaro Aidireddin Barbarossa che vi aveva le sue basi; il Barbarossa veniva anche nominato grande ammiraglio della flotta ottomana. Era una minaccia puntata direttamente contro la Spagna e i suoi possedimenti italiani. Nel 1534, dopo aver conquistato Tunisi, Barbarossa faceva delle scorrerie devastanti in Sicilia e in Calabria. La reazione di Carlo V non si era fatta attendere. Dopo essersi attestato alla Goletta con la sua flotta, affidata al comando del genovese Andrea Doria, si scontrava con il Barbarossa, sconfiggendolo e conquistando Tunisi (1535). Era quanto bastava per indurre Solimano a schierarsi apertamente dalla parte del re di Francia, l'indomito nemico di Carlo V, e a prendere la rivincita (98).
Scelte difficili, quelle che si proponevano ora alla Serenissima Signoria. Allearsi con Francesco I e con il sultano, accettando le loro sollecitazioni, garantirsi così da attacchi turchi sul mare che le venivano minacciati, e non precludersi i rapporti commerciali col Levante, i cui porti ora erano controllati dal Turco, ottenere anzi qualche vantaggio commerciale: sarebbe stato un contraddire alla politica sancita a Bologna, rompere con l'imperatore, rompere col papa, alleati naturali. Una politica rischiosissima, oltre a tutto, qualora le cose fossero andate male. La Serenissima Signoria aveva deciso di confermare, nel febbraio del 1536, la lega con l'imperatore. L'aveva fatto - Federico Chabod l'ha ben rilevato - prendendo le precauzioni che le erano possibili: "Venezia però non volle assumersi nuovi obblighi e accedere a una nuova ῾hunion de li potentati de Italia' per conservar la quiete d'Italia (in realtà, lega offensiva contro la Francia)" (99).
La posizione migliore, e più congeniale alla Repubblica, era comunque il barcamenarsi in modo da mantenersi neutrale. Una posizione facilitata dal fatto che essa corrispondeva a quella della Sede Apostolica. L'attuale pontefice, Paolo III, optava per non rompere con i due massimi principi della cristianità. Il papa non amava Carlo V, ne criticava le ambizioni, ne temeva la strapotenza, lo si accusava di essere più incline verso Francesco I che verso l'imperatore; ma non poteva certo accettare la sua intesa col Turco. Senza dimenticare un elemento fondamentale, che la cristianità era profondamente scossa dal diffondersi dell'eresia luterana, e che si auspicava dal papa che convocasse un concilio capace di farle ritrovare la sua compattezza. La soluzione migliore era dunque il tentare la composizione dei contrasti tra i due principi. Era lo stesso pontefice ad assumere il compito di mediare direttamente tra di loro. Ci riuscirà nell'aprile del 1538, portando Carlo V e Francesco I a stipulare a Nizza, una tregua: il re cristianissimo avrebbe mantenuto il possesso del Piemonte, l'imperatore di Milano. Sembrava il corollario indispensabile della lega antiturca che lo stesso Paolo III era riuscito a far concludere poco prima, nel febbraio del 1538 (100).
Una lega che vedeva delle defezioni tra i principi cristiani. Scontata, ovviamente, quella del re di Francia: ma non aderivano neppure i re d'Inghilterra e del Portogallo. A sottoscriverla erano, l'8 febbraio 1538, il papa, l'imperatore Carlo V, il re dei Romani Ferdinando, nonché la Repubblica di Venezia. Oltre a fissare come sarebbe stata composta la flotta della lega e chi ne avrebbe avuto il comando - lo si affidava ad Andrea Doria, che aveva già sotto di sé la flotta imperiale -, si era stabilito quali sarebbero stati per ciascuno dei collegati i frutti della vittoria. Alla Repubblica di Venezia sarebbero state restituite le terre che il Turco le aveva tolto; al papa si riserbavano vantaggi territoriali in Italia; quanto all'imperatore, avrebbe fatto la parte del leone, ottenendo, sulle spoglie dell'Impero ottomano, tutti i territori dell'antico Impero romano d'Oriente, così da ricostituire quell'unità imperiale che era rimasta rotta da più di un millennio. Ben altra era stata la prospettiva dischiusasi alla Serenissima Signoria quando - una settantina d'anni prima, nel 1463 - aveva concluso con Pio II l'accordo per quella crociata antiturca che poi non verrà neppure iniziata: vincendo, sarebbero toccate a lei la Morea, la Beozia, l'Attica, nonché le città costiere dell'Epiro (101).
La Repubblica era già alle prese col Turco da un anno. Cercando di sfruttare le sue esitazioni ad unirsi con lui e Francesco I, Solimano era passato senz'altro all'attacco, investendo con la sua flotta, all'inizio di gennaio del 1537, Corfù, che, sita all'imbocco dell'Adriatico, ne costituiva, insieme alle altre due isole vicine, Zante e Cefalonia, la porta. "Chiave dil stado di la Signoria zercha le cosse marittime", era stata definita Corfù già nel 1504. Prevedendo la possibilità di un attacco turco, la Serenissima Signoria aveva deciso nel 1532 di rinforzare la fortezza che proteggeva l'isola. Non aveva fatto in tempo ad iniziare. Tra agosto e settembre del 1537 al comando del Barbarossa truppe ottomane e francesi ponevano l'assedio a Corfù. Un assedio durissimo: contadini deportati, moltissime case del borgo distrutte... Malgrado questo Corfù aveva resistito validamente - era intervenuto in suo sostegno anche Andrea Doria - e i Turchi avevano desistito, andando però a porre l'assedio ad altri due punti chiave del Dominio da mar veneto, Napoli di Romania e Malvasia, site sulla sponda del Peloponneso che guardava verso l'Egeo. La Serenissima Signoria aveva allora di fronte a sé l'alternativa inesorabile, o trattare subito col Turco, in modo da concordare una tregua e interrompere le ostilità, o aderire alla lega che Paolo III stava imbastendo - cosa che significava la continuazione della guerra (102).
La disputa in senato era stata assai vivace. Francesco Longo ce ne ha lasciato il ricordo, fissato sulla base di memorie del padre Antonio che era stato allora tra i protagonisti: un ricordo che pare forse viziato dal fatto che Francesco, paladino della pace col Turco (egli scriveva dopo il 1551), era portato a sostenere, utilizzando anche il senno di poi, le ragioni degli avversari della lega. I quali non si limitavano a far rilevare l'attuale debolezza delle forze veneziane nei confronti di quelle del Turco. Essi contestavano la politica che aveva portato alla lega col papa e con l'imperatore, così come il dovere di farvi parte; né credevano ai principi con i quali ci si sarebbe dovuti associare; e ricordavano piuttosto come fossero stati proprio questi principi i veri nemici della Repubblica nelle turbinose vicende passate. Se la Repubblica era sopravvissuta all'attacco subito dalla lega di Cambrai, se aveva potuto reggere alle difficoltà economiche e all'insidie politiche che l'avevano tormentata fino alla pace di Bologna, il merito era dell'atteggiamento che l'Impero ottomano aveva mantenuto nei suoi confronti:
Questa cità [Venezia> si ha conservato grande di Stato et di ricchezze, perché con la loro amicitia [dei Turchi> vi avete presservato dalli danni che li prìncipi christiani intendevano farvi; quando il Stato di Terraferma, che li nemici erano a Malghera et alla Zaffusina, havesti poco temore di loro, perché la via del mare era aperta, le vettovaglie abbondavano, i trafichi continuavano, e le galee grosse andavano a i lor viaggi, la Republica continuò nel solito governo, non mutò mai facia. Quando Turchi andarono alla volta d'Ungheria e del Friuli vi guarentaste dalle minace di Carlo V e di Ferdinando suo fratello re de' Romani, i quali se non havessero temuto de' Turchi per la buona pace che havevate con loro, senza dubio haveriano tentato di spoliarvi un'altra volta (103).
Era prevalsa, pur con molte riserve, la parte della lega, che annoverava nelle sue file Matteo Dandolo, depositario degli ideali politici di suo cognato Gasparo Contarini (104). Si evocava l'esigenza di tener fede agli impegni di difesa della cristianità, si confidava pienamente nel ruolo svolto dal papa e dall'imperatore, e ci si diceva sicuri che la Terraferma veneta vedeva con favore la partecipazione della Serenissima Signoria a un'impresa in cui avrebbe preso parte anche l'imperatore. Bisognava tener conto del pericolo incombente di incursioni del Turco attraverso la via del Friuli: Carlo V e Paolo III si dicevano disposti a concorrere alla difesa di quelle terre (105).
In realtà, ciascuno dei collegati aveva qualche motivo di diffidenza nei confronti degli altri. Chi avrebbe avuto i vantaggi maggiori, o chi avrebbe ricercato vantaggi particolari a scapito di quelli collettivi; e chi si sarebbe accollato l'onere più grosso, chi sarebbe stato disposto, in caso di difficoltà, a dissociarsi dagli alleati e ad accordarsi col Turco... Già all'indomani della stipulazione del trattato emergevano le diffidenze. Nicolò Tiepolo, che rientrava a Venezia nella primavera del 1538 dopo esser stato ambasciatore presso Carlo V, assicurava il senato che l'impegno dell'imperatore era sincero, e che piuttosto l'imperatore temeva che non si potesse dire altrettanto di quello dei Veneziani. A Venezia si pensava che l'imperatore badasse in realtà a prendere tempo; e grossi dubbi si nutrivano sulla effettiva entità del contributo che il papa avrebbe recato al momento dei fatti (106).
Lo scontro frontale tra le due armate cristiana e ottomana avverrà alla fine di settembre del 1538 nel mare Ionio. La flotta ottomana, comandata dal Barbarossa, si era presentata nei pressi di Prevesa, un porto dell'Epiro a sud di Corfù. Il capitano della flotta veneziana Vincenzo Cappello aveva sollecitato il comandante supremo Andrea Doria ad affiancarglisi, onde costringere le navi turche sotto costa. La manovra non era riuscita. Al momento cruciale, Andrea Doria aveva ordinato di ritirarsi. L'imperatore, il quale sperava di giungere a un'intesa col Barbarossa, gli aveva dato un'istruzione segreta, secondo la quale si sarebbe dovuto affrontare il combattimento solo avendo la certezza assoluta che si sarebbe risolto vittoriosamente: e il Doria quella certezza non l'aveva avuta. A conclusione, il Barbarossa era stato in grado di tenere il mare e di sottrarsi alla presa degli alleati. Più tardi, approfittando ancora delle divergenze tra gli alleati, egli riusciva ad assediare e a riprendere la fortezza di Castelnuovo, nel golfo di Cattaro, che era caduta nelle mani degli Imperiali (107).
Non si era trattato di una sconfitta vera e propria, poteva dire qualcuno da parte veneziana, cercando, e trovando, qualche improbabile risultato positivo nell'andamento della battaglia. Le conseguenze, comunque, erano pesanti, sia sul piano politico che su quello militare. Una prima constatazione che i Veneziani dovevano fare era che da soli non potevano avere il sopravvento sul Turco. L'andamento della battaglia della Prevesa dimostrava che non era meno difficile il coordinare il loro impegno con quello degli Imperiali. Alla base, una sostanziale divaricazione di interessi e di valutazioni sulla strategia da seguire nei rapporti con la Porta ottomana. La battaglia della Prevesa, ha scritto Fernand Braudel, si era conclusa con un riconoscimento della preminenza dei Turchi sul Mediterraneo (108).
Era inevitabile che a Venezia il partito della pace si rafforzasse ulteriormente, aggregando anche senatori che prima si erano battuti per la guerra. La delusione per i risultati che avevano coronato tutti gli sforzi militari e finanziari compiuti era talmente dura che si era disposti a discutere la pace, e separatamente, ad insaputa degli alleati. Aveva intavolato le trattative il senato, per il tramite di un ambasciatore, Alvise Badoer, accreditato alla corte del sultano. Le richieste del Turco erano enormi - cessione di terre, danari a iosa... -, tanto che il senato riluttava ad accettarle. Il consiglio dei dieci e la sua zonta avevano compiuto allora una sorta di colpo di mano costituzionale: ad insaputa del senato, strappandogli la prerogativa di condurre la politica estera, il consiglio dei dieci e la zonta il 19 gennaio 1540 avevano mandato all'ambasciatore Badoer una commissione segreta con cui lo si autorizzava a concludere la pace anche se il prezzo comportava, oltre al pagamento di ingenti somme di danaro, la cessione di gloriosi possessi veneziani della Morea orientale come Napoli di Romania e Malvasia (o Monemvasia), chiedendo solo che rappresentanti e cittadini delle due città fossero "preservati indenni", liberi di restare o di partire dalla loro terra. Piuttosto si voleva riavere dal Turco due luoghi, Laurana e Nadin, siti sulla costa dalmata, che erano stati nel frattempo occupati: si poteva cioè perdere qualche lembo storico del Dominio da mar, ma l'Adriatico doveva restare integro sotto il controllo veneziano. La pace sarà firmata a Costantinopoli il 2 ottobre del 1540 (109).
Il consiglio dei dieci aveva voluto che, prima di avviare il negoziato conclusivo, il Badoer si garantisse il sostegno dei rappresentanti francesi a Costantinopoli: avrebbe dovuto invitarli ad assicurare il loro re che nella contesa in corso in Italia tra lui e Carlo V la Repubblica si sarebbe mantenuta neutrale (110). Fiducia mal riposta, quella nei rappresentanti di Francia presso il Turco. Si verrà presto a sapere che, a dispetto della segretezza di cui il consiglio dei dieci si considerava esclusivo depositario, per il tramite di un gruppetto di persone, tra cui i due fratelli Cavazza, segretario l'uno dello stesso consiglio dei dieci, l'altro del senato, nonché un nobile di casa Lion, essi erano regolarmente informati da Venezia delle commissioni segrete dirette al Badoer, così che potevano passarle al Turco e consentirgli di irrigidirsi nelle sue pretese (111).
Nel giugno di quell'anno, si era ormai risaputo che la Serenissima Signoria aveva ottenuto la pace separata dal Turco e che per reagire al tradimento dell'alleato, Carlo V avrebbe dato ordine ad Andrea Doria di muovere con la sua flotta verso la Morea, occupando per di più sia Napoli di Romania che Malvasia in virtù del sostegno che avrebbero ricevuto da quei popoli riluttanti a finire in mano turca. Sarebbe stata un'umiliazione troppo forte il vedere che l'imperatore avrebbe preso sotto di sé le due città, a riaffermare simbolicamente il diritto ad avere le terre dell'Impero romano d'Oriente riconosciutogli dal trattato di lega e a dimostrare che era lui, non più la Serenissima Signoria, a prender le difese della cristianità contro il Turco. Non se n'era fatto poi nulla. Ma il consiglio aveva pensato di prevenire il rischio di dover subire quello smacco e la sicura reazione turca ordinando al provveditore generale da mar di spingere la flotta verso le acque della Morea per impedire l'azione del Doria (112). L'imperatore aveva voluto esprimere ugualmente tutto il suo sdegno alla Serenissima Signoria, e ne aveva incaricato il suo ambasciatore a Venezia, don Diego Hurtado de Mendoza. Era stata una vera rampogna, quella del Mendoza: ché non si limitava a criticare la decisione di concludere a quel modo la pace, ma mirava a ferire nel profondo l'orgoglio veneziano. La Serenissima Signoria, inveiva l'ambasciatore, non solo aveva rimesso al sultano città e isole su cui aveva antico dominio, consegnandogli inoltre una somma iperbolica di danaro, ma aveva perduto soprattutto la sua reputazione e la sua libertà: tutto questo, per non aver voluto attendere dall'imperatore l'aiuto che le era stato promesso, ossia per non aver avuto la fiducia che si deve ad un alleato. Ci si metta in mente, insisteva sferzante don Diego, "che li gran Prencipi et le Republiche non sono solite a cieder il stato, ma a guadagnarlo". Era stato così efficace, raccontava Francesco Longo, che c'era stato chi nel governo veneziano sarebbe stato disposto a recedere dalla pace (113).
Colpo duro, per i Veneziani. Paolo Paruta, "pubblico storiografo" della Repubblica, non poteva nascondere nella sua Historia vinetiana che la città aveva biasimato "molto apertamente" il consiglio dei dieci "di havere comperata la pace così cara con la cessione di così bella parte di Stato et con tanti denari, con li quali si poteva per un pezzo ancora sostenere la guerra". A sua volta il vescovo di Verona Agostino Valier, nel suo libro di ammonimenti per i giovani patrizi, considerava la pace col Turco del 1540 come l'episodio cruciale nella storia di Venezia nel '500, una sorta di spartiacque tra due modi di governare. Riferiva le ragioni di chi l'aveva voluta e di chi l'aveva subita, senza tacere dello sconcerto provocato dall'iniziativa del consiglio dei dieci e della zonta, e dalla violazione della fiducia che i sudditi della Morea orientale avevano riposto nella Serenissima Signoria. Ma concludeva con spregiudicato pragmatismo veneziano: i risultati della pace ottenuta si riveleranno presto tali e tanti - il rifiorire straordinario della vita e dell'economia veneziane - che anche chi allora si era sentito leso profondamente nella sua dignità, nell'idea orgogliosa di Venezia e della sua grandezza, aveva finito per convincersi che tutto era stato fatto per il meglio (114).
Nel 1541 anche Carlo V aveva dovuto piegarsi alla potenza marittima del Turco: una spedizione da lui effettuata contro Algeri, covo del Barbarossa, era terminata con un insuccesso (115). Nel settembre dello stesso anno Ferdinando, re dei Romani, aveva provato che in terra la potenza ottomana non era da meno: egli era stato sconfitto sotto Buda dalle truppe di Solimano il Magnifico (116). Una grandissima delusione era il fallimento, pure nel 1541, dei colloqui di Ratisbona, che nelle speranze di Carlo V avrebbero dovuto consentire la riconciliazione tra cattolici e protestanti - una riconciliazione affidata in molta parte alle capacità mediatorie del cardinale Gasparo Contarini. Era la frattura nella cristianità, che avrebbe reso ancor più dura l'opposizione dei principi protestanti nei confronti dell'imperatore (117). L'ambasciatore di Francia a Venezia, Guillaume Pellicier, ne tirava le somme in una lettera inviata a Francesco I: Carlo V "avoit abaissé beaulcoup les aesles, et n'estoit plus sur ses haultesses comme il soulloit, et qu'il abbrassoit et faisoit caresse à ung chascun [...>" (118).
all'arciduca d'Austria e alla Francia (1541-1544)
Nella pace conclusa il 18 settembre 1544 a Crépy, che doveva porre fine alla ormai lunga guerra con Carlo V, il re di Francia, ribaltando la sua politica, dichiarava che avrebbe partecipato alla guerra contro il Turco. A sua volta Carlo V faceva alla Francia delle concessioni importanti: se Carlo d'Orléans, figlio di Francesco I, avesse sposato sua figlia, l'infanta di Spagna, egli le avrebbe dato in dote i Paesi Bassi; se invece il duca d'Orléans avesse preferito Anna, figlia di Ferdinando re dei Romani, avrebbe avuto in dote addirittura il ducato di Milano. In un altro atto segreto e unilaterale, aggiunto subito dopo al trattato di Crépy, Francesco I si impegnava ad adoperarsi in favore della convocazione del concilio ecumenico e del ritorno dei protestanti in seno alla Chiesa (119).
Gli ambasciatori veneziani consigliavano al proprio governo un certo scetticismo. Quanto all'imperatore, egli avrebbe condotto le cose in modo da non far finire Milano nelle mani dei Francesi (120). Uno di loro, Bernardo Navagero, avvertiva nel 1546 che l'atteggiamento di Carlo V verso il Turco era mutato. Finiti i sogni di abbassarne la grandezza: ora non pensava che a trattenerlo con paci e tregue. Mutato, di conseguenza, secondo il Navagero, anche l'atteggiamento dell'imperatore verso la Repubblica di Venezia. Beninteso, Carlo V sapeva che l'amicizia della Serenissima Signoria continuava ad essergli utile, lo aiutava a conservare gli Stati che possedeva in Italia, a garantirsi nei riguardi del Turco. Il Navagero ammoniva di non farsi illusioni: se Carlo V si fosse convinto che l'inimicizia con la Repubblica gli sarebbe stata di maggior profitto, non avrebbe esitato a rivelarlesi ostile: "tanto più che sono naturalmente tutti li principi nemici delle repubbliche", osservava l'ambasciatore (121).
Nell'appendice segreta al trattato di Crépy Francesco I aveva assunto con Carlo un impegno che interessava direttamente la Repubblica di Venezia: la Francia avrebbe aiutato Ferdinando d'Asburgo a farsi rendere dai Veneziani la fortezza di Marano (122).
Marano era una piccola isola fortificata, sita nel cuore della laguna che ne portava il nome e che era limitata dalle foci di due fiumi, a sud dalla foce del Tagliamento, a nord da quella del Corno; verso occidente c'era poi la pianura del basso Friuli; verso oriente, appena separato da qualche lembo di terra, il mare Adriatico. La Serenissima Signoria, che aveva conquistato Marano nel 1420, l'aveva perduta nel 1513 sotto l'incalzare delle truppe dell'imperatore Massimiliano d'Asburgo, nonno di Carlo V e di Ferdinando, per il tradimento di un nobile friulano, Bernardino Frangipane, passato al servizio di Massimiliano: il Frangipane era responsabile di aver fatto cadere nelle mani dello stesso imperatore Gorizia, recente, ambitissima conquista veneziana, che, con la vicina fortezza di Gradisca, fatta costruire dalla Repubblica alla fine del '400, garantiva il confine della Repubblica sull'Isonzo (123). Né era stato poi possibile ricuperarle. Il trattato di Worms, del 1521, e una quindicina d'anni dopo il "convento" di Trento, nel quale era stato rimesso a degli arbitri di risolvere le controversie confinarie vertenti tra Ferdinando re dei Romani e la Repubblica, avevano confermato che Gorizia e Marano erano soggette agli Asburgo d'Austria; e a Trento la Repubblica aveva accordato ai Vendramin, nobili veneti che avevano stabilito sul basso Tagliamento una loro signoria con pretese di autonomia dalla Serenissima Signoria, di definire le questioni di buon vicinato tra il loro territorio e quello contiguo di Marano (124).
Così a ridosso del mare, Marano era una base da cui si poteva intercettare la navigazione del golfo di Trieste, sottoponendola ai controlli richiesti dal dominio che Venezia vantava su quel mare, e intervenire contro chi intralciasse i movimenti e la sicurezza delle navi veneziane. Marano, in altre parole, era una base da cui si contribuiva a tutelare il dominio sul mare Adriatico. Dominio che costituiva, come si è già ricordato, un elemento indispensabile per la libertà e l'indipendenza della Repubblica, e che era sentito tanto più prezioso in quanto dopo Agnadello non soltanto lo si era leso, ma da allora non si era cessato di metterlo in discussione. In particolare da parte degli Austriaci: aver Marano era per loro un modo se non di vanificare l'insopportabile pretesa veneziana sul mare, almeno di contenerla. Quel forte, dunque, sito non lungi da Venezia e dalle vie che vi portavano, poteva costituire in mano asburgica una minaccia per la sicurezza della città lagunare. La Repubblica non può "esser offesa in terra in niun luogo più che per Marano", aveva fatto notare nel 1541 Marino Giustinian, tornato di fresco a Venezia dall'ambasciata presso Ferdinando d'Asburgo, incitando la Serenissima Signoria a farsi avanti per riprendersela (125).
Riavere Marano non è cosa impossibile, aggiungeva il Giustinian (126). Il re dei Romani aveva gran bisogno di soldi: per una certa cifra, egli sarebbe stato disposto anche a cederla; bisognava però che il contratto di cessione fosse fatto molto accuratamente, così da evitare successive rivendicazioni (la questione era complicata dal fatto che su Marano aveva delle pretese anche il patriarca di Aquileia). Nel 1542 si era verificato un fatto imprevisto, almeno apparentemente. Un friulano, suddito della Repubblica, dal nome di Bernardo Sachia, con un pugno d'uomini aveva fatto un colpo di mano sulla fortezza, sopraffacendo la guarnigione arciducale e riuscendo ad impadronirsene. La reazione di Ferdinando d'Asburgo era stata furibonda: la Serenissima Signoria era stata accusata, e non senza ragione, di aver copertamente favorito il Sachia; essa si era schermita, negando ogni connivenza. Il Sachia aveva tenuto per poco la fortezza. Dubitando delle sue forze, aveva preferito consegnarla a Piero Strozzi, un fiorentino che militava al servizio del re di Francia. Neppure lo Strozzi se la sentiva di tener Marano per sé: l'avrebbe presa a nome del re di Francia. Di fronte alle proteste e alle minacce degli Arciducali, aveva replicato con un'altra minaccia: piuttosto che veder cadere Marano in mani arciducali, l'avrebbe rimessa al Turco (127). La cosa era plausibile, in quegli anni di stretta colleganza tra il re di Francia e la Porta ottomana.
C'era dunque il pericolo che Marano volesse tenersela il re di Francia, magari d'intesa col Turco... Nel maggio del 1542 il nunzio apostolico a Venezia Giorgio Andreassi scriveva al cardinale Alessandro Farnese che circolavano voci che Francesco I volesse addirittura far un colpo di mano su Fano o ancor più su Ancona - "farebbe a proposito de' Francesi poter tenere da cotesta riviera qualche corrispondenza a Marano", egli osservava (128). Vere o false, e diffuse ad arte, che fossero queste voci, la Serenissima Signoria non aveva aspettato ulteriormente: si era così decisa, nel 1543, a comperare Marano dallo Strozzi per 35.000 ducati (129).
Una riconquista fatta senza colpo ferire, che non metteva in contraddizione con se stesso il pacifismo veneziano. Una riconquista fatta per giunta a beneficio della cristianità, per impedire che, direttamente o indirettamente, Marano finisse in mano ai Turchi. Ma a Ferdinando e ai suoi tutto questo non li convinceva, vedevano che su quella fortezza garriva lo stendardo di San Marco, come prima del 1513, e si sentivano gabbati. Si era parlato di guerra, da parte arciducale. Ferdinando aveva poi avvertito che sarebbe stato bensì disposto a far a meno di Marano, ma solo se la Serenissima Signoria l'avesse ripagato con almeno 75.000 ducati. Ferdinando non riceverà i soldi, né riavrà più Marano: né riotterranno Marano gli arciduchi d'Austria che, dopo di lui, si succederanno nelle pretese su quella piccola terra.
dalla lega di Smalcalda al trattato di Cateau-Cambrésis (1546-1559)
La clausola segreta del trattato di Crépy che impegnava Francesco I ad aiutare Ferdinando nella riconquista di Marano era rimasta dunque lettera morta. Neppure Carlo V, comunque, intendeva far guerra alla Repubblica di Venezia, nemmeno per Marano. L'imperatore non ignorava l'entità delle forze della Repubblica, e quale danno avrebbero potuto recargli, sia in terra che in mare; soprattutto, egli era convinto che nessuno avrebbe osato muover guerra contro di lui in Italia se non avesse avuto l'appoggio diretto o indiretto della Repubblica. Venezia poteva assicurare la pace in Italia. Una pace preziosa, perché consentiva all'imperatore di controllare con maggior efficacia l'andamento delle vicende politico-religiose: sia quelle che lo vedevano in contrasto con il papato riguardo al concilio ecumenico, che si era finalmente riunito a Trento nel dicembre del 1545; sia quelle, sempre più incandescenti, che vedevano schierati contro di lui, risoluti ed aggressivi, i principi protestanti tedeschi uniti nella lega di Smalcalda (130).
Malgrado l'ostilità che, come aveva ricordato l'ambasciatore Navagero, Carlo V in fondo nutriva verso la Repubblica, egli confidava che i suoi attuali reggitori avrebbero tenuto fede alla politica sancita a Bologna, la politica della pace in Italia poggiante sull'intesa con la Chiesa, la Spagna e l'Impero. D'altro canto, anche i suoi avversari della lega di Smalcalda guardavano con speranza alla Serenissima Signoria. La loro speranza era invece riposta nelle tradizioni di indipendenza che Venezia aveva saputo tutelare nei confronti della Sede Apostolica. Riformati e protestanti sapevano di beneficiare, nella città lagunare come nel resto del Dominio veneto, di una tolleranza maggiore che altrove; e li rinfrancava la fama diffusa che nella classe di governo della Repubblica non fossero pochi coloro che anelavano alla riforma della Chiesa, aperti, come già Gasparo Contarini, a contatti con i protestanti, ma inclini, a differenza del cardinale, a trarne conclusioni politiche, ossia ad appoggiare sul piano politico i protestanti. Esemplari di queste speranze riposte nel senato sono l'Oratione al doge Francesco Donado, scritta nel 1545 dal vescovo di Capodistria Pier Paolo Vergerio, e la dedica che Francesco Stancaro, "spiritualista eterodosso", per dirla con Aldo Stella, faceva al doge Donà del suo trattato Della riformatione nel 1547 (131).
All'inizio di giugno del 1546, Baldassarre Altieri, segretario dell'ambasciatore d'Inghilterra a Venezia, nonché personaggio eminente del protestantesimo veneziano, chiedeva alla Serenissima Signoria, a nome del re d'Inghilterra e dei principi della lega di Smalcalda, di riceverlo come rappresentante di quella lega, e di ascoltare benevolmente le domande che per suo tramite essa le proponeva. Verso la fine di giugno era la stessa lega a rivolgersi direttamente alla Signoria, per domandarle di non concedere il passo per il suo Dominio alle truppe imperiali e pontificie che dall'Italia si trasferivano in Germania per combattere i principi protestanti. Il senato non aveva accolto né la domanda dell'Altieri, né quella della lega: ma c'era stato chi, tra i senatori, aveva sostenuto apertamente le ragioni della lega, tanto che l'ambasciatore imperiale, don Diego Hurtado de Mendoza, aveva ritenuto necessario intervenire per ammonire la Serenissima Signoria sulle gravi conseguenze che avrebbe avuto il sostegno da lei prestato agli smalcaldici (132).
La lega di Smalcalda non potrà reggere all'urto delle forze dell'imperatore: Carlo V la sconfiggerà duramente nell'aprile del 1547 a Muehlberg, e sarà così in grado di imporre alla Germania la tregua religiosa - il cosiddetto Interim di Augusta del 1548 - e di affrontare la questione della successione alla corona imperiale. L'alternativa, a questo proposito, era se dopo la morte del suo immediato successore, il fratello Ferdinando, la corona imperiale avrebbe dovuto finire sul capo del figlio di lui, Massimiliano, o su quello del proprio figlio Filippo. Il primo, nato e cresciuto a nord delle Alpi, conosceva i principi tedeschi e ne parlava la lingua - aveva sposato la figlia di Carlo V, Maria, e per qualche anno, dal settembre del 1548, gli era stata affidata la reggenza di Spagna; il secondo "estraneo al popolo tedesco e all'Impero", immerso nella realtà politica spagnola - a lui, quando lasciava la reggenza di Spagna, toccava il compito altrettanto, o forse allora ancor più importante, di reggere i Paesi Bassi (133).
In un testamento politico scritto nel 1548 per il figlio Filippo, dopo avergli consigliato di mantenere buoni rapporti con suo zio Ferdinando, "persona tanto degna di profondo rispetto", e con i suoi figli, e insieme di serbarsi in amicizia col re d'Inghilterra, di armare una buona flotta sia per far fronte ai pirati del Mediterraneo, sia per impedire ai Francesi la via delle Indie, Carlo V si soffermava sulla situazione italiana, che vedeva insidiata dalle mai dome pretese francesi. Era da difendere Milano "con buone artiglierie", Napoli "con la superiorità della flotta", non dimenticando inoltre che Genova era "un elemento di particolarissima importanza". Si poteva aver fiducia nel duca di Toscana e in quello di Mantova. Bisognava invece guardarsi dal papa Paolo III, così incline ai re cristianissimi, e badare pure al duca di Ferrara, pur lui favorevole alla Francia. Quanto ai Veneziani, Carlo dava al figlio un avvertimento piuttosto conciso: con loro, "conservate buone intese" (134).
Il fatto che la politica di Carlo V fosse condizionata dal buon volere dei principi italiani, non piaceva a tutti i collaboratori di Carlo V: ad esempio a Ferrante Gonzaga, un valoroso uomo d'armi appartenente alla famiglia dei signori di Mantova, il quale, dopo esser stato viceré di Sicilia, verrà nominato dall'imperatore al governo dello Stato di Milano. In un piano redatto nel 1547, il Gonzaga si era adoperato a convincere Carlo V che avrebbe dovuto prendere saldamente nelle sue mani l'Italia, proiettandovi tutto il peso della potenza spagnola, ed eliminandone ogni ingerenza francese. Per cominciare, il Piemonte avrebbe dovuto finire sotto la sua sovranità; Cosimo de' Medici, che Carlo V guardava con simpatia, era per il Gonzaga un principe "insidioso", da tenere sott'occhio, e non gli pareva tollerabile che il duca potesse esercitare tanto potere su una terra nodale per l'Italia come la Toscana; infine, sosteneva il Gonzaga, erano da "ristringere la Chiesa et Vinitiani", porli sotto controllo, in altre parole, e privarli pertanto del ruolo di depositari dell'equilibrio italiano (135). Ferrante Gonzaga non poteva inoltre sopportare che Paolo III nel 1545 avesse fatto di due importanti città dello Stato della Chiesa, Parma e Piacenza, un feudo di cui aveva investito il proprio figlio Pier Luigi Farnese, affinché si tramandasse poi nella sua famiglia: Parma e Piacenza erano città da cui si riusciva ad intercettare le comunicazioni tra il Piemonte e il centro della penisola, oltre quelle tra Milano e Genova, nonché a vigilare il corso del Po: e il Gonzaga sapeva che il re di Francia, legatissimo, lo si è testé detto, a Paolo III, considerava le due città come appartenenti al ducato di Milano - l'odio del Gonzaga verso il Farnese usurpatore del nuovo ducato era giunto al punto che nel settembre del 1547 aveva fatto uccidere Pier Luigi da feudatari piacentini, annettendo poi Piacenza al ducato di Milano (136).
Rivendicazioni Ferrante Gonzaga ne sollevava, pure in nome dei diritti del ducato di Milano, anche nei confronti della Repubblica di Venezia, ed erano quelle tradizionali su città e terre della Lombardia veneta come Brescia, Bergamo, Crema; egli arrivava addirittura a suggerire all'imperatore di tenere in quei luoghi "intelligenze" segrete, che ne consentissero al momento opportuno la sollevazione contro la Serenissima Signoria. Carlo V non ne farà nulla: l'imperatore era troppo consapevole, ha scritto Federico Chabod, che la Repubblica non era un qualsiasi principe italiano, la sua alleanza era ambitissima, e ad aizzarla i rischi potevano esser gravi (137).
La Serenissima Signoria non si era mossa quando nel 1551 Carlo V aveva deciso di completare l'azione fatta da Ferrante Gonzaga su Piacenza attaccando Parma e Mirandola, onde eliminare del tutto il feudo padano dei Farnese: il re di Francia Enrico II aveva deciso di intervenire a sua difesa, a dimostrazione di come fossero fondati i convincimenti di chi, come l'imperatore, riteneva che il feudo Farnese fosse una base da cui minacciare lo Stato di Milano (138). Il papa Giulio III si era informato presso il nunzio apostolico a Venezia per sapere quale sarebbe stato l'atteggiamento dei Veneziani: non avrebbero fatto nulla, gli aveva spiegato nel giugno del 1551 il nunzio, e non già perché temessero una vittoria dei Francesi, piuttosto per la ragione contraria, perché ritenevano che alla fine avrebbe vinto Carlo, il quale avrebbe così ulteriormente accresciuto il suo prepotere nella penisola. La Serenissima Signoria aveva infatti declinato gli inviti ad allearsi che Enrico II le aveva rivolto nell'agosto del 1551 per il tramite di un suo autorevolissimo parente, il cardinale de Tournon - da vent'anni, gli si era risposto, Venezia era in pace con Carlo V, senza subirne danni, e preferiva pertanto restare neutrale. Non avevano ottenuto maggiore successo le sollecitazioni del Turco, sempre sostenitore della causa francese in Italia (139).
Né la Serenissima Signoria aveva voluto prendere posizione nella contemporanea questione senese. La città si era rivoltata contro la guarnigione spagnola che Carlo V aveva collocata a sua guardia, l'imperatore aveva reagito ponendola in stato di assedio. Con l'imperatore stava Cosimo de' Medici; in favore dei senesi si erano schierati il re di Francia e fuorusciti fiorentini guidati da Piero Strozzi, il protagonista, si ricorderà, della vicenda di Marano. Ai Veneziani, aveva scritto da Venezia il nunzio apostolico il 6 agosto 1552, non dispiacerebbe che Siena rimanesse nella sua libertà, "ma non vorriano già che, andando a devotione d'altri, fusse causa di accendere più il fuoco in Italia di quel che è al presente" (140).
Nella visione di Ferrante Gonzaga, dunque, così come in quella dell'influentissimo Diego Hurtado de Mendoza che, dopo aver retto l'ambasciata di Spagna a Venezia, era passato a quella romana, Carlo V avrebbe dovuto non dar troppo peso all'Impero, o quanto meno anteporgli cose che, a lor vedere, erano più importanti nella loro prospettiva politica, ossia "il riparo et la salute di Italia", di un'Italia pienamente sottomessa alla Spagna (141).
Era invece lo stesso imperatore a ridimensionare l'importanza dell'Italia nel quadro della sua politica. La situazione si era evoluta in modo da costringere Carlo V a concentrare la sua attenzione altrove, verso il Nord dell'Europa, la Germania, i Paesi Bassi, l'Inghilterra. "Nulla l'imperatore aveva tanto temuto, da molti anni in qua, [...> come un'intesa dei principi tedeschi con la Francia", ha scritto Karl Brandi (142). Intesa che veniva sancita da un trattato nel gennaio del 1552. Alleandosi con Enrico II, i principi protestanti tedeschi, guidati da Maurizio di Sassonia e Guglielmo d'Assia, ansiosi di rifarsi della sconfitta subita a Muehlberg, miravano a realizzare quanto non si era riusciti a fare con la guerra di Smalcalda, tagliare le comunicazioni tra la Germania e i Paesi Bassi: a tal fine, Enrico II doveva occupare Metz, nella Lorena, una libera città imperiale che Carlo V riteneva appunto di grande importanza strategica. L'impresa di Enrico II aveva successo, le sue truppe si insediavano a Metz, e fallivano i tentativi di riconquistarla fatti sino all'inizio di gennaio del 1553 dai soldati di Carlo V (143). Consigliato da Ferdinando, Carlo V aveva deciso di stipulare un trattato di pace con i principi protestanti tedeschi. La pace di Augusta, del 25 settembre 1555, sanciva il "definitivo riconoscimento della parità giuridica della Confessione augustana [ossia del luteranesimo> con la Confessione cattolica", e segnava amarissimamente la fine degli sforzi dell'imperatore per salvaguardare l'unità cristiana sotto l'egida dell'Impero e la guida della Chiesa di Roma (144).
Il sostegno fornito da Enrico II ai principi protestanti tedeschi e l'occupazione di Metz avevano proposto con particolare evidenza l'importanza di una terra che a Carlo V era particolarmente cara, i Paesi Bassi, e le difficoltà che sarebbero potute derivare dal suo crescente isolamento dal resto dei domini spagnoli. Una terra che aveva conosciuto negli ultimi vent'anni una straordinaria espansione economica. La città principale, Anversa, era riuscita a succedere a Venezia, per dirla con Fernand Braudel, nel ruolo di capitale della "économie-monde": dalla Spagna vi affluiva l'argento portato d'oltre oceano, dal Portogallo arrivavano le spezie d'Oriente da distribuire nel Nord-Europa, vi operavano finanzieri prestigiosi come i Fugger e i Welser; ma vi allignavano d'altro canto pericolosi focolai di eresia (145). Una terra da tener in mano saldamente, dunque. La si sarebbe controllata bene dall'Inghilterra, isola naturalmente interessata ad aver stretti legami con i Paesi Bassi, e a farvi sentire il suo potere. Un'occasione propizia si era offerta a Carlo V nel luglio del 1553, alla morte del giovane re d'Inghilterra, Edoardo VI: Carlo V era riuscito a concludere rapidamente il matrimonio tra il proprio figlio primogenito Filippo e Maria Tudor, la quale, rimasta di religione cattolica, era succeduta sul trono come sorella del re scomparso - il matrimonio sarà celebrato a Winchester giusto un anno dopo. L'Inghilterra, il più forte dei principi protestanti, ostile agli Asburgo, era stata vicina alla Francia nella sua lotta contro la Spagna: ora essa legava le sue sorti a quelle dei suoi passati avversari, contribuiva al disegno di Carlo V di accerchiare la Francia, da ovest e da nord, da est e da sud (146). Si stava verificando quanto uomini come il Gonzaga e il Mendoza paventavano, lo spostamento dell'asse della politica di Carlo V dall'Italia al Nord-Ovest di Europa.
Il divampare delle vicende d'Oltralpe aveva provocato d'altro canto l'accendersi della situazione in Italia e nel Mediterraneo. I Turchi si erano mossi in aiuto della Francia. La caduta di Tripoli nelle mani dei Turchi, avvenuta nel 1551, aveva già accentuato il loro pericolo sull'Italia meridionale - Napoli si era vista minacciata da un corsaro al servizio degli Ottomani, Dragut (147). Né mancavano problemi ad oriente, dove il re dei Romani Ferdinando si trovava nuovamente a far fronte ai Turchi in Ungheria e in Transilvania (148). Grazie ai Turchi, ha ricordato Fernand Braudel, nel 1553 i Francesi avevano potuto metter piede in Corsica, cosa che aveva prodotto in Italia un notevole sconcerto (149). Carlo V avrebbe desiderato che l'Italia rimanesse tranquilla, a garantirgli le spalle, ed era riuscito, a tal fine, a far concludere nel 1552 la guerra per Parma e Piacenza, con una pace che sanciva la restituzione del ducato nelle mani di Ottavio Farnese. La pace giungerà qualche anno dopo anche per Siena. Nel 1555 la città era costretta ad arrendersi; veniva data in feudo a Filippo, il figlio di Carlo V (150). La minaccia maggiore per Carlo V era costituita dal fatto che il 23 luglio 1555 ascendeva al papato Paolo IV, un napoletano di casa Carafa, che per spiriti filofrancesi e animosità antispagnola e antimperiale superava il suo predecessore Paolo III. Paolo IV si metteva subito all'opera, richiamando i principi italiani a unirsi a lui in difesa della libertà d'Italia. Il 15 dicembre 1555 stipulava con la Francia, per il tramite del cardinale di Lorena, un trattato di alleanza segreto, in cui si prevedeva che in caso di vittoria sulla Spagna il regno di Napoli sarebbe toccato a un principe di Francia: la Repubblica di Venezia sarebbe stata ricompensata per la sua partecipazione con l'attribuzione della Sicilia. Davanti all'ostilità del nuovo pontefice, Carlo V aveva a sua volta reagito ordinando al duca d'Alba di scendere con le sue truppe in Italia, per puntare su Roma (151).
Nel 1527 la Repubblica aveva suscitato lo sdegno di Clemente VII perché, approfittando dell'attacco portato su Roma dalle truppe imperiali, aveva ripreso dapprima due ambitissime città della Romagna, e poi quelle della Puglia. La situazione adesso era rovesciata. Era il papa che di fronte alla prospettiva di un nuovo sacco prometteva alla Serenissima Signoria, purché l'aiutasse, addirittura la Sicilia... La Signoria si era schermita, convinta che a star dietro alle velleità del papa si sarebbe alla fine trovata con un pugno di mosche (152). Paolo IV si era sdegnato: "Sappiamo che la Signoria vuol pace e voi ne l'avete detto e noi lo consigliamo e vogliamo medesimamente, ma sono alcune ocasioni che bisogna svegliarsi", aveva detto all'ambasciatore Bernardo Navagero il 10 luglio 1556 (153). Ma non erano più tempi in cui la Repubblica cercasse di strappare vantaggi territoriali, mettendosi al momento opportuno dalla parte del principe più forte. Ai vantaggi territoriali i suoi attuali governanti non credevano: anteponevano per la Repubblica la pace, quale poteva assicurarle l'equidistanza dai grandi principi in conflitto.
Il disappunto che Paolo IV faceva trasparire nel suo colloquio con l'ambasciatore veneziano era probabilmente dovuto al fatto che poco più di un mese prima, il 5 giugno 1556, Enrico II e Carlo V avevano stipulato tra loro a Vaucelles una tregua con cui venivano interrotti i combattimenti in corso tra loro nei Paesi Bassi (154). Parlando con lo stesso ambasciatore veneziano, il papa aveva vanamente tentato di convincere lui e il suo governo che era suo il merito della tregua (155). Una tregua, comunque, di breve durata. A romperla sarà la Francia, inviando in Italia, nel dicembre del 1556, un esercito al comando del duca di Guisa (156). Il papa aveva attaccato con veemenza nel collegio dei cardinali l'Impero, e il trattato segreto concluso tra lui e il re di Francia verrà formalizzato in alleanza aperta; il duca d'Alba, a sua volta, irromperà con i suoi soldati nello Stato della Chiesa (157). Ma sarà nelle Fiandre che la vicenda bellica avrà il suo momento culminante e la sua risoluzione: lì, a San Quintino, il 10 agosto 1557, il duca di Savoia Emanuele Filiberto, cui Carlo V aveva affidato il comando dell'esercito imperiale, otteneva una splendida vittoria sull'esercito di Enrico II. Il duca di Guisa era stato costretto a rientrare in Francia (158).
Carlo V era lontano dal campo di battaglia. Dal febbraio di quell'anno egli era in Spagna, presso il convento di San Jeronimo de Yuste, dove sperava di trovare finalmente la quiete della sua anima, il riposo del suo corpo (159). Stremato dalle fatiche di tanti anni di regno, dall'implacabile rincorrersi di guerre, e di paci che preludevano a nuove guerre, disilluso nel suo sogno di preservare integra la "monarchia" dell'impero universale, aveva ritenuto che la sua opera dovesse avviarsi ormai alla conclusione (160). Egli, che già aveva investito il figlio Filippo del ducato di Milano, e aveva abdicato nel 1555 in suo favore ai propri poteri sovrani sui Paesi Bassi, nel 1556 gli devolveva pure i troni di Castiglia, di Aragona, di Sicilia e delle Nuove Indie; il 12 settembre c'era stata la decisione più grave, quella di mettere la corona imperiale a disposizione del fratello Ferdinando - decisione che i principi elettori accetteranno un anno e mezzo dopo, nel febbraio del 1558, innalzando solo allora Ferdinando al trono imperiale (161). Carlo V moriva a Yuste il 21 settembre 1558; pochi giorni dopo finiva la sua vita Maria Tudor, sancendo così la fine dell'unione - "dangéreuse pour la France", ha scritto Fernand Braudel - tra l'Inghilterra e l'Impero spagnolo (162).
Enrico II era costretto a firmare, il 23 aprile 1559, la pace di Cateau-Cambrésis, che ratificava l'indiscutibile egemonia spagnola sull'Italia. Milano restava più che mai agli Spagnoli (163). La Francia era uscita logorata dalla guerra, logorata finanziariamente, logorata dalla crisi dinastica apertasi alla morte di Enrico II e dal profilarsi delle lotte religiose, cattolici da una parte, riformati dall'altra, che la sconvolgeranno poi a lungo: essa non era in grado di riproporsi, con la sua bellicosa politica italiana, quale contrappeso contro il soffocante predominio spagnolo: la Corsica era restituita alla Repubblica di Genova; il Piemonte tornava al duca di Savoia, e precisamente ad Emanuele Filiberto, il vincitore di San Quintino, lasciando però ai Francesi qualche fortezza, che di lì a poco si sarebbe ridotta ad una sola, il marchesato di Saluzzo (164). Era la "porta d'Italia" che doveva consentire alla Francia di non sentirsi del tutto emarginata dalla penisola. D'altro canto, il duca Emanuele Filiberto aveva sposato una principessa spagnola, e non aveva ad ogni modo interesse a porsi contro la Spagna, che aveva favorito il ripristino del ducato di Savoia sulla sua terra al di qua delle Alpi. Quanto alla Repubblica di Venezia, anche se rimaneva territorialmente immutata, è indubbio che quella pace contribuiva piuttosto a "ristrignere" la sua libertà d'azione, secondo l'auspicio formulato a suo tempo da Ferrante Gonzaga: perché, anche se Spagna e Impero erano ora in mani diverse, i loro sovrani appartenevano pur sempre alla stessa famiglia, e di questioni aperte con la Serenissima Signoria ne avevano tanto l'una che l'altro, questioni territoriali per i confini, questioni marittime per la ripugnanza ispano-imperiale ad accettare il dominio sull'Adriatico preteso dai Veneziani. E poi, accanto a Spagna ed Impero c'era ora il papa. Paolo IV era stato costretto a firmare col re di Spagna già nel settembre del 1557 una pace che, malgrado la moderatezza delle condizioni, finiva inevitabilmente a "ristrignere" le possibilità d'azione del papato: proprio come voleva dieci anni prima Ferrante Gonzaga. "Inutile de dire l'importance de cette paix hispano-pontificale qui marque un tournant de l'histoire du monde occidental, la réduction de Rome à l'obéissance vis-à-vis des Habsbourgs [...>", ha scritto Fernand Braudel: o meglio, egli ha aggiunto, "l'union de Rome et de l'Espagne", che, pur con le sue difficoltà e i suoi alti e bassi, consentirà "la sauvegarde du catholicisme et de l'Eglise" e insieme il trionfo della controriforma (165). Un'unione destinata ad avere notevolissime conseguenze per la Repubblica di Venezia.
Il sultano - ci si domandava a Venezia, a Roma, a Madrid, a Vienna, nel 1564 -, che stava mettendo a punto le sue forze, attaccherà dalla valle del Danubio o per mare? E si rivolgerà contro Malta, l'isola dei Cavalieri, nel cuore del canale di Sicilia, all'incontro tra Mediterraneo orientale ed occidentale; o cercherà di sbarcare in Puglia, come già alla fine del '400 insediandosi a Otranto, per controllare, padrone qual era della opposta sponda albanese, l'accesso all'Adriatico, elidendo l'importanza delle venete isole Ionie che ne erano a guardia, a cominciare da Corfù; o punterà su Cipro, l'estremo bastione del Dominio da mar, come poteva far prevedere l'aver eretto proprio un castello in un'isola poco lontana (166)? Nel 1565 la flotta turca aveva tentato di prendere Malta: i cavalieri di Malta si erano difesi vigorosamente e, con l'aiuto di forze spagnole, avevano respinto l'attacco (167). Ma quella domanda a Venezia avevano continuato a farsela, anno dopo anno, con crescente apprensione, sempre nell'attesa di qualcosa che si sentiva incombere. Un bagliore di speranza la Repubblica l'aveva avuto nel 1567, quando era stato rinnovato col sultano Selim II il trattato di pace (168). Nel 1568 il Turco aveva però fatto incursioni in Dalmazia, e proprio in un punto delicato quale Clissa, non lungi da Spalato; e nel 1569 Selim aveva contestato in una lettera alla Serenissima Signoria che i Veneziani si trovassero in luoghi della Dalmazia e dell'Albania che non le spettavano (169). La dimostrazione più probante della loro aggressività i Turchi l'avevano data nello stesso 1569, rifacendosi dello scacco subito a Malta con la conquista dell'ambitissima Tunisi, e cacciandone il re che pur era protetto dalla Spagna (170). I segni del pericolo immanente giungevano in quell'anno alla stessa Venezia: un incendio devastava l'Arsenale, incendio chiaramente doloso, e si riteneva che mandanti ne fossero i Turchi, i più interessati alla rovina della forza marittima della Repubblica (171).
Si parlava anche di un complotto ordito contro la Repubblica dal sultano Selim e da Ebrei guidati da don Jossèf Nassì, personaggio influentissimo a Costantinopoli e insieme "nemico feroce" della Serenissima Signoria, al quale era stata assegnata dal sultano l'isola di Chios, appena tolta alla famiglia Crispo. Oggetto del complotto sarebbe stata la conquista di Cipro da parte di Selim (172).
Nel febbraio del 1570 un inviato del sultano era giunto infatti a Venezia per chiedere alla Serenissima Signoria che cedesse alla Porta l'isola di Cipro. Un'isola, spiegava l'inviato, importante per i Turchi non solo perché vi potevano essere accolti i pellegrini in viaggio dalla penisola balcanica o dall'Asia minore verso la Mecca, ma per ragioni di sicurezza, dato che vi trovavano ricetto corsari protetti dagli Spagnoli, e pertanto nemici dei Turchi. Era un modo per far intendere che i maggiori avversari dell'Impero ottomano erano gli Spagnoli, con i quali la partita era aperta non solo nel Mediterraneo, ma nell'Oceano indiano, e che rappresentavano pertanto una potenza capace di sopraffare o di contrastare quella che Selim stava costruendo. La Serenissima Signoria non doveva pertanto esserne strumento (173).
La Repubblica di Venezia non conosceva guerra ormai da trent'anni, la sua economia e la sua finanza ne avevano beneficiato moltissimo. Erano anni, ha scritto Luciano Pezzolo, in cui "la finanza pubblica veneziana presentava un sostanziale equilibrio fra le entrate e le uscite; il livello relativamente basso dei saggi d'interesse sui depositi in Zecca rifletteva una situazione tranquilla riguardo il debito pubblico"; solidità finanziaria che la Repubblica dimostrava prestando, su sollecitazione del papa Pio V, una grossa somma di danaro al re di Francia impegnato a combattere i riformati del suo regno (174). Eppure il pensiero delle spese cui la Repubblica doveva far fronte, soprattutto di quelle che si sarebbero potute aggiungere da un momento all'altro, se fosse stato necessario provvedere alla difesa del Dominio, era assillante. "Imperoché" scriveva nel 1568 alla Serenissima Signoria Angelo Sanudo, un nobile che faceva il banchiere "se la Serenità Vostra per conservatione del stato et di quei popoli che sono sotto 'l suo governo, si risolve di far nuove fortezze, o meglio fortificar le fatte, fa bisogno grandissimo di denari; se dette fortezze devono esser guardate medesimamente bisognano denari; se si deve assicurar la navigatione, denari [...>" (175).
Gli anni dell'attesa erano stati contrassegnati da un susseguirsi di decisioni contraddittorie circa l'organizzare, o il rafforzare o meno, la difesa dei luoghi più esposti a minaccia, Dalmazia, Corfù, Creta e ancor più Cipro, mandar soldati, metter mano alle fortezze (176). Incertezze che si spiegano con i dati forniti da Luciano Pezzolo: i costi maggiori della difesa erano dovuti all'esercito e alle fortezze, cui si aggiungevano per i luoghi d'oltremare quelli della flotta... (177). Impegno troppo pesante, per poter essere sostenuto a lungo. Era indispensabile pertanto pensare a soluzioni politiche, anche se avevano costi non lievi, come appunto il rinnovo del trattato di pace del 1540, e non davano nemmeno garanzie di lunga durata. Fatto sì è che la Repubblica nel 1570 si trovava impreparata a sostenere un attacco Turco in un'isola così esposta come Cipro.
C'era, tra i senatori, chi giungeva a pensare - si diceva che lo stesso doge Pietro Loredan fosse di questi - che non valeva la pena di impegnarsi più di tanto per Cipro, e che in fondo era meglio perdere quell'isola piuttosto che "l'amicizia del Gran Turco": ma era cosa che non si poteva dire apertamente in senato, per non suscitare scandalo tra chi sentiva altamente i valori patriottici (178). Per la maggioranza dei senatori, per la città che avevano alle loro spalle, Cipro non poteva essere ceduta: non lo poteva per quanto rappresentava di gloria e di prestigio, essendo un regno che, al pari di Candia, elevava il doge alla dignità di un re; per le ripercussioni politiche e morali che avrebbe avuto la sua perdita; per i vantaggi materiali che aveva arrecato sul piano commerciale e su quello agricolo - "aveva arricchiti moltissimi", ricordava il Valier; per l'importanza che il suo ottimo sale serbava per le finanze della Repubblica. Sembra, secondo quanto racconta un testimone di quelle vicende quale Agostino Valier, che di fronte a tali atteggiamenti rinunciatari ci fosse l'atteggiamento spavaldo e bellicoso di chi pensava non solo che si dovesse difendere Cipro, ma difenderla addirittura attaccando preventivamente il Turco per mare, inviando cioè tutta la flotta, pronti a sbarcare a Rodi, in Morea, a Negroponte, e magari a conquistarle: che era una reviviscenza degli spiriti "imperialistici" che parevano accantonati (179). Era prevalsa un'opinione più realistica. Difendere sì Cipro - la Serenissima Signoria aveva opposto un rifiuto all'inviato di Selim, nell'isola erano stati inviati rinforzi (180). Non si doveva pensare comunque a difenderla da soli, che era cosa impossibile, data la potenza che l'Impero ottomano aveva sul mare (181).
La Serenissima Signoria si era rivolta per aiuto anche a principi lontani, lo zar di Moscovia e il sofì di Persia, che avrebbero potuto impegnare alle spalle l'Impero ottomano; aveva inoltre cercato di suscitare mediante il patriarca di Costantinopoli una rivolta in Morea, per impegnare anche dall'interno le forze del sultano (182). Ma a Venezia si sapeva che l'appoggio più efficace, pur con i suoi risvolti negativi, che erano soprattutto il condizionamento che ne derivava alla propria libertà d'azione, la Repubblica l'avrebbe potuto avere solo dalla Chiesa e dai grandi principi cristiani.
In realtà il sultano aveva scelto per attaccare un momento nel quale i grandi principi cristiani erano alle prese con enormi problemi. La Francia, alla cui testa era un giovanissimo re, Carlo IX, assistito dalla madre Caterina de' Medici, era in preda a una devastante guerra di religione, cattolici da una parte, "ugonotti", o riformati, dall'altra. Filippo II si trovava ad affrontare nei Paesi Bassi una rivolta contro la monarchia spagnola, rivolta iniziata da grandi signori cattolici, dietro i quali si avvertiva sempre di più la spinta di chi intendeva dare alla lotta antispagnola la forza ideale di una lotta religiosa antiromana. Il papa Pio V, uomo di generosi spiriti crociati, era preoccupato soprattutto per la Francia, e dalla fine del 1567 aveva cercato di mobilitare in suo aiuto i principi italiani, in pratica la Repubblica di Venezia, affinché contribuissero con soldi e soldati "allo sterminio degli ugonotti". La Serenissima Signoria si era impegnata solo per quel prestito in danaro che si è testé ricordato. Quanto al far una lega, e al mandar soldati, niente, era stata la risposta a una sollecitazione del nunzio ancora a metà febbraio del 1569. D'altronde, l'ultimatum che il sultano farà avere alla Serenissima Signoria l'anno dopo ribadiva che il ruolo primario della Repubblica era quello di difendere la cristianità contro il nemico d'Oriente. Il papa Pio V si era così dichiarato senz'altro al suo fianco. Era più esitante Filippo II, convinto che la Spagna dovesse affrontare il problema turco ove le si presentava in modo più grave, ossia nel Mediterraneo occidentale, perché di lì si poteva minacciare lo stesso territorio spagnolo; eppoi c'erano i Paesi Bassi cui badare... Filippo II aveva comunque acconsentito a mandare nel Levante una flotta di cinquanta galee. L'imperatore Massimiliano d'Asburgo era restio a rompere la tregua col Turco che aveva concluso otto anni prima e che avrebbe dovuto durare altri sei anni. Né c'era da sperare che il re di Francia potesse associarsi, sia per i suoi problemi religiosi interni, sia per i buoni rapporti che manteneva sempre col Turco; e tanto meno che lo volesse fare la regina Elisabetta d'Inghilterra, che non aveva alcun interesse ad aiutare il papa e dei principi cattolici (183).
I Turchi non avevan perso tempo. Nell'estate del 1570 erano sbarcati nell'isola di Cipro, occupando in breve una città importantissima quale Nicosia. La flotta veneziana era a Cipro, una flotta numerosa, ben armata, ma che aveva subito danni rilevanti dall'insorgere di peste tra i suoi uomini. Guai, ha osservato Eligio Vitale, cui pur tra grandissime difficoltà si poteva tentare di portar rimedio, ingaggiando altri soldati e altri rematori. Arduo era ovviare ai "guasti" provocati dalle divergenze esistenti tra gli uomini cui era affidata la guida delle forze venete, il capitano generale da mar Girolamo Zane, che era un patrizio, e il governatore delle milizie, Paolo Sforza-Pallavicino, un signore italiano di antico lignaggio, il quale godeva però della particolare fiducia del consiglio dei dieci: lo Zane che era per la difesa dell'isola, lo Sforza-Pallavicino che riteneva più importante e più utile non sguarnire la Dalmazia. Non sarebbe stato facile contrastare ai Turchi l'occupazione dell'intera isola di Cipro (184).
La dimostrazione di forza che stavano dando i Turchi; la sicurezza spregiudicata con la quale si muovevano; la loro sprezzante indifferenza nei confronti dei nemici, avevano indotto i principi cristiani a stringere i tempi per la conclusione di una vera lega, una lega che definisse cioè con precisione tra i collegati i rispettivi contributi, di forze militari e di danaro. La lega veniva sottoscritta solennemente a Roma il 25 maggio del 1571, tra Pio V, Filippo II di Spagna, la Repubblica di Venezia: ne era rimasto fuori l'imperatore Massimiliano II, e con lui il re del Portogallo, il re di Francia, la regina d'Inghilterra. Oltre a stabilire le responsabilità di comando - alla testa ci sarebbe stato don Giovanni d'Austria - e il riparto degli oneri, la lega impegnava il re di Spagna ad accorrere in difesa dei Veneziani assaliti dal Turco e i Veneziani ad andare in appoggio del re di Spagna qualora egli volesse compiere l'impresa di Tunisi e di Tripoli; entrambi avrebbero dovuto proteggere gli Stati pontifici. Bisognava aspettare l'inizio di luglio perché la lega fosse pubblicata a Venezia (185).
Dopo i primi successi la conquista turca dell'isola di Cipro era proseguita inesorabile, favorita dalle carenze dell'organizzazione difensiva veneziana e dalla incapacità di concertare un aiuto da parte dei principi collegati. Ai dissidi tra i comandanti veneziani di cui si è già detto, si erano aggiunti quelli tra i capi delle flotte venute in aiuto dei Veneziani, Andrea Doria per la flotta spagnola, Marc'Antonio Colonna per quella pontificia. Lo Zane e il Colonna propendevano per l'attaccare i Turchi sbarcati a Cipro; lo Sforza-Pallavicino e il Doria erano contrari, perché, a lor vedere, i Turchi, i quali potevano contare su aiuti inviati rapidamente dalla madrepatria, erano superiori. Si era deciso di non fare nulla. I Turchi potevano così proseguire agevolmente nell'occupazione dell'isola: l'ultimo bastione era Famagosta, e anch'esso, malgrado il valore con cui cercherà di difenderla il patrizio Marc'Antonio Bragadin, cadeva il primo d'agosto del 1571. La perdita della Repubblica non si riduceva a Cipro. Anche Dulcigno e Antivari, in Albania, finivano sotto il dominio ottomano (186).
Nonostante le incertezze e le diffidenze, la flotta della lega era intanto riuscita a organizzarsi. La Repubblica si era imposta un grosso sforzo per allestire adeguatamente la sua flotta. C'erano 110 galere da parte veneziana, agli ordini di Sebastiano Venier; 98 erano quelle fornite dal re di Spagna, dal papa, nonché da altri principi italiani, e alla loro guida era don Giovanni d'Austria, figlio naturale di Carlo V (187). La flotta turca era di una forza pressoché equivalente. Lo scontro, di straordinaria veemenza, avveniva nelle acque di Lepanto il 7 ottobre del 1571. C'era stato un tentativo della flotta della lega di sfruttare la superiorità delle artiglierie veneziane: i Turchi erano riusciti a sottrarvisi. L'esito della battaglia derivava dai combattimenti corpo a corpo, accesisi dopo che le navi dei due opposti schieramenti si erano accostate sino ad entrare in collisione. Il punto cruciale, ha scritto Frederic C. Lane, era al centro, "dove don Giovanni d'Austria, appoggiato dalle navi di bandiera veneziana e pontificia, riusciva ad agganciare la nave di bandiera turca, andando all'arrembaggio ed uccidendone i capi". Era la vittoria della lega. I Turchi perdevano all'incirca trentamila persone, i Cristiani novemila. Molte erano le perdite dei Veneziani, tra cui una ventina di comandanti di galera e il vice-comandante della flotta Agostino Barbarigo (188).
Il successo non veniva sfruttato, né allora né l'anno dopo, quando, nell'estate, si ripresenterà di nuovo alla flotta della lega l'opportunità di affrontare quella turca. Il senato veneziano era disposto al cimento. Da parte della Spagna, sempre preoccupata dalle vicende della Fiandra, dall'andamento delle guerre di religione in Francia, dalla minaccia turca nel Nord-Africa, logorata finanziariamente dalla partecipazione alla lega, si preferiva evitarlo (189). Non sarebbe stata in ogni caso un'impresa facile. In realtà, per quanto grandi fossero state le perdite subite dagli Ottomani, non erano state tali da compromettere in modo irreparabile il loro potenziale marittimo, né tanto meno da spegnerne l'orgoglio e la volontà di riscossa: non era scontato, pertanto, che un nuovo scontro avrebbe dato alla flotta della lega la sicurezza di una vittoria definitiva. Selim II aveva immediatamente ordinato che durante l'inverno si provvedesse a ricostruire il naviglio perduto. Nella primavera del 1572, ha scritto Robert Mantran, la flotta ottomana del Mediterraneo contava già più di duecento navi, forse quasi duecentocinquanta (190). D'altro canto, la grande vittoria conseguita dalla Sacra lega a Lepanto, se era stata di straordinario rilievo sul piano morale e psicologico, liberando la cristianità dal convincimento dell'invincibilità turca, non riusciva a spronare i vincitori a compiere lo sforzo finanziario ed organizzativo necessario per riparare le perdite subite e mantenere la superiorità nei confronti dell'avversario. Soprattutto, la vittoria di Lepanto non riusciva ad eliminare le ragioni di fondo che avevano reso Spagnoli e Veneziani a lungo incerti sulla convenienza di una guerra col Turco. La situazione era diventata ancor più complicata dopo la scomparsa, avvenuta il primo maggio del 1572, di Pio V, il pontefice che si era gettato generosamente nell'impresa bellica, cercando di risvegliare gli spiriti crociati: chi gli era succeduto, Gregorio XIII, pur propugnando la necessità di riprendere l'azione, non aveva analoga capacità di suscitarne il dovere e l'entusiasmo (191).
Gregorio XIII aveva grandi idee, gli sarebbe piaciuto allargare il conflitto, coinvolgere finalmente nella Sacra lega l'imperatore, e poi i Polacchi e addirittura i Russi - eran sempre cristiani, si diceva, pur se di rito greco. Ma non sfuggiva alla Curia che i punti deboli dell'alleanza erano proprio i maggiori principi collegati, la Spagna e la Serenissima Signoria di Venezia, con la loro sfiducia reciproca, che con il passare del tempo tendeva ad accentuarsi, malgrado i tentativi fatti da Roma per comporre i contrasti e diradare i sospetti. Se la Serenissima Signoria accusava la Spagna di inerzia, il papa si adoperava a giustificarla adducendo la gravità e la quantità degli impegni che Filippo II si trovava ad affrontare contemporaneamente - la situazione in Fiandra e in Francia, soprattutto (192). Ma all'inizio di novembre del 1572 il nunzio pontificio a Venezia monsignor Facchinetti, rispondendo a una lettera del segretario di Stato cardinale Tolomeo Galli, che accusava Spagna e Venezia di far tra di loro lo scaricabarile, chi doveva armare per prima, chi doveva armare di più, non aveva resistito alla tentazione di far rilevare la grettezza degli Spagnoli, che, dimentichi dei superiori interessi della cristianità, riluttavano ad impegnarsi efficacemente nella guerra per timore di fare il gioco dei Veneziani, contribuendo cioè a rafforzarne il dominio e la grandezza: per Venezia, dirà infatti sarcastico Antonio di Toledo, personaggio influentissimo della corte di Filippo II, all'ambasciatore veneziano Leonardo Donà, quasi si riferisse ai discorsi fatti in senato al momento di decidere se fare la guerra al Turco, la lega era un'occasione per conquistare "quattro o cinque piazze nella Morea [...>, le quali poi con continue spese communi [ossia ricorrendo per difenderle al papa e alla Spagna> haveria bisognato sostentare" (193). D'altro canto, sia il segretario di Stato che il nunzio a Venezia dubitavano che la Repubblica stesse accordandosi col Turco per concludere una pace separata: e il nunzio sondava i pensieri del doge e del collegio, riceveva magari risposte rassicuranti, ma quei dubbi rimanevano, insistenti, pungenti (194).
Dubbi fondatissimi, sia questi del nunzio, sia quelli che altri avevano avuto sin dal primo momento. Si stava cercando di stipulare la pace dal marzo 1571, dunque da prima che si concludesse la lega. Non si era trattato da parte veneziana di "un machiavellico doppio gioco", Eligio Vitale l'ha dimostrato con molta chiarezza, bensì di un "parallelismo" di iniziative di governo. Il consesso che aveva votato per la difesa di Cipro, ossia il senato, che era pur sempre il responsabile ufficiale della politica veneziana, voleva effettivamente la guerra. Chi non la voleva, era il consiglio dei dieci con la zonta, di fatto l'organismo più potente. "Parallelismo" che infatti era durato fin quando il consiglio dei dieci e la zonta avevano voluto (195). All'inizio di marzo del 1571 - quindi mentre si stava discutendo a Roma, con la partecipazione della Repubblica, la conclusione della lega - consiglio dei dieci e zonta decidevano di prendere il sopravvento, dando segretamente mandato al bailo veneziano a Costantinopoli Marc'Antonio Barbaro di condurre trattative di pace col sultano, e autorizzandolo, qualora questi si fosse dimostrato intransigente, a cedere anche il regno di Cipro (ed è importante rilevare, a segno della determinazione e della compattezza del consiglio, che il paragrafo che consentiva la cessione senza attendere notizie sull'andamento delle trattative romane, otteneva ben 15 voti su 25) (196). Si era poi ritenuto che fosse opportuno soprassedere sui negoziati col Turco dato che le trattative di lega romane sembravano prendere una buona piega, e il senato era riuscito ad inserirsi nella vicenda. Ma nel luglio del 1572, constatato che dopo la vittoria di Lepanto si stavano perdendo le possibilità di ottenere sul piano bellico un successo definitivo sul Turco, il consiglio dei dieci e la zonta avevano rinnovato l'incarico al bailo Barbaro di concludere la pace, giovandosi dell'aiuto dell'ambasciatore francese vescovo di Dax e di Salomone Ashkenasi, un medico ebreo di origine veneziana che era riuscito ad acquisire una posizione di grande prestigio nella cerchia del gran visir Sokollu (197). La pace veniva così stipulata segretamente a Costantinopoli il 7 marzo 1573 dal bailo Marc'Antonio Barbaro. Le clausole erano pesanti: esse comportavano da parte veneziana il pagamento in tre anni di trecentomila ducati quale risarcimento per le spese della guerra di Cipro, l'aumento a 1.500 ducati del tributo annuale che si versava per Zante, il riportare le frontiere di Dalmazia e Albania alla situazione prebellica; Cipro, ovviamente, era definitivamente perduta; d'altro canto Venezia otteneva che le precedenti capitolazioni commerciali fossero mantenute in vigore e che fossero restituite le navi mercantili reciprocamente sequestrate (198).
La notizia della conclusione della pace era giunta a Venezia il 3 aprile, e poco dopo a Roma, il 6 di quel mese. Difficile immaginare "quanta perturbatione, afflittione et dolore" ne aveva ricevuto il papa, scrivevano dalla Curia. A Madrid, la reazione era, ovviamente, improntata allo sdegno (199). A Venezia, aveva scritto l'8 novembre 1572 monsignor Facchinetti, la pace l'auspicava il popolo, la maggior parte del quale "si sostenta col trafico di Levante", bloccato dalla guerra, l'auspicavano i ricchi, "quelli apunto che per lo più hanno l'amministratione della Republica", i quali lamentavano che tutto il carico di essa - "le gravezze et angherie [...> gravissime" - pesasse su di loro (200). Quando giungeva la notizia della conclusione della pace separata, a quelle condizioni, informava il nunzio pontificio, quasi tutti ne erano rimasti sconvolti, e male, aggiungeva, ne era rimasto anche il Dominio di Terraferma. Lo sconcerto maggiore lo risentiva il senato, per l'oscurità in cui quasi tutti i suoi membri erano stati tenuti, per la profondità delle divergenze che lo dividevano su questioni basilari come il rispetto delle prerogative costituzionali e la concezione del Dominio veneto, del suo presente e del suo futuro. La si giudicava, diceva monsignor Facchinetti, una pace fatta "per voler et prattica di pochi contra l'opinione universale" (201). Per "voler et prattica" del gruppo oligarchico che ruotava tra il consiglio dei dieci, la sua zonta, il collegio: con qualche importante eccezione, gli uomini che sostenevano la politica di pace e di neutralità, attuata d'intesa con il papa e la Spagna, i due alleati che in questa occasione erano stati traditi (202). Proprio contro di loro si levava la rovente protesta del nunzio monsignor Facchinetti: quei "pochi", membri del consiglio dei dieci, che contro il "volere universale" avevano concluso la pace e che rifiutavano adesso di farne conoscere le clausole segrete per tema di rimanere "come infami e troppo odiosi", avrebbero dovuto essere scomunicati dal papa (203). È la corrispondenza da Madrid di Leonardo Donà, ambasciatore della Serenissima Signoria presso Filippo II, a farci conoscere con drammatica intensità il dolore di quanti vedevano in questa pace il cedimento della Repubblica nei confronti degli ideali di grandezza che l'avevano sostenuta nel corso della sua espansione quattrocentesca. Quando gli era giunta la notizia della pace separata, Leonardo Donà aveva voluto scrivere direttamente ai capi del consiglio dei dieci per mettere in chiaro la propria posizione. Egli riteneva che quella pace fosse un errore gravissimo. Pace "perfida e ingannatrice", che sarebbe durata poco, così che ci si sarebbe venuti a trovare, magari a solo qualche anno di distanza, soggetti a un nuovo attacco del Turco, stimolati dalla debolezza della Repubblica ad infierire su di essa, e costretti allora ad implorare umilmente il soccorso di coloro che adesso aveva abbandonato: e le spese sarebbero ben più gravi di quelle che si erano affrontate questa volta. La giustificazione che il consiglio dei dieci dava al suo operato era che il Dominio veneto non fosse più in grado di sopportare i sacrifici della guerra. Il giovane ambasciatore osava contrapporre al realismo dell'autorevolissimo consiglio il convincimento che esistevano dei valori ideali che stavano al disopra di qualunque sacrificio. "Io non sono mai stato del suo Eccellentissimo Consiglio" scriveva il Donà "et conseguentemente non ho mai veduto, come si dice, il fondo della nostra patria et potrebbe essere che vedendo altrimenti parlerei". Ma per quanto lo concerneva, egli sarebbe stato disposto a tutto, "a restar a pocco a pocco in camisa più tosto che ricever le conditioni da nessuno, perché in fine l'esser gentil homo d'una republica grande per sé et i suoi posteri è maggior patrimonio che qual si voglia ricchezza di quella città" (204).
Agostino Valier, portavoce in quegli anni di quei "pochi" e soprattutto dei benpensanti, irritato per le polemiche che contrapponevano consiglio dei dieci e senato, incitava i giovani a non farsi fuorviare da quanti avevano sollevato tanto scalpore su quella pace, perché in fondo essa non aveva inciso sulle cose veramente importanti:
La Repubblica vive e fiorisce etiandio in faccia di potentissimi principi godendo la libertà, e mantenendosi colle sue leggi. Sono da soffrirsi piuttosto le maledicenze, di quello che la Repubblica s'avesse ad involgere in gravissime spese, fino a perdere le proprie forze. Il Turco è infedele, egli è vero; ma non ha sbandito affatto il jus delle genti, cosicché senza nessun pretesto non sarà forse per violare così subito la pace (205).
La polemica tra la Chiesa e la Spagna da un lato, e il gruppetto di senatori che dal consiglio dei dieci e dalla sua zonta avevano condotto la politica veneziana per la conclusione della pace separata, si esaurirà presto. Al di là delle polemiche per l'unilateralità della decisione di concludere la guerra col Turco, decisione che comunque aveva portato a termine un'impresa in cui anche la Spagna non credeva più, restava il fatto che il ritiro della Repubblica significava il prevalere nel governo veneto della politica di rinuncia alle ambizioni imperiali ed egemoniche che tanto avevano preoccupato la Curia di Roma e i monarchi di Spagna. I sostenitori di tale politica, scriverà di lì a qualche anno un altro nunzio pontificio, monsignor Bolognetti, erano quelli "più principali et più versati nelle cose del mondo", gli uomini insomma su cui la Chiesa e la Spagna potevano contare. Giovani, irruenti, protervi, pervicacemente ostili a Roma e alla Spagna, saranno invece definiti i loro avversari (206).
Erano loro che, con la fierezza di una venezianità incapace di rompere con le ambizioni di grandezza del passato, avevano respinto come un'onta la pace del 1573 e l'ulteriore cessione di una parte preziosa del Dominio da mar. Bisogna partire da questa divaricazione manifestatasi così crudamente a conclusione della vicenda di Cipro e di Lepanto per comprendere gli sviluppi successivi della politica veneziana, sia all'interno che all'esterno, sia nei suoi risvolti costituzionali che in quelli politico-religiosi, e coglierne poi l'impatto sulla vita della città.
(1573-1606)
C'era stato qualche timore a Venezia dopo la conclusione della pace di Costantinopoli. Sembrava che il sultano riluttasse a ratificarla, e solo nel marzo del 1574, quando il nunzio, continuando a protestare contro l'inutile avventatezza della pace separata dell'anno prima, evocava la possibilità di una nuova lega, giungeva la notizia rassicurante che la pace era stata confermata (207). Sussulti più gravi aveva il conflitto tra la Spagna e l'Impero ottomano. Nel 1573 don Giovanni d'Austria era riuscito a prendere Tunisi, ma nel 1574 i Turchi la riconquistavano, dopo aver messo le mani su un luogo strategicamente importante come La Goletta. In seguito si andranno via via spegnendo, finché, ha scritto John E. Elliott, non si realizzerà tra loro un tacito accordo di non belligeranza. Altrettanto avveniva tra l'Impero ottomano e la Repubblica di Venezia. Che era cosa assai utile al Turco, libero di impegnarsi in altri fronti - la Persia, l'Oceano Indiano, il Nord-Africa, l'Ungheria: ma lo era altrettanto per la Spagna e la Repubblica (208).
La Repubblica era stata in grado, come dimostrano in questo volume Domenico Sella e Luciano Pezzolo, di ridar slancio alla sua economia, superando con agevolezza le conseguenze delle enormi spese sostenute nella guerra e della gravissima pestilenza che la colpiva nel 1576, e di riprendere in pieno i suoi traffici marittimi malgrado le difficoltà che provocava alla sua navigazione il pullulare di corsari, dagli Uscocchi del Nord dell'Adriatico ai Maltesi, Fiorentini, Barbareschi, e poi Francesi, Inglesi, Olandesi: ripresa che era condizione indispensabile per condurre in Italia una politica di pace ma insieme di tutela della sua indipendenza e per affrontare al suo interno delicati problemi di carattere politico e costituzionale (209).
Ben più ardue le difficoltà che si proponevano alla Spagna. La ribellione dei Paesi Bassi si evolverà dal 1583 nella secessione delle sette province del Nord - l'Olanda, la Zelanda, Utrecht, la Frisia..., o Province Unite, come verranno chiamate - sotto l'insegna della confessione più capace di infondere l'impeto travolgente di una passione patriottico-religiosa, il calvinismo (210). C'era la situazione della Francia: le guerre di religione continuavano a divampare, attizzate dall'esempio dei Paesi Bassi e dall'appoggio che veniva ormai apertamente dall'Inghilterra. La Spagna si sentiva minacciata, non solo per terra, data la possibilità che le controversie francesi finissero col contagiare anche la penisola iberica attraverso la lunga frontiera comune, ma per mare, a causa della valentìa con cui vi si muovevano Inglesi e Olandesi, capaci di intralciare i collegamenti della Spagna con i suoi domini d'oltre oceano, donde giungeva quanto costituiva la linfa della sua economia, l'oro e l'argento. Nel 1580 Filippo II compiva la mossa fondamentale, muovendo guerra al Portogallo e annettendolo: nel 1581 le cortes di quel regno lo riconoscevano re. Filippo II si trovava a disporre di una nuova sponda sull'Atlantico, di una agguerritissima flotta quale la portoghese, e affiancava all'Impero spagnolo d'oltre oceano quello della corona portoghese, immenso, dall'Africa al Brasile, da Calcutta alle Molucche; e Lisbona, la capitale, era il porto cardine ove affluivano le spezie dell'Oriente (211).
Si era "au tournant du siècle", per dirla con Fernand Braudel. Una svolta nella vita di Filippo II. Finiva, ha sottolineato Helmut Koenigsberger, l'epoca del principe incline alla pace di cui parlavano ammirati gli ambasciatori veneziani (212). Ne iniziava un'altra, quella di un Filippo II ardentemente disposto all'azione, voglioso di affermare la sua potenza, convinto che essa fosse indispensabile al servizio della cattolicità, ne costituisse il pungolo e la difesa, per sbarrare la strada a quell'insieme di forze religiosamente e politicamente eversive che John H. Elliott ha definito efficacemente l'"internazionale protestante". Un impegno grandioso, che comporterà per la Spagna un prezzo enorme, in energie umane ed economiche, ma che conoscerà dei gravi insuccessi (213). La rivolta delle province settentrionali dei Paesi Bassi non sarà debellata, anzi, le Province Unite d'Olanda non solo saranno capaci di tener testa militarmente alle forze mandate da Filippo II per reprimerle, ma si svilupperanno straordinariamente sul piano economico-commerciale, facendo di Amsterdam il cardine dell'economia mondiale, in sostituzione di Anversa distrutta nel 1585 nel cuore della lotta: tanto che il successore di Filippo II sul trono di Spagna, il figlio Filippo III, sarà costretto nel 1609 a concedere alle Province Unite una tregua che le renderà di fatto una repubblica indipendente. Le guerre di religione finiranno col portare sul trono di Francia Enrico di Navarra, il principe calvinista che Filippo II temeva come l'emblema di una nuova Francia, la Francia della riforma protestante. Il tentativo che Filippo Il farà nel 1588, di aggredire nella sua stessa isola il sovrano che appoggiava le ribellioni francese e olandese, Elisabetta d'Inghilterra, mandandole contro una flotta così poderosa da considerarsi "invincibile", si concluderà con un completo fallimento (214).
La Chiesa cattolica, comunque, trarrà un grande beneficio da questo impegno di Filippo II, perché, malgrado l'insofferenza che il re poteva suscitare nella Curia con la supremazia che egli vantava sulla Chiesa spagnola, con le sue pretese di far prevalere la sua voce anche nei confronti dei papi, sarà in virtù dell'egida spagnola che il papato potrà porre argine all'espandersi della riforma e concentrarsi più intensamente nell'opera di rinnovamento e di rafforzamento avviata con il concilio di Trento, ossia nella controriforma.
Era infine una svolta, quella avvenuta nella vita di Filippo II, che aveva conseguenze rilevanti per la Repubblica di Venezia. Finché il re di Spagna si sentiva minacciato nel Mediterraneo dai Turchi egli aveva bisogno della Serenissima Signoria: era un'alleata ricca, prestigiosa, da cui non si poteva prescindere, con una sua libertà d'azione di cui bisognava tenere adeguatamente conto. Cessato quel pericolo, e insorto l'altro, forse ancor più grave, certo più insidioso, quello della "internazionale protestante", le cose erano mutate. Per combattere questa battaglia a respiro europeo Filippo II aveva bisogno dell'Italia, di un'Italia su cui la Spagna esercitasse la sua preponderanza come a suo tempo i consiglieri avevano suggerito a suo padre.
Una guida, insomma, che ora doveva strettamente intrecciarsi con quella del papato: e questo doveva valere ovviamente anche per il più potente dei principi italiani, la Repubblica di Venezia.
Morendo, nel luglio del 1585, Nicolò da Ponte, doge dal 1578, lasciava un testamento politico: in esso egli ammoniva la Repubblica a star in guardia nei confronti della Spagna, la quale dopo l'annessione del Portogallo aveva in mano "l'oro delle Indie", e aveva accentuato la sua forza in Italia in virtù dei suoi legami strettissimi con il papato e con il granduca di Toscana (215).
Nicolò da Ponte era stato un senatore dei più autorevoli della Repubblica, fautore pur lui dell'orientamento pacifista che si richiamava a Gasparo Contarini. Egli, si ricorderà, era stato tra coloro che avevano sostenuto che per difendere Cipro e combattere il Turco era indispensabile far lega con il papa e con il re di Spagna. Ma a Roma, dove era stato ambasciatore, il da Ponte non era amato. Monsignor Alberto Bolognetti, il quale era stato mandato a Venezia quale nunzio apostolico lo stesso anno in cui il da Ponte era stato eletto doge, lo accusava di "anticurialismo", e di avere "puochissima dispositione et forse anco ripugnanza alla giurisditione ecclesiastica". Nel corso del suo dogado il da Ponte era entrato in dura polemica con i procuratori di San Marco de supra riguardo il giuspatronato sulla cappella ducale di San Marco. Tra 1582 e 1583 si era inoltre verificato un avvenimento costituzionale clamoroso, la cosiddetta "correzione del consiglio dei dieci": "correzione" che era consistita nel rifiuto del maggior consiglio di rieleggere la zonta ordinaria del consiglio dei dieci, e di conseguenza l'abrogazione della zonta dei procuratori di San Marco, nonché la riduzione del consiglio dei dieci quasi esclusivamente alle competenze di massimo organo della giustizia penale, così che il governo della Repubblica tornava nelle mani del senato. "Questa Repubblica nei tempi del doge di Ponte cangiò il governo", dirà fra Paolo Sarpi a un suo visitatore tedesco, il principe Christoph von Dohna. Non si può certo affermare che il Sarpi intendesse dire che il doge aveva contribuito a questo cambiamento di governo: ma non è comunque ipotesi da escludere, dato il conflitto che allora contrapponeva il da Ponte a paladini, e beneficiari, dell'oligarchia quali i procuratori di San Marco.
Ci si lamenterà da parte di nobiluomini veneziani e di vari osservatori forestieri che questa "correzione" avesse sottratto la guida della Repubblica al manipolo di uomini saggi, il partito dei "vecchi" che si arroccavano nel consiglio dei dieci e nelle zonte, rimettendola a un organismo pletorico come il senato, dove facevano sentire la loro voce i "giovani", con la loro inesperienza integrata da protervia e avventatezza ("giovani" e "vecchi" erano formule emblematiche, di cui si valevano particolarmente osservatori stranieri per qualificare gli schieramenti più importanti secondo i quali si articolava il patriziato veneziano: grosso modo favorevoli alla pace e all'intesa con la Chiesa, anzitutto, e con la Spagna i "vecchi", inclini a una politica combattiva, intonata alle ambizioni e alle glorie passate i "giovani") (216). In realtà se un mutamento avviene si manifesta lentamente; anche perché gli autorevoli nobiluomini che affluivano nel consiglio dei dieci e nelle zonte non erano scomparsi, ma potevano far valere le loro opinioni e la loro autorità da consessi di primaria importanza quali il collegio. Ma un qualche segnale che gli orientamenti della politica veneziana si stessero modificando nei confronti della Sede Apostolica e della Spagna e della Francia, lo si può cogliere già nel corso degli anni '80 (217).
Nel 1584 i membri più influenti del collegio proponevano al senato di informarsi sia in Spagna che in Portogallo, per il tramite dell'ambasciatore veneziano a Madrid, sulla possibilità di fare scambi regolari di merci, riprendendo dopo tanto tempo l'invio di "mude" di galere, onde consentire "la conservazione et augumento così della marinarezza, come del negozio mercantile, cose tanto importanti et necessarie al Stato nostro". Il senato approvava la proposta. Una proposta che non si sarebbe fatta se non si avessero già avute dalla Spagna indicazioni che essa sarebbe stata ben accolta. Il risultato dei sondaggi avviati dall'ambasciatore Gradenigo nella primavera del 1584 era infatti positivo. All'inizio del 1585 rappresentanti di Filippo II offrivano alla Serenissima Signoria di prendere in appalto la distribuzione del pepe che dalle Indie giungeva in Spagna e in Portogallo, a condizione che la stessa Signoria rinunciasse ai suoi traffici in Levante. Due degli uomini prestigiosi della Repubblica, Antonio Bragadin e Jacopo Foscarini, incaricati di valutare la proposta, la giudicavano favorevolmente: pur non nascondendosi gli aspetti negativi o dubbiosi, essi concludevano che a lor vedere era meglio fare il tentativo, se si voleva uscire dalla situazione stagnante in cui secondo loro avrebbe finito altrimenti per logorarsi il commercio veneziano. Il senato però tergiversava, con grande stupore degli Spagnoli. Verrà lasciato cadere nel 1587 un nuovo tentativo fatto da un cittadino veneto residente in Spagna per mezzo, e anzi col pieno appoggio, del nuovo ambasciatore veneziano a Madrid. "Il pepe portoghese non divenne un affare dei mercanti veneziani, ma di un consorzio internazionale del quale facevano parte anche i Welser e i Fugger", ha scritto Ugo Tucci (218).
Val la pena di soffermarsi su taluni aspetti di questa vicenda. Anzitutto il periodo in cui vengono fatte le trattative tra Venezia e la Spagna: che è il periodo in cui infuriava la sollevazione dei Paesi Bassi, a causa della quale verrà travolto il destino di Anversa. Così che vien fatto di pensare che da parte spagnola e degli interlocutori veneziani si volesse avviare verso Venezia un traffico importantissimo come quello delle spezie che era stato in un passato non lontano quasi un suo monopolio, impedendo che esso finisse nelle mani dei mercanti delle Province Unite d'Olanda e diventasse così uno strumento per la loro penetrazione nel Nord dell'Europa. C'è poi un aspetto politico-religioso che deve essere rilevato. Fernand Braudel ha ricordato come già dal 1575 venissero fatti dalla Sede Apostolica e dai principi italiani dipendenti dalla Spagna tentativi per colpire, o subordinare, il commercio veneziano delle spezie introducendo in Italia il pepe portoghese, ossia togliendogliene il monopolio (219). Anche a un altro punto è da prestare attenzione: la tendenza politico-religiosa dei senatori veneziani protagonisti di questa vicenda. "Papalisti" o comunque vicini alla Chiesa sono i tre savi del consiglio che nel 1584 avevano messo in moto questa trattativa: Pasquale Cicogna, Paolo Tiepolo, Jacopo Soranzo; legati alla Chiesa sono i due procuratori di San Marco interpellati dalla Serenissima Signoria, Antonio Bragadin e Jacopo Foscarini; tra i sostenitori dell'accordo troviamo anche Paolo Paruta, il lucido fautore della politica di neutralità, ma insieme di buoni rapporti con la Sede Apostolica e con la Spagna, che la Repubblica doveva seguire. Una posizione emblematica è quella di Gerolamo Lippomano, pur lui propenso all'accordo; apparteneva a una nota famiglia "papalista"; nel 1591, diventato bailo a Costantinopoli, sarà accusato di spionaggio a favore degli Spagnoli, e si ucciderà buttandosi in laguna mentre lo stavano traducendo in stato d'arresto a Venezia (220). Cose che inducono a pensare che il progetto rientrasse nel quadro della svolta nella politica di Filippo II, quella che faceva di lui il gran paladino del cattolicesimo, al cui successo doveva collaborare anche la Serenissima Signoria assieme agli altri principi italiani. Sede Apostolica e Spagna avevano fatto alla Serenissima Signoria una proposta di lega che nel 1583 il senato aveva respinto, convinto dalle argomentazioni di Leonardo Donà, il referente ideale del cosiddetto partito dei "giovani", che, tornato allora dall'ambasciata presso il papa, ne aveva chiarito la natura e gli intenti reconditi (221). Il terzo aspetto che colpisce è la profonda volontà di rinnovamento che emerge dalla relazione del Bragadin e del Foscarini, ossia la schiettezza con cui si invita la Repubblica a delle scelte che chiuderebbero con il proprio passato e le aprirebbero un avvenire denso di promesse e di incognite. Ciò che domina la relazione è il senso della straordinaria, inesorabile potenza spagnola. Una potenza che non poteva essere soverchiata dall'Impero ottomano, chiuso nel Mediterraneo, intralciato nei suoi contatti con le Indie orientali dalla presenza in quei mari delle navi ispano-portoghesi. Una potenza cui tanto meno poteva dar ombra la Repubblica di Venezia; l'unica vera possibilità di sostenere duraturamente la sua economia era quella dell'accordo che le si proponeva, anche ad evitare che al suo posto l'appalto fosse affidato al granduca di Toscana; si sperava infine che con l'aiuto della Spagna la Repubblica avrebbe potuto ancora gestire in Levante le posizioni che le sarebbero state convenienti. Nesssun timore, giungevano a dire il Bragadin e il Foscarini, che le mude di galee di Venezia fossero attaccate da corsari. Il re di Spagna avrebbe provveduto a fornire i convogli di scorta. Vien fatto di chiedersi se gli autori della relazione si domandassero come sarebbe stato possibile affermare l'indipendenza della Repubblica, una indipendenza effettiva, non di mera apparenza, una volta che la Repubblica, oltre a legare la propria economia a quella iberica, avesse abdicato alla difesa delle proprie galee nelle mani del re di Spagna (222).
Tornando nel 1560 a Venezia da Costantinopoli, ove era stato quale bailo della Repubblica, Marino Cavalli lamentava che il commercio veneziano conoscesse nel Bosforo una preoccupante flessione. Vi erano rimaste solo dieci o dodici case commerciali veneziane. La ragione: tutto il commercio era in mano agli Ebrei, tutto si faceva con la mediazione degli Ebrei. Ma il Cavalli aggiungeva il suo stupore anche per il favore che a veder suo gli Ebrei ricevevano da parte della Serenissima Signoria: molti Ebrei, diceva, navigano addirittura come "Veneziani" su navi venete (223).
Forse incoraggiato da questi precedenti Daniel Rodriguez, o Rodriga, o Rodrigua, un mercante ebreo di origine portoghese, a nome degli Ebrei levantini e ponentini, di cui si diceva portavoce, presentava ripetutamente alla Serenissima Signoria domanda - nel 1583, nel 1584 - perché fosse loro concessa l'autorizzazione a vivere per dieci anni a Venezia e di potersi dedicare liberamente all'attività commerciale d'oltremare. La risposta del senato era stata entrambe le volte negativa. Quando il Rodriguez la ripresentava per la terza volta, i cinque savi alla mercanzia, ossia la magistratura che aveva competenza su quanto atteneva ai traffici, esprimevano su di essa un parere pienamente favorevole: "Li nostri cittadini et altri mercatanti di questa piazza", essi spiegavano, "fanno pochissime faccende per diverse cause, così quando fusse concesso a detti hebrei di poter assolutamente navegar in Levante, in Ponente sotto vento e sopravento et per ogni parte del mondo, stando in questa città continuamente con quella segurtà che richiedono, ne nasceria che il negotio tutto si ridurebbe nelle loro mani per causa delli molti avantagi et industrie loro". Il senato non solo aderiva al parere dei cinque savi, ma con un decreto del 27 luglio 1589 accoglieva gli Ebrei levantini e ponentini a condizioni ancor più favorevoli di quelle indicate dal Rodriguez, in quanto offrivano ai nuovi venuti uno status vicino a quello della cittadinanza de intus et extra ed eludevano il problema scottante, se tra quegli Ebrei ci fossero i cosiddetti "marrani", tanto invisi alla Sede Apostolica e alla Spagna. Sede Apostolica e Spagna infatti lamenteranno che il decreto fosse stato preso senza preventiva intesa né con l'autorità pontificia né con la Spagna, da cui gli Ebrei ponentini erano oriundi. Con ogni probabilità questo ricorso all'attività degli Ebrei ponentini e levantini mirava a dar linfa al commercio veneziano in alternativa all'accordo commerciale con la Spagna lasciato cadere due anni prima (224).
Nell'agosto del 1588 si svolgeva in senato un grosso dibattito sul problema della navigazione nel Golfo. Il papa Sisto V aveva protestato vivacemente per le angherie che i Veneziani facevano ai traffici diretti a porti pontifici come Ancona. Il senatore Alvise Michiel, messosi coraggiosamente a sostenere le tesi più impopolari, dava ragione al papa, dicendo che sulla navigazione esistevano le capitolazioni di Giulio II, e che la Repubblica non poteva fingere di ignorarle. Senza dimenticare, egli insisteva, che per la Repubblica l'aiuto del papa "è vero latte che la nutre, in tutti i nostri bisogni di pace e di guerra, oltre che spirituali, non si può far ricorso che al papa". Attualmente la Repubblica si trovava isolata. Il Michiel ammoniva: "Aricordandoci, signori, che Francia non è più Francia per noi, con Spagna siamo nel stato che siamo, la casa d'Austria da questa parte intanto non ci offende, in quanto non lo può fare. Solo con il papa che mostra un poco di buona volontà, et questo volemo anco perderlo, signori [...>" (225).
Erano idee tipiche dei "vecchi", le idee che si trovano nelle relazioni degli ambasciatori, e alle quali i "giovani" erano sempre meno disposti a dar ascolto. C'era un punto che sfuggiva al Michiel, o che il Michiel preferiva trascurare. Cioè che la Francia, se non era "più Francia" per i "vecchi" che vedevano con viva apprensione il persistere delle guerre di religione e la forza che gli eretici vi rivelavano, che paventavano l'ascesa al trono di Enrico di Navarra, era invece oggetto di grande interesse, o addirittura di simpatia, per altri settori dell'opinione pubblica veneziana. Lo avevano scritto nel novembre del 1582 due ambasciatori del re di Francia presso la Serenissima Signoria, Arnaud du Ferrier e André de Maisse. Lo stesso de Maisse informava, tra il 1585 e il 1587, che c'erano dei senatori veneziani che osavano proporre soluzioni assai ardite per risolvere la crisi francese: come il riconoscimento di fatto della nuova religione e un accordo tra riformati e cattolici per far fronte comune contro la minaccia portata dalla Spagna e dal papato; come la riunione di un sinodo nazionale francese, che cercasse di por fine, in piena indipendenza da Roma seppure nell'ambito del cattolicesimo, alle lotte che sconvolgevano la Francia.
Tanto che quando nel 1589 il re di Francia Enrico III moriva tragicamente e la corona passava nelle mani di Enrico di Navarra, che lo stesso defunto sovrano aveva designato a succedergli, la Serenissima Signoria aveva subito ordinato al suo nuovo ambasciatore a Parigi Giovanni Mocenigo di restare presso il nuovo re, Enrico IV, riconoscendolo pertanto legittimo sovrano: in modo analogo la Serenissima Signoria si era comportata nei confronti dell'ambasciatore di Francia a Venezia, che era sempre André de Maisse, considerandolo come legittimo rappresentante del nuovo re. Un atto che aveva provocato terribile indignazione in Filippo II. Sdegno vivissimo anche da parte di Sisto V, cui pure il re di Spagna rimproverava di non aver fatto, e di non fare, quanto sarebbe stato necessario per sbarrare la strada al principe eretico e per favorire la lega cattolica. La Serenissima Signoria aveva ritenuto opportuno di mandare a Roma, per spiegare le sue decisioni, proprio Leonardo Donà, il più autorevole, come si è detto, tra i fautori della nuova politica; e il Donà era riuscito alla fine a placare il papa (226).
Le polemiche sull'atteggiamento troppo parziale della Serenissima Signoria nei confronti del nuovo re di Francia dovevano durare ancora a lungo, sia da parte del re di Spagna e della Chiesa, sia da parte di coloro che nell'ambito del senato veneziano non condividevano le scelte politiche che si andavano facendo. Il momento più critico sarà tra primavera e autunno del 1594. Nei primi mesi del 1594 Enrico IV, che aveva abiurato l'anno prima il calvinismo per ottenere il consenso della maggioranza cattolica del suo Regno, era entrato con le sue truppe prima a Lione, poi a Parigi. Sfidando le ire di Filippo II come del papa Clemente VIII, nonché di tutti gli altri suoi innumeri avversari - c'era chi prevedeva che, forte del suo successo, Enrico IV sarebbe tornato al calvinismo, l'avrebbe imposto alla Francia, ne avrebbe favorito poi l'espandersi in Italia il senato veneziano aveva deciso già a metà aprile di mandare al giovane re un'ambasceria straordinaria per congratularsi delle sue vittorie, senza neppure attendere che egli ricevesse dal papa la ribenedizione che avrebbe sancito la sua conversione. Pochi giorni dopo il governatore spagnolo dello Stato di Milano Juan Fernandez de Velasco, grande di Spagna, aveva avviato segretamente, d'intesa con un noto gesuita, il padre Achille Gagliardi, un'iniziativa diplomatica per indurre la Serenissima Signoria a proporsi come mediatrice di pace tra Filippo II ed Enrico IV. Iniziativa che aveva riscosso nel mondo veneziano il consenso dei patrizi che si richiamavano all'ideale politico di Gasparo Contarini, e in particolare di colui che ne era il più devoto depositario e che, nella sua veste di ambasciatore della Repubblica a Roma, avrebbe dovuto essere tra i massimi protagonisti della mediazione, Paolo Paruta. A una Repubblica schierata talmente a favore di Enrico IV da inviargli addirittura una missione straordinaria di rallegramento, si contrapponeva ora una Repubblica che avrebbe ritrovato il ruolo e l'impegno che più le si confacevano: neutrale, ossia equidistante da Spagna e da Francia, votata solo alla pace, perché nella pace era riposto, con il bene suo e dell'Italia, quello della cristianità. Iniziativa che comunque finiva nel nulla. Ma solo dopo che si era preso atto dell'insuccesso potevano partire da Venezia - si era ormai nell'autunno del 1594 - i due ambasciatori. Paolo Paruta non aveva comunque rinunciato alla possibilità di intervenire come mediatore, anche se, in un momento in cui si dibatteva tra la Sede Apostolica e la Serenissima Signoria la questione di Ceneda, il papa Gregorio XIII riluttava a valersi del rappresentante di un principe che gli stava dando prova di ostilità. Paolo Paruta aveva trovato di sua iniziativa una soluzione per comporre provvisoriamente la vertenza cenedese - un'iniziativa che, come si vedrà, non riceverà il gradimento della Serenissima Signoria. Così quando nel giugno del 1595 giungevano a Roma i rappresentanti di Enrico IV per trattare l'accordo col papa e ottenere la ribenedizione del re, Paolo Paruta veniva invitato dal pontefice a svolgere la mediazione, e riusciva a convincere i rappresentanti a fare le concessioni che Gregorio XIII considerava indispensabili: nel settembre del 1595 l'accordo tra la Sede Apostolica e il re di Francia era raggiunto (227).
"Tanto importando alla libertà della Repubblica l'aver in Francia re che contrapesasse alla grandezza della casa d'Austria, di pensieri pur troppo vasti, non furono dal senato guardati altri rispetti", dirà Nicolò Contarini, spiegando col consueto calore nelle sue Istorie veneziane le ragioni che avevano indotto subito la maggioranza dei senatori a schierarsi col giovane re di Francia (228).
Enrico IV era venuto meno alle attese di coloro che a Venezia più l'avevano appoggiato. Alla sua ascesa al trono egli si era trovato coinvolto in una guerra che il duca Carlo Emanuele di Savoia aveva sferrato nel 1589 alla Francia: il duca contava che, nelle condizioni di sconvolgimento in cui si dibatteva il Regno e valendosi dell'appoggio che gli veniva dal re di Spagna e dal papa, avrebbe potuto ricuperare il marchesato di Saluzzo, che era stato assegnato alla Francia dal trattato di Cateau-Cambrésis; e pensava di fare un colpo di mano su Ginevra, spingendosi anche in Provenza e nel Delfinato. Guerra che si trascinerà a lungo, un decennio. Enrico IV dopo la sua conversione era riuscito a sistemare i suoi rapporti con la Spagna, allora in preda a un nuovo dissesto finanziario, stipulando con Filippo II nel 1598 il trattato di Vervins. La pace tra Enrico IV e Carlo Emanuele di Savoia sarà conclusa nel 1601 a Lione, dopo lunghi negoziati condotti con la mediazione di Clemente VIII. Carlo Emanuele cedeva alla Francia terre che aveva oltralpe, come la Bresse, il Bugey e altre: a sua volta Enrico IV concedeva al duca di Savoia il marchesato, ossia l'enclave francese in Italia (229).
Era soddisfatto il papa, a vedere del tutto esclusa dall'Italia la Francia, regno in cui era stato concesso ai riformati, pur entro certi limiti, di praticare il loro culto, regno retto da un principe della cui fede non ci si fidava; e altrettanto soddisfatta, ovviamente, era la Spagna, grande antagonista della Francia nella penisola. Erano rimasti delusi, profondamente delusi i Veneziani, e particolarmente quel settore di Veneziani che più era legato alla Francia e più si era adoperato in favore di Enrico IV, proprio perché sul trono di Francia ci fosse un principe del tutto svincolato dalla soggezione alla Spagna, e neppure disposto a subire ingerenze della Chiesa di Roma nella sua politica. E ora Enrico IV sembrava lasciar l'Italia al suo destino, mentre il papato si ripresentava con la forza rinnovata del suo magistero spirituale e delle sue concezioni di preminenza sui principi secolari sancite dal concilio di Trento; inoltre gli Spagnoli, braccio secolare della Chiesa, dimostravano di voler imporre più che mai il loro dominio sulla penisola, si rafforzavano militarmente nello Stato di Milano, e facevano balenare di continuo la possibilità di colpi di mano sulla confinante Repubblica. Una delusione cocente, di cui resta eco nelle pagine delle Istorie veneziane di Nicolò Contarini, uno dei patrizi che avevano fatto della rivolta contro il prepotere del papato e della Spagna sull'Italia l'impegno più intenso della loro vita, così come delle preoccupazioni per le conseguenze che ne erano subito derivate alla Repubblica:
Ben si conobbe che, dopo esclusi li Francesi d'Italia, s'era il consiglio di Spagna risoluto di procurar per l'avvenimento d'estender quanto più amplamente potessero il loro dominio in questa provincia, la qual sola poteva conceder l'assoluta monarchia del mondo. E, perché conoscevano che a fine di tanto momento la Repubblica di Venezia le saria stata di grande impedimento, perciò molto miravano come averiano potuto abbassarla [...>.
Si era così ripresentato al senato veneziano, in un'atmosfera gravida di sospetti per le aggressioni che gli Spagnoli avrebbero potuto tentare dai confini dello Stato di Milano o attentati contro città e fortezze del Dominio di Terraferma - Paolo Preto illustra nelle sue pagine questa opprimente atmosfera -, un problema che era stato accantonato per quasi una settantina d'anni: come reagire alla minaccia spagnola, se bisognava disporsi a prendere le armi, e rafforzare il proprio esercito e le proprie fortezze, e pertanto fare una lega con gli Svizzeri e i Grigioni affinché consentissero a reclutare tra loro le truppe necessarie, o puntare sui negoziati con la Spagna, mirando soprattutto ad evitare una guerra. Contro le trattative con Svizzeri e Grigioni, che sarebbero state contrastate non solo dalla Spagna ma dalla stessa Francia, per un'intesa con la Spagna, per la salvaguardia della pace, insomma, si era pronunciato Leonardo Donà, con gran stupore dei cosiddetti "giovani", che avrebbero preferito vedere il loro capo intrepidamente impegnato a sostegno di una politica coraggiosa. In favore di trattative con Svizzeri e Grigioni, incurante se questo poteva far ombra a Spagna e magari - personalmente non lo credeva - a Francia, Nicolò Contarini: "l'intelligenza con Grigioni" era attualmente l'unico strumento per mantenere la libertà e l'indipendenza veneziana.
Prevarrà l'opinione di Nicolò Contarini.
Il segretario del senato Giovan Battista Padavino sarà mandato tra gli Svizzeri e i Grigioni e, pur con molte difficoltà, riuscirà nel 1605 a far concludere un accordo in base al quale la Repubblica poteva arruolare e far passare dal territorio elvetico alcune migliaia di soldati (230).
Nel 1593 cominciava una nuova guerra tra l'Impero ottomano e l'Impero asburgico. Causa contingente erano i danni che gli Uscocchi, pirati rintanati nel fondo del Quarnaro e protetti dagli arciduchi d'Austria, i grandi nemici della navigazione veneziana nell'alto Adriatico, andavano provocando ai Turchi insediati nella Bosnia. La ragione vera più probabile era che gli Ottomani, conclusa nel 1590, dopo dodici anni di guerra, una pace con lo shah di Persia che doveva garantirli alle spalle, si erano sentiti in condizione di riprendere l'offensiva contro gli Asburgo, e completare così, consolidando le loro posizioni, la conquista dell'Ungheria. Territorio ambitissimo, l'Ungheria. Per i Turchi l'Ungheria, oltre a schiudere le vie che portavano nel cuore dell'Europa, consentiva di controllare i movimenti di popoli battaglieri come i Polacchi o, ad oriente, i Cosacchi. Per gli Asburgo d'Austria e dell'Impero, così come, almeno idealmente, per gli altri principi europei, l'Ungheria e la Transilvania erano l'antemurale della cristianità. Secondo l'imperatore Rodolfo II era intorno a lui e alla sua corte, a Praga, che doveva trovarsi il fulcro animatore di una cristianità "unita e pervasa dello spirito di crociata" (231). Il papa Clemente VIII avrebbe subito voluto che a fronteggiare il Turco si costituisse nuovamente una forte lega di principi cristiani, nella quale avrebbero dovuto riunirsi intorno a lui i principi più direttamente esposti alla minaccia turca, Impero, Polonia, Repubblica di Venezia, Spagna, nonché tutti gli altri principi solleciti dei destini della cristianità: una lega cui la Sede Apostolica avrebbe impresso l'empito generoso di una lotta combattuta in nome e in difesa della Fede. L'iniziativa di Clemente VIII non aveva avuto successo. La Spagna, che stava attraversando un ulteriore momento di gravi difficoltà finanziarie, logorata dalle imprese navali contro l'Inghilterra e dalla lotta contro le province ribelli dei Paesi Bassi, non poteva certo desiderare di ingaggiare battaglia contro il Turco, che già teneva sospesa su di essa la minaccia di un attacco - si era parlato a Costantinopoli, tra 1589 e 1591, di inviare una flotta di 300 galere per aiutare i moriscos spagnoli -, attacco che avrebbe riscosso il favore degli avversari europei di Spagna, Francia e Inghilterra. Neppure la Polonia riteneva di potersi azzardare a provocare l'Impero ottomano. Né voleva farlo la Serenissima Signoria di Venezia, che si sentiva sempre sul collo il fiato dell'armata turca, e che avrebbe visto i suoi traffici nuovamente compromessi da una vicenda bellica. La Serenissima aveva fatto sapere a Clemente VIII, tramite il suo ambasciatore Paolo Paruta, che era contraria alle leghe, perché erano cose di gran bella apparenza ma di poca sostanza, essendo altrettanto difficile l'unione degli animi che quella delle forze. C'era poi, a Venezia, chi sosteneva ancor più realisticamente che era assurdo chiedere alla Repubblica di collaborare alla guerra con soldi e soldati, dal momento che era costretta a spendere e a mantenere soldati per far fronte alle minacce di attacchi al suo territorio che faceva gravare proprio uno dei principi con cui avrebbe dovuto collegarsi, ossia la Spagna: e altri soldi e altri uomini venivano sacrificati nell'Adriatico per tutelare la propria navigazione dagli Uscocchi, appoggiati dall'arciduca d'Austria che era stretto congiunto dell'imperatore Rodolfo II. Ma era possibile che i Veneziani avessero fiducia nel principale protagonista della lega, proprio Rodolfo II? Una manifestazione della sua diffidenza nell'imperatore la Serenissima Signoria l'aveva data nel 1593, facendo costruire vicino all'Isonzo la fortezza di Palmanova, sostitutiva di quella fortezza di Gradisca che essa aveva perso nel 1511 sotto l'attacco dell'esercito imperiale. Fortezza a riparo dei Turchi, dicevano ufficialmente i Veneziani. Alla corte di Graz si era convinti che, più che contro il Turco, essa venisse eretta contro gli Asburgo, d'Austria e dell'Impero: Palmanova in ogni caso esprimeva il convincimento che era meglio investire il proprio danaro in una fortezza, piuttosto che spenderlo in aiuti all'imperatore, cosa che avrebbe sicuramente scatenato rappresaglie turche, mentre era poco probabile che Rodolfo II ne avrebbe saputo trarre profitto. Senza contare inoltre il fatto che fiducia in Rodolfo II non l'aveva neppure il papa Clemente VIII: il quale, a stare a quanto scriveva Paolo Paruta, lo giudicava freddo, trascurato, inadeguato a reggere lo scontro frontale col Turco, e bisognoso, pertanto, di essere assistito da una lega (232).
Vicende, quelle della guerra austro-ottomana, che "tanta annessione hanno con le cose della Repubblica", scriverà Nicolò Contarini, che dedicava loro pagine tra le più belle ed appassionate delle sue Istorie veneziane. "Annessione" non solo perché si erano svolte non lungi dai confini veneti del Friuli e della Dalmazia, minacciando di debordare al di qua di essi; piuttosto perché Nicolò Contarini comprendeva che allora si erano poste le premesse di quel grandioso conflitto politico-religioso di cui egli sarà partecipe quale membro del governo della Repubblica. Le sorti della guerra austro-ottomana, che sino alla fine del '500 sembravano volgere in favore degli Ottomani, erano mutate in seguito alla rivolta contro il Turco di Mihai Viteazul, o Michele il Bravo, il quale era divenuto principe di Transilvania dopo aver deposto la famiglia dei Bàthory, cattolica e legata all'Impero. Rodolfo II, che aveva dato dapprima il suo consenso a Michele, si era poi preoccupato per le ambizioni che egli nutriva, di riunire le tre province di Transilvania, Moldavia e Valacchia, di diventarne "voivoda", e di esser eletto poi re d'Ungheria, in violazione dei diritti che la casa d'Asburgo vantava su questo regno: Rodolfo aveva finito per far uccidere Michele nel 1601 per mano di un italiano, Giorgio Basta, che militava al suo servizio. Michele il Bravo, commenterà il Contarini, "restò debellato da' principi cristiani, e da quelli in particolare che guerreggiavano contro turchi, quando questi da se stessi si conoscevano insufficienti a domarlo". Quello che non era riuscito a Michele il Bravo tenterà di realizzarlo di lì a qualche anno, nel modo più travolgente e con ripercussioni che andranno ben al di là dell'ambito della sua terra, un altro guerriero transilvano, Istvàn Bocskai. Di lui Nicolò Contarini non giungerà a parlare nelle sue Istorie: ma egli sarà tra i senatori che, dopo l'inizio della guerra dei Trent'anni, auspicheranno un'intesa tra la Repubblica e il continuatore dell'opera del Bocskai, il principe transilvano Gabor Bethlen (233).
Istvàn Bocskai, calvinista, parente dei Bàthory e loro antico consigliere, aveva militato nelle file imperiali. Se ne era poi allontanato, in segno di protesta contro i provvedimenti presi in territori asburgici contro i protestanti. Nel 1602 le autorità imperiali avevano infatti impedito in Boemia i culti che non fossero cattolici o utraquisti; nello stesso anno le truppe asburgiche avevano confiscato in Transilvania proprietà e chiese protestanti. I riformati avevano reagito, dall'Austria alla Boemia e alla Moravia; dall'Ungheria si chiedeva aiuto ai correligionari di Transilvania. Nel 1604 i riformati di Transilvania si levavano in rivolta. Era Istvàn Bocskai a porsi alla loro testa; al suo fianco si era schierato il giovane Gabor Bethlen, che ritroveremo a contatto con i Veneziani nei primordi della guerra dei Trent'anni. Una rivolta che voleva proporsi all'attenzione dell'Europa per il suo impegno civile, oltre che religioso: già nel 1605 usciva in inglese e in francese il programma di Bocskai, la Dichiarazione dei signori e degli stati del Regno di Ungheria (234).
Dopo il momento di riscossa dell'esercito imperiale, le truppe ottomane avevano ripreso il sopravvento, riuscendo a conquistare terre o città dapprima perdute, e altre nuove. Gli aiuti che riceveva dalla Spagna oltre che dal papa non bastavano a Rodolfo II. Era l'azione di Istvàn Bocskai a contribuire al successo del Turco. Ciò che interessa di più è che la guerra si collocava sempre più in una prospettiva diversa da quella iniziale, non era più uno scontro tradizionale tra la cristianità e il Turco, diventava un fatto interno alla cristianità. Ce ne rende lucidamente conto la relazione che presentava al senato Francesco Soranzo a conclusione della sua ambasciata presso l'imperatore durata dal 1603 al 1607. Francesco Soranzo era un avversario della linea politica promossa all'interno e all'esterno della Repubblica da Nicolò Contarini e dal suo gruppo: lo si potrebbe definire un "papalista", uomo che credeva nel ruolo che stava svolgendo l'Impero come braccio della Chiesa, in rappresentanza ideale di tutti coloro che le erano rimasti fedeli. Il Soranzo aveva seguito con apprensione il nascere e l'evolversi della rivolta dei riformati. La colpa era dei provvedimenti presi avventatamente contro di loro, egli scriveva. E riteneva altrettanto imperdonabile che, una volta scoppiata la rivolta, non ci si fosse immediatamente adoperati per spegnerla. Perché non si trattava solo di impedire ulteriori peggioramenti della situazione militare. Ciò che preoccupava di più il Soranzo era l'empito religioso che connotava la rivolta, le implicazioni politicamente eversive che essa comportava, e il consenso larghissimo che suscitava tra i riformati di una vasta zona tra Boemia, Austria e Ungheria. Una zona che riguardava da vicino il territorio nord-orientale della Repubblica di Venezia.
La rivolta aveva indotto i contendenti ad addivenire a trattative. Le volevano i Turchi, logorati dalla lunga guerra, pressati alle spalle dallo shah di Persia. Le volevano gli arciduchi d'Austria, in particolare il più intraprendente di essi, Mattia, fratello di Rodolfo, arciduca della Bassa e dell'Alta Austria. L'imperatore, pur riluttante, era stato indotto proprio dagli arciduchi, che si erano accordati segretamente a Linz, a riconoscere Mattia come proprio erede - Rodolfo non aveva figli - nonché ad affidargli il compito di condurre le trattative. C'era un altro motivo, secondo Francesco Soranzo, per cui Rodolfo aveva ritenuto di non doversi irrigidire nell'opposizione, ed era l'insorgere, nei primi mesi del 1606, della crisi dell'Interdetto tra la Sede Apostolica e la Serenissima Signoria. "Quando pareva che volesse arder l'Italia per le passate commotioni fra la Serenissima Republica et il pontefice, l'imperatore poco sperando in aiuti stranieri diede l'assenso alla pace", rievocherà l'ambasciatore nella sua relazione. In altre parole, l'imperatore temeva che se la contesa, come sembrerà a un certo momento possibile, fosse degenerata in un conflitto armato, la Sede Apostolica e la Spagna - questa sarebbe sicuramente scesa in campo a difesa del papa - non avrebbero più potuto aiutare l'Impero nella sua guerra contro il Turco. L'Interdetto aveva scatenato a tal punto l'avversione di Rodolfo II nei confronti della Serenissima Signoria, che era stato proibito all'ambasciatore Soranzo di frequentare le chiese e le cerimonie pubbliche, come se fosse stato il rappresentante di un principe eretico - il residente a Venezia del granduca di Toscana scriveva allora di aver saputo che l'imperatore era convinto che i Veneziani avessero appoggiato contro di lui sia il Turco che la rivolta ungherese (235).
Si concluderà un duplice accordo. Il primo con Istvàn Bocskai, a Vienna, il 23 giugno 1606: Bocskai era riconosciuto principe di Transilvania - un principato di brevissima durata, perché egli morirà di lì a poco; si prometteva inoltre il libero esercizio del culto alle maggiori confessioni acattoliche. Il secondo accordo con l'Impero ottomano, a Zsistvatorok, l'11 novembre dello stesso anno: risultato principale, una tregua tra gli Ottomani e l'Impero asburgico. Per Rodolfo II, ha scritto Josef V. Polišenský, "la fine della guerra ottomana e le concessioni fatte agli Ungheresi significavano un crollo evidente e definitivo dei suoi progetti politici a lunga scadenza, che erano sempre stati condizionati dalla necessità di un trionfo sul fronte orientale" (236).
L'ambasciatore Francesco Soranzo comprendeva le preoccupazioni dell'imperatore. Temeva pur lui lo scatenarsi delle confessioni protestanti, anche se conosceva la loro debolezza di fondo, ossia le loro divisioni intestine, e avvertiva per contro la compattezza dei cattolici. Ma una tregua che preludesse alla pace col Turco era per il Soranzo di per sé gravida di pericoli, non solo per Rodolfo II, che restava pur sempre in balia dell'Impero ottomano dato che non era riuscito a realizzare quanto si proponeva, ma ancor più per la Repubblica di Venezia, per la quale quella pace poteva significare disponibilità del Turco stesso a volgersi ancora contro di lei. Per la Repubblica la gravità del pericolo consisteva nel fatto che qualora l'Impero ottomano l'attaccasse, essa non avrebbe trovato ad aiutarla nessuno dei grandi principi cristiani che in passato erano stati suoi alleati. Non c'era da dubitarne: l'ostilità che la Repubblica si era tirata addosso da parte della Sede Apostolica e della Spagna con la questione dell'Interdetto era grandissima, di quelle che non passano agevolmente. In fondo, diceva Soranzo, sarebbe meglio che la guerra tra i due Imperi riprendesse, perché questo, oltre a liberare la Serenissima Signoria dal rischio di dover affrontare il Turco da sola, le avrebbe offerto l'opportunità di riparare agli errori passati, aiutare cioè l'imperatore, e ricostruire i legami con i principi con cui esisteva comunanza di fede. "Farebbe mirabile effetto questa dimostratione", insisteva il Soranzo (237).
Era consueto per gli ambasciatori veneti che la loro relazione mirasse non solo ad informare il senato su fatti e personaggi del Paese in cui avevano risieduto, ma ad influenzare l'azione di governo nel senso che essi ritenevano giusto e corrispondente agli interessi della Repubblica. E il Soranzo voleva soprattutto ammonire coloro che, vogliosi di innovare a fondo la politica della Repubblica, guardavano troppo fiduciosi verso nuove alleanze antipapali ed antiasburgiche.
Un segnale inequivocabile del mutare di orientamenti della politica estera veneziana era stato l'inizio di regolari rappresentanze diplomatiche tra la Repubblica e l'Inghilterra. La Serenissima Signoria aveva mandato a Londra ambasciatori alla metà del '500, da Daniele Barbaro a Domenico Bollani. Nel 1575 sembrava che dovesse venire a Venezia un ambasciatore del re d'Inghilterra, e la cosa preoccupava moltissimo il cardinale Tolomeo Galli perché, egli scriveva al nunzio Giovan Battista Castagna il 10 marzo, "potrebbe fare grandissimi danni, tanto nelle cose della religione che degli interessi di stato" (238). Non se ne faceva nulla. Bisognava attendere gli inizi del secolo perché avvenisse uno scambio regolare di ambasciatori. Nel 1603 il successore di Elisabetta sul trono inglese, Giacomo I Stuart, calvinista addirittura con ambizioni di teologo - defensor fidei, si definiva, difensore della pura fede riformata - nominava suo ambasciatore a Venezia Henry Wotton, "a gentleman" si diceva "of excellent condition, wise, prudent, able": anglicano, e uomo colto, poeta, appassionato di architettura - sarà lui a far conoscere Palladio in Inghilterra (239).
Anche se, come mette ben in rilievo in questo volume Domenico Sella, il commercio inglese si era posto su un piano di preoccupante competitività nei confronti di quello veneziano, Venezia guardava con fiducia a quest'isola così cresciuta di forze, soprattutto sul mare, capace di intervenire nelle vicende europee a bilanciare i rapporti di forza, e non impediva che molti mercanti inglesi operassero a Venezia, insieme a Fiamminghi e Olandesi, anch'essi concorrenti pericolosi. Ma si profilava un atteggiamento particolare dell'Inghilterra verso Venezia, un atteggiamento che investiva la città nel suo essere, che trascendeva le congiunture politiche e commerciali: Venezia colpiva gli Inglesi per l'antichità e la particolarità delle sue istituzioni e delle sue tradizioni politico-religiose, per la tolleranza che riserbava alle genti di varie fedi e provenienze che vi affluivano, per l'ambiente naturale in cui aveva saputo organizzare il suo vivere. Venezia era meta obbligata di viaggiatori inglesi, era presente nell'immaginazione di grandi poeti. Logan P. Smith ha fatto osservare che mentre il Wotton era in viaggio per Venezia, William Shakespeare, l'autore de Il mercante di Venezia, era impegnato nella preparazione di un'altra sua grande tragedia a soggetto veneziano, Otello, che sarà recitata davanti a Giacomo I nel novembre del 1604 (240).
il riaffacciarsi delle ambizioni di potenza
Due incendi, l'uno avvenuto l'11 maggio del 1574, l'altro il 20 dicembre del 1577, distruggevano ampia parte del palazzo Ducale, con sale come quella delle quattro porte, del maggior consiglio, dello scrutinio ed i locali loro adiacenti, nonché i capolavori di pittura veneziana - opera di Giovanni Bellini, di Tiziano Vecellio, di Jacopo Tintoretto, del Pordenone - che vi erano conservati. Il palazzo verrà ricostruito così com'era prima, malgrado le pressioni di senatori che, confortati dall'autorità di Andrea Palladio e di Cristoforo Sorte, avrebbero voluto un palazzo nuovo, intonato all'architettura alla "romana" che splendeva negli edifici sorti nel lato antistante della piazzetta (241).
Novità c'erano invece nei dipinti che dovevano illustrare le sale ricostruite, o più precisamente nei temi che essi dovevano trattare conformemente alla funzione celebrativa ed educativa loro assegnata. Anzitutto, laddove prima dei due incendi le raffigurazioni di avvenimenti storici erano, osserva il Wolters, "sorprendentemente rare", nel palazzo ricostruito si imponevano i grandi avvenimenti che punteggiavano la storia di Venezia dalle origini sino a Lepanto, a testimonianza di come Venezia, nata e conservatasi libera, si fosse sempre impegnata a salvaguardia e ad esaltazione della Fede. Ma altri temi si aggiungevano, ad esprimere gli ideali di governo che guidavano sempre la Serenissima Signoria: reggere i sudditi nella pace, nell'abbondanza, nella giustizia (242). La tela che più altamente compendia il mito che Venezia coltivava di sé e del suo governo è quella che ha il duplice titolo, "Pax veneta" o "Trionfo di Venezia". "Pax" e trionfo sono qui sinonimi: il trionfo di Venezia è solo nella pace. Pace all'interno, pace verso l'esterno, pace in se stessa. E se il suo dominio diretto si esercita sui popoli che le sono felicemente soggetti, il suo potere indiretto, che si manifesta in un insegnamento di civiltà e di Fede, si proietta sul mondo. È il mito che si staglia anche dalle pagine di quel ritratto ideale della Repubblica e degli uomini che la reggevano che è il Della perfettione della vita politica di Paolo Paruta, uscito a Venezia nel 1579 (243).
Più che le fortezze, aveva ricordato in uno dei suoi Discorsi politici Paolo Paruta, era "l'affezione dei popoli soggetti" a conservare gl'imperi (244). Se ne aveva avuto una prova a Cipro, dove era mancato quel concorso dei Ciprioti alla difesa della loro isola su cui le forze della Repubblica avrebbero voluto contare. Si sapeva che ancor minore era l'"affezione" degli abitanti di Candia, l'altra grande isola del Dominio esposta alla minaccia dell'Impero ottomano, a causa soprattutto della politica religiosa che Venezia aveva imposto fin dalle lontane origini del suo Dominio, una politica che aveva favorito la Chiesa della minoranza veneziana, quella latina, e conculcato la Chiesa della stragrande maggioranza della popolazione, quella greco-ortodossa - a Cipro e a Corfù ci si muoverà con ben altra cautela. Un valido tentativo per migliorare la situazione di Candia lo farà Jacopo Foscarini, senatore dei più intelligenti che annoverasse sul finire del Cinquecento la Serenissima Signoria, il quale aveva potuto acquisire consapevolezza dei problemi che gravavano sul Dominio da mar in virtù delle responsabilità politiche e militari avute durante la Sacra lega. Inviato nell'isola nel 1574, dunque all'indomani della conclusione della pace, con il triplice incarico di provveditore generale, inquisitore e sindaco, il Foscarini aveva emanato degli "Ordini" che saranno considerati a lungo esemplari per una retta gestione del Dominio da mar. Erano da potenziare le istituzioni e le loro funzioni; bisognava por mano con efficacia nell'economia e nei difficili rapporti esistenti tra i ceti dell'isola, e fare in modo da ridurre "la dipendenza materiale dell'isola dalla Dominante", rafforzandone invece il legame politico (245). Emanare dei buoni "Ordini" ovviamente di per sé non bastava, l'importante era attuarli. Donatella Calabi richiama a tal proposito l'attenzione sulla costruzione del fondaco, voluto dal Foscarini per dotare l'isola di un sistema adeguato alle attività commerciali locali, e sul fatto che il nuovo, "straordinario complesso edilizio" fosse "del tutto simile, anche nei particolari di dettaglio, alle ῾fabbriche realtine'". L'evocare l'immagine della Dominante in edifici pubblici di città e cittadine della Terraferma - le rocche, le torri dell'orologio, le logge dei rettori, il collocare in bella vista il leone di San Marco - era un criterio di politica architettonica seguito già nel Quattrocento, ripreso largamente nel Cinquecento dopo la pace di Bologna: lo si estendeva al Dominio da mar, onde esprimere una fusione ideale, oltre che una presenza sovrana (246).
Anche se, come diceva Paruta, era meglio puntare in primo luogo sulla devozione dei sudditi, la guerra di Cipro aveva dimostrato che se si voleva proteggere un territorio minacciato, e in fondo anche animare quella devozione, era indispensabile provvedere un solido apparato difensivo. Ci si era pensato subito a Venezia, dopo la pace di Bologna, incaricando Francesco Maria della Rovere - lo si ricorderà - di preparare dei programmi di renovatio rei militaris, in parte attuati nel Dominio di Terraferma e a Corfù. Così, nel periodo successivo alla perdita di Cipro la Serenissima Signoria farà un grande sforzo finanziario per la difesa del Levante. Agli inizi degli anni Ottanta del secolo il numero delle truppe stanziate a Candia era in rapporto alla popolazione civile superiore a quello degli altri territori del Dominio veneto (247). I soldati comunque costituivano solo una parte dell'apparato difensivo, il nerbo erano le fortificazioni. A condizione che fossero fatte bene, diceva il capitano di Candia Filippo Pasqualigo, curate in ogni particolare tecnico, senza badare a spese. Altrimenti, aggiungerà a sua volta nel 1604 un duca di Candia, Giovanni Sagredo, meglio non farle. Danari ne verranno spesi, ma male, o in misura insufficiente, continueranno a lamentare i rappresentanti veneziani nell'isola (248). Non era però semplice mettere d'accordo sulle necessità e i problemi di Candia chi vedeva le cose da Venezia, e aveva di fronte necessità e problemi anche di altre parti dello Stato, e chi, vivendo a Candia, constatava la situazione locale da vicino, ed era portato ad accentuarne gli aspetti negativi, o per ottenere qualcosa di più, o per scaricare la responsabilità sugli altri.
Chi vuol "tener contenti" i popoli, ribadiva Giovanni Botero nella sua Relatione della Repubblica Venetiana apparsa a Venezia nel 1605, deve procurar loro abbondanza, giustizia, pace, libertà: "Perché", egli spiegava, "l'abbondanza gli assicura della vita; la giustizia delle facoltà; la pace dell'uno e dell'altro; la libertà rende piacevole essa pace [...>" (249). A leggere le relazioni presentate al senato dai rettori inviati a reggere le città dello Stato di Terraferma e i loro territori si ha l'impressione che essi, malgrado le grosse difficoltà incontrate, siano in fondo riusciti ad assicurare alle loro popolazioni quei beni. Più attendibili e convincenti riescono le relazioni dei sindaci e inquisitori di Terraferma, che venivano inviati periodicamente a visitare lo Stato e a render conto della situazione in cui l'avevano trovato. Se nel 1561 i sindaci riportavano a Venezia una visione ottimistica dello Stato - fervore dell'opera di governo, compattezza e devozione dei sudditi, quelli che rientravano a Venezia nel 1591 avevano avuto nel loro viaggio impressioni del tutto differenti. Erano stati colpiti da qualche aspetto preoccupante: da parte dei contadini, in particolare (250). Ma la reazione negativa nei confronti dei governanti si era manifestata con maggior asprezza da parte dei governati dei ceti più alti. Nel suo contributo a questo volume Sergio Zamperetti lo mette ben in evidenza. Le ragioni principali, a suo vedere, "la strisciante erosione, tra gli altri, di un privilegio ambito e fondamentale [...> quale quello dell'amministrazione della giustizia", "e più in generale la tendenza statale ad affermare e soprattutto esercitare con ben altra fermezza rispetto al passato le proprie competenze sovrane [...>"; ragioni riconducibili alla "progressiva preminenza assunta nell'ambito delle magistrature governative da un gruppo di patrizi animato da una concezione altrimenti vigorosa della sovranità statale e delle prerogative ad essa spettanti" (e insieme, aggiungerei, da un senso assai alto del ruolo egemone che la classe dirigente veneziana poteva esercitare nei confronti del Dominio).
Ceti dirigenti turbolenti, quelli della Terraferma negli ultimi decenni del '500: divisi spesso all'interno delle città da contrasti sociali, "popolari" contro nobili, quest'ultimi arroccati nei consigli cittadini, gli altri esclusi dal potervi accedere; contrapposti, specie i nobili, in fazioni, facenti capo alle famiglie più ricche e più forti; percorsi da una incontenibile litigiosità civile di carattere familiare, e da una altrettanto incontenibile criminalità; fazioni, o grandi famiglie, ambiziose di contrapporsi all'esercizio dell'autorità sovrana, sostenute da piccoli eserciti (i "bravi") capaci di garantire loro e ai territori in cui avevano base una sorta di immunità.
L'atmosfera della Terraferma era turbata dagli stessi nobili veneziani: non solo per abusi compiuti da coloro che erano mandati a reggerla; ma perché, tra i molti che andavano a vivere nelle loro proprietà fondiarie (e già di per sé il crescere di questa proprietà e la presenza di dimore dei proprietari veneziani accentuavano l'animosità dei ceti della Terraferma) c'era chi svolgeva attività criminose come quei nobili e quelle famiglie terrafermiere di cui si è detto. Ed era cosa assai grave, perché, a differenza degli altri, i nobili veneziani erano depositari di quella sovranità che concorrevano a sfidare e a mortificare (251).
Sulla situazione della Terraferma incideva molto anche l'orientamento politico che stava prevalendo nel governo della Repubblica dopo che, a seguito della "correzione" del consiglio dei dieci del 1582-1583, il senato, e i "giovani" che vi avevano un ruolo preminente, erano stati in grado di far sentire su di esso tutto il loro peso.
Nella relazione che presentava al senato nel 1595 al termine della sua ambasciata romana, Paolo Paruta si sforzava di fare intendere ai governanti veneziani quanto la Sede Apostolica biasimasse l'attuale rifiorire delle antiche ostentazioni di indipendenza e di grandezza della Repubblica, e come attendesse l'occasione opportuna per reprimerle. Egli avvertiva che la Chiesa, oltre ad aver recuperato la forza suscitatrice del suo magistero spirituale, era ormai un organismo temporale dei più compatti, che le sue strutture, a cominciare da quelle finanziarie, erano coordinate ed efficienti, che il potere sovrano del pontefice era ormai incontrastato, che lo Stato pontificio ne era il massimo strumento, ma che nunziature, tribunali del Sant'Ufficio, episcopati, ordini religiosi proiettavano quel potere in seno agli altri Stati. La Repubblica, a vedere del Paruta, doveva stare in guardia. Tener anzitutto presente che era necessario aver l'amicizia dei pontefici perché serviva a tenere in pace i sudditi altrimenti inclini alla riottosità nei confronti del proprio principe (è da supporre che il Paruta alludesse alle varie manifestazioni di insubordinazione verso i rappresentanti della Repubblica e altri nobili veneziani che si erano avute nella Terraferma durante il grave periodo di carestia tra 1590 e 1593): e le censure spirituali che le autorità ecclesiastiche avessero irrogato contro l'autorità secolare - il Paruta faceva capire che erano nell'aria - sarebbero state certo fomento di ribellione. Ad esempio, insisteva il Paruta, non valeva la pena di metter a repentaglio i buoni rapporti della Repubblica con la Sede Apostolica per dispute come quelle divampate negli ultimi anni su Ceneda ed Aquileia (252).
La questione di Aquileia - a chi spettasse la sovranità temporale sulla cittadina e sul suo contado, se al patriarca che vi aveva sede da sempre o alla Serenissima Signoria di Venezia, in virtù della conquista del Friuli da essa compiuta nel 1420 -era una storia annosa, complicata, come quella di Marano e altre della zona di confine tra Repubblica di Venezia e arciduchi d'Austria, dalle vicende belliche cinquecentesche e da paci e trattati che ne erano seguiti. Una storia che aveva avuto un'impennata dopo il 1580 allorché le autorità veneziane avevano compiuto atti giurisdizionali su Taiedo, piccolissimo feudo sito alle porte di San Vito al Tagliamento. Taiedo, come San Vito, come San Daniele, era territorio patriarcale, sul quale la Serenissima Signoria non aveva alcun titolo per intervenire, aveva protestato indignatissimo il patriarca di Aquileia Giovanni Grimani. I Grimani erano, con i Corner e i Pisani, una famiglia diventata ultrapotente perché aveva gestito la terribile crisi finanziaria della Repubblica dopo Agnadello, svolgendo la mediazione tra la Repubblica e Agostino Chigi, banchiere della Sede Apostolica, quando questi aveva concesso alla Serenissima Signoria un prestito indispensabile per far fronte alla situazione. "Advocates of the political connection with the Pope", ha definito i Grimani e le altre famiglie Felix Gilbert, storico di quelle vicende (253).
Come per altre famiglie, quel periodo di smagliamento dell'autorità della Serenissima Signoria aveva consentito loro di acquisire una sorta di autonomia nei suoi confronti, pur continuando ad esercitare cariche e responsabilità di governo. I Grimani erano riusciti a farsi conferire dalla Sede Apostolica diocesi come Aquileia e Ceneda, e abbazie come Sesto al Reghena, che poi si passavano tra di loro. Quando nel 1533 uno di loro aveva cercato di ottenere la diocesi di Concordia, pur al confine nord-orientale, si era levata la protesta dello stesso doge Andrea Gritti, preoccupato che i Grimani potessero diventare signori "di tutto quello Stato dalla parte di settentrione et Levante" (254). E così, quando Giovanni Grimani faceva le sue rivendicazioni di sovranità temporale su Aquileia e il suo contado, si dubitava a Venezia che non si muovesse in favore del patriarcato, ma della propria famiglia. Giovanni Grimani dava per scontato che, conforme alla buona disposizione dimostratagli negli anni trascorsi, i massimi organi di governo della Repubblica, cioè il collegio e il consiglio dei dieci, avrebbero senz'altro accolto le sue ragioni. Questa volta erano state respinte. Attenendosi al parere dei suoi consultori, la Serenissima Signoria aveva obiettato che essa possedeva il Friuli per diritto di guerra, e che poteva pertanto esercitare la sua giurisdizione anche su feudi come Taiedo. La vicenda aveva conosciuto momenti assai difficili per la Repubblica. Il papa Gregorio XIII, cui il Grimani si era rivolto trovandovi un caloroso appoggio, sosteneva che toccava a lui giudicare chi dei due contendenti avesse ragione, e faceva intravvedere che al suo posto avrebbe potuto intervenire l'imperatore, il quale avrebbe fatto valere, oltre che i suoi, i diritti dell'arciduca d'Austria, che era la cosa più temuta da Venezia, perché in tal caso la questione di Aquileia avrebbe fatto riesplodere tutte le altre contese confinarie, a cominciare da quella di Marano strettamente intrecciata con l'aquileiese - nel 1584 l'ambasciatore imperiale a Venezia Vito di Dornberg intravvedeva addirittura il pericolo di una guerra (255). La situazione si era placata nel 1585, quando, morto Gregorio XIII e succedutogli Sisto V, la Serenissima Signoria aveva consentito a donare al pontefice i suoi diritti sul feudo di Taiedo, affinché ne disponesse come voleva: ma il fatto di poter donare era una indiscutibile attestazione del diritto che si aveva sulla cosa donata. La controversia aquileiese era ben lungi dall'essere chiusa. Essa si riattizzerà con ben maggiore asprezza nel secondo decennio del Seicento, quando la difesa dei diritti sovrani della Serenissima Signoria sarà sostenuta dalla dottrina e dalla passione di fra Paolo Sarpi (256).
Non era nuova neppure la questione di Ceneda: ma essa era esplosa nel 1541, in concomitanza con quella di Marano, quando Giovanni Grimani, che ne era vescovo, aveva affermato che la cittadina di Ceneda, sede della omonima diocesi, e il suo contado, essendo feudo pontificio, non erano soggette alla sovranità della Serenissima Signoria, bensì a quella della Sede Apostolica, e pertanto alla sua, dato che in quanto vescovo era investito di quel feudo. La disputa era rimasta sopita dopo che, nel 1546, il papa Paolo III aveva preferito conferire la diocesi non a un Grimani, bensì a un prelato di sua fiducia, il friulano Michele della Torre. Nel 1586, morto il della Torre, la diocesi era tornata ad un nobile veneziano, seppur non di casa Grimani, Marc'Antonio Mocenigo. Ma laddove i Grimani si erano valsi della Chiesa e delle cariche ecclesiastiche per accrescere il loro potere familiare, Marc'Antonio Mocenigo, vero prelato della controriforma, si era posto completamente al servizio della Chiesa, e ne era diventato strumento per la difesa delle pretese e delle rivendicazioni che essa vantava nei riguardi della Repubblica di Venezia: in particolare, di quelle su Ceneda. Per affermare più chiaramente che al di sopra del vescovo c'era solo la Sede Apostolica, si era proibito al patriarca di Aquileia, di cui Ceneda era diocesi suffraganea, di ricevere appelli da sentenze emanate in primo grado nella cittadina; né ci si poteva appellare alle superiori magistrature veneziane. I ricorsi in appello dovevano essere portati solo a Roma, precisamente alla Congregazione della Consulta, che era stata istituita di recente per sovraintendere all'amministrazione del dominio temporale della Chiesa. "Fu il primo tentativo della corte romana di trattar Ceneda come parte dello Stato ecclesiastico", scriverà, in un suo consulto del 1611, quell'irriducibile sostenitore della sovranità della Repubblica che era fra Paolo Sarpi (257).
Il punto di vista di Paolo Paruta, che negoziava la questione a Roma col papa Gregorio XIII, era ben diverso: su Ceneda non bisognava trattare in base a rigide concezioni di sovranità, ma con duttilità, da "principe a principe", collocando la controversia nel contesto più ampio dei problemi che la stessa Repubblica e la Sede Apostolica si trovavano allora ad affrontare. In primo luogo, la composizione della contesa tra Filippo II ed Enrico IV, e di quella, ancor più importante perché condizionava tutto, tra la Chiesa romana e il re di Francia. Per poter contribuire attivamente alla conciliazione tra i grandi principi della cattolicità Paolo Paruta, come si è già ricordato, aveva preso l'iniziativa di accantonare provvisoriamente la questione di Ceneda proponendo al papa la sospensione degli atti giurisdizionali che erano stati compiuti da parte sia della Sede Apostolica che della Repubblica riguardo la cittadina. Gregorio XIII aveva accettato di buon grado. A Venezia invece quell'intesa aveva sollevato ampie critiche. Si riteneva che il beneficiario ne sarebbe stato il papa, e che per Venezia si trattasse di un cedimento. Così che il 16 settembre 1595 si era scritto al Paruta di non "stabilir cosa alcuna nel negozio di Ceneda", lasciando che lo concludesse l'ambasciatore che sarebbe andato di lì a poco a sostituirlo in quella difficile sede. Neppure il successore del Paruta, Giovanni Dolfin, potrà mettere la parola fine a quel "negozio": esso, come quello di Aquileia, si riproporrà in termini ben più duri dopo l'Interdetto.
Nella relazione consuntiva della sua ambasceria romana Paolo Paruta teneva a ricordare ai senatori che criticavano il suo operato che anche a guardare soltanto all'Italia, e lasciando da parte quanto coinvolgeva pure Francia e Spagna, si potevano ravvisare situazioni cui non si prestava la debita attenzione, ma che erano suscettibili di recare ben altro pregiudizio agli interessi della Repubblica di quel che non facessero le questioni di Ceneda e di Aquileia. Era il caso di Ferrara e di Urbino, feudi della Chiesa che la Sede Apostolica intendeva far ricadere sotto il proprio dominio diretto non appena si fossero estinte, e non ci doveva mancar molto, le case, rispettivamente degli Este e dei della Rovere, che ne erano state investite. Il papa a Ferrara, scriveva il Paruta, quale ammonimento per coloro che accusavano lui di inclinazione a favorire la Sede Apostolica, lo Stato pontificio direttamente confinante con il territorio veneto a brevissima distanza da Venezia - cosa che effettivamente si verificherà nel 1598 - costituiva un problema da non sottovalutare; perché Venezia aveva sempre considerato Ferrara un elemento importantissimo per la sua sicurezza e la sua economia, tanto che, dopo averla tenuta in stato di semisoggezione, aveva combattuto una guerra per cercare di averla saldamente soggetta; Ferrara era la città che controllava il Po, e che alla foce del Po poteva diventare il grande porto dello Stato pontificio, antagonista non solo di Ancona, ma della stessa Venezia. Guai, dunque, ad avere a Ferrara un papa nemico. Quanto ad Urbino (ma la sua annessione allo Stato pontificio arriverà in tempi molto più lunghi di quanto egli prevedesse, nel 1631) Paolo Paruta ricordava che era la terra dove la Repubblica ingaggiava parte delle sue truppe e il loro comandante: se la Sede Apostolica avesse voluto precluderle questa risorsa, la Repubblica avrebbe dovuto contare esclusivamente su soldati d'oltralpe, come i Grigioni e gli Svizzeri, il cui arrivo a Venezia poteva essere ostacolato dai confinanti spagnoli. Solo buoni rapporti di collaborazione con la Sede Apostolica, concludeva il Paruta, avrebbero consentito alla Serenissima Signoria di sottrarsi alla morsa che altrimenti sarebbe andata dal Po all'Adda, dalle montagne bergamasche e bresciane fino al Friuli e al mare (258).
Nelle Istruzioni che il nunzio pontificio uscente Anton Maria Graziani lasciava nel 1598 al suo successore, gli diceva che chi trattava col governo veneto doveva tener presenti particolarmente tre cose. Una, relativa al modo di procedere: nell'impostare le trattative bisognava ricordare che se interlocutore diretto era il collegio, ove sedeva un gruppo ristretto e altamente qualificato di nobili, interlocutore indiretto, ma al quale spettavano le decisioni, era il senato, "composto di così gran numero d'uomini e di così diversi cervelli". Le altre due cose, che potremmo dire di merito, concernevano i due problemi più scottanti, quello della giurisdizione ecclesiastica e quello della navigazione nel Golfo (259).
"La giurisdizione del Golfo è la più bella veste che abbia la Repubblica, e [...> essa non la dividerà mai", aveva detto un ambasciatore veneto al papa Clemente VIII. Nel 1601, a un altro ambasciatore della Repubblica, Marco Venier, toccava l'affronto di leggere sotto lo stemma del cardinale Aldobrandini, nipote dello stesso Clemente VIII, il motto: "Vince mari, jam terra tua est". Qualcosa di sconcertante, per un nobile battagliero quale il Venier, che vi leggeva il proposito di sommergere nell'Adriatico il diritto che vi vantava la Repubblica. Alla questione del Golfo se ne erano affiancate altre, apparentemente più facili da affrontare, ma che tenevano gli spiriti accesi, da parte della Chiesa come da parte della Repubblica. La questione dei libri proibiti, nonché dei librai, ad esempio. Sino all'ultimo decennio del secolo l'atteggiamento della Repubblica nei riguardi degli Indici promulgati dalla Sede Apostolica era stato accomodante. Dopo il 1590 le cose mutavano. Il 14 giugno 1596, a difesa di librai e stampatori veneziani, si abolivano tutti i privilegi di stampa, passati, presenti e futuri, accordati dalla Santa Sede ai propri stampatori, comminando pene contro chi osasse farli osservare nel Dominio veneto. Una proibizione che in pratica doveva rivelarsi più flessibile di quanto il disposto delle leggi non lasciasse prevedere. Ben più rigido l'atteggiamento del senato nei confronti del nuovo Indice emanato nel 1596 da Clemente VIII. Il senato si rifiutava di pubblicarlo. Dopo una trattativa serrata con la Sede Apostolica, la Serenissima Signoria decideva di fare qualche concessione, tanto che il 14 settembre otteneva di stipulare con la Sede Apostolica un concordato, in virtù del quale venivano modificate in senso favorevole ai Veneziani le regole dell'istruzione esecutiva che accompagnava l'Indice (260).
Si manifestava nel contempo un irrigidirsi delle autorità secolari nei confronti delle immunità ecclesiastiche, reali e personali. "Li preti hanno in mille vie intacata la iurisdittion laica et andavano di giorno in giorno dilatando", protestava nel 1595 il nobiluomo Francesco Contarini in una pagina dei suoi Annali. Ma due anni prima i capi del consiglio dei dieci avevano fatto arrestare a Venezia frate Alberto da Lugo, con l'accusa di aver scritto a Roma cose dannose per la Repubblica. Era poi la volta di un domenicano, il quale veniva ufficialmente ammonito dagli stessi capi per aver tenuto un sermone sedizioso. Seguiva poi il vescovo di Sebenico, richiamato ufficialmente per aver preteso che per tradurre un sacerdote in giudizio secolare fosse prima necessaria l'autorizzazione dell'autorità ecclesiastica.
C'era infine il problema dell'eccessiva espansione della proprietà ecclesiastica. Già nei suoi Annali Francesco Contarini segnalava preoccupato che nel territorio bresciano metà dei beni apparteneva ad ecclesiastici. "Possedono le persone ecclesiastiche nel Stato della Repubblica ricchezze immense", scriverà poco più di una decina d'anni dopo il nobiluomo Antonio Querini, ascendenti "a più di trenta millioni d'oro di beni stabili, poiché l'entrate loro arrivano a più d'un millione e mezzo". Ricchezze su cui era arduo riscuotere le decime: ci si riusciva solo per le parti spettanti al clero più povero; ma i cardinali, i cavalieri di Malta, metà dei monaci, i frati mendicanti, la Sede Apostolica li voleva immuni, e chi sosteneva il contrario era tacciato di violenza alla libertà ecclesiastica. Nicolò Contarini ed Antonio Querini, nominati nel marzo del 1602 sopraintendenti alle decime del clero, dicevano di non poter sopportare "tanta indebita disparità" (261).
Per porre freno a questo dilatarsi incontrollato della proprietà ecclesiastica, dovuto principalmente a lasciti ereditari o a donazioni di laici, il senato emanerà tra 1604 e 1605 due leggi che proibivano la costruzione di chiese o di altri luoghi pii, nonché l'alienazione di beni stabili ad ecclesiastici senza aver ricevuto la previa autorizzazione dallo stesso senato; ma già nel marzo del 1602 un altro decreto del senato aveva negato agli ecclesiastici il diritto di rivendicare per prelazione o altro beni in possesso di laici (262).
La contrapposizione all'interno del ceto dirigente veneto si era radicalizzata. Non erano in grado di placarla i pressanti avvertimenti di opportunità politica che un Paolo Paruta rivolgeva ai senatori con la sua relazione. I senatori che riuscivano a suscitare ora un largo consenso avevano una diversa visione degli interessi politici della Repubblica: essi criticavano la pace di Bologna, rimpiangevano le città di Romagna allora indebitamente perdute, erano più inclini a tentare di recuperarle che non a subire l'umiliazione di perdere dell'altro; avevano un alto senso della sovranità dello Stato, fatto non tanto di proclamazioni ideali, ma di esercizio effettivo e rigoroso dei poteri ove fosse necessario intervenire. Era una contrapposizione che, per gli uomini i quali da una parte o dall'altra la vivevano più intensamente, si fondava su un modo diverso di concepire i rapporti tra lo Stato e la Chiesa, e i diritti del principe, i doveri dei sudditi verso la stessa Chiesa, o sulla diversa valutazione di quella straordinaria realtà che era la Chiesa post-tridentina, appassionatamente coinvolgente per chi la sentiva, ostica o incompatibile per chi non la comprendeva.
Non è bene avere cardinali veneziani, oltre a tutto c'è il rischio che possano diventare papi, che "sarìa rovina della Repubblica", aveva affermato nell'estate del 1588 Leonardo Donà, dibattendo in senato se fosse il caso di domandare al papa di inserire dei Veneziani in una prossima infornata di cardinali. Si era inoltre radicalizzata la controversia dei procuratori di San Marco de supra con il doge e il primicerio di San Marco per il giuspatronato del primo e le prerogative dell'altro sulla cappella ducale - l'acme lo si raggiungerà all'alba del secolo nuovo, quando il doge Marin Grimani riuscirà a bloccare un colpo di mano dei procuratori per erodere il suo giuspatronato. Si era aggiunta la polemica del patriarca Lorenzo Priuli, un "romanista" dei più ferventi - è da vedere quanto scrive Manfredo Tafuri dei suoi progetti architettonici per la cattedrale di San Pietro di Castello -, verso lo stesso doge Marin Grimani accusato di ledere l'autorità patriarcale, e, indirettamente, verso il papa Clemente VIII, che, pago di affermare che i diritti vantati dal doge e dal primicerio dipendevano da concessioni pontificie, non interveniva a sostegno del suo prelato. Ma negli stessi primordi del Seicento ci sarà un anonimo consulente della Serenissima Signoria il quale sosterrà che le concessioni pontificie contavano ben poco, dal momento che i diritti sulla cappella ducale il doge li aveva acquisiti de facto, il giorno stesso in cui si era deciso di edificare la cappella (263). Paolo Prodi parla del serrato dibattito avvenuto nel 1600 tra la Serenissima Signoria e la Sede Apostolica circa la procedura pretesa da Roma per l'elezione del patriarca di Venezia e del discorso con cui Leonardo Donà aveva difeso davanti al nunzio pontificio il diritto della Repubblica a eleggere il suo patriarca secondo i requisiti che essa riputava conferenti al magistero che doveva svolgere in una città come Venezia. In quel medesimo periodo Roma e Venezia si erano scontrate a causa dell'apertura da parte veneziana di un nuovo alveo del Po che Clemente VIII considerava dannosissimo a Ferrara (264).
Arriverà inoltre ad un'intensità mai raggiunta la disputa sulla Compagnia di Gesù, accesasi a Venezia dopo il 1580: i senatori più ligi alla Chiesa, i quali - primo tra loro Jacopo Foscarini - erano convinti che fossero indispensabili le funzioni educative e pastorali svolte dalla Compagnia di Gesù, volevano che fossero aperte, o riaperte, le sue scuole a Venezia e soprattutto a Padova; laddove gli altri, a cominciare da Nicolò Contarini e Antonio Querini - il loro maestro Leonardo Donà era a tale proposito di opinioni diverse - consideravano i gesuiti corruttori della gioventù per via dell'educazione che impartivano e di nobiluomini e nobildonne a causa delle loro confessioni e dei loro esercizi spirituali. Ma la controversia sulle scuole dei gesuiti era strettamente connessa con i contrasti esistenti riguardo allo Studio di Padova, dove si lamentava che fosse concesso troppo spazio ad acattolici ed Ebrei, e che si tollerassero insegnamenti ateistici come l'aristotelismo averroistico professato dal filosofo Cesare Cremonini, per non parlare dei comportamenti sguaiati e irriverenti degli studenti (265). Era d'altro canto la proiezione inevitabile della tolleranza per cui, malgrado anche lì funzionassero strumenti repressivi come l'Inquisizione e talune occhiute e severe magistrature penali della Repubblica competenti anche su crimini contro la religione e la moralità, Venezia aveva fama di esser la città più aperta d'Europa: era a Venezia infatti che Jean Bodin aveva ambientato nell'ultimo ventennio del secolo il suo Colloquium heptaplomeres, emblema della possibilità di convivenza e di dialogo esistente tra uomini pur di differenti religioni - e si pensi poi alla circolazione di idee nelle "accademie" o nei "ridotti" di cui parla nel suo contributo Gino Benzoni (266).
Paolo Paruta aveva vissuto intensamente nei suoi ultimi anni - morirà nel 1599 - quella divaricazione che si andava vieppiù approfondendo. Non gli era sfuggito quale sarebbe stato l'evolversi della situazione, e aveva lasciato traccia di questo tormento, che certo non era soltanto suo, in quel suo libriccino autobiografico di cui ci parla Paolo Prodi, il Soliloquio, scritto giusto al finire della sua vita (267).
Attenti a quel che si faceva, aveva risposto un giorno di aprile del 1580 Leonardo Donà al nunzio pontificio Alberto Bolognetti che, irritatissimo perché l'arcivescovo di Spalato era stato incriminato per truffa da un avogadore di comun, aveva minacciato di colpire con scomunica la Serenissima Signoria se non l'avesse ritirata: attenti, "perché ne potrebbe seguir tal cosa che portarebbe grandissimo pentimento a chi ne fusse stato causa". Analoga minaccia di un altro nunzio, Offredo degli Offredi, di pene spirituali contro la Repubblica, analogo avvertimento di Leonardo Donà di guardarsi bene dal provarcisi, saranno fatti nel 1603, in una fase della questione di Ceneda. Ma quelle censure spirituali rimaste così a lungo sospese sul capo della Repubblica finiranno con l'arrivare nella primavera del 1607 (268).
Nell'autunno del 1605, a qualche mese dalla sua elezione al soglio papale, Paolo V Borghese coglieva l'occasione offertagli dall'arresto da parte del consiglio dei dieci di un canonico vicentino, Scipione Saraceno, accusato di aver strappato un pubblico manifesto recante il sigillo di San Marco e di aver compiuto atti ingiuriosi e scandalosi ai danni di una nipote, e dell'abate di Nervesa, Marc'Antonio Brandolin, accusato da un nipote di omicidio e di altri gravi reati contro la proprietà e le persone, per ingiungere alla Serenissima Signoria di consegnare i due religiosi all'autorità ecclesiastica, affinché li sottoponesse al giudizio dei propri tribunali. Solo all'autorità ecclesiastica, rivendicava il pontefice, spettava il diritto di giudicar ecclesiastici. Di lì a poco, Paolo V esigeva dalla Serenissima Signoria di revocare le due leggi emanate dal senato nel 1604 e nel 1605 sulla proprietà ecclesiastica, sostenendo che erano contrarie alla libertà della Chiesa. Qualora la Serenissima Signoria si rifiutasse di ottemperare alle richieste, si aggiungeva di lì a poco, il papa avrebbe fulminato le debite censure spirituali, scomunica e interdetto: la scomunica, pena personale, diretta contro tutto il senato, l'interdetto, pena territoriale, con la quale si sarebbe proibito di svolgere la normale attività liturgica su tutto il Dominio veneto da terra e da mar. Erano pretese e minacce pesantissime, tali da metter in discussione la sovranità della Repubblica, la sua facoltà di esercitarla pienamente, su tutto e su tutti, si trattasse anche di proprietà ecclesiastica o di persone ecclesiastiche, nell'ambito del proprio territorio.
La Serenissima Signoria aveva risposto con fermezza alle ingiunzioni di Paolo V: non intendeva accettarle o sottomettervisi. Un segnale emblematico della volontà del senato era stato quello di eleggere al dogado, in sostituzione di Marin Grimani morto alla fine del 1605, Leonardo Donà. Una decisione altrettanto indicativa degli orientamenti del senato era stata quella di istituire, nel gennaio del 1606, un nuovo ufficio, quello di consultore teologo-canonista del governo, affidandolo a fra Paolo Sarpi, un veneziano dell'ordine dei Servi di Maria, che, oltre a dimostrare straordinaria capacità negli studi medico-fisici e matematici, si era rivelato personalità insofferente delle linee politico-spirituali assunte dalla Chiesa post-tridentina, o della controriforma, e dotato sia della dottrina che del coraggio necessari ad opporvisi. Così, in conformità ai consigli forniti dal Sarpi, quando, il 17 aprile 1606, Paolo V fulminava contro la Repubblica di Venezia un breve con cui ne scomunicava i governanti e ne interdiceva il Dominio, la Serenissima Signoria rispondeva - il 6 maggio - con una dichiarazione, o "protesto", nel quale affermava "il breve sudetto esser pubblicato contro la forma d'ogni ragione naturale e contro quello che le divine scritture, la dottrina delli santi padri e sacri canoni insegnano" e di ritenerlo "non solo per ingiusto e indebito, ma ancora per nullo e di nessun valore, e così invalido, irrito e fulminato illegittimamente e de facto".
Si apriva così la contesa che si dirà, dalla pena coinvolgente tutto lo Stato, dell'Interdetto, contesa destinata a trascinarsi per quasi un anno, sorta di braccio di ferro in cui la Sede Apostolica, con tutta l'autorità spirituale e politica che aveva voluto inalberare, si trovava a competere con un principe non più di prima grandezza, ma forte delle convinzioni religiose e civili dei suoi uomini di governo, e della solidarietà che erano riusciti a suscitare qua e là per tutta Europa, tra cattolici e riformati. Quanto di straordinario riuscirà a fra Paolo Sarpi e a coloro che nel governo ne condividevano e sostenevano le idee sarà infatti di trasformare immediatamente una vicenda giurisdizionale in una controversia in cui si dibattevano i limiti dell'obbedienza dovuta al pontefice, o, in altre parole, i limiti del potere pontificio. Se il papa, come in questo caso, sbagliava - era il tema di fondo della dottrina della resistenza messa a punto dal Sarpi -, se prevaricava cioè con le sue esorbitanze la parola divina, un cristiano aveva il dovere di disobbedirgli. Pertanto, un governo ispirato ai principi cristiani era tenuto a costringere non solo i sudditi del Dominio, a cominciare dal clero secolare e regolare, a non tener conto dell'Interdetto, ma a far svolgere l'attività liturgica. E se qualche sacerdote secolare, o intere congregazioni, come i gesuiti, o ordini regolari, come i cappuccini, erano di diversa opinione, dovevano lasciare immediatamente il territorio della Repubblica; mentre dovevano essere perseguiti nel modo più severo dai pubblici rappresentanti coloro che, rimasti nel Dominio veneto, propagandassero l'obbedienza al pontefice e la disobbedienza alla Serenissima Signoria.
Il senato non seguirà invece il Sarpi in altri suoi consigli di un radicalismo volutamente provocatorio, come quello di rimettere la decisione della contesa a un concilio o nazionale o, preferibilmente, ecumenico, in quanto il concilio - lo si era dichiarato nei grandi concili quattrocenteschi di Costanza e di Basilea - era superiore al papa. Riallacciandosi comunque idealmente alle dispute insorte nel Quattrocento, e che avevano visto nella seconda metà di quel secolo molti dei nobili veneziani propendere per la superiorità del concilio, si era deciso di pubblicare due scritti del celebre teologo francese Jean Gerson, riuniti sotto il titolo di Trattato e risoluzione sopra la validità delle scomuniche. C'erano stati poi altri scritti, di carattere religioso come quelli di Sarpi, e dello stesso Sarpi in collaborazione con altri sei teologi fedeli alla Serenissima Signoria, quali le Considerazioni sopra le censure di papa Paolo V, il Trattato dell'interdetto della santità di papa Paolo V, o di carattere politico-religioso come l'Aviso delle ragioni della Serenissima Republica di Venezia intorno alle difficoltà che le sono promosse dalla Santità di Papa Paolo V. Da parte pontificia non si era rimasti senza rispondere: entreranno nella cosiddetta "guerra delle scritture", condotta da una parte e dall'altra con estrema aggressività, grandi nomi della Chiesa, come i cardinali Baronio e Bellarmino. Sarebbe stato necessario proibire "la publication de force doctes escrits qui jettoient dans ce feu à bon escient", dirà nel pieno della contesa un moderato quale l'ambasciatore di Francia Philippe Canaye de Fresnes, che pure aveva salutato con ammirazione le prime pubblicazioni veneziane. La Serenissima Signoria aveva voluto coinvolgere direttamente nella vicenda anche il popolo minuto, usando uno strumento tradizionale, la pubblica "processione", con esibizione di carri allegorici, o "solari", come allora si diceva. Se ne era fatta una a San Marco, raccontava un diarista, "con insoliti e grandissimi apparati". Le Scuole grandi in particolare avevano allestito "molti bei solari, con alcune rappresentazioni che alludevano alla pretentione ragionevole della Republica con il papa, perché figurorono un Christo con due farisei con un motto che diceva: ῾Reddite quae sunt Caesaris Caesari et que sunt Dei Deo'". L'associare così strettamente e calorosamente Venezia, la città dominante, alla politica religiosa condotta dalla Serenissima Signoria, fin quasi ad identificarla con essa, avrà però un grosso risvolto negativo: perché i risultati di quella politica ricadevano anche sul Dominio, facevano gravare pure su di esso le conseguenze di scelte delicate come quelle religiose, di scelte che gran parte dei sudditi non sentiva e che era solo costretta a subire; e città come quelle della Terraferma riconoscevano in tutto questo un segno di prevaricazione della città dominante nei loro confronti (269).
Si arriverà alle minacce di guerra. Contro la Repubblica erano schierati, oltre alla Sede Apostolica, l'Impero asburgico e la Spagna. Se l'Impero asburgico, impegnatissimo allora nella guerra contro l'Impero ottomano e per i sommovimenti che avvenivano nelle sue terre orientali, non poteva distrarre le sue forze, la Spagna era pronta, aggressiva e ben dotata militarmente, alle frontiere tra la Repubblica e lo Stato di Milano - correrà voce che il re Filippo III avesse un progetto "per impadronirsi delle città et luoghi" che avevano fatto parte in passato dello Stato di Milano. In aperto favore della Repubblica si era dichiarato invece Giacomo I d'Inghilterra: ma in ogni caso era principe troppo lontano, e di per sé riluttante agli impegni bellici, per poter intervenire efficacemente al fianco della Repubblica. La Francia, il principe su cui la maggioranza dei senatori veneziani contava, si manteneva in posizione di cauta attesa, limitandosi ad auspicare un accordo tra i due contendenti. Verso il finire del 1606 la Spagna aveva fatto un tentativo di mediazione tra la Sede Apostolica e la Repubblica, e il suo intervento aveva avuto l'adesione dei più moderati tra i senatori, compreso il doge Leonardo Donà, preoccupato della piega che stavano prendendo le cose; contro di lui si erano levati gli oltranzisti quali Nicolò Contarini. La mediazione spagnola era caduta. Era giunto il momento atteso dalla Francia, la quale poteva scendere in campo con l'autorità indiscussa di chi non si era schierato apertamente per l'una parte o per l'altra. All'inizio del 1607 Enrico IV incaricava di svolgere la mediazione due cardinali francesi, de Joyeuse e du Perron. La contesa si concluderà così ufficialmente il 21 aprile del 1607, dopo trattative laboriosissime. In base all'accordo, né l'uno né l'altro dei contendenti riconosceva di aver errato, e pertanto di esser stato sconfitto. Così la Serenissima Signoria non doveva revocare le leggi del senato sulla proprietà ecclesiastica, i decreti penali del consiglio dei dieci, e nemmeno il decreto durissimo con cui cacciava la Compagnia di Gesù dal Dominio veneto. A ben vedere, sconfitta era la Sede Apostolica, anche se dirà che al momento in cui veniva sancito ufficialmente l'accordo il cardinale de Joyeuse aveva impartito di soppiatto una benedizione assolutoria alla Serenissima Signoria: sconfitta, anzi, proprio per aver cercato di salvare la faccia; sconfitta perché non era riuscita ad ottenere la riammissione nello Stato veneto della Compagnia di Gesù, che pure si era battuta col massimo fervore a difesa dell'autorità pontificale; sconfitta perché malgrado la minaccia incombente dalla Spagna, non bilanciata da un netto appoggio francese, malgrado le ombre che si profilavano in quel periodo sulla sua economia e sulla sua finanza, la Serenissima Signoria non aveva deflettuto dai suoi princìpi ideali, affermando un'autonomia dalla Curia romana che poteva esser gravida di pericolose conseguenze (270).
Successo della Serenissima Signoria, dunque. Un successo che, come era apparso subito chiaro, comportava un prezzo altissimo, come l'approfondirsi del solco che divideva Venezia dalla Terraferma, le divisioni e l'irrequietudine createsi in seno alla nobiltà veneziana, e che comunque non appagava i più irriducibili sostenitori della resistenza alle ingiunzioni e alle minacce pontificie - un fra Paolo Sarpi, un Nicolò Contarini in particolare -, che si sentivano delusi del risultato, oltre che del clima di smobilitazione ideale che si era presto diffuso nella città. La conclusione avrebbe dovuto essere per loro ben altra, una riaffermazione indiscussa dei diritti della Serenissima Signoria al ricupero delle prerogative perdute a causa delle guerre d'Italia del primo trentennio del Cinquecento, ad esempio la nomina dei vescovi del Dominio, la pienezza del potere sull'Adriatico... Ma per ottenere questo, la lotta con la Sede Apostolica doveva essere portata avanti fino al limite di rottura, ossia fino alla minaccia di uno scisma; e la lotta, a questo punto, sarebbe stata durissima non solo con la Sede Apostolica e con la Spagna, ma all'interno, nell'ambito del senato (271).
Il vero vincitore era Enrico IV, il quale aveva approfittato dell'opportunità offertagli dalla vicenda dell'Interdetto per proporsi in primo piano sulla scena europea.
La questione dell'Interdetto si era conclusa in aprile, e già un mese dopo, il 23 maggio, in città si riprendeva a recitare le commedie, "già circa trent'anni per causa de' gesuiti bandite", scriveva nei suoi diarii Girolamo Priuli: dapprima a sant'Alvise, poi in rio Marin, poi a San Basegio... Sembrava che con il teatro la città volesse riprendere in tutta la sua pienezza l'atmosfera tollerante e gioiosa che le era congeniale, quella che aveva colpito Clément Marot e Michel de Montaigne, o stupito un giovane viaggiatore calvinista come Philippe Canaye de Fresnes, e provocato il biasimo di Carlo Borromeo. Jean-Baptiste du Val, che arrivava a Venezia da Parigi nell'autunno del 1607 per prender servizio come segretario dell'ambasciata di Francia, restava subito colpito dalla vivacità della vita veneziana, dalla gente che brulicava per campi e calli, dalla musica che vi si faceva - nelle chiese, la "musique à l'italienne", con organi, piccoli e grandi, tromboni, oboi, viole, violini, liuti, accompagnati dal coro, e fuori delle chiese (ne parla David Bryant in questo volume) -, delle danze che si ballavano tra ragazzi e ragazze nei campi o all'angolo delle calli, delle corse dei tori. Coloro che avevano disapprovato la resistenza al pontefice non potevano che restare indignati al vedere come i Veneziani, dopo la conclusione della controversia, si volgessero ai piaceri terreni. "Si può dire che il Demonio qui tenga il suo seggio" scriveva, pure nell'autunno del 1607, l'anonimo autore di una relazione su Venezia, che sembra riecheggiare il piglio e qualche motivo polemico del gesuita Antonio Possevino, "perché come da bocca infernale da questa città escono tutte le sceleragini et enormi peccati che si possono immaginare". La sessualità era scatenata, la corruttela dilagante, tra i giovani quanto tra i vecchi. Riguardo a preti, frati e monache, gli uni erano peggio degli altri: probabilmente la palma toccava ai frati, definiti "schiuma e feccia di tutte le religioni" (272).
Fedeltà alle ambizioni e alla grandezza realizzata nel passato, difesa della propria peculiarità ecclesiale e spirituale, erano gli ideali che avevano ispirato e ispiravano l'atteggiamento della Repubblica nei confronti della Sede Apostolica. Insieme c'era il rigetto delle sovrapposizioni della cultura romana su quella tradizionale veneziana: rinviamo ancora a quanto scrive Manfredo Tafuri degli interventi e dei progetti architettonici lungo l'arco del tempo, dal 1530 alla fine del secolo; Rodolfo Pallucchini ha dimostrato pochi anni or sono come Venezia con l'Interdetto si chiuda alla spinta innovatrice introdotta nella pittura da Michelangelo da Caravaggio, una innovazione che tanta presa aveva invece già avuto su una città come Verona, profondamente intonata all'atmosfera della controriforma (273). Malgrado il diffondersi verso fine '500 dell'assillante preoccupazione per la sua sicurezza e del convincimento che fosse necessario premunirsi controllando capillarmente l'afflusso dei forestieri - ne parlano nel volume Paolo Preto e Alfredo Viggiano - Venezia era città disposta ad accogliere e addirittura a favorire le comunità acristiane ed acattoliche. La comunità ebraica, che Jean-Baptiste du Val aveva voluto subito conoscere, attirato da una curiosità che era comune ad altri stranieri - si pensi all'inglese Coryat -, era in espansione, anche se qualche ebreo preferiva lasciarla per trasferirsi ad Amsterdam: il prevalere nel senato di senatori della parte cosiddetta dei "giovani" e il buon esito della questione dell'Interdetto la favorivano, col sottrarla al controllo ostile del patriarcato e della Curia romana, col concederle di dotarsi di una sorta di statuto comunitario (il Chaal, o Libro grande), e col favorire la soluzione del grosso problema degli alloggi nel Ghetto (274). Si sarebbe voluto incrementare anche la presenza a Venezia di mercanti inglesi ed olandesi. Nel 1610 si discuterà in senato la proposta, sostenuta da Nicolò Contarini e da familiari del doge, di concedere la cittadinanza de intus et de extra a tutti i "forastieri [...> sudditi e alieni" (ma, come risulta dal dibattito, ci si riferiva in particolare a Olandesi, Fiamminghi, Inglesi) che abitassero già a Venezia o che vi venissero ad abitare in futuro. Si riteneva che una volta inseriti nel commercio veneziano non gli avrebbero più recato danno con la loro concorrenza rivelatasi vieppiù rovinosa e che avrebbero contribuito efficacemente alla ripresa di una economia che dal 1602 - lo mette ben in evidenza Domenico Sella, che spiega quali novità Inglesi ed Olandesi volessero apportare - stava dando preoccupanti segni di crisi (anche se la vicenda di un bergamasco trasmigrato a Venezia, Bartolomeo Bontempelli, di cui ci parla Gigi Corazzol, dimostra quali possibilità di far fortuna avesse tra l'ultimo scorcio del Cinquecento e l'inizio del Seicento un mercante intraprendente). La maggioranza del senato si era opposta, sotto le pressioni di interessi corporativi dei mercanti veneziani, e per considerazioni politico-religiose, dato che molti tra Olandesi, Fiamminghi, Inglesi erano protestanti o addirittura calvinisti. Per analoghe ragioni politico-religiose non era stata accolta l'offerta di una lega che le Province Unite d'Olanda avevano fatto alla Serenissima Signoria dopo aver conclusa finalmente una tregua con la Spagna. L'ambasciatore delle Province Unite, Cornelius van der Myle, aveva fatto rilevare quali vantaggi economici, oltre che politici, avrebbe ricevuto la Serenissima Signoria: la differenza di religione esistente tra le due Repubbliche, l'antica e la giovane, non doveva costituire ostacolo, insisteva il van der Myle, "potendosi bene, servando ciascuno la sua, star uniti nelli rispetti politici" (275).
C'era, a base del rifiuto, il consueto timore di molti senatori veneziani per le leghe e per le guerre in cui a causa di esse si sarebbe finito con l'esser coinvolti, timore che continuava a farsi sentire, anche se era forte ora il numero dei senatori che vedevano con favore la possibilità di rompere la lunga neutralità che, secondo loro, aveva debilitato la Repubblica, mettendola in condizione di subire minacce di avversari come la Spagna e la Curia romana - pure un invito rivolto allora da Enrico IV di collegarsi con il duca di Savoia Carlo Emanuele veniva lasciato cadere. Ma c'era anche la preoccupazione per la situazione religiosa veneziana negli anni del dopo-Interdetto. La posizione del doge e del primicerio in difesa delle loro prerogative si era irrigidita ulteriormente: l'anonimo autore della relazione dal tono "posseviniano" giungeva a dire con evidente esagerazione che ora, sotto il dogado di Leonardo Donà e il primiceriato di Giovanni Tiepolo, si poteva dire che a Venezia esistevano praticamente due Chiese scismatiche, l'una quella greca, l'altra la cappella ducale di San Marco (276).
Una Venezia accesa da spiriti antipontifici - li aveva riattizzati l'attentato perpetrato contro fra Paolo Sarpi nell'autunno del 1607 da un sicario di cui si sospettava che fosse mandato dal papa o da suo nipote, il cardinale segretario di Stato Scipione Borghese -, una Venezia ancora percorsa dalla passione dell'Interdetto era inoltre guardata con grande interesse da protestanti e riformati d'Oltralpe. Giungevano sulle lagune rappresentanti ufficiali di principi che intendevano esaminare se esistessero possibilità di intesa fra loro e la Serenissima Signoria. Altri vi giungevano privatamente, a svolgervi attività di proselitismo in favore della riforma, come il ginevrino Jean Diodati, che distribuiva copie di una sua traduzione del Nuovo Testamento. Gli uni e gli altri facevano capo a fra Paolo Sarpi. E lo stesso Sarpi intratteneva corrispondenza con gallicani come Jacques Leschassier e Jacques Gillot, o con calvinisti come Jérôme Groslot de l'Isle, Philippe Duplessis-Mornay e Christoph von Dohna. Calvinisti che avevano qualche motivo per sperare che si costituisse a Venezia una comunità riformata. A detta di un osservatore equilibrato ed attento quale il reverendo William Bedell, un puritano di tendenze moderate che, giunto a Venezia come cappellano dell'ambasciata inglese, era entrato in grande dimestichezza con il Sarpi e il suo collaboratore fra Fulgenzio Micanzio, questi due serviti non si sarebbero opposti alla creazione di una congregazione riformata, ma insistevano sulla necessità di andar con molta cautela, sia nell'accettare adesioni, sia nell'adottare confessioni di fede e forme liturgiche che comportassero una rottura troppo brusca con la mentalità e la sensibilità locale. A vedere del Bedell un mutamento si sarebbe potuto verificare per ragione di Stato, non sulla spinta di un movimento di coscienze. Egli riteneva che la cosa fondamentale fosse l'abbattere il primato del pontefice. Sarebbe stato possibile ottenerlo, egli aggiungeva riferendo l'opinione di "saggi e buoni" - il Sarpi e il Micanzio, probabilmente - se la contesa dell'Interdetto fosse durata ancora un anno o due: il papa allora avrebbe dovuto dire addio a Venezia.
Nell'agosto del 1609 il re di Francia Enrico IV aveva intercettato una lettera con cui Jean Diodati, di ritorno da Venezia, illustrava ottimisticamente a un suo corrispondente le prospettive di successo che la riforma protestante avrebbe potuto avere nella città lagunare: il re ne aveva fatto avere una copia al papa, un'altra alla Serenissima Signoria. La lettera aveva destato grande scalpore a Parigi, scalpore ancor maggiore e indignazione a Roma, e una viva emozione a Venezia. Le reazioni qui erano varie: c'era infatti chi tentava di negare veridicità a simili notizie, che miravano al solo scopo di infamare la Repubblica; c'era chi le prendeva sul serio, e imprecava contro coloro che, Veneziani o forestieri, ardivano pensare che si potesse mutare la religione della Repubblica; e non mancava chi non sopportava di vivere sotto l'oppressione così soffocante degli screzi che solcavano il patriziato veneziano, o nel clima di conflittualità che separava la Sede Apostolica dalla Repubblica, e preferiva lasciare posizioni di prestigio, come una cattedra allo Studio di Padova, per approdare a posti più tranquilli; farà così nel 1610 Galileo Galilei (ma il deflusso degli studenti da Padova era cominciato da qualche anno, da quando si era invelenita la discordia tra il senato veneziano e la Compagnia di Gesù, e si era diffusa la fama dell'educazione intellettualmente e moralmente cattiva che si impartiva allo Studio). Altri infine vedevano in tutto questo il rischio che si mettesse in pericolo quanto si era cominciato a costruire. "Il re di Francia ha scritto al papa che Venezia inclina alla religione [riformata>", scriveva il Sarpi a Christoph von Dohna; e lamentava con l'altro corrispondente calvinista francese, Jérôme Groslot de l'Isle, che Enrico IV, oltre ad aver posto fine con la sua mediazione alla questione dell'Interdetto, impedisse ora l'avviarsi del rinnovamento religioso (277).
In realtà, questa presa di posizione in favore del cattolicesimo romano era elemento essenziale della politica di Enrico IV, quello che gli permetteva di realizzare liberamente la sua azione antiasburgica, sciogliendola, come si è detto, da rigide connessioni confessionali. Sembrava infatti, nel gennaio del 1610, che Enrico IV avesse deciso di affrontare direttamente la Spagna e l'Impero. L'occasione era fornita dalla disputa accesasi riguardo alla successione del ducato di Clèves e Juliers, feudo imperiale sito nella zona renana, a ridosso dei Paesi Bassi spagnoli e delle Province Unite d'Olanda. L'imperatore Rodolfo II vi rivendicava i suoi diritti: il conte di Neuburg e il principe di Brandeburgo, che aspiravano a succedere nel feudo, li contestavano. Contro l'imperatore, che aveva al suo fianco la Spagna, si era schierata in armi l'Unione evangelica. Enrico IV aveva dunque mobilitato l'esercito. Lo scopo, ha suggerito Geoffrey Parker, poteva essere quello di non affidare alla sola Unione evangelica la soluzione delle vertenze tedesche. Il 14 maggio, quando stava per raggiungere le sue truppe, Enrico IV veniva ucciso da un fanatico cattolico, Jacques Ravaillac.
Una morte che inciderà sulla sorte dell'Europa, non solo della Francia. La Francia, rimasta in balia di un re fanciullo, e di una reggente in lite con i grandi del Regno, attraverserà un decennio confuso, tanto nella politica interna, per il riaffiorare delle lotte religiose, quanto, di riflesso, nella politica estera, dalla quale resterà a lungo praticamente emarginata. Per l'Europa, la scomparsa di Enrico IV, di un principe ambizioso di porsi al di sopra dei due blocchi confessionali, cattolico e protestante, provocherà nuovamente il radicalizzarsi della lotta religiosa. Finirà meglio per la Spagna e l'Impero che, stretti nella difesa della Sede Apostolica e del cattolicesimo, sapranno trovare compattezza di spiriti e unità d'intenti. Peggio sarà per i protestanti, che vedranno accentuarsi le divisioni intestine tra luterani e calvinisti, oltre a quelle tra gli stessi calvinisti, e che non avranno un principe dotato di un'ampia visione politico-religiosa, o capace di assumersi il ruolo di guida. Situazione che graverà anche sulla Repubblica di Venezia, costretta a muoversi tra i due blocchi, con una classe di governo inquieta, spaccata dalla contrapposizione tra coloro che volevano la guerra quale unico modo per affrancarsi dalla minaccia spagnola e imperiale, e insieme dall'egemonia pontificia da cui si sentivano oppressi, e coloro che continuavano a battersi per la neutralità e per la pace, a lor giudizio condizioni sempre più indispensabili per garantire l'avvenire della Repubblica (278).
Nel secondo decennio del secolo l'epicentro delle vicende europee tenderà a spostarsi verso la parte sud-orientale dell'Europa, l'Austria, la Boemia, la Moravia, nonché verso i territori con cui esse confinavano a Levante, Ungheria, Transilvania, Moldavia... Non mancheranno focolai di tensione anche ad occidente. La questione di Clèves e Juliers, che pareva terminata nel 1610 in seguito ad un accordo con cui gli Asburgo ritiravano le loro truppe e i due pretendenti si insediavano nei ducati, si riaccendeva nel 1614, per terminare comunque di lì a poco, evitando di un soffio la guerra: l'elettore del Brandeburgo, che si era fatto calvinista ed era appoggiato dalle Province Unite d'Olanda, otteneva Clèves, il ducato più ricco, mentre Juliers, il più povero, toccava al conte di Neuburg, che nel frattempo era diventato cattolico ed era sostenuto dagli Asburgo. Ma le questioni cruciali avranno luogo nell'Europa sud-orientale ed i maggiori protagonisti saranno i membri più elevati di casa d'Austria, a cominciare dall'imperatore Rodolfo II e dal fratello arciduca Mattia.
Le loro discordie dureranno sino alla morte di Rodolfo, avvenuta nel 1612. Dopo sei mesi Mattia sarà eletto imperatore. Non era certo uomo in grado di rassicurare gli altri arciduchi d'Austria, né il re di Spagna, né la Sede Apostolica. Troppo cedevole verso i protestanti, tra i quali aveva cercato collaborazione contro il fratello - uno dei suoi principali consiglieri era il barone moravo Karel Žerotín, protettore dei Fratelli Boemi, corrispondente di fra Paolo Sarpi -, troppo debole nella gestione dell'autorità imperiale. E poi, non aveva figli. Bisognava pertanto intervenire, rafforzare il partito cattolico, far sentire di più l'influenza spagnola, e scegliere subito chi sarebbe stato tra i membri di casa d'Austria il più idoneo a salire sul seggio imperiale, per ridurre quanto possibile il rischio che si facessero avanti altri concorrenti, e soprattutto un protestante. I candidati con maggiore probabilità di riuscita erano Filippo III, re di Spagna, o l'arciduca dell'Austria interiore, Ferdinando, assai legato alla Spagna, fervente cattolico, devotissimo dei gesuiti, geloso tutore dell'autorità sia in campo civile che in quello religioso, e avversario dichiarato della Repubblica di Venezia (era lui che appoggiava i pirati uscocchi) (279).
Lo stesso anno di Rodolfo II, nel luglio, moriva a Venezia il doge Leonardo Donà. Una morte salutata con la massima letizia, a Venezia e fuori, dai tanti acerrimi avversari che la politica della Serenissima Signoria aveva creato o esasperato. A chi gli chiedeva quali conseguenze avrebbe avuto questa perdita per la Repubblica, fra Paolo Sarpi rispondeva minimizzando: le strutture costituzionali della Repubblica erano tali che la perdita di una personalità pur della forza di un Leonardo Donà non poteva aver conseguenze di particolare rilievo nella gestione della cosa pubblica. Bastava il gruppo di senatori che si erano riconosciuti nel Donà, e che erano magari più intransigenti di lui, per portare avanti, con la collaborazione del Sarpi, la politica della risolutezza. In realtà in quel tempo, a causa del prevalere negli organi direttivi della Repubblica di senatori che gli erano ostili, la posizione di Sarpi aveva vacillato. Per poco, comunque. Le cose erano state riprese in mano dai senatori che lo sostenevano. Verranno rimesse al parere del servita, raramente disatteso, questioni di politica interna: quelle su Ceneda e Aquileia, o sul dominio dell'Adriatico, o sui confini, o sui benefici ecclesiastici, sull'Inquisizione e sulle immunità personali e reali del clero; e quelle di rilevanza specificamente veneziana, il giuspatronato del doge sulla cappella ducale di San Marco, il giuspatronato dei parrocchiani su parrocchie soggette alla diocesi di Castello; questioni che non si limitavano a riguardare interessi pubblici, coinvolgevano quelli di privati, potenti, generalmente. Col tempo, fra Paolo sarà interpellato anche su problemi di politica estera. Egli se ne era sempre interessato, e probabilmente riusciva ad esercitare una certa influenza su di essa mediante i senatori suoi amici, come un Nicolò Contarini, o altri che rappresentavano la Serenissima Signoria presso le grandi corti e coi quali intratteneva corrispondenza: ma rilevanza notevole avranno i rapporti - illeciti, bisogna dire, dato l'ufficio pubblico da lui tenuto - che avrà privatamente con Sir Dudley Carleton, ambasciatore d'Inghilterra prima a Venezia, poi all'Aia, capitale delle emergenti Province Unite d'Olanda, uno dei punti nodali della politica europea.
Dudley Carleton era calvinista. A differenza del suo predecessore Sir Henry Wotton, non credeva, come non credeva più Sarpi, all'opportunità o all'utilità di svolgere a Venezia un'azione missionaria. Bisognava muoversi su un altro piano, con orizzonti più vasti. Sarà il Carleton ad incoraggiare fra Paolo a far pubblicare in Inghilterra la sua Istoria del concilio tridentino, che doveva essere uno strumento per dimostrare al mondo, ai cattolici come ai protestanti, il processo di involuzione che aveva portato la Chiesa di Roma al concilio di Trento e alla controriforma - o al totato, come egli amava dire, l'esorbitante potere pontificio. Lo scopo dell'azione comune del Sarpi e del Carleton era politico-religioso: promuovere un'alleanza tra la Repubblica di Venezia, il duca di Savoia, l'Inghilterra e l'Unione evangelica in previsione di una guerra contro il blocco asburgico-pontificio, guerra che il Sarpi auspicava quale unico mezzo per introdurre in Italia l'"Evangelio". Guida di tale alleanza avrebbe dovuto essere Giacomo I d'Inghilterra, come il più potente dei principi protestanti (280).
Esisteva un solo principe italiano su cui si potesse contare per condurre insieme una politica antispagnola, Carlo Emanuele di Savoia. Era però considerato principe imprevedibile, incline ad anteporre spregiudicatamente i propri interessi: a Venezia si nutrivano dubbi sulla sua affidabilità. Dubbi che parevano avere una conferma all'inizio del 1613, all'insorgere della questione per la successione nel ducato di Mantova. Il ducato di Mantova, feudo imperiale, era articolato in due parti, Mantova, la capitale, a est, sul Mincio, e il Monferrato con la fortezza di Casale a ovest, sul Po, al di qua e al di là, dunque, dello Stato di Milano. L'interesse particolare di Carlo Emanuele era il Monferrato, che confinava direttamente con il suo territorio piemontese. Morto dunque nel dicembre del 1612 il duca di Mantova Francesco I Gonzaga, il cardinale Ferdinando, fratello del duca defunto, che godeva dell'appoggio di Mattia d'Asburgo, era stato investito del feudo. Carlo Emanuele aveva rivendicato i diritti di successione per sua nipote Maria; per sé egli sperava di ottenere la reggenza del Monferrato come avo di Maria. Nell'aprile del 1613 Carlo Emanuele attaccava il Monferrato. Il governatore spagnolo dello Stato di Milano si era dichiarato a sua volta a favore del duca Ferdinando. Il timore della Repubblica di Venezia era che se la Spagna fosse rimasta sola ad aiutare Ferdinando, essa avrebbe finito con l'acquisire una posizione di forza nel ducato di Mantova, così da esercitarvi la propria esclusiva influenza e da reclamarvi dei privilegi nella vicenda successoria; e Mantova, sita a ridosso del Dominio veneto, in una situzione strategicamente e politicamente di grande rilievo, non poteva essere lasciata in mano spagnola. La Repubblica aveva deciso di mettersi pur essa dalla parte di Ferdinando, inviandogli aiuti finanziari. Carlo Emanuele se ne era adontato, ed aveva rotto bruscamente le relazioni. Toccherà all'ambasciatore d'Inghilterra Dudley Carleton di impegnarsi alla ricucitura dei rapporti tra i due principi. Di fronte a una Spagna che continuava a dimostrarsi aggressiva nei suoi confronti, pronta a cogliere l'occasione per un colpo di mano alla frontiera dell'Adda - lo provava in particolare l'atteggiamento dei governatori che si succedevano nello Stato di Milano -, era indispensabile che la Serenissima Signoria potesse contare sull'intesa con l'unico principe italiano che fosse capace di non piegarsi all'autorità del re di Spagna; d'altro canto il duca di Savoia doveva rendersi conto che una politica bellicosa come la sua aveva bisogno di un sostegno finanziario, e che solo dalla Repubblica poteva aspettarselo. Argomentazioni che l'una e l'altro avevano ritenuto convincenti: tra loro erano riprese le relazioni diplomatiche (281).
Sembrava che la guerra del Monferrato potesse concludersi all'inizio di dicembre stipulando ad Asti un trattato di pace. Le ostilità erano invece riprese, cresceva il risentimento della Spagna contro il duca di Savoia, la situazione si faceva sempre più difficile. Il re di Spagna umilierà il duca con una severa sconfitta, prometteva l'ambasciatore spagnolo a Venezia marchese di Bedmar, aggiungendo che il sovrano contava sulla neutralità della Repubblica. Tra i governanti veneziani c'era chi, preoccupato di invischiarsi sempre di più in un'impresa ingarbugliata, onerosa, di cui non si vedeva né fine né vantaggio, era propenso ad accogliere senz'altro l'invito. Per altri era invece il momento per schierarsi con il duca di Savoia. Ci voleva qualcosa di più, sosteneva Dudley Carleton: a garanzia di quella lega bisognava che vi aderissero anche il re d'Inghilterra e le Province Unite d'Olanda. L'ambasciatore doveva fare la proposta ufficiale in collegio nel gennaio del 1615: a tal fine fra Paolo Sarpi gli aveva dato per scritto dei consigli, che meritano di esser ricordati per entrare meglio nelle pieghe della politica veneziana. Consigli di carattere psicologico, oltre che politico. Avendo di fronte nel collegio molte persone "ombrose" era preferibile non usare "vocaboli di leghe, confederazioni et altri simili", che potevano ingenerare sospetti, ma parlare solo di "ristringer amicizia, conservar buona intelligenza". Né era da soffermarsi sulla persona o sul "natural del duca", ma da sottolineare che il fine cui si mirava era "la libertà d'Italia e d'Europa". Era bene rammentare un precedente storico di indubbia presa, che "la Repubblica fece opposizione a Carlo V molto più potente [della Spagna attuale> quando tentò di soggiogar Francesco Sforza, né fece mai pace fin che non fu restituito". E qui, proseguiva, il Sarpi "far un parallelo tra il Piemonte e lo Stato di Milano, che se ben questo è più grando quello però importa di più alla libertà d'Italia per aver la Franza alle spalle, di onde possono venir gl'aiuti". La reazione del collegio al discorso era estremamente cauta, e di alleanze allora non si parlerà. Gli Spagnoli riterranno comunque preferibile concludere la pace col duca di Savoia, stipulando con lui ad Asti, nel giugno del 1615, un nuovo trattato. Se di umiliazione si poteva allora parlare, non era nei confronti del duca di Savoia, bensì della Spagna, che con tutta la sua forza non era riuscita a debellare un piccolo principe italiano.
Per condur una simile politica era necessario disporre di forze militari adeguate, e notevoli risorse finanziarie. Secondo quanto aveva ammonito a suo tempo Paolo Paruta, non essendo in buoni rapporti col papa non ci si poteva rivolgere per l'ingaggio delle truppe allo Stato della Chiesa. Bisognava ricorrere, come già prima dell'Interdetto, ai Cantoni svizzeri protestanti, dove si reclutavano in maggior parte i soldati, e accordarsi pure con le leghe dei Grigioni affinché concedessero il permesso per il passaggio delle truppe. Le trattative saranno lunghe e laboriose, e Dudley Carleton si adopererà in favore della Repubblica, laddove la Sede Apostolica e la stessa Francia cercheranno di impedire l'intesa. Il 6 marzo del 1615 la Serenissima Signoria stipulerà un "patto d'alleanza con le città libere di Zurigo e di Berna"; i Grigioni resteranno fermi nel diniego. Un risultato ridotto, malgrado tutti i soldi che si erano spesi per conseguirlo. Soldi che si aggiungevano a quelli dati al duca di Savoia, a quelli necessari per mantenere un esercito alle proprie frontiere... (282).
Il Sarpi aveva tenuto a metter in rilievo, tra i suggerimenti dati a Dudley Carleton, che non avrebbe dovuto dimenticare un argomento fondamentale: "toccar l'eccesso grande delle spese che si fanno continue contra uscochi, e li gravisimi danni che patiscono le piazze de mercanti per li vasselli che mandano in corso, l'assaltar l'Albania per metter [la Repubblica> alle mani con li turchi", cose - il servita ne era sicuro - che "faranno grand'effetto" (283).
Si arriverà alla guerra, per causa degli Uscocchi, tra la Serenissima Signoria e l'arciduca Ferdinando d'Asburgo, nell'estate del 1615, giusto quando terminava quella tra il re di Spagna e il duca di Savoia: l'ultima guerra combattuta dalla Repubblica sul proprio territorio, se si eccettua il breve intervento nella guerra per la successione nel ducato di Mantova del 1629. I rapporti tra l'arciduca e la Serenissima Signoria si erano ulteriormente aggravati nel 1612 - incidenti di frontiera in terra, oltre che guerriglia con gli Uscocchi in mare -, tanto che su sollecitazione dell'ambasciatore spagnolo si era stabilito di affrontare le questioni controverse nel corso di conversazioni prima a Venezia, poi a Vienna, all'inizio del 1613. Era stato un fallimento. Non era da stupirsi. L'insofferenza dei grandi nemici della Serenissima Signoria - per la sua ambizione, per le sue pretese, per la magniloquenza con cui le ostentava - finiva addirittura col traboccare sul piano storico. Ne erano stati manifestazione, giusto nel 1612, due attacchi durissimi, dissacratori dei miti veneziani della podestà sul mare Adriatico e della sua libertà e indipendenza originarie, attacchi di un'efficacia tale da lasciare una traccia indelebile. Anzitutto, il volume XII degli Annales del cardinale Cesare Baronio, con i quali si distruggerà la leggenda della consegna fatta nel 1177 dal papa Alessandro III alla Serenissima Signoria dell'anello attestante il suo matrimonio col mare, ossia emblematicamente il suo dominio su di esso. Poi l'uscita in Germania di un libretto anonimo, Squitinio della libertà veneta. Nel quale si adducono anche le raggioni dell'Impero romano sopra la Città et Signoria di Venetia, col quale si dissacrava l'altro mito, quello della libertà e dell'indipendenza originarie di Venezia. A mandarlo era stato l'ambasciatore della Repubblica presso l'imperatore, Gerolamo Soranzo, il quale suggeriva che autore ne era Marc Welser, da Augusta, noto per i suoi legami con la Compagnia di Gesù. Gli Alemanni, scriverà ancora il Soranzo nel 1614, vorrebbero "assalir con l'armi" l'Italia per ravvivar le ragioni dell'Impero. L'attività uscocca era una conseguenza di questa incontenibile ostilità. E si diceva a Venezia che l'arciduca d'Austria Ferdinando aspettasse l'occasione per far colpi di mano su Marano, onde chiudere l'annosa ma non dimenticata questione, e su Capodistria (284).
La decisione di attaccare Ferdinando era passata nel senato veneziano, l'11 agosto 1615, con una maggioranza risicata. Ci si voleva volgere per mare contro i nidi degli Uscocchi, tra Segna e Fiume, e tagliare per terra, muovendo dall'Istria, le strade che li collegavano con l'Austria. Il punto nodale del sistema offensivo e difensivo austriaco era Gradisca, la fortezza perduta dai Veneziani nel 1511 - "guerra di Gradisca" si chiamerà infatti la vicenda bellica che allora iniziava. L'esercito veneto la stringerà d'assedio, e nella circostante pianura friulana si avranno le fasi più sanguinose della guerra. C'erano due altri pericoli. L'uno, che gli Spagnoli aggredissero il Dominio veneto dalla solita frontiera lombarda (si parlava di attacchi di sorpresa a Brescia, a Crema e ad altre fortezze): vi si era provveduto, oltre che rafforzando le difese sul confine fornendo cospicui aiuti finanziari al duca di Savoia affinché, rotto il trattato di Asti, impegnasse con le sue forze dalle spalle il governatore dello Stato di Milano. Si era preferito anche questa volta non impegnarsi con alleanze formali. L'altro pericolo era di restare senza rinforzi, essendo precluse le vie della Svizzera: si era posto rimedio ingaggiando truppe in Olanda, e facendole giungere per mare, insieme a dei volontari inglesi. Questi soldati arriveranno, e il viceré spagnolo di Napoli, che pur conduceva una guerriglia marittima contro la Repubblica - giungerà perfino a sequestrare con vari pretesti alcune navi che portavano merci di valore -, non oserà impedirlo. Non saranno di grande aiuto, comunque, questi soldati: molti verranno colpiti da malattie; in genere si batteranno male. Nel 1617 la Serenissima Signoria si metterà in contatto con Gabor Bethlen, ora principe di Transilvania, per avere da lui tremila cavalli: non sarà tuttavia possibile portare a termine le trattative (285).
"Venezia non è da guerra", aveva scritto fra Fulgenzio Micanzio a Dudley Carleton il 3 febbraio 1617, facendo uno sconsolato bilancio della situazione a un anno dall'inizio delle ostilità. Difficoltà di reggere allo sforzo finanziario imposto, uno sforzo che si prolungava ormai dagli anni dell'Interdetto e che pesava su un'economia che non riusciva a riprendersi dalla crisi di inizio secolo - uno sforzo di cui Luciano Pezzolo fa conoscere tutta la sua gravità. Inesperienza nella condotta delle operazioni e nel trattare con le truppe; e se uomini come Nicolò Contarini, che avevano voluto la guerra, si adoperavano con tutte le loro energie, a Venezia e al campo, per organizzare e spronare, altri seguivano questa vicenda con indifferenza, e taluno ne approfittava per trarre vantaggi personali con la corruzione e il peculato. Si avvertiva che la contesa dell'Interdetto non era riuscita a infondere quella passione patriottica, quel vigore civile in cui si sperava; e si risentivano inoltre le conseguenze delle divisioni che laceravano i governanti, sempre attizzate dal retaggio delle polemiche per l'Interdetto, e che ora contrapponevano chi intendeva continuare la guerra per conseguire i risultati che ci si era proposti, e chi riteneva necessario finirla al più presto sia perché non si vedeva via d'uscita sia per ripristinare finalmente buoni rapporti con la Spagna e la Sede Apostolica, oltre che con l'Impero e l'arciduca d'Austria interiore. La conclusione che traeva a sua volta fra Paolo Sarpi, in una lettera scritta al Groslot de l'Isle il 29 marzo 1617, in un momento di scoramento che lo portava a forzare le tinte fino all'esagerazione, era ancora più grave. La mira della Spagna sarebbe di por fine alle ostilità e di convincere l'arciduca Ferdinando a cederle il "contado di Goricia, e così serrar per mare e per terra ogni passo, e restar arbitri d'Italia". Il papa, aggiungeva, sarebbe d'accordo con loro, sperando di trarne "vantaggi grandi"; né avrebbero eccepito nulla gli altri principi italiani, tutti "servi", per timore o per interesse. "Non crederò che si faccia mai mutatione di stato, se non si fa di religione, ma con guerra ad ambe le porte d'Italia, non si vede che s'incamini alcuna disposizione a questo, anzi più si stabilisce la vecchia", era il commento finale (286).
Alla pace si giungerà nell'estate del 1617. Pace d'Italia, si dirà anche adesso, come nel 1529-1530 per quella di Bologna, in quanto doveva por fine sia alla contesa tra la Repubblica e l'arciduca Ferdinando, sia a quella tra la Spagna e il duca di Savoia. Le trattative si svolgeranno tra agosto e settembre, prima a Parigi, poi a Madrid. La Serenissima Signoria riuscirà a ottenere le condizioni volute dal gruppo dei "bellicosi": gli Arciducali si impegnavano ad eseguire quanto concordato a Vienna nel 1613; il viceré di Napoli doveva restituire le navi sequestrate (287).
A differenza del 1530, la stipulazione dell'accordo non riporterà il clima di pace. A cominciare dai rapporti tra la Repubblica di Venezia e la Spagna. Nell'aprile del 1618 il consiglio dei dieci veniva informato segretamente che si stava tramando una gravissima congiura contro Venezia. I presunti protagonisti sarebbero stati dei Francesi, subito arrestati e giustiziati: i quali avrebbero avuto quali mandanti addirittura l'ambasciatore di Spagna a Venezia marchese di Bedmar e il viceré di Napoli duca d'Ossuna. Paolo Sarpi parla di questa congiura - la "congiura di Bedmar" - in pagine del suo bellissimo Trattato di pace et accomodamento, scritto probabilmente tra la fine del 1619 e il 1620, per far comprendere all'opinione pubblica italiana e veneziana cosa fossero, quale forza avessero i legami asburgici, cementati dall'impegno di difesa dalla cattolicità, che stringevano la Spagna, l'Impero, gli arciduchi d'Austria, quale acredine li animasse verso Venezia, quale necessità avesse la Repubblica di difendersene. Molti dubbi comunque ci sono stati e sono rimasti su questa congiura - Paolo Preto li riprende lucidamente in questo volume -, se la si sia davvero tentata, o se la Serenissima Signoria abbia dato corpo a delle ombre, per eccitare l'animosità antispagnola. Se uno degli scopi era quello di provocare l'allontanamento da Venezia del marchese di Bedmar, lo si conseguirà. Il marchese lascerà le lagune nel giugno del 1618, per non farvi più ritorno. Ma si vendicherà, scrivendo una relazione carica di disprezzo contro il governo e i governanti veneti, contro gli ordinamenti della Repubblica, contro il modo con cui reggeva il Dominio, un Dominio fremente sotto il suo giogo, che si sarebbe presto ribellato (288).
La rivolta boema, l'inizio della guerra dei Trent'anni (1619)
Nel 1618 l'arciduca Ferdinando d'Austria aveva tutto l'interesse a comporre le vertenze con la Repubblica di Venezia. Si stavano addensando sull'Impero problemi ben più gravi. Un'assemblea di protestanti si era riunita a Praga per dichiarare che erano state violate le Lettere di Maestà loro accordate nel 1609, e chiedeva a Mattia, imperatore e re di Boemia, di ripristinare i loro diritti. Mattia aveva respinto le richieste. La reazione dei protestanti boemi era stata violenta. Il 23 maggio essi invadevano il palazzo reale di Praga e gettavano dalla finestra due dei reggenti cattolici che vi si trovavano. I confederati protestanti istituivano un governo provvisorio, incaricandolo di allestire un esercito per far cacciare dalla Boemia le truppe rimaste fedeli all'imperatore e di far conoscere all'Europa, mediante la diffusione di uno scritto, l'Apologia, le proprie ragioni.
La situazione si complicava ulteriormente all'inizio del 1619. Il 23 marzo moriva l'imperatore Mattia. L'arciduca Ferdinando d'Austria assumeva automaticamente la corona di re di Boemia. Più laboriosa e più lunga era la successione all'Impero, date le divergenze che esistevano tra gli elettori imperiali: solo il 28 agosto di quell'anno si riusciva ad eleggere imperatore lo stesso Ferdinando d'Austria, che diventava da quel momento Ferdinando II. I Boemi avevano cercato subito di trovare un accordo con il loro nuovo sovrano. Erano stati tentativi falliti. Essi prendevano allora due decisioni gravi. L'una, attaccare Vienna con il proprio esercito e catturarvi l'imperatore: sarà ancora un insuccesso. L'altra, dichiarare Ferdinando decaduto da re di Boemia, ed eleggere loro stessi il successore. Qui riusciranno: la scelta cadrà, giusto sul finire del 1619, su Federico V, elettore palatino, calvinista, capo dell'Unione evangelica e genero, per di più, di Giacomo I, re d'Inghilterra.
Se fosse vero che i Boemi stanno per deporre Ferdinando ed eleggere in sua vece un altro re, scriveva all'elettore palatino un suo ambasciatore, il conte Solms, è da aspettarsi che si scatenerà subito una guerra, che potrebbe durare venti, trenta, quarant'anni. Gli Spagnoli e la Casa d'Austria faranno di tutto per riprendere la Boemia, insisteva il Solms: gli Spagnoli sarebbero più disposti a perdere l'Olanda che a lasciar strappare così ignominiosamente la Boemia e Casa d'Austria. Il Solms era buon profeta. Gli Spagnoli interverranno subito risolutamente. La guida della politica spagnola adesso era in mano di Gaspar de Guzmán, conte di Olivares, deciso a condurla direttamente, evitando le iniziative avventurose che negli anni passati erano state prese da rappresentanti del re come il duca di Fuentes, il duca d'Ossuna, il marchese di Bedmar. Partivano dalla Spagna cospicui aiuti finanziari, truppe erano mandate in Austria dai Paesi Bassi spagnoli e dalla Lombardia. Anche il papa aveva fatto pervenire dei grossi contributi.
Pure i Boemi avevano bisogno di aiuti. Si erano rivolti a tutti i principi di cui si conosceva l'ostilità verso la Spagna e l'Impero, il re d'Inghilterra, il duca di Savoia, la Repubblica di Venezia, l'Unione evangelica. Non avevano ottenuto quanto speravano. La delusione più forte era venuta dal re d'Inghilterra. Malgrado le pressioni che venivano fatte da personalità autorevoli come l'arcivescovo di Canterbury George Abbot o l'ambasciatore all'Aia Dudley Carleton, convinti che fossero in gioco le sorti della riforma protestante e che fosse doveroso intervenire a sua difesa, Giacomo I era rimasto inerte. C'era, a veder suo, un principio fondamentale da cui lui, come re, non poteva prescindere: i Boemi erano dei sudditi ribelli contro il loro legittimo sovrano; tutt'al più, egli diceva nel settembre del 1619, sarebbe stato disposto a far da mediatore tra essi e Ferdinando. A fianco dei Boemi si era invece senz'altro schierato Gabor Bethlen che, eletto nel 1613 principe della Transilvania, si era proposto di fare di essa e dell'Ungheria un baluardo del protestantesimo. Nel novembre del 1619 il Bethlen invadeva la Boemia (289).
"Buoni cittadini", era la sigla, spesso cifrata, usata da fra Fulgenzio Micanzio nella corrispondenza che, d'intesa con fra Paolo Sarpi, intratteneva con Dudley Carleton dopo che si era trasferito all'ambasciata d'Inghilterra dell'Aia, per indicare il gruppo di Veneziani che cercava di portar avanti la politica ostile alla Sede Apostolica, avversa all'Impero e alla Spagna, mirante a coinvolgere la Repubblica nelle grandi vicende che si profilavano ormai imminenti. Vicende che avrebbero messo in gioco i destini dell'Europa; in cui si sarebbero poste ancora una volta sul tappeto, ma con una risolutezza ben maggiore che in passato, le questioni che da decenni gravavano sulle sue sorti, quella che vedeva di fronte cattolicesimo romano e riforma protestante, e quelle, per tanti aspetti intrecciate, che concernevano la supremazia della Spagna e la conservazione della corona imperiale alla Casa d'Asburgo. I "buoni cittadini" non volevano che la Repubblica restasse fuori da eventi che in ogni caso avrebbero inciso profondamente sul suo futuro: essi erano convinti che una vittoria degli Asburgo avrebbe posto la Repubblica, questa antica avversaria, in loro balia. Gli oppositori dei "buoni cittadini" pensavano invece che una tale politica avrebbe comportato per la Repubblica solo rischi gravissimi, tali da logorarla ben più di quanto non avesse fatto la recente guerra di Gradisca, e da sconvolgere i rapporti e gli equilibri internazionali su cui si era fondata in passato l'azione di governo veneta.
Prevalevano i "buoni cittadini": sotto la loro spinta, nel marzo del 1619 la Serenissima Signoria decideva di render pubblico un trattato di mutua assistenza concluso l'anno precedente con il duca di Savoia: era un garantirsi le spalle in Italia, utilizzando la forza militare di un principe come il duca di Savoia, che a sua volta attendeva dalla Serenissima Signoria un aiuto per realizzare la sua grande aspirazione, presentarsi come candidato antiasburgico alla prossima elezione imperiale; nel contempo la stessa Signoria rompeva finalmente la sua ben nota riluttanza a sancire alleanze formali. Avviata su questa via il 31 dicembre del 1619 la Serenissima Signoria stipulava un analogo trattato con le Province Unite d'Olanda. L'impegno si presentava ancor più gravido di conseguenze. Nella primavera di quell'anno al sinodo calvinista di Dordrecht era prevalsa la parte dei calvinisti più rigorosi, i "gomaristi", che erano insieme nemici acerrimi della Spagna: il gran pensionario d'Olanda Johan van Oldenbarnevelt che, capo dei calvinisti più moderati, era accusato di essere incline a un'intesa con la Spagna, veniva mandato a morte. Ciò significava che nel 1621, quando sarebbe scaduta la tregua tra le Province Unite e la Spagna, si sarebbe riattizzata tra loro la guerra. Il governo della Repubblica aveva incaricato proprio fra Paolo Sarpi di stilare la "modula", o abbozzo, del trattato con le Province Unite: pur approvandola, se ne erano espunti i passi considerati politicamente troppo marcati, come uno evocante la "similitudine dei rispetti di governo" tra i due Paesi, espressione di un repubblicanesimo che poteva suonar male a monarchi schizzinosi come Giacomo I d'Inghilterra, e altri espliciti riferimenti di ostilità alla Spagna (290).
Si trattava di una chiara presa di posizione antispagnola e antiasburgica da parte della Serenissima Signoria. Tanto più che essa, a differenza di Giacomo I, riconosceva in Federico del Palatinato il re di Boemia. Sussisteva comunque qualche esitazione nei suoi confronti: quando Federico mandava a Venezia, nella primavera del 1620, un suo rappresentante con l'incarico di chiedere aiuti finanziari e di promettere in cambio l'impegno a far avere rinforzi militari d'Oltralpe e ad adoperarsi perché fosse conservato il suo dominio sull'Adriatico, gli si era risposto che la Repubblica era troppo oberata di spese per potersi accollare altri finanziamenti. Ben diverso era l'atteggiamento nei confronti delle Province Unite d'Olanda. C'era stato uno scambio di ambasciatori tra le due Repubbliche, e gli Olandesi avevano colto l'occasione per ripetere ai Veneziani l'invito alla collaborazione commerciale fatto dieci anni prima (insieme esse avrebbero potuto accaparrarsi tutto il commercio di Levante). In pratica non se ne farà nulla. La Serenissima Signoria aveva però voluto che questa "colleganza" con gli Olandesi, ormai affermatissimi nel Mediterraneo orientale, fosse risaputa dalle autorità turche a Costantinopoli. Senza che questo, si raccomandava al bailo, giungesse a turbare i buoni rapporti che egli doveva mantenere con l'ambasciatore imperiale alla Porta, e ancor meno, per converso, a incrinare la "buona intelligenza" che bisognava avere con "li nuntii de Ongaria e Boemia", i principi inimicissimi dell'imperatore (291). La scelta di campo finalmente compiuta non doveva evidentemente far dimenticare la tradizionale prudenza veneziana. Era saggia preveggenza: tra l'estate del 1620 e l'inizio del 1621 la situazione europea verrà completamente sconvolta.
Nel luglio del 1620 la Valtellina, cattolica, si era rivoltata sanguinosamente contro i Grigioni, protestanti, che erano signori della valle. La Valtellina, una valle tutta percorsa dall'alto corso dell'Adda, costituiva con la contigua valle della Mera, pure soggetta ai Grigioni, una vera e propria porta d'Italia, fondamentale sia per i collegamenti tra i territori spagnoli nella penisola e quelli transalpini d'Austria e Germania, sia per i collegamenti tra la Repubblica, la Svizzera e l'Europa occidentale. Il duca di Feria, governatore spagnolo dello Stato di Milano, aveva colto così l'occasione per occupare la Valtellina. Nell'estate del 1620 potranno passare per la valle della Mera e per la Valtellina le truppe spagnole e italiane che affluiranno verso il Palatinato, contro il quale si era volto il generale Spinola, un genovese al servizio del re di Spagna, e verso la Boemia, ove si schiereranno agli ordini di Ferdinando II.
Ferdinando aveva subito dato buona prova di sé. Egli era stato capace di organizzare in breve la sue forze e di legarle con quelle dei suoi alleati, sotto la guida spirituale del pontefice, all'insegna di un comune ideale, politico e religioso. Sul fronte opposto, i confederati Boemi non erano riusciti a stringere intorno a loro una coalizione antiasburgica altrettanto compatta sul piano politico come su quello religioso. Giacomo I non era stato di alcun aiuto per loro: ambiva a una soluzione pacifica, non militare, del problema boemo; e inclinava ad un'intesa con la Spagna, mentre era sempre più avverso alla Province Unite d'Olanda (che significava il prevalere di considerazioni politico-istituzionali su quelle religiose, o politico-religiose). Le stesse Province Unite d'altronde offrivano solo un aiuto modesto, preoccupate com'erano per l'atteggiamento di Giacomo I, per la presenza dell'esercito del generale Spinola nella zona renana, per la prospettiva di doverlo affrontare. Niente da parte della Serenissima Signoria di Venezia, e nemmeno dalla lega anseatica, dalla libera città di Norimberga, dagli Svizzeri. Emblematica della gravità della crisi che la questione boema aveva aperto nel campo antiasburgico e protestante era la defezione dell'Unione evangelica, che pur era stata dal 1608 l'antesignana del grande confronto che stava per schiudersi. Con i Boemi erano rimasti solo gli Stati d'Ungheria e il principe di Transilvania Gabor Bethlen. Lo scontro tra le due impari forze avveniva l'8 settembre del 1620 alla Montagna Bianca, nei dintorni di Praga. Uno scontro breve, che si risolveva in una strepitosa vittoria delle forze cattoliche dell'imperatore Ferdinando II: per gli avversari era la rotta, e lo stesso re di Boemia Federico veniva costretto a fuggire con la famiglia e a trovar riparo in Olanda (292).
A Venezia, quanti avevano auspicato la partecipazione attiva della Repubblica alla grande vicenda europea ora divampante, erano sconcertati per il trionfo della Spagna, dell'Impero, della Sede Apostolica. C'era chi non rinunciava a far professione di ottimismo: fra Fulgenzio Micanzio, ad esempio, il quale scriveva a Dudley Carleton di sperare che questa dimostrazione di ultrapotenza spagnola avrebbe finito col risvegliare "gl'addormentati" e far decidere all'azione "gl'irresoluti"; un ottimismo che si smorzava di fronte alla constatazione dell'impotenza della Repubblica. E c'era chi restava indomito nella volontà di battersi: a cominciare da Nicolò Contarini che nel maggio del 1621, impegnato in una carica militare, quella di provveditore oltre Mincio, avrebbe voluto rintuzzare con la forza, facendone un vero casus belli, un'iniziativa provocatoria fatta da truppe spagnole nella zona di Crema. Ma il diretto superiore del Contarini, il provveditore generale Andrea Paruta, stretto congiunto di Paolo e depositario delle sue idee, era convinto che la pace non doveva esser messa a repentaglio: e ricordava che tanto la pace quanto la difesa dagli Spagnoli non potevano essere garantite che da un accordo con la Curia romana, stipulato "con filiale osservanza". Era un'opinione che, col conforto dei risultati del primo grande scontro tra i due blocchi, si ripeteva con sempre maggior sicurezza. Un autorevole "papalino" quale Pietro Contarini, che rientrava nel 1621 dall'ambasciata di Spagna, scriveva nella sua relazione che d'ora in poi bisognava tenere i migliori rapporti con la Spagna, e se possibile "raddolcir li passati e presenti disgusti": introdurre, cioè, "maggior confidenza", e a tal fine "guadagnar l'animo dei ministri che sono in Italia e degli ambasciatori che risiedono presso la Repubblica". In altre parole, far il contrario di quanto si era fatto con i Fuentes, gli Ossuna, i Bedmar (293). L'evolversi del conflitto, accentuando ulteriormente l'importanza nodale delle valli dell'Adda e della Mera per i collegamenti tra l'Europa centrale e meridionale, esaltava ancor più la potenza della Spagna che le occupava. Tanto che a preoccuparsene non era più solo la Repubblica di Venezia, per le ragioni che si son dette dianzi, o il duca Carlo Emanuele di Savoia, che vedeva le sue ambizioni soffocate in Italia sotto l'ombra della Spagna: c'era la Francia, che si vedeva sfuggire quel controllo sulla Svizzera e sui Grigioni cui aveva sempre tenuto; c'era la Sede Apostolica, la quale, memore degli antichi dissapori, ora si chiedeva se quel trionfo della Spagna non togliesse al papato in Italia lo spazio di indipendenza che era in fondo garanzia di libertà per l'esercizio del suo magistero spirituale.
Verso la fine del 1621, prendendo lo spunto da un'agitazione insorta tra i Grigioni, il governatore dello Stato di Milano, duca di Feria, e Leopoldo d'Asburgo, arciduca del Tirolo, si spingevano fin nel cuore di quel territorio, conquistando il 22 novembre Coira: i Grigioni erano costretti a concludere nel gennaio del 1622 un patto in virtù del quale, pur ricuperando Chiavenna, capoluogo della valle della Mera, dovevano rinunziare non solo alla Valtellina, ma a Davos e alla bassa Engadina, cioè al controllo della valle dell'Inn, che portava al Danubio e all'Austria. Patto che rimarrà sulla carta. Esso indurrà comunque la Repubblica di Venezia e la Francia, che stava dimostrando da qualche tempo di volersi affrancare dalla subordinazione nei confronti della Spagna in cui era caduta, a stringere tra loro una lega per la riconquista della Valtellina. Si erano fissati i rispettivi contributi militari; si era scelto quale comandante delle truppe della lega un celebre uomo di guerra, il conte Peter Ernst von Mansfeld, che si era brillantemente battuto in Boemia e in Palatinato, affidandogli il compito di svolgere un'azione diversiva in Alsazia. La macchina militare della lega tardava però ad ingranare. Il cardinale di Richelieu, figura emergente della politica francese, accusava gli alleati di "letargo". Un "letargo" che lo stesso Richelieu decideva di rompere, mandando le truppe francesi al comando del marchese di Coeuvres ad invadere la Valtellina. Era un insuccesso; il Coeuvres veniva sconfitto dagli Spagnoli. Colpa della Repubblica di Venezia, aveva rilevato polemicamente il cardinale di Richelieu, perché non si era mossa per attaccare lo Stato di Milano, e alleggerire così la pressione spagnola sulle truppe francesi. Un'impresa, si giustificava la Serenissima Signoria, che, data la forza degli Spagnoli, le sarebbe stata possibile solo a condizione che il duca di Savoia li impegnasse a sua volta alle spalle, muovendo cioè dal Piemonte. Cosa che Carlo Emanuele si era guardato dal fare, preferendo invece tentare di spingersi verso Genova, un'iniziativa profittevole solo a lui, dannosa agli interessi della lega. Il cardinale aveva replicato seccamente che se la Serenissima Signoria e il duca di Savoia non si mettevano d'accordo, il suo re, Luigi XIII di Francia, li avrebbe "messi alla porta" (294).
Difficilissimo, soprattutto costosissimo, attingere a quel serbatoio di bravi soldati di sua fiducia che eran per Venezia la Svizzera e altre terre d'Oltralpe, difficile reclutarne anche in quei pochi luoghi d'Italia che godessero della sua fiducia, le Romagne, l'ormai evanescente ducato di Urbino, sempre in attesa di confluire anche formalmente nello Stato ecclesiastico: veramente aperta restava solo la porta del principe di Transilvania Gabor Bethlen, bastava che la Serenissima Signoria si decidesse finalmente ad accettarne le offerte. Lo si diceva, in Europa, che alla fine Venezia si sarebbe messa d'accordo con Gabor, perché aveva in comune con lui e con Federico del Palatinato lo stesso odio contro gli Asburgo, la stessa intenzione di costituire un fronte comune contro di loro. Effettivamente, un uomo vicino al governo veneziano quale fra Fulgenzio Micanzio, scrivendo a Sir Dudley Carleton parlava di Gabor come del "solo" capace di far fronte a Ferdinando II.
Era lo stesso principe, che aveva recentemente lanciato all'imperatore una sfida diretta facendosi eleggere da una dieta re di Ungheria malgrado i diritti che gli Asburgo vantavano su quel trono, a riprendere l'iniziativa di allacciare rapporti con la Repubblica di Venezia, quasi ad avviare di nuovo le trattative non andate a buon fine nel 1617. Nella primavera del 1621 Gabor Bethlen inviava a Venezia dei suoi rappresentanti, per proporre nuovamente alla Serenissima Signoria di "confederarsi" con lui. Per la Repubblica, spiegava, i vantaggi sarebbero stati molti, e grossi. Vantaggi militari: ogni volta che Venezia ne avesse avuto bisogno per una guerra, egli avrebbe messo a sua disposizione "una cavalleria ongara leggiera et robusta", ed eventualmente anche gente a piedi. Vantaggi economici: dalle sue terre si potevano avere "cera, rame et argento vivo [...> et ancora bovi et pecore". Dal canto suo Bethlen sperava di ottenere dalla Repubblica i sussidi finanziari necessari per continuare la guerra contro il comune nemico asburgico. La risposta della Serenissima era stata deludente: nessuna "confederazione", solo calde attestazioni di amicizia, amicizia che si sarebbe rinsaldata iniziando i rapporti commerciali; nessun aiuto finanziario, dato che la Repubblica era di per sé oberata da un lungo periodo di spese militari. Una risposta inaccettabile per Gabor, ancor più che deludente. Perché la Serenissima Signoria malgrado tutti gli apprezzamenti aveva voluto far capire al Bethlen che non poteva trattarlo col titolo di re d'Ungheria, ma col consueto, di principe di Transilvania. Gabor Bethlen non si era rassegnato. Aveva rimandato subito a Venezia Alessandro Lucio, un italiano che da anni viveva in Ungheria, quale suo ambasciatore questa volta, non semplice rappresentante, a protestare per il mancato riconoscimento del titolo regio e per il rifiuto di quell'alleanza che alla Serenissima sarebbe stata preziosa. Gli si era replicato che la Repubblica così esposta agli attacchi degli Spagnoli e dell'Impero, e così bisognosa dell'appoggio del re di Francia e del re d'Inghilterra per difendersene, non poteva allearsi con Gabor Bethlen, nemico dichiarato del primo, quanto mai inviso all'altro - gli ambasciatori veneziani a Parigi e a Londra avevano scritto alla Signoria che la notizia dei contatti tra la Repubblica e un principe che si reggeva su una base elettiva, "repubblicana", quale Gabor Bethlen aveva suscitato scalpore, soprattutto presso Giacomo I. L'ambasciatore transilvano aveva risposto sarcasticamente che la Repubblica si illudeva se contava sugli aiuti francesi. Sulla questione della Valtellina solo il suo principe sarebbe stato in grado di offrire una soluzione, attaccando Spagnoli e Imperiali ove essi erano più sguarniti. Neppure Alessandro Lucio, comunque, aveva conseguito quanto si proponeva, l'alleanza e il riconoscimento del titolo regio (295).
Dovevano essere molti nel senato veneto, e tra loro certamente quelli che il Micanzio definiva "buoni cittadini", a paventare che gli Asburgo acquisissero una posizione dominante nei Balcani. Si ricorderanno le pagine appassionate delle Istorie di Nicolò Contarini sulla guerra tra l'Impero asburgico e l'Impero ottomano. Fra Fulgenzio Micanzio giungeva a temere, e lo scriveva a chiare lettere in un suo consulto dell'11 marzo 1623, che la stessa Chiesa si insediasse, mediante missioni organizzate dalla neo-costituita Congregazione de propaganda fide, in terre come "Albania, Illiria ecc.", sicuro che esse vi avrebbero svolto opera ostile alla Repubblica e ai suoi interessi balcanici. Necessario piuttosto che nei Balcani settentrionali si affermasse Gabor Bethlen: "Il Transilvano mostra sodezza", scriveva a Dudley Carleton il 25 marzo 1621, era lui a conservare la testa sulle spalle (296).
Un "commissario" mandato a Venezia da Gabor Bethlen nel settembre del 1625 portava qualcosa di nuovo e di inaspettato. Il senato ne scriveva subito ai suoi ambasciatori in Francia, in Inghilterra, a Costantinopoli: non era infatti una semplice proposta d'accordo con la Repubblica; il principe di Transilvania voleva bensì farla partecipe di un progetto di respiro europeo, nato alla corte di Francia - un'idea del Richelieu, probabilmente - e subito comunicata a Gabor, che doveva esserne uno dei maggiori protagonisti. Il "serenissimo Gabor" faceva sapere ai Veneziani di esser disposto a muoversi contro l'imperatore a condizione di esser incluso nella "lega dei principi", a fianco di Francia, Inghilterra, Province Unite d'Olanda, Repubblica di Venezia. La Serenissima Signoria, concorde con Gabor, avrebbe visto molto bene che si aggiungesse anche l'Impero ottomano (297). Una alleanza si concluderà alla fine del 1625, intorno alle Province Unite d'Olanda, desiderose di rifarsi nei confronti della Spagna dopo esserne state duramente sconfitte nello stesso 1625 alla battaglia di Breda: essa era costituita solo da principi protestanti, l'Inghilterra e la Danimarca, la zona imperiale della Bassa Sassonia, oltre alla Province Unite, e poteva contare sul sostegno di Federico del Palatinato, di Gabor Bethlen e della Porta ottomana (298).
La situazione stava evolvendo rapidamente. La Francia si era avvicinata alla Spagna, e il 5 marzo del 1626 risolveva segretamente con essa, a Monçon, in virtù di un trattato di pace, la questione della Valtellina. La Valtellina con Bormio e Chiavenna nella valle della Mera venivano restituite ai Grigioni, riservando comunque ai Valtellinesi una qualche autonomia giurisdizionale, e la garanzia che nella valle e nei contadi di Bormio e Chiavenna sarebbe stato ammesso solo il culto della religione cattolica. Quanto al transito per i valichi montani, sarebbe stata ripristinata la situazione antecedente al 1617, che voleva dire esclusione degli Spagnoli, degli Austriaci, dei Veneziani... Alle vibranti proteste della Serenissima Signoria il cardinale di Richelieu aveva replicato facendo apportare al trattato qualche modifica in suo favore (299). Non era l'unica delusione riservata alla Repubblica: sul finire del 1626 se ne aggiungeva una seconda, altrettanto se non più grave. Le operazioni della grande coalizione dell'Aia, iniziate nella primavera del 1626, volgevano male già all'iniziare dell'autunno. Il 30 settembre si trovavano di fronte l'esercito imperiale, guidato dal comandante supremo Albrecht Eusebius von Wallenstein e quello di Gabor Bethlen con i suoi alleati turchi. Lo scontro però non aveva luogo. Privo del sostegno del Mansfeld e dei Danesi, il principe Gabor aveva preferito ritirarsi la notte del primo ottobre, rifiutando poi un invito a riprendere il conflitto (300).
Già nel febbraio del 1626 la Serenissima Signoria aveva scritto al bailo a Costantinopoli che cominciavano a insinuarsi dei dubbi sulla lealtà di Gabor Bethlen. Alla fine d'autunno arrivavano a Venezia delle conferme: si diceva che Gabor si fosse accordato con gli Imperiali, e che il suo atteggiamento sul campo stava a dimostrarlo. Se era rimasto inerte, cercava di spiegare il principe di Transilvania, era proprio a causa della Serenissima Signoria di Venezia, che gli aveva rifiutato gli aiuti promessi. Non c'era mai stata promessa d'aiuto, replicava la Signoria scrivendo al suo provveditore generale di Terraferma e ai suoi ambasciatori a Londra e all'Aia: le richieste di Gabor erano state sempre "divertite con le considerationi dell'impiego delle nostre armi in tante parti, così da terra nella Valtellina et altrove, come anco in mare con grossissimi dispendii di immensa quantità d'oro; come è ben noto a tutto il mondo, socombemdovi da molti anni in qua". Quasi a confermare le affermazioni del senato, facendo nelle sue Cronache, sotto l'anno 1626, il consuntivo finanziario, e non solo finanziario, del primo venticinquennio del secolo, Girolamo Priuli junior scriveva che dopo il 1601 si erano "conseguitati [...> tanti sospetti, tanti travagli, tanti disturbi, tante spese et tante turbolenze, che con la perdita di molte decene di milioni d'oro consumati nella sola difesa delle cose proprie non ha per avventura la Repubblica havuto ettà più contraria a' suoi interessi di questa" (301).
"Quello che n'è seguito si è molto ben compreso, et la prudenza delle Signorie Vostre Eccellentissime potranno dal passato far la consequenza et pigliar norma di ciò che possi aspettarsi nell'avenire", aveva detto un uomo restio a cimentarsi in imprese belliche come il provveditore generale in Terraferma Antonio Barbaro, facendo, a compimento della sua carica, il 2 dicembre 1625, pochi mesi prima del trattato di Monçon, un consuntivo desolato della situazione militare, del logoramento dell'esercito veneto, della forza di quello nemico spagnolo, dell'inaffidabilità di quello alleato francese, i cui capi avevano badato a fare solo quello che tornava a "loro profitto" (302). Ciò che la Serenissima Signoria poteva "aspettarsi", lo si constaterà in un avvenire assai prossimo, a conclusione della nuova guerra per Mantova e per il Monferrato in cui essa sarà ancora coinvolta.
Il duca di Mantova Ferdinando Gonzaga era morto nel 1626; il fratello Vincenzo, che gli era succeduto, moriva anche lui di lì a poco, nel 1627. L'ulteriore successione si prospettava, a questo punto, più intricata che mai. L'erede designato dall'ultimo duca era Carlo di Gonzaga-Nevers, un ramo francese della casa: si trattava evidentemente di un successo della Francia, che avrebbe avuto nel ducato, e nelle due importantissime fortezze che comprendeva, Mantova e Casale, un prezioso punto d'appoggio in Italia. Possibilità che, altrettanto evidentemente, era osteggiata dalla Spagna e dall'imperatore, il quale rivendicava, come già in passato, le prerogative imperiali sul ducato. Tra i grandi rivali si insinuava Carlo Emanuele di Savoia che, destreggiandosi spregiudicatamente tra di loro, cercava l'opportunità di estendere il suo dominio verso il Monferrato e il Vercellese, e magari sull'agognata Genova.
La prima mossa, frutto di un'intesa segreta tra Carlo Emanuele e la Spagna, fu, alla fine di marzo del 1628, la penetrazione nel Monferrato di truppe del duca e del governatore dello Stato di Milano don Gonzalo de Cordova: toccava a quest'ultimo porre l'assedio alla fortezza di Casale, difesa valorosamente dai soldati del Gonzaga-Nevers. La Francia aveva appena posto fine, con la presa della piazzaforte ugonotta di La Rochelle, alle contese intestine che per anni avevano intralciato la sua libertà di movimento al di là delle frontiere. All'inizio del 1629 le sue truppe potevano così spingersi verso l'Italia, per la strada di Susa. Il re Luigi XIII ne aveva avvertito la Serenissima Signoria di Venezia, e avviava con essa contatti per una lega e per un'azione militare coordinata. La lega veniva stipulata il 20 marzo 1629: ne facevano parte, oltre alla Francia e alla Repubblica di Venezia, il duca di Mantova, il duca di Savoia, che il cardinale di Richelieu era riuscito a staccare dalla Spagna, e perfino il papa Urbano VIII.
Le prospettive di una guerra erano preoccupanti. Ma le ragioni che avevano spinto ormai da anni la Repubblica a prendere posizione contro il blocco asburgico sembravano sempre più vive: la prospera fortuna che accompagnava la Spagna e l'Impero non vedeva fine, e si sarebbe tradotta in una egemonia più assoluta che mai se i due grandi principi avessero avuto il sopravvento pure nella questione di Mantova e del Monferrato. L'aveva compreso il papa, il quale aveva ritenuto opportuno armarsi, oltre ad adoperarsi per una mediazione. A Venezia i capi del partito antiasburgico avevano convinto il senato che non si poteva restar fuori dalla mischia. L'esercito veneto era così andato a schierarsi nel Mantovano, a protezione di Mantova, mentre i Francesi avrebbero protetto Casale. A loro volta Spagnoli e Imperiali avevano deciso di intervenire in forze. Attraverso la strada della Valtellina scendeva in Italia un esercito imperiale agli ordini di Rambaldo di Collalto. Anche Ambrogio Spinola lasciava la Germania per la pianura padana. Spagnoli e Imperiali si dividevano i compiti. Gli Spagnoli, con lo Spinola, avrebbero attaccato Casale; gli Imperiali si sarebbero volti su Mantova. I soldati imperiali portavano con sé qualcosa di ben più terribile delle loro armi, i germi della peste, che infierirà non solo su di loro e sui soldati nemici, ma sulla popolazione civile (303).
Alla testa della Repubblica che si accingeva alla guerra c'era Giovanni Corner, un doge di famiglia "papalista", tradizionalmente incline alla Spagna e all'Impero. Il Corner moriva alla fine del 1629: gli succedeva alla metà di gennaio del 1630, dopo un'elezione contrastatissima, Nicolò Contarini, il capo riconosciuto del partito opposto. "Non vi è altro di buono se non che si trova nell'anno 77 dell'età sua", commentava con acredine il nunzio apostolico a Venezia monsignor Agucchia, sebbene il Contarini cercasse di dissipare le prevenzioni nei suoi confronti dicendosi "tutto zelante della religione" e parlando dell'"ottima dispositione della Repubblica nell'esser sempre unita a sua santità". Chi invece si rallegrava per il successo del Contarini erano, oltre, ovviamente, ai suoi sostenitori Veneziani, forestieri come il duca di Mantova, e gente d'Oltralpe, Inglesi, Olandesi, Francesi quali il duca di Rohan, capo riconosciuto degli Ugonotti all'assedio di La Rochelle, prevalentemente uomini d'arme, diceva l'Agucchia, solidali con il Contarini data la sua ben nota propensione alla guerra (304).
Sarà proprio la guerra, così come la peste che le farà da sottofondo - aveva cominciato a serpeggiare tra le truppe dal marzo del 1630, si faceva sentire in settembre con centinaia di morti a Venezia, durerà sin oltre la conclusione della pace -, a costituire il tormento del dogado di Nicolò Contarini. Le gravissime carenze, tecniche ed umane, dell'esercito della Repubblica si erano rivelate ben prima dell'elezione del Contarini. Ma come già per la guerra di Gradisca, era su Nicolò Contarini che veniva riversata ogni colpa. Anche se a decidere la guerra erano stati in molti, era stato lui, pure questa volta, il propugnatore più accanito. Si conoscevano le sue idee sulla necessità di sciogliere l'Italia dal giogo asburgico, era risaputo il valore da lui dimostrato nella guerra, non sfuggiva la sua ambizione a che la Repubblica dimostrasse di possedere anche in terra le virtù militari che aveva dimostrato a lungo di possedere sui mari; né si ignorava la sua ostinazione a non riconoscere le difficoltà, dovute a tradizioni e a organizzazione, che vi si opponevano. Gran cose per migliorare la condotta della guerra il doge non aveva potuto farle. Egli era condizionato dagli atteggiamenti dei senatori che, pur avendo optato per la guerra, si rivelavano incerti sulle decisioni che bisognava prendere per continuarla, riluttanti ad affrontarne i rischi, diffidenti dei Francesi che, tardando ad entrare in azione, scaricavano gli oneri maggiori sulle spalle dell'esercito veneto. La mancanza di coordinamento tra alleati, le incertezze della Serenissima Signoria, non erano sfuggiti agli Imperiali. Essi avevano deciso di attaccare Goito, una fortezza sita sulla strada che da Valeggio, ove aveva sede il comando veneto, portava a Mantova, ossia alla fortezza che essi stavano assediando. Goito era stata subito presa: scontratosi con gli Imperiali presso Valeggio l'esercito veneto, trascinato dal suo comandante in capo Zaccaria Sagredo, si era dato precipitosamente alla fuga, cercando riparo nella fortezza di Peschiera. Nel luglio Mantova cadrà nelle mani degli Imperiali e sarà rovinosamente saccheggiata. La colpa non era stata solo di Venezia. Carlo Emanuele di Savoia era mancato alle attese, mettendosi a far causa comune con gli Spagnoli; ed era mancato il cardinale di Richelieu, che si era limitato alle promesse, senza accompagnarle con un contributo effettivo. Ma era su Venezia che si riversavano tutte le conseguenze della sconfitta (305).
Un astro nascente della politica europea, monsignor Giulio Mazzarino, che agiva quale mediatore papale, stava tenendo già nel 1630 le fila dei contatti che dovevano portare alla pace. Nel luglio di quell'anno l'esercito francese, sceso nuovamente in Italia, otteneva ad Avigliana, in Piemonte, una vittoria sull'esercito spagnolo; il re di Svezia Gustavo Adolfo stava minacciando seriamente l'imperatore nel nord della Germania, ove era sbarcato da qualche anno. Ferdinando II si era deciso a far rientrare da Mantova quanto restava delle sue truppe e a raggiungere un accordo. Le trattative di pace si concluderanno il 13 ottobre 1630 a Ratisbona, ma avranno una definitiva sanzione tra aprile e giugno del 1631 a Cherasco. Esse costituivano un successo per il papa Urbano VIII, il quale figurava nel preambolo del trattato di Ratisbona come realizzatore della pace. Ne usciva assai bene pure il re di Francia, che riusciva ad assicurarsi Pinerolo, da dove poteva controllare le mosse del duca di Savoia e far sentire la sua voce nelle vicende italiane, così come aveva fatto dopo la pace di Cateau-Cambrésis, in virtù del possesso di Saluzzo. Anche la questione dei Grigioni e della Valtellina veniva definita conforme ai desideri della Francia: l'imperatore si impegnava a ritirare le sue genti e ad abbandonare "gli stati e forti e passi" occupati nella Rezia e nella Valtellina, rimettendoli alla libera disposizione dei Grigioni così come erano "avanti la mossa della guerra". Il duca di Savoia (che non era più Carlo Emanuele, morto il 27 luglio del 1630, ma Vittorio Amedeo II), pur costretto a rinunciare definitivamente alle sue pretese su Mantova e sul Monferrato, otteneva Trino, nel Vercellese, e varie terre monferrine. Chi ne usciva peggio era la Repubblica di Venezia, tagliata fuori dalle trattative. Non che perdesse nulla dei suoi territori: ma l'imperatore dichiarava di restituirle quanto aveva occupato nel corso della guerra perché pregato dal re di Francia (306). Ciò che era stato leso, che si era voluto ledere, era dunque il suo prestigio, e proprio alla fine di una lunga vicenda iniziata con il conflitto dell'Interdetto, con un successo sulla Curia romana che ora le si voleva far pagare: una lunga vicenda in cui tanti dei suoi uomini avevano sperato che la Repubblica potesse riprendere un ruolo attivo, da protagonista, in Italia e in Europa; a cominciare da Nicolò Contarini, il quale moriva il primo aprile del 1631, nei giorni in cui veniva sancita l'umiliazione di Cherasco (307).
Delusioni, mortificazioni, tormenti per il cattivo andamento della politica estera e per gli insuccessi militari andavano a congiungersi con le preoccupazioni per la situazione economica e finanziaria. Domenico Sella e Luciano Pezzolo convergono nelle loro valutazioni: la crisi dell'industria laniera e serica, così come quella del commercio espressa dalla flessione dei traffici e del movimento portuale di Venezia, si erano accentuate nel corso del terzo decennio del secolo; la finanza, che aveva retto ai pesi della guerra di Gradisca in virtù di una politica del debito pubblico condotta con la consumata esperienza che contraddistingueva gli uomini di governo che vi si dedicavano, rivelava segni sempre maggiori di affaticamento.
I nobiluomini che tornavano a Venezia dopo aver retto le grandi città della Terraferma riferivano di aver constatato lo smagliamento nei rapporti tra la Serenissima Signoria e i suoi rappresentanti da una parte, e i sudditi dall'altra, quelli dei ceti più alti in particolare, come sempre: difficoltà di imporre l'autorità, di far osservare le leggi, di amministrare giustizia. Il cedimento lo si era avvertito dopo l'Interdetto, e nel 1610 erano stati inviati infatti per il Dominio, ciascuno con un territorio particolare da ispezionare, tre sindaci e inquisitori straordinari con il compito di ripristinarvi l'ordine secondo i criteri di rigore che si erano adottati nel corso dell'Interdetto. Si doveva far sentire in ogni angolo la forza cogente della sovranità dello Stato: ma sindaci e rettori che tornavano negli anni successivi nella capitale ammettevano che quella forza restava nei buoni propositi, e che c'era tanta gente in città grandi come Brescia e Verona, certo le più inquiete, ma perfino in piccole come Belluno, per non parlare delle campagne, che con l'ausilio di uomini assoldati faceva quel che voleva. Si istituivano continuamente a Venezia dei collegi di correttori alle leggi, perché mettessero a punto strumenti legislativi più efficaci. "Le leggi che sono ogn'anno e nel principio de' novi regimenti publicate da' rappresentanti non servono che di vento", scriverà alla Serenissima Signoria un anonimo da Brescia. Ma era proprio la frequenza di leggi e correzioni a dimostrare la loro sostanziale inanità, e che il male e i rimedi dovevano esser cercati e applicati anche altrove (308).
Nella stessa nobiltà veneziana, ad esempio. Si è già visto, parlando della situazione sul finire del '500, come molte famiglie si stessero livellando su costumi e comportamenti analoghi a quelli dei nobili della Terraferma. La stessa sfida alla sovranità della Serenissima Signoria; e nuclei di "bravi" che si insedieranno nei palazzi veneziani di primarie famiglie. Ciò che aveva soprattutto colpito quell'osservatore malevolissimo della nobiltà veneziana che era il marchese di Bedmar erano le divisioni che la frastagliavano. Non tanto quelle tradizionali, dei "curti" e dei "longhi", ad esempio, di cui parla Robert Finlay, e che sembrano superate: piuttosto quelle suscitate e alimentate sia dalla contrapposizione politico-religiosa, che presupponeva una diversa idea della Chiesa e dello Stato, dei doveri che si dovevano avere verso l'una e verso l'altro, della collocazione di Venezia sulla scena internazionale, sia dalla situazione economica creatasi negli ultimi decenni. Il marchese di Bedmar consigliava di sfruttare quella contrapposizione, magari a suon di danaro, allettando cioè nobili della parte dei "buoni cittadini" con la concessione di benefici ecclesiastici, ambiti da tante famiglie per il reddito che apportavano: non c'era di meglio - lo stesso suggerimento l'aveva dato a suo tempo il nunzio monsignor Bolognetti - per affrancare molti nobiluomini e le loro famiglie dalla soggezione verso coloro che intendevano continuare la politica di ostilità alla Curia (309). Una drammatica manifestazione degli eccessi cui poteva portare l'odio provocato dal dissenso politico-religioso sarà la condanna a morte per strangolamento emessa dal consiglio dei dieci contro Antonio Foscarini, già ambasciatore a Londra, amico di Nicolò Contarini e di Sarpi, accusato falsamente di aver rivelato ad altri principi segreti di Stato - si era trattato di una vendetta, smascherata purtroppo quando era ormai troppo tardi (310).
D'altronde il numero di coloro che disertavano la parte che si è detta dei "buoni cittadini" tendeva continuamente a crescere. Una dolorosa crisi di coscienza l'aveva avuta prima di morire, poco dopo la fine della contesa dell'Interdetto, Antonio Querini, che pur ne era stato uno dei protagonisti più intransigenti. I "teologi minori" che avevano scritto in favore della Repubblica si erano rivolti in breve al papa per ottenerne il perdono. Sconcertante era stato più di recente il caso di Marc'Antonio de Dominis, arcivescovo di Spalato, il quale, dopo aver scritto durante l'Interdetto degli opuscoletti a sostegno delle ragioni della Serenissima Signoria, aveva ottenuto addirittura da Giacomo I di rifugiarsi a Londra sotto la sua protezione, per pubblicarvi la sua opera fondamentale, il De republica ecclesiastica - uscirà nel 1617 -, e nella speranza di poter svolgere efficacemente da là quell'azione di rinnovamento della Chiesa romana indispensabile per realizzare il suo sogno, ricomporre l'unità cristiana: nel 1623, con il consenso di Giacomo I, egli preferirà andare a Roma, illudendosi che gli sarebbe stato possibile convincere direttamente la Sede Apostolica ad abbracciare le sue idee e le sue speranze ecumeniche. D'altronde, mentre la Compagnia di Gesù continuava ad essere estromessa dallo Stato veneto a causa dell'inesorabile bando del 1606, risultava da un'inchiesta fatta tra i senatori nel 1620 che su 179 ce n'erano 93 che sarebbero stati favorevoli al suo ritorno; e non erano certo poche le famiglie che malgrado il divieto mandavano i loro figli nei collegi dei gesuiti siti al di là delle frontiere (311).
Nel 1620 rientrava a Venezia, accolto da Piero Contarini, un nobiluomo che era stato ambasciatore a Roma, inviso a fra Paolo Sarpi per il suo "papalismo", il pittore Carlo Saraceni, che si era trasferito una ventina d'anni prima a Roma alla scuola di Michelangelo da Caravaggio. Un ritorno importante, indicativo che era in atto qualcosa di più che un mutamento nella cultura pittorica della città: perché il Saraceni era portavoce di quella pittura "en primera persona", per dirla con José Antonio Maravall, mirante a suscitare la pietà in un'intensa evocazione di sentimenti, tensioni e passioni, che era la pittura più intonata alla controriforma (312). Il segnale più evidente della riscossa dei "papalini" verrà invece nel 1623, quando sarà eletto al dogado Giovanni Corner, appartenente a una delle famiglie più ricche e tradizionalmente più legate alla Curia: e non tanto per lui, che era uomo mite, quanto per i suoi figli, due dei quali avviati ormai bene nella carriera ecclesiastica; sarà la protervia dei figli, Federico, il futuro patriarca di Venezia, che non concepiva di veder applicare nei suoi confronti le norme regolanti lo status dei figli del doge, e Zorzi, disposto ad usare la violenza fisica contro gli avversari del padre e della famiglia, che contribuirà a trasferire sul piano costituzionale, radicalizzandola, la gravissima crisi insorta in quel periodo in seno al patriziato (313).
C'era poi la divisione tra i ricchi e i poveri, che significava correlativamente distinzione tra chi poteva aspirare a ricevere un'educazione e chi doveva farne a meno, chi poteva aspirare ad adire cariche importanti ma non rimunerate e chi non aveva altra scelta che cercare di guadagnare qualcosa con cariche di basso livello, che non schiudevano alcun avvenire. I torbidi politico-sociali che turberanno la vita veneziana tra 1623 e 1628 - "a kind of civil warre", scriveva con un'enfasi piuttosto eccessiva l'ambasciatore inglese a Venezia Isaac Wake, impressionatissimo per questo spettacolo così nuovo, così inaspettato in un ambiente come il veneziano - erano infatti originati dal grave stato di malessere politico ed economico che percorreva gli strati inferiori della nobiltà veneziana e che si concretizzerà alla fine in richieste di riforme sul piano costituzionale ispirate dalla rivendicazione del "repubblicanesimo" nei confronti delle persistenti tendenze oligarchiche. Si combattevano due fazioni, una detta dei "corneristi", dal cognome del doge, l'altra degli "zenisti", che esprimeva la nobiltà più povera e più debole, la quale derivava il proprio nome da colui che l'animava e la capitanava, Renier Zeno, patrizio vicino al gruppo sarpiano, che aveva fatto molto parlare di sé per le ambascerie da lui svolte, e soprattutto per la seconda presso la Sede Apostolica, dove era riuscito con la spregiudicatezza dei suoi atteggiamenti e delle sue parole a scatenarsi contro le ire della Curia. Fazioni, spiegava lo storico contemporaneo di queste vicende, Zuan Antonio Venier, che "erano in effetti de' ricchi e de' poveri, de' più potenti e de' più inferiori". Fazioni - aggiungeva a commento - delle quali "non sogliono trovarsi nelle repubbliche le più perniciose". Alfredo Viggiano illustra in questo volume, nei suoi risvolti politici e giudiziari, il nascere e lo svolgersi della "correzione del consiglio dei dieci", in virtù della quale nel 1628 si cercherà di placare il movimento di protesta. Un movimento che aveva ripercussioni sulla Terraferma. In quello stesso 1628 un senatore "principale" che preferiva restare anonimo informava gli inquisitori di Stato che "in ogni città del Serenissimo Dominio si sentono moti cagionati da questi di Venezia, e che spezialmente a Brescia se ne ragiona assai": e si diceva anche che si mandavano di continuo "pistole a Venezia a particolari", su loro richiesta. Anche i capi del consiglio dei dieci erano avvertiti da "persona confidentissima" di "occulte machinazioni e prattiche contra lo Stato [...> fin nella propria città di Venezia"; i capi si affrettavano a darne comunicazione ai massimi organi di governo, i savi del collegio e il senato (314).
Un libro di Ludovico Zuccolo, apparso a Venezia nel 1625, intitolato Il Molino, overo dell'amicitia scambievole tra cittadini, racconta un dialogo immaginario svoltosi tra due personaggi famosi nella Venezia di quegli anni, ossia Domenico Molino, uomo di cultura già vicino al Sarpi, in contatto con i maggiori filologi olandesi, personalità emergente e influentissima nella politica veneziana, e Marco Trevisan, nobiluomo di famiglia assai nota, il quale si era battuto animosamente nella guerra contro gli Arciducali, ma che era rimasto poi ai margini dell'attività di governo: essi discutevano dell'importanza dell'amicizia nella vita di uno Stato, e sui modi di suscitarla e di conservarla tra i cittadini. Domenico Molino ne parlava con il pacato distacco dell'uomo dotato di grande esperienza, consapevole dei limiti che i sentimenti più generosi avevano nel modificare la realtà di uno Stato. Marco Trevisan credeva invece nell'amicizia come strumento di rigenerazione della vita di tutto un popolo: "A che moltiplicar tante leggi et innovare sì spesso editti" egli domandava "se può l'amicitia civile da sé sola distorre i cittadini dalle ingiurie e renderli al beneficio et alla gratitudine ben disposti e pronti?".
Marco Trevisan aveva ben motivo di sostenere questa tesi. Egli era allora protagonista, insieme a un altro gentiluomo, Nicolò Barbarigo, di una vicenda che aveva provocato clamore ed ammirazione non solo a Venezia, ma in altre parti d'Italia e d'Europa, e che era una delle espressioni più tipiche della Venezia barocca. La cosa era nata una dozzina d'anni prima, quando il Trevisan, visto che Nicolò Barbarigo veniva praticamente escluso dalla vita cittadina per un gesto che aveva sollevato gravi critiche - pare che avesse tentato il suicidio per protesta contro l'elezione al dogado di Marcantonio Memmo - l'aveva avvicinato, gli aveva offerto la sua solidarietà e, ancor più, la sua amicizia: e aveva poi voluto che questa amicizia fosse attestata pubblicamente dall'assunzione di impegni reciproci, la procura generale di tutti i propri beni e il testamento, con un seguito di codicilli, tutto a favore l'uno dell'altro. Uomini come fra Paolo Sarpi e fra Fulgenzio Micanzio, Alfonso Antonini e Alvise Sechini, Nicolò Contarini e l'ambasciatore d'Inghilterra Isaac Wake (uomini, si noterà, con le idee dei "buoni cittadini") dichiaravano la loro stima. Principi come il re d'Inghilterra, il re di Polonia, il granduca di Toscana chiedevano notizie e ritratti. Dei letterati scrivevano libri, dei poeti sonetti e ditirambi. "Amici heroi", si era finito per chiamare il Trevisan e il Barbarigo, in quanto avevano saputo realizzare l'ideale dell'amicizia a un livello "heroico". Ludovico Zuccolo spiegava la fortuna di questo straordinario sodalizio in un libro uscito a Venezia lo stesso anno de Il Molino, intitolato Della nobiltà comune et heroica, e in altro uscito nel 1629, Il secolo dell'oro rinascente nell'amicitia fra Nicolò Barbarigo e Marco Trivisano: l'amicizia tra il Trevisan e il Barbarigo era una sfida al secolo e ai valori che vi trionfavano, la corruzione e la violenza, la ricchezza più sfrenata contro la povertà più misera, l'ostentazione dell'oro, le cerimonie affettate e superflue, il bisogno di apparire contro la schiettezza del vivere e dei sentimenti. Il tributo più alto all'"heroica amicizia" era la dedica presente nella traduzione italiana della famosa Historia o brevissima relatione della distruttione dell'Indie Occidentali, edita a Venezia nel 1626: dedica nella quale l'autore, Giacomo Castellani, aveva intravvisto per il Trevisan e il Barbarigo prospettive ancor più ambiziose, rappresentare un motivo di concordia e di fratellanza anche per i nuovi mondi, tra i conquistatori e i popoli nativi.
Non doveva durar molto la fortuna degli "amici heroi". Lo scontro tra "corneristi" e "zenisti" li aveva coinvolti; il Trevisan - di gran lunga il più intelligente dei due - si era schierato a favore dello Zeno, poi aveva attaccato pubblicamente proprio il suo ideale interlocutore nel dialogo dello Zuccolo, Domenico Molino, accusandolo di esser un tiranno, trascinandolo in giudizio, e tirandosi contro denunzie al consiglio dei dieci dal ben più potente rivale: il Trevisan sarà condannato, mandato al bando. A Venezia un diarista, Girolamo Priuli, sconsacrerà tutta la storia dell'"heroica amicizia", descrivendo il Trevisan come uno scroccone che aveva montato tutto pagando con i soldi del Barbarigo. Ci sarà la defezione di Fulgenzio Micanzio, che scriverà a Galileo Galilei deridendo il Trevisan, ritrattando quanto aveva scritto di lui nella Vita del padre Paolo dell'ordine de' Servi. Forse gli era rimasto l'affetto di Nicolò Contarini: ma in ogni caso questi non aveva fatto in tempo a parlare della sua "heroica amicizia" nelle sue Istorie veneziane, come gli aveva promesso nel momento di auge (315).
Nel 1631, poco dopo il doge Contarini, scompariva il patriarca di Venezia Giovanni Tiepolo, il quale aveva dato alla sua carica, come a quella precedente di primicerio di San Marco, quel tono di gelosa salvaguardia delle prerogative della Chiesa veneta di cui un Leonardo Donà, un Nicolò Contarini, così come un fra Paolo Sarpi e un fra Fulgenzio Micanzio erano tanto fieri. A succedergli veniva ora eletto, in virtù del sostegno della Curia romana, superando l'opposizione dei suoi irriducibili avversari veneziani, il cardinale Federico Corner, figlio del doge Giovanni (il prelato lascerà poi la carica e Venezia, e farà costruire un monumento funebre alla sua famiglia dal Bernini, nella chiesa romana di Santa Maria della Vittoria, celebrativa della vittoria di Ferdinando II alla Montagna Bianca). Svolta nell'orientamento ecclesiale che aveva segnato gli ultimi venticinque anni di storia veneta: svolta nella scelta degli obiettivi che doveva proporsi la politica della Repubblica, o quanto meno forte riaffermazione di quelli che aveva proposto cent'anni prima Gasparo Contarini. Rientrando nel 1631 dalla Spagna, ove era stato ambasciatore dal 1626, Alvise Mocenigo presentava alla Serenissima Signoria una relazione che conteneva una vera requisitoria contro la politica contariniana. Con la guerra, scriveva, si erano fatti spendere "tanti milioni d'oro, vuotati li scrigni di zecca, caricata di debiti la Repubblica". Dal momento che scopo di essa non era di ingrandirsi, bensì di badare alla propria conservazione, non c'era alcun motivo per impegnarla "con sì aperte dichiarazioni in ciò che, conforme al suo stile e forse al suo interesse, poteva fare di altro modo". Un altro ambasciatore, Francesco Corner, figlio del doge Giovanni e fratello del patriarca cardinale Federico, aggiungeva tre anni dopo che le "massime" di governo della Repubblica di Venezia devono essere "incamminate a prudentissimi avvertimenti di stabile neutralità". Si poteva dire a questo punto che il periodo dell'Interdetto era ormai giunto alla sua conclusione (316).
Eppure i pochi superstiti e gli epigoni del gruppo dei "buoni cittadini", convinti sempre di essere i depositari dei più alti e più veri ideali civili della Repubblica, continueranno a far sentire la loro voce negli organi di governo; così come fra Fulgenzio Micanzio non rinunzierà nel corso della sua ancor lunga vita a propugnare coraggiosamente i principi appresi nei lunghi anni di consuetudine col Sarpi. Farà loro corona una nobiltà che, pur nella sua contrazione numerica e malgrado le difficoltà causate dalla condizione, spesso di vero degrado, dei suoi strati più poveri, annovererà uomini di governo di alta qualità politica, in grado di reggere un ordinamento pur logorato dal peso dei secoli, di barcamenarsi tra le intricate vicende d'Europa e di far fronte all'incombere estenuante dell'Impero ottomano: affiancata da una burocrazia che, soprattutto nei suoi quadri più elevati, sarà elemento fondamentale per il reggimento dello Stato (317). Non si deve credere, ammonisce Domenico Sella a conclusione del suo contributo, che dagli anni '20 del Seicento l'economia veneziana fosse inesorabilmente volta alla paralisi e al fallimento, come vorrebbe una tesi insistente nella storiografia veneziana: la ripresa che essa conoscerà verso la metà del secolo ne è una prova. Una ripresa aiutata dal rilancio di quella visione più integrata dello Stato - i governanti che "sfumano" il loro orgoglioso distacco dai governati - che Luciano Pezzolo aveva già individuato nel corso del '500, che si era incrinata all'inizio del '600 con la questione dell'Interdetto, che riappare alla fine degli anni '20 del secolo nella politica fiscale con cui Venezia e la Terraferma sono chiamate unitariamente a fronteggiare una situazione sconvolta.*
1. Lionello Puppi, Iconografia di Andrea Gritti, in "Renovatio urbis". Venezia nell'età di Andrea Gritti (1523-1538), a cura di Manfredo Tafuri, Roma 1984, p. 224 (pp. 216-235).
2. Claude de Seyssel, La victoire du roy contre les Veniciens, Paris 1510.
3. Felix Gilbert, The Pope, His Banker, and Venice, Cambridge, Mass.-London 1980, passim; Gaetano Cozzi, Venezia nello scenario europeo (1517-1535), in Id.-Michael Knapton-Giovanni Scarabello, La Repubblica di Venezia nell'età moderna. Dal 1517 alla fine della Repubblica (Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, XII, 2), Torino 1992, pp. 5 ss. (pp. 5-200).
4. Gaetano Cozzi, Repubblica di Venezia e Stati italiani. Politica e giustizia dal secolo XVI al secolo XVIII, Torino 1982, pp. 105 ss.
5. Samuele Romanin, Storia documentata di Venezia, V, Venezia 1925, pp. 425-426; Karl Brandi, Carlo V, Torino 1961, p. 238.
6. Robert Finlay, Al servizio del Sultano: Venezia, i Turchi e il mondo cristiano (1523-1538), in "Renovatio urbis". Venezia nell'età di Andrea Gritti (1523-1538) a cura di Manfredo Tafuri, Roma 1984, p. 83 (pp. 78-118).
7. Ibid.; K. Brandi, Carlo V, pp. 240 ss. e 264; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, V, pp. 433-434; Federico Chabod, Venezia nella politica italiana ed europea del Cinquecento, in AA.VV., La civiltà veneziana del Rinascimento, Firenze 1958, pp. 29 ss. (pp. 29-55). Cf. il contributo di Paolo Prodi in questo volume.
8. K. Brandi, Carlo V, pp. 83 ss.; Fernand Braudel, La Méditerranée et le monde méditerranéen à l'époque de Philippe II, II, Paris 1960 (trad. it. Civiltà e imperi del Mediterraneo nell'età di Filippo II, I-II, Torino 1976), pp. 11 ss.; Alessio Bombaci-Stanford Shaw, L'Impero ottomano, Torino 1981, p. 368.
9. Marino Sanuto, I diarii, a cura di Rinaldo Fulin et al., I-LVIII, Venezia 1879-1903: LI, coll. 47-48, poi 97, 106, 107, poi 203-204; Federico Chabod, Storia di Milano nell'epoca di Carlo V, Torino 1971, pp. 26-27; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, V, pp. 450 e 461; R. Finlay, Al servizio del Sultano, pp. 86-87; K. Brandi, Carlo V, p. 272.
10. Sul Contarini cf., oltre al contributo di P. Prodi in questo volume, Gigliola Fragnito, Gasparo Contarini. Un magistrato veneziano al servizio della cristianità, Firenze 1988 e Gasparo Contarini e il suo tempo, a cura di Francesca Cavazzana Romanelli, Venezia 1988.
11. M. Sanuto, I diarii, LI, coll. 414 e 435-436.
12. Franz Dittrich, Regesten und Briefe des Kardinal Gasparo Contarini (1483-1542), Braunsberg 1881, pp. 41-42.
13. M. Sanuto, I diarii, LI, coll. 414-415.
14. F. Chabod, Storia di Milano, p. 26; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, V, pp. 470-472.
15. R. Finlay, Al servizio del Sultano, pp. 88-89; K. Brandi, Carlo V, pp. 317-318.
16. Aldo Stella, Tensioni religiose e movimenti di riforma (durante il dogado di Andrea Gritti), in "Renovatio urbis". Venezia nell'età di Andrea Gritti (1523-1538), a cura di Manfredo Tafuri, Roma 1984, p. 135 (pp. 134-147); R. Finlay, Al servizio del Sultano, pp. 88-89; cf. la lettera del nunzio Gerolamo Aleandro a J. Salviati, del 1 aprile 1535, in Nunziature di Venezia, I, (1533-1535), a cura di Franco Gaeta, Roma 1958, p. 28.
17. Gaetano Cozzi, I rapporti tra Stato e Chiesa, in La Chiesa di Venezia tra Riforma protestante e Controriforma, a cura di Giuseppe Gullino, Venezia 1990, p. 24 (pp. 11-36); Nunziature di Venezia, I, lettere del nunzio del 26 aprile e del 5 maggio 1533, pp. 37 e 41.
18. Nunziature di Venezia, I, lettera del 1 agosto 1534, p. 265.
19. F. Chabod, Storia di Milano, pp. 42, 44, 57, 61.
20. M. Sanuto, I diarii, XXVII, coll. 456-457.
21. Tommaso Moro, L'Utopia, o la migliore forma di repubblica, versione e saggio introduttivo di Tommaso Fiore, Bari 1970; Niccolò Machiavelli, Il Principe e Discorsi, con introduzione di Giuliano Procacci, a cura di Sergio Bertelli, Milano 1968; François Rabelais, Pantagruel, a cura di Victor L. Saunier, Genève 1965. L'Enchiridion militis christiani di Erasmo da Rotterdam usciva nel 1504, l'Institutio principis christiani nel 1516. L'Utopia di Tommaso Moro, cominciata nel 1510, era pubblicata a Lovanio sul finire del 1516. Nel 1513 Niccolò Machiavelli iniziava a scrivere il Principe, e nello stesso torno di tempo metteva mano ai Discorsi intorno alla prima deca di rito Livio. Il Pantagruel di François Rabelais era del 1532.
22. Domenico Morosini, De bene instituta re publica, a cura di Claudio Finzi, Milano 1969; Gasparo Contarini, La Republica e i magistrati di Vinegia, Vinegia 1551; Donato Giannotti, Della Repubblica de' vinitiani, in Opere politiche e letterarie, a cura di Filippo L. Polidori, Firenze 1850. Mi sia consentito di rinviare a Gaetano Cozzi, Domenico Morosini e il "De bene instituta re publica", "Studi Veneziani", 12, 1970, pp. 405-408 (pp. 405-458).
23. M. Sanuto, I diarii, LV, col. 37. Nel febbraio 1527 il famoso attore Cherea metteva in scena una "momaria" in cui "mondo vecchio" e "mondo nuovo" si affrontavano, ed era il nuovo ad avere il sopravvento: cit. in Manfredo Tafuri, "Renovatio urbis Venetiarum": il problema storiografico, in "Renovatio urbis". Venezia nell'età di Andrea Gritti (1523-1538), a cura di Id., Roma 1984, p. 9 (pp. 9-55).
24. Manfredo Tafuri, Venezia e il Rinascimento, Torino 1985, pp. 79 ss.
25. Ibid., pp. 90-91.
26. Antonio Foscari-Manfredo Tafuri, L'armonia e i conflitti. La chiesa di San Francesco della Vigna nella Venezia del Cinquecento, Torino 1983, passim; cf. in particolare M. Tafuri, "Renovatio", pp. 28-29 e Venezia, pp. 90 ss.
27. Cf. in questo volume il contributo di P. Prodi.
28. M. Tafuri, "Renovatio", pp. 12 ss. Sul compito affidato alla Compagnia di Gesù cf. Gaetano Cozzi, Fortuna, e sfortuna, della Compagnia di Gesù a Venezia, in Atti del Convegno Venezia e la Compagnia di Gesù, in corso di stampa.
29. G. Cozzi, Fortuna, e sfortuna.
30. Nunziatura di Venezia, I, p. 98.
31. V. Hale in questo volume.
32. D. Giannotti, Della Repubblica, p. 89; A. Stella, Tensioni religiose, pp. 134-135. Cf. anche il contributo di P. Prodi in questo volume.
33. G. Cozzi, I rapporti tra Stato e Chiesa, p. 24.
34. Id., Domenico Morosini, pp. 418 e 421 ss.
35. M. Sanuto, I diarii, XLI, col. 664 e L, coll. 368-369.
36. Luciano Pezzolo, L'oro dello Stato. Società, finanza e fisco nella Repubblica veneta del secondo '500, Venezia 1990, pp. 20 ss.
37. G. Cozzi, Repubblica di Venezia, pp. 137-138.
38. Angelo Ventura, Introduzione, a Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, Bari 1976, pp. XLIX-L; Agostino Valier, Dell'utilità che si può trarre dalle cose operate dai Veneziani, Padova 1787, p. 309.
39. Cf. infra, all'altezza delle nn. 109-118.
40. A. Valier, Dell'utilità, p. 317. Sulla vita avventurosa del Cappello cf. la voce di Franco Fasulo-Claudio Mutini in Dizionario Biografico degli Italiani, XVIII, Roma 1975, pp. 765-767.
41. G. Cozzi, Repubblica di Venezia, p. 154. Rinvio al contributo di Alfredo Viggiano in questo volume.
42. G. Cozzi, Repubblica di Venezia, pp. 149-150; L. Pezzolo, L'oro dello Stato, p. 184.
43. Della Repubblica, pp. 124-125.
44. La Republica, p. 89.
45. D. Morosini, De bene instituta, pp. 113 e 155. Cf. Giovanni Silvano, La "Republica de' Vineziani". Ricerche sul repubblicanesimo veneziano in età moderna, Firenze 1993, uscito quando il mio contributo era ormai avviato alla stampa.
46. Cf. infra, all'altezza della n. 121.
47. Cf. il contributo di Aldo Stella in questo volume e Gaetano Cozzi, Stato e Chiesa: vicende di un confronto secolare, in AA.VV., Venezia e la Roma dei papi, Milano 1987, pp. 29-30 (pp. 11-56).
48. Robert Finlay, Politics in Renaissance Venice, New Brunswick, N.J. 1980 (trad. it. La vita politica nella Venezia del Rinascimento, Milano 1982), p. 109; Mario Brunetti, Il doge non è ῾segno' di taverna, "Nuovo Archivio Veneto", 33, 1917, pp. 351-355.
49. Edward Muir, Civic Ritual in Renaissance Venice, Princeton, N.J. 1981 (trad. it. Il rituale civico a Venezia nel Rinascimento, Roma 1984), pp. 251 ss.
50. Gina Fasoli, Liturgia e cerimonia ducale, in Venezia e il Levante fino al secolo XV, a cura di Agostino Pertusi, Venezia 1971, pp. 261-295; Agostino Pertusi, Quedam regalia insignia. Ricerche sulle insegne del potere ducale a Venezia durante il Medioevo, "Studi Veneziani", 7, 1965, p. 77 (pp. 3-123); Gaetano Cozzi, Giuspatronato del doge e prerogative del primicerio sulla cappella ducale di San Marco (secoli XVI-XVIII). Controversie con i procuratori di San Marco de supra e con il patriarca di Venezia, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 151, 1992-1993, pp. 21 ss. (pp. 1-69); Matteo Casini, I gesti del principe. Cerimonie e rituali del potere politico a Venezia e Firenze nel Cinquecento (1530-1609), tesi di dottorato di ricerca, a.a. 1992.
51. G. Cozzi, Giuspatronato del doge e prerogative del primicerio, p. 19.
52. M. Tafuri, "Renovatio", p. 28.
53. Id., Venezia, pp. 39 ss.
54. Donatella Calabi-Paolo Morachiello, Rialto: le fabbriche e il ponte, Torino 1987, pp. 51-55.
55. Ibid.: si v. in particolare il capitolo che P. Morachiello dedica al ponte.
56. M. Tafuri, "Renovatio", pp. 33 ss. e Venezia, pp. 163 ss.
57. Marino Zorzi, La Libreria di San Marco, Milano 1987, p. 121; Deborah Howard, Jacopo Sansovino. Architecture and Patronage in Renaissance Venice, New Haven-London 1985, passim; Bruce Boucher, Il Sansovino e i procuratori di San Marco, "Ateneo Veneto", 173, 1986, p. 62 (pp. 59-74).
58. M. Tafuri, "Renovatio", pp. 11 ss. e 35.
59. Ibid., p. 35 e Venezia, pp. 162 ss.; Gaetano Cozzi, Risvolti politico-religiosi di una controversia architettonica e monumentale tra doge e procuratori di San Marco nella seconda metà del Cinquecento, in AA.VV., Studi in onore di Aldo Stella, di prossima pubblicazione. Era indicativo il fatto che un paladino del repubblicanesimo come Donato Giannotti, e critico, come si sa, della procuratia, non facesse alcun cenno delle prerogative che i procuratori de supra rivendicavano sulla cappella ducale, mentre un autore di tendenze oligarchiche come Gasparo Contarini vi si soffermava accuratamente: uno dei compiti dei procuratori de supra, egli scriveva, era di far "ristorar questo Tempio [di San Marco> se in alcun luogo si guasta", un altro l'aver "cura de i sacerdoti di esso", e poi di provvedere che in esso "secondo la dignità della Città et dell'Illustrissimo nostro Avocato Marco Evangelista, piamente si esserciti il culto divino" (G. Contarini, La Republica, pp. 138-141).
60. Luigi da Porto, Lettere storiche, a cura di Bartolomeo Bressan, Firenze 1857, pp. 258-259.
61. G. Cozzi, Repubblica di Venezia, p. 301 e il contributo di Marco Bellabarba in questo volume.
62. Ennio Concina, La macchina territoriale. La progettazione della difesa nel Cinquecento veneto, Roma-Bari 1983; M. Tafuri, "Renovatio", p. 17.
63. M. Tafuri, "Renovatio", pp. 18-19.
64. L. Pezzolo, L'oro dello Stato, pp. 13 e 18; Ennio Concina, Venezia nell'età moderna. Strutture e funzioni, Venezia 1989, p. 229.
65. Cf. il contributo di Giuseppe Gullino in questo volume; Angelo Ventura, Considerazioni sull'agricoltura veneta e sulla accumulazione originaria del capitale nei secoli XVI e XVII, "Studi Storici", 9, 1968, passim (pp. 674-722); Gaetano Cozzi, Ambiente veneziano, ambiente veneto. Governanti e governati nel Dominio di qua dal Mincio nei secoli XV-XVIII, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/II, Il Seicento, Vicenza 1984, pp. 511 e 518-519 (pp. 495-539).
66. Salvatore Ciriacono, Scrittori d'idraulica e politica delle acque, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/II, Dal primo Quattrocento al concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 505 ss. (pp. 491-512) e Emilio Menegazzo, Alvise Cornaro: un veneziano del Cinquecento nella Terraferma padovana, ibid., pp. 520-530 (pp. 513-538); M. Tafuri, Venezia, pp. 232-233; Gaetano Cozzi, Storia e politica nel dibattito veneziano sulla laguna (secc. XV-XVIII), in AA.VV., Conterminazione lagunare, storia, ingegneria, politica e diritto nella laguna di Venezia, Venezia 1992, pp. 23-28 (pp. 15-37).
67. Giovanni Scarabello, Nelle relazioni dei Rettori, aspetti di una loro attività di mediatori tra Governanti delle città suddite e Governo della Dominante, in Atti del Convegno "Venezia e la Terraferma attraverso le relazioni dei Rettori", a cura di Amelio Tagliaferri, Milano 1981, pp. 485 ss. (pp. 484-491).
68. L. Pezzolo, L'oro dello Stato, p. 13; Andrea da Mosto, L'Archivio di Stato di Venezia: Indice generale, I, Roma 1937; Alessandra Sambo, Organi di appello veneziani nelle cause civili, in Una città e il suo territorio. Treviso nei secoli XVI-XVIII, a cura di Danilo Gasparini, Treviso 1988, pp. 183 ss. (pp. 183-188).
69. Emilio Morpurgo, Le rappresentanze popolari venete di Terraferma presso il governo della Dominante, "Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", ser. V, 4, 1877-1878, pp. 869-888.
70. G. Cozzi, Ambiente veneziano, pp. 513-514.
71. Cf. il contributo di Alfredo Viggiano in questo volume; e dello stesso si v. il recentissimo volume, Governanti e governati. Legittimità del potere ed esercizio dell'autorità sovrana nello Stato veneto della prima età moderna, Treviso 1993.
72. François Dupuigrenet Desroussilles, L'università di Padova dal 1405 al concilio di Trento, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/II, Dal primo Quattrocento al concilio di Trento, Vicenza 1980, p. 640 (pp. 607-647). Sulle scuole veneziane, oltre al contributo di Gino Benzoni in questo volume, cf. Gherardo Ortalli, Scuole, maestri e istruzione di base tra Medioevo e Rinascimento. Il caso veneziano, Vicenza 1993, pp. 25, 29 e 132. Sulle scuole dei gesuiti, cf. G. Cozzi, Fortuna, e sfortuna.
73. F. Dupuigrenet Desroussilles, L'università, p. 647.
74. Sandro De Bernardin, I Riformatori dello Studio: indirizzi di politica culturale nell'Università di Padova, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/I, Il Seicento, Vicenza 1983, pp. 63 ss. (pp. 61-91).
75. Vittorio Baldo, Alunni, maestri e scuole in Venezia alla fine del XVI secolo, Como 1977; Marino Zorzi, La circolazione del libro a Venezia nel Cinquecento: biblioteche private e pubbliche, "Ateneo Veneto", 177, 1990, p. 168 (pp. 117-189).
76. Cf. il contributo di G. Benzoni in questo volume.
77. Cf. il contributo di Claudia di Filippo Bareggi in questo volume. Cf. pure M. Zorzi, La circolazione del libro, p. 164.
78. M. Tafuri, "Renovatio", p. 32.
79. M. Zorzi, La circolazione del libro, pp. 130-134, oltre al contributo dello stesso in questo volume.
80. Nel contributo di Donatella Calabi a questo volume. Sulle colonne trasportate da Pola, cf. G. Cozzi, Risvolti.
81. Francesco Sansovino, Venetia, città nobilissima et singolare, descritta in XIIII libri, Venetia 1581. Io mi sono valso della riedizione ampliata a cura di Giovanni Stringa, Venezia 1604.
82. Si v. a p. 135. Il De disciplinis ingenuis era stato edito a Padova nel 1570.
83. M. Zorzi, La Libreria, pp. 163-170.
84. Gaetano Cozzi, Federico Contarini: un antiquario veneziano tra Rinascimento e Controriforma, "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 3, 1961, p. 123 (pp. 190-220).
85. David Bryant, La musica nelle istituzioni religiose e profane di Venezia, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 4/I, Il Seicento, Vicenza 1983, p. 446 (pp. 433-447).
86. Giulio Cattin, Musica e liturgia a San Marco, I, Venezia 1990, pp. 23 ss.; Ellen Rosand, La musica nel mito di Venezia, in "Renovatio urbis". Venezia nell'età di Andrea Gritti (1523-1538), a cura di Manfredo Tafuri, Roma 1984, pp. 167 ss. (pp. 167-186); Denis Arnold, Giovanni Gabrieli and the Music of the Venetian High Renaissance, London-Oxford 1979, pp. 106 ss.
87. D. Bryant, La musica, p. 441.
88. Isabella Palumbo Fossati, L'interno della casa dell'artigiano e dell'artista nella Venezia del Cinquecento, "Studi Veneziani", n. ser., 8, 1984, pp. 126-127 (pp. 109-153).
89. Giorgio Padoan, La commedia rinascimentale a Venezia: dalla sperimentazione umanistica alla commedia "regolare", in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/III, Dal primo Quattrocento al concilio di Trento, Vicenza 1981, pp. 377-465.
90. Giuseppe Fiocco, Le arti figurative, in AA.VV., La civiltà veneziana del Rinascimento, Firenze 1958, pp. 179-195.
91. Cf. il contributo di Giuseppe Trebbi e sulla peste quello di Paolo Preto in questo volume.
92. Cf. il contributo di Giovanni Scarabello in questo volume.
93. E. Concina, Venezia, p. 226; e si v. il contributo dello stesso in questo volume.
94. Cf. il contributo di Domenico Sella in questo volume.
95. Cf. il contributo di Luciano Pezzolo in questo volume.
96. Miguel de Cervantes Saavedra, Il dottor Vetrata, in Id., Novelle esemplari, Milano 1987, p. 165. Anche nel Don Quijote il Cervantes cita "el tesoro de Venecia", insieme alle "minas del Potosí", come esempio di immensa ricchezza (Don Quijote de la Mancha, a cura di Martin de Riquer, Barcelona 1992, n. 1077).
97. A. Bombaci-S. Shaw, L'Impero ottomano, pp. 379 ss.
98. F. Braudel, La Méditerranée, II, pp. 17-18, 30 e 181, 225 ss.; F. Chabod, Storia di Milano, pp. 19, 27-28, 37, 44, 57, 61.
99. Kenneth M. Setton, The Papacy and the Levant, III, The Sixteenth Century to the Reign of Julius III, Philadelphia 1984, pp. 401, 404; F. Chabod, Storia di Milano, pp. 63 ss.
100. K. Brandi, Carlo V, p. 341; K.M. Setton, The Papacy and the Levant, III, pp. 403 e 437; Samuele Romanin, Storia documentata di Venezia, VI, Venezia 1925, p. 28.
101. S. Romanin, Storia documentata di Venezia, VI, p. 28; K.M. Setton, The Papacy and the Levant, III, p. 429; Gaetano Cozzi, Politica, società, istituzioni, in Id.-Michael Knapton, La Repubblica di Venezia nell'età moderna. Dalla guerra di Chioggia alla riconquista della Terraferma (Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, XII, 1), Torino 1986, pp. 52-53 (pp. 1-271).
102. Ennio Concina, Città e fortezze nelle tre isole del Levante, in AA.VV., Venezia e la difesa del Levante. Da Lepanto a Candia, 1570-1670, Venezia 1986, pp. 184-185 (pp. 184-194); S. Romanin, Storia documentata di Venezia, VI, p. 28; K.M. Setton, The Papacy and the Levant, III, p. 431.
103. Francesco Longo, Libro dei Commentari della guerra tra Sultan Soliman imperador dei Turchi et la Serenissima Signoria di Venetia, ms. in Wien, Oesterreichische Nationalbibliothek, cod. ex-Foscarini 6161, l. 1, c. 21v.
104. Giuseppe Gullino, Dandolo, Matteo, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXII, Roma 1986, p. 493 (pp. 492-495).
105. F. Longo, Libro dei Commentari, c. 21v; K.M. Setton, The Papacy and the Levant, III, p. 441.
106. F. Longo, Libro dei Commentari, cc. 22-40; la relazione di Nicolò Tiepolo è in Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di Luigi Firpo, II, Germania, Torino 1970, pp. 338 ss.
107. K. Brandi, Carlo V, pp. 408-409; K.M. Setton, The Papacy and the Levant, III, p. 447; Frederic C. Lane, Venice. A Maritime Republic, Baltimore-London 1973 (trad. it. Storia di Venezia, Torino 1987), p. 361.
108. F.C. Lane, Venice, p. 361; Fernand Braudel, Bilan d'une bataille, in Il Mediterraneo nella seconda metà del '500 alla luce di Lepanto, a cura di Gino Benzoni, Firenze 1976, p. 110 (pp. 109-120).
109. S. Romanin, Storia documentata di Venezia, VI, p. 57. La documentazione sulla trattativa è in A.S.V., Consiglio dei Dieci, Secreta, reg. 5, cc. 29, 30 ss.; F. Longo, Libro dei Commentari, c. 88v.
110. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Secreta, reg. 5, cc. 29-29v.
111. S. Romanin, Storia documentata di Venezia, VI, p. 57; A. Valier, Dell'utilità, p. 313. Sull'atmosfera di sospetto creatasi a Venezia cf. quanto scrive Gino Benzoni nella voce Dolfin, Giovanni [di Lorenzo>, in Dizionario Biografico degli Italiani, XL, Roma 1991, pp. 504-511.
112. A.S.V., Consiglio dei Dieci, Secreta, reg. 5, cc. 42 e 44.
113. F. Longo, Libro dei Commentari, cc. 88 e 91 bis.
114. Paolo Paruta, Historia vinetiana, Venezia 1703, p. 450; A. Valier, Dell'utilità, pp. 313-315. Si v. quanto scrive della ripresa economica e commerciale D. Sella in questo volume.
115. K. Brandi, Carlo V, pp. 446-447.
116. F. Chabod, Storia di Milano, p. 77.
117. K. Brandi, Carlo V, p. 439.
118. F. Chabod, Storia di Milano, pp. 78-79.
119. K. Brandi, Carlo V, pp. 509-513; F. Chabod, Storia di Milano, p. 87.
120. F. Chabod, Storia di Milano, p. 91.
121. Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, II, Germania, p. 506.
122. K. Brandi, Carlo V, pp. 509-513.
123. P. Paruta, Historia vinetiana, p. 55; Paolo Sarpi, Venezia, il patriarcato di Aquileia e la "giurisdizione delle terre patriarcali del Friuli", a cura di Corrado Pin, Udine 1985, pp. 196-197.
124. P. Sarpi, Venezia, il patriarcato, pp. 193, 206; Sergio Zamperetti, I piccoli principi. Signorie locali, feudi e comunità soggette nello Stato regionale veneto dall'espansione territoriale ai primi decenni del Seicento, Venezia 1991, pp. 280-281.
125. Relazioni degli ambasciatori veneti, II, Germania, pp. 383-385: cf. anche ibid., pp. 407-410, cosa scriveva due anni dopo un altro ambasciatore, Marin Cavalli.
126. Ibid., pp. 383-385.
127. Gaetano Cogo, Beltrame Sachia e la sottomissione di Marano al Dominio della Repubblica veneta, "Nuovo Archivio Veneto", 14, 1897, pp. 5-34; Gerolamo de Renaldis, Memorie storiche dei tre ultimi secoli del patriarcato d'Aquileia (1411-1751), a cura di Giovanni Gropplero, Udine 1888, p. 246.
128. Nunziature di Venezia, II, a cura di Franco Gaeta, Roma 1960, pp. 335-338. Le giustificazioni dei Veneziani riguardo all'acquisto sono riferite da P. Paruta, Historia vinetiana, pp. 464-465 e 471-472.
129. Sull'irrigidimento dell'arciduca d'Austria Carlo (1540-1590), fratello dell'imperatore Massimiliano II, cf. P. Sarpi, Venezia, il patriarcato, p. 229.
130. K. Brandi, Carlo V, pp. 525-527, 542-549.
131. Cf. su tutto questo il contributo di A. Stella in questo volume.
132. S. Romanin, Storia documentata di Venezia, VI, pp. 214-215. Cf., ancora, il contributo di A. Stella in questo volume.
133. K. Brandi, Carlo V, pp. 584 ss.
134. Ibid., pp. 578-579.
135. F. Chabod, Storia di Milano, pp. 129 ss.
136. Ibid., p. 115; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, VI, p. 220; Roberto Zapperi, Tiziano, Paolo III e i suoi nipoti. Nepotismo e ritratti di Stato, Torino 1990, pp. 43-47, 56.
137. F. Chabod, Storia di Milano, pp. 218-221.
138. Id., Lo Stato e la vita religiosa a Milano nell'epoca di Carlo V, Torino 1972, pp. 65, 80, 89.
139. Nunziature di Venezia, V, a cura di Franco Gaeta, Roma 1967, pp. 98, 241, 249, 271.
140. Ibid., VI, a cura di Id., Roma 1967, p. 140.
141. F. Chabod, Storia di Milano, pp. 135-137.
142. K. Brandi, Carlo V, p. 596.
143. Ibid., pp. 609-610.
144. Ibid., p. 623.
145. Fernand Braudel, Civilisation matérielle, économie et capitalisme, III, Le temps du monde, Paris 1987 (trad. it. Civiltà materiale, economia e capitalismo [secoli XV-XVIII>, III, I tempi del mondo, Torino 1982), pp. 114-126. Sulle esperienze religiose di un giovane veneziano mandato nel 1562 dalla famiglia ad Anversa a farvi pratica di mercatura, cf. Valerio Rossato, Religione e moralità in un merciaio veneziano del Cinquecento, "Studi Veneziani", n. ser., 13, 1987, pp. 193-253.
146. K. Brandi, Carlo V, pp. 623-626; F. Braudel, La Méditerranée, II, pp. 248, 251.
147. F. Braudel, La Méditerranée, II, pp. 247-248.
148. K. Brandi, Carlo V, pp. 608-609.
149. F. Braudel, La Méditerranée, II, p. 247.
150. K. Brandi, Carlo V, p. 626.
151. Ibid., pp. 626-628.
152. F. Braudel, La Méditerranée, II, pp. 255-256.
153. S. Romanin, Storia documentata di Venezia, VI, p. 277.
154. F. Braudel, La Méditerranée, II, pp. 254-257.
155. Ibid., pp. 254-255.
156. Ibid., pp. 256-257.
157. K. Brandi, Carlo V, pp. 635 ss.
158. Ibid., p. 636; F. Braudel, La Méditerranée, II, pp. 258-259.
159. K. Brandi, Carlo V, p. 635.
160. F. Chabod, Storia di Milano, pp. 144 ss.
161. K. Brandi, Carlo V, pp. 628-629, 631; F. Braudel, La Méditerranée, II, pp. 252-253; F. Chabod, Storia di Milano, p.117.
162. K. Brandi, Carlo V, p. 639; F. Braudel, La Méditerranée, II, p. 260.
163. Romolo Quazza, Storia politica d'Italia. Preponderanze straniere, Milano 1938, pp. 23 ss.; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, VI, p. 261.
164. R. Quazza, Storia politica d'Italia, pp. 102-105.
165. F. Braudel, La Méditerranée, II, p. 258.
166. Kenneth M. Setton, The Papacy and the Levant, IV, The Sixteenth Century from Julius III to Pius V, Philadelphia 1984, pp. 836 ss.
167. Luciano Serrano, La Liga de Lepanto entre España, Venecia y la Santa Sede (1570-1573), Madrid 1918, p. 34; F. Braudel, La Méditerranée, II, pp. 320 ss.
168. K.M. Setton, The Papacy and the Levant, IV, p. 923.
169. Ibid., pp. 943-944.
170. F. Braudel, La Méditerranée, II, p. 364.
171. K.M. Setton, The Papacy and the Levant, IV, pp. 943-944.
172. Benjamin Arbel, Venezia, gli ebrei e l'attività di Salomone Ashkenasi nella guerra di Cipro, in Gli Ebrei e Venezia. Secoli XIV-XVIII, a cura di Gaetano Cozzi, Milano 1987, pp. 168 ss. (pp. 163-190). Su Chios, K.M. Setton, The Papacy and the Levant, IV, p. 893.
173. K.M. Setton, The Papacy and the Levant, IV, pp. 953-954.
174. L. Pezzolo, L'oro dello Stato, p. 178; Nunziature di Venezia, VIII, a cura di Aldo Stella, Roma 1967, 20 ottobre 1568, p. 446.
175. In L. Pezzolo, L'oro dello Stato, pp. 123-124.
176. K.M. Setton, The Papacy and the Levant, IV, pp. 890, 908, 931-932, 939-941.
177. L. Pezzolo, L'oro dello Stato, pp. 123-124; F. Braudel, Bilan d'une bataille e John R. Hale, From Peacetime Establishment to Fighting Machine: the Venetian Army and the War of Cyprus and Lepanto, in Il Mediterraneo nella seconda metà del '500 alla luce di Lepanto, a cura di Gino Benzoni, Firenze 1976, rispettivamente pp. 112-113 e 175, 183 (pp. 163-184); L. Serrano, La Liga de Lepanto, pp. 433-434.
178. Cf. sul Loredan quanto scriveva Bartolomeo Sereno nei suoi Commentari della guerra di Cipro, cit. da K.M. Setton, The Papacy and the Levant, IV, p. 963 n. 181.
179. A. Valier, Dell'utilità, pp. 360 e 466-468: il Valier affidava il ruolo di fautore della guerra e delle possibili conquiste a Girolamo Grimani, quello di incitatore alla prudenza a Nicolò da Ponte. Effettivamente il da Ponte nel novembre del 1569, quando giungeva da Cipro la notizia che i Turchi stavano per sbarcare nell'isola, aveva parlato in senato addirittura contro l'invio di rinforzi di truppe, per non allarmare il sultano. Secondo Paolo Paruta, tra coloro che riluttavano alla guerra c'erano "alcuni de' principali senatori et più pratichi di quella natione" - cit. da Eligio Vitale nella sua Introduzione, a La corrispondenza da Madrid di Leonardo Donà (1570-1573), a cura di Mario Brunetti-Eligio Vitale, I, Venezia-Roma 1963, pp. XIV ss.
180. E. Vitale, Introduzione, p. XXIV.
181. F. Braudel, Bilan d'une bataille, p. 111.
182. S. Romanin, Storia documentata di Venezia, VI, pp. 287-288.
183. K.M. Setton, The Papacy and the Levant, IV, pp. 962-963; F. Braudel, La Méditerranée, II, pp. 365 ss. Sugli incitamenti di Pio V alla Serenissima Signoria per un suo intervento in. Francia, cf. Nunziature di Venezia, VIII, pp. 301, 446-447, 492, 496
184. E. Vitale, Introduzione, pp. XXX, XXXIII-XXXIV; Ugo Tucci, Il processo a Girolamo Zane mancato difensore di Cipro, in Il Mediterraneo nella seconda metà del '500 alla luce di Lepanto, a cura di Gino Benzoni, Firenze 1976, pp. 415-416 (pp. 409-433); K.M. Setton, The Papacy and the Levant, IV, pp. 974 ss.
185. K.M. Setton, The Papacy and the Levant, IV, pp. 1014-1016.
186. Ibid., pp. 1025, 1027 ss.
187. F.C. Lane, Venice, p. 370; K.M. Setton, The Papacy and the Levant, IV, p. 1049.
188. F.C. Lane, Venice, pp. 370-372.
189. E. Vitale, Introduzione, p. XXXV; K.M. Setton, The Papacy and the Levant, IV, pp. 1080-1085.
190. Robert Mantran, L'écho de la bataille de Lépante à Costantinople, in Il Mediterraneo nella seconda metà del '500 alla luce di Lepanto, a cura di Gino Benzoni, Firenze 1976, p. 244 (pp. 243-256).
191. K.M. Setton, The Papacy and the Levant, IV, p. 1078.
192. Nunziature di Venezia, X, a cura di Aldo Stella, Roma 1977, p. 13; K.M. Setton, The Papacy and the Levant, IV, p. 1087; Gaetano Cozzi, Un documento sulla crisi della "Sacra lega". Le confidenze del padre Francisco Toledo all'avogadore di Comun Nicolò Barbarigo (ottobre 1572), "Archivio Veneto", 67, 1960, pp. 76-96.
193. Nunziature di Venezia, XI, a cura di Adriana Buffardi, Roma 1972, pp. 311-312; E. Vitale, Introduzione, p. XXIX e II, p. 687.
194. Nunziature di Venezia, XI, pp. 302, 318-319, 412, 416.
195. E. Vitale, Introduzione, p. XXXIX.
196. Ibid., pp. XXXIX-XL n. 3.
197. B. Arbel, Venezia, gli ebrei, pp. 177 ss.; Alberto Tenenti, Francia, Venezia e la Sacra Lega, in Il Mediterraneo nella seconda metà del '500 alla luce di Lepanto, a cura di Gino Benzoni, Firenze 1976, pp. 395-401 (pp. 393-408); S. Romanin, Storia documentata di Venezia, VI, p. 339.
198. E. Vitale, Introduzione, pp. XLII-XLIV; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, VI, pp. 339-340.
199. Nunziature di Venezia, XI, p. 441; F. Braudel, Avant-propos e E. Vitale, Introduzione, rispettivamente pp. XIII-XIV e XXXVII.
200. Nunziature di Venezia, XI, pp. 318-319.
201. Ibid., lettere del 25 aprile, p. 451 e del 2 maggio, p. 453.
202. E. Vitale, Introduzione, pp. XLVII-XLVIII.
203. Nunziature di Venezia, XI, pp. 453-465.
204. E. Vitale, Introduzione, pp. L e LI.
205. A. Valier, Dell'utilità, p. 485.
206. Aldo Stella, Chiesa e Stato nelle relazioni dei nunzi pontifici a Venezia, Città del Vaticano 1964, p. 205; Gaetano Cozzi, Domenico Bollani: un vescovo veneziano tra Stato e Chiesa, "Rivista Storica Italiana", 89, 1977, p. 583 (pp. 562-589).
207. Nunziature di Venezia, XI, pp. 86, 94, 148, 155.
208. F. Braudel, La Méditerranée, II, pp. 417-427 ss. e 451 ss.; Kenneth M. Setton, Venice, Austria, and the Turks in the Seventeenth Century, Philadelphia 1991, p. 1; John E. Elliott, Imperial Spain, 1469-1716, London 1969, p. 242.
209. Alberto Tenenti, Venezia e i corsari 1580-1615, Bari 1961.
210. Charles Wilson, The Dutch Republic, London 1948, pp. 9-10; Henri Hauser, La prépondérance espagnole (1559-1660), Paris 1948, pp. 115 ss.
211. J.E. Elliott, Imperial Spain, pp. 268 ss.
212. F. Braudel, La Méditerranée, II, pp. 460 ss.; Helmut G. Koenigsberger, Politicians and Virtuosi. Essays in Early Modern History, London-Ronceverte 1986, pp. 86 ss.
213. J.E. Elliott, Imperial Spain, pp. 249 ss.; H.G. Koenigsberger, Politicians and Virtuosi, pp. 87 ss.
214. C. Wilson, The Dutch Republic, p. 11; F. Braudel, Civilisation matérielle, III, Le temps du monde, pp. 145 ss.
215. Ricordi, a cura di Niccolò Barozzi, in Raccolta veneta. Collezione di documenti relativi alla storia, all'archeologia e alla numismatica, ser. I, t. I, Venezia 1887.
216. A. Stella, Chiesa e Stato nelle relazioni, pp. 12-17; G. Cozzi, Giuspatronato del doge e prerogative del primicerio, pp. 28-31; Boris Ulianich, Il principe Christian von Anhalt e Paolo Sarpi: dalla missione del Dohna alla relazione Diodati, "Annuarium Historiae Conciliorum", 8 (Augsburg-Freiburg), 1976, pp. 504-505 (pp. 429-506). Si v. poi, oltre al contributo di A. Viggiano in questo volume, il par. II di questo mio contributo.
217. Gaetano Cozzi, Paolo Sarpi tra Venezia e l'Europa, Torino 1979, p. 140; Paul Grendler, The Leaders of the Venetian State 1540-1609: A Prosopographical Analysis, "Studi Veneziani", n. ser., 19, 1990, pp. 35-85.
218. Innocenzo Cervelli, Intorno alla decadenza di Venezia. Un episodio di storia economica, ovvero un affare mancato, "Nuova Rivista Storica", 50, 1966, pp. 599 ss. (pp. 596-642); Ugo Tucci, Bragadin, Antonio, in Dizionario Biografico degli Italiani, XIII, Roma 1971, pp. 663-664.
219. F. Braudel, La Méditerranée, II, pp. 505 ss.
220. I. Cervelli, Intorno alla decadenza, p. 599.
221. G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, pp. 34-35.
222. Enrico Prosdocimi, Parere de' clarissimi Antonio Bragadin e Jacopo Foscarini procuratori di S. Marco e savi del consiglio intorno al trattato tra Venezia e Spagna nel traffico del pepe e delle spezierie dell'Indie orientali, Venezia 1870.
223. Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di Eugenio Alberi, III, 1, Venezia 1840, pp. 272-284; K.M. Setton, The Papacy and the Levant, IV, pp. 929-930.
224. Benjamin C.I. Ravid, The First Charter of the Jewish Merchants of Venice. 1589, "Association for Jewish Studies Review", 1, 1976, pp. 187 ss. (pp. 187-222); Gaetano Cozzi, Società veneziana e società ebraica, in Gli Ebrei e Venezia. Secoli XIV-XVIII, a cura di Id., Milano 1987, pp. 333 ss. (pp. 333-374); sulla comunità ebraica veneziana tra '500 e '600 cf., in particolare, i saggi di Donatella Calabi e Ennio Concina nel volume, uscito a cura loro e di Ugo Camerino, La città degli ebrei. Il Ghetto di Venezia: architettura e urbanistica, Venezia 1991.
225. G. Cozzi, Stato e Chiesa, p. 15; Gino Benzoni, Enrico III a Venezia; Venezia ed Enrico III, in AA.VV., Venezia e Parigi, Milano 1989, pp. 79 ss. (pp. 79-112).
226. G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, p. 3 e Id., Stato e Chiesa, p. 15.
227. Id., Gesuiti e politica sul finire del '500. Una mediazione di pace tra Enrico IV, Filippo II e la Sede Apostolica proposta dal p. Achille Gagliardi alla Repubblica di Venezia, "Rivista Storica Italiana", 75, 1963, pp. 10 ss. (pp. 3-61).
228. Id., La Repubblica di Venezia e il Regno di Francia tra Cinquecento e Seicento: fiducia e sfiducia, in AA.VV., Venezia e Parigi, Milano 1989, p. 113 (pp. 113-144); R. Quazza, Storia politica d'Italia, pp. 103-104.
229. R. Quazza, Storia politica d'Italia, p. 108.
230. G. Cozzi, La Repubblica di Venezia e il Regno di Francia, pp. 114-121.
231. K.M. Setton, Venice, Austria, and the Turks, p. 6; Josef V. Polišenský, La guerra dei Trent'anni. Da un conflitto locale a una guerra europea nella prima metà del Seicento, Torino 1982, p. 20; Hali Inalcik, The Ottoman Empire. The Classical Age 1300-1600, London 1975, pp. 42 ss.; Kalman Benda, Venise et la monarchie des Habsbourg au XVIe siècle, in Venezia e Ungheria nel Rinascimento, a cura di Vittore Branca, Firenze 1973, pp. 157-165.
232. F. Braudel, La Méditerranée, pp. 502-503; Domenico Caccamo, La diplomazia della Controriforma e la crociata: dai piani del Possevino alla "lunga guerra" di Clemente VIII, "Archivio Storico Italiano", 128, 1970, pp. 271-275 (pp. 255-281); Id., Eretici italiani in Moravia, Polonia, Transilvania (1558-1611), Firenze-Chicago 1970, p. 145; S. Romanin, Storia documentata di Venezia, VI, pp. 426-427; Robert J.W. Evans, The Making of the Habsburg Monarchy 1500-1700. An Interpretation, Oxford 1979, pp. 55 ss.
233. Storici e politici veneti del Cinquecento e del Seicento, a cura di Gino Benzoni-Tiziano Zanato, Milano-Napoli 1982, pp. 322 ss.; K.M. Setton, Venice, Austria, and the Turks, pp. 18 ss.
234. J.V. Polišenský, La guerra dei Trent'anni, pp. 83-88; R.J.W. Evans, The Making of the Habsburg Monarchy, pp. 237 ss.; G. Cozzi, Venezia nello scenario europeo, pp. 84 ss.
235. La relazione di Francesco Soranzo è a Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 696 (= 9555); Achille De Rubertis, Ferdinando I dei Medici e la contesa tra Paolo V e la Repubblica di Venezia, Venezia 1933, p. 47.
236. J.V. Polišenský, La guerra dei Trent'anni, p. 90.
237. Cf. la relazione di Francesco Soranzo.
238. Nunziature di Venezia, XI, p. 505; Archivio di Stato di Venezia. Dispacci degli ambasciatori veneti al Senato. Indice, Venezia 1959, p. 137.
239. Logan P. Smith, The Life and Letters of Sir Henry Wotton, I, Oxford 1907, p. 45. Cf. l'introduzione di Charles H. McIlwain a The Political Works of James I, Cambridge, Mass.-London 1918, pp. XC-XCI e 15 ss.
240. L.P. Smith, The Life and Letters, I, p. 45.
241. Wolfgang Wolters ne parla nella sua monumentale opera Storia e politica nei dipinti di palazzo ducale. Aspetti dell'autocelebrazione della Repubblica di Venezia nel Cinquecento, Venezia 1983, pp. 30-31, oltre che nel suo contributo a questo volume; si v., pure in questo volume, il contributo di Manfredo Tafuri per i giudizi del Palladio e del Sorte. Sul dibattito, politico oltre che architettonico, apertosi tra le maggiori personalità della Repubblica al momento della ricostruzione del palazzo, e sulle possibili implicazioni di carattere costituzionale che tale dibattito sembrava rivelare, cf. il saggio assai interessante di Antonio Foscari, Un dibattito sul foro marciano allo scadere del 1577 e il progetto di Andrea Palladio per il palazzo ducale di Venezia, "Quaderni dell'Istituto di Storia dell'Architettura", Saggi in onore di Guglielmo De Angelis d'Ossat, Roma 1987, pp. 323-332.
242. W. Wolters, Storia e politica nei dipinti, p. 267 e nel suo contributo a questo volume.
243. Su quanto può accomunare la tela del Veronese e il libro parutiano, cf. di Gaetano Cozzi, Venezia regina, "Studi Veneziani", n. ser., 17, 1989, pp. 15 ss. (pp. 15-25); La società veneziana all'epoca di Andrea Gabrieli, in Andrea Gabrieli e il suo tempo, a cura di Francesco Degrada, Firenze 1987, pp. 13-14 (pp. 1-17); e La società veneziana del Rinascimento in un'opera di Paolo Paruta: "Della perfettione della vita politica", "Atti della Deputazione di Storia Patria per le Venezie", 1961, pp. 13 ss. (pp. 13-47).
244. Paolo Paruta, Discorsi politici nei quali si considerano diversi fatti illustri e memorabili di principi e di repubbliche antiche e moderne, a cura di Giorgio Candeloro, Bologna 1943, pp. 330 ss.
245. Mi valgo del riassunto conciso e incisivo che dà degli Ordini Andreina Zitelli, Candia soccorsa nella penuria estrema di biade, in AA.VV., Venezia e la difesa del Levante. Da Lepanto a Candia, 1570-1670, Venezia 1986, pp. 127-132; cf. la Relatione dell'Eccellentissimo Signor Giacomo Foscarini Provveditor generai in Candia l'anno 1575, in Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 631 (= 7476).
246. Donatella Calabi, Il regno di Candia e le "fatiche" del governo civile: le "cento città", le popolazioni, le fabbriche pubbliche, in AA.VV., Venezia e la difesa del Levante. Da Lepanto a Candia, 1570-1670, Venezia 1986, pp. 97-107 (si v. il contributo di D. Calabi in questo volume anche per il trasporto a Venezia di cimeli antichi); sulla politica architettonica di Venezia nel Dominio cf. Guido Zucconi, Architettura e topografia delle istituzioni nei centri minori della Terraferma (XV e XVI secolo), "Studi Veneziani", n. ser., 17, 1989, pp. 27-49. Cf. pure Alberto Rizzi, "Pax in hac civitate et in omnibus habitantibus in ea". I rilievi marciani di Capodistria, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 149, 1991, pp. 175-208.
247. Luciano Pezzolo, Aspetti della struttura militare veneziana in Levante fra Cinque e Seicento, in AA.VV., Venezia e la difesa del Levante. Da Lepanto a Candia, 1570-1670, Venezia 1986, pp. 86-87 (pp. 86-89): ma cf. anche il contributo di L. Pezzolo in questo volume.
248. Paolo Morachiello, Candia, i baluardi del regno, in AA.VV., Venezia e la difesa del Levante. Da Lepanto a Candia, 1570-1670, Venezia 1986, pp. 133-143.
249. Giovanni Botero, Relatione della Repubblica Venetiana, Venezia 1605, c. 74r-v.
250. G. Cozzi, Ambiente veneziano, pp. 513-514.
251. Claudio Povolo, Aspetti e problemi dell'amministrazione della giustizia penale nella Repubblica di Venezia, secoli XVI-XVII, in Stato società e giustizia nella Repubblica veneta (sec. XV-XVIII), I, a cura di Gaetano Cozzi, Roma 1980, pp. 153 ss. (pp. 153-258) e La conflittualità nobiliare in Italia nella seconda metà del Cinquecento. Il caso della Repubblica di Venezia. Alcune ipotesi e possibili interpretazioni, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 151, 1992-1993, pp. 89-139; G. Cozzi, Repubblica di Venezia, pp. 182-183.
252. Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato durante il secolo decimosesto, a cura di Eugenio Alberi, ser. II, X, Venezia 1857, pp. 359 ss., in particolare 364-368.
253. Felix Gilbert, The Pope, His Banker, and Venice, Cambridge, Mass.-London 1980, pp. 43 e 61-62.
254. G. Cozzi, Venezia nello scenario europeo, pp. 21-22.
255. Sulla questione di Aquileia cf. l'introduzione e le note dottissime di C. Pin a P. Sarpi, Venezia, il patriarcato. Cf. anche Silvano Cavazza, "Così buono et savio cavaliere": Vito di Dornberg, patrizio goriziano del Cinquecento, "Annali di Storia Isontina", 3, 1990, p. 15 (pp. 7-36).
256. Gaetano Cozzi, Paolo Paruta, Paolo Sarpi e la questione della sovranità su Ceneda, "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 4, 1962, pp. 176-196 (pp. 176-237).
257. Ibid., pp. 206-208 e 209 ss., sulla Scrittura sopra il negozio di Ceneda presentata dal Paruta in collegio dopo il suo ritorno da Roma, e sulla posizione assunta dal Sarpi nei suoi consulti: e cf. Paolo Sarpi, Opere, a cura di Gaetano e Luisa Cozzi, Milano-Napoli 1969, pp. 468 ss.
258. Cf. la relazione da Roma del Paruta in Relazioni degli ambasciatori veneti, ser. II, X, p. 400.
259. Mario Brunetti, Le istruzioni di un nunzio pontificio a Venezia al suo successore, in AA.VV., Scritti in onore di Camillo Manfroni nel XL anno di insegnamento, Padova 1925, p. 369 (pp. 369-379).
260. Antonio Battistella, Il dominio del Golfo, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 35, 1918, p. 42 (pp. 5-102); Paul F. Grendler, The Roman Inquisition and the Venetian Press, 1540-1605, Princeton, N.J. 1977 (trad. it. L'inquisizione romana e l'editoria a Venezia. 1540-1605, Roma 1983), pp. 85 ss. e soprattutto pp. 254 ss.
261. Francesco Contarini, Annali, in Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 2557, sotto le date 5 luglio 1593 e 10 aprile 1595; Antonio Querini, Aviso delle ragioni della Serenissima Republica di Venezia intorno alle difficoltà che le sono promosse dalla Santità di Papa Paolo V, in Storici e moralisti del Cinquecento e del Seicento, a cura di Gino Benzoni-Tiziano Zanato, Milano-Napoli 1982, pp. 667 ss. Cf. sulla questione della proprietà ecclesiastica il contributo di P. Prodi in questo volume.
262. Cf. su queste leggi e sui primordi della questione dell'Interdetto Federico Chabod, La politica di Paolo Sarpi, Venezia-Roma 1962, pp. 50-51.
263. Cf. il contributo di M. Tafuri. Cf. poi G. Cozzi, Stato e Chiesa, p. 18 e Giuspatronato del doge e prerogative del primicerio, pp. 54-55.
264. Cf. ancora il contributo di P. Prodi. Lo stesso Nicolò Contarini aveva potuto valutare la forza assunta dall'animosità antiromana quando, agli albori del secolo, aveva cercato di opporsi al cosiddetto "taglio di Goro", o diversione del Po su un nuovo alveo, "taglio" che era contrastato dal papa, il quale vi vedeva una potenziale minaccia di alluvioni e interramenti per la sponda ferrarese, e desiderato dai Veneziani che avevano terre nel basso Polesine - secondo Nicolò Contarini per la Repubblica si trattava di un lavoro inutile e senza alcun vantaggio: ed era stato accusato proprio di voltar gabbana e di favorire gli interessi pontifici a scapito di quelli della Repubblica. Anche il fatto che quest'opera immane, invisa alla Sede Apostolica, fosse portata a termine in tempi da primato sta probabilmente a dimostrare quale fervore suscitasse quel patriottismo antiromano (G. Cozzi, Storia e politica, pp. 32-35).
265. G. Cozzi, Fortuna, e sfortuna, e La politica culturale della Repubblica di Venezia, pure in corso di stampa.
266. Cf. il contributo di G. Benzoni in questo volume. Karl F. Faltenbacher, Das Colloquium Heptaplomeres und das neue Weltbild Galileis. Zur Datierung, Autorschaft und Thematik des Siebenergespraechs, "Akademie der Wissenschaften und der Literatur. Mainz", Abhandlungen, 2, Stuttgart 1993, pp. 20-21 ritiene che autore del Colloquium non sia Jean Bodin, ma un autore dei primi decenni del Seicento.
267. Cf. il contributo di P. Prodi in questo volume.
268. L'intervento di Leonardo Donà, fatto nel corso di un'udienza concessa dal doge Nicolò da Ponte al nunzio Alberto Bolognetti, è in A.S.V, Consiglio dei Dieci, Esposizioni da Roma 1580-1582, c. 7v, 7 aprile 1580; le decisioni prese dal consiglio dei dieci e dalla zonta tra 17 e 26 febbraio 1580 sono in A.S.V., Consiglio dei Dieci, Roma secreta, Libro 2, cc. 27 ss. Sul caso dell'arcivescovo di Spalato cf. G. Cozzi, Domenico Bollani, p. 580. Cf. poi F. Chabod, La politica di Paolo Sarpi e Gaetano Cozzi, Il doge Nicolò Contarini. Ricerche sul patriziato veneziano agli inizi del Seicento, Venezia-Roma 1958, pp. 95-96.
269. G. Cozzi, Stato e Chiesa, pp. 30 ss.
270. Id., La Repubblica di Venezia e il Regno di Francia, p. 120.
271. Id., Stato e Chiesa, p. 34.
272. Cf. sui giudizi di Marot e Montaigne Oliver Logan, Culture and Society in Venice 1470-1790. The Renaissance and its Heritage, London 1972 (trad. it. Venezia. Cultura e società. 1470-1790, Roma 1980), p. 1; cf. i cenni premessi da Robert Regnault a Philippe Canaye de Fresnes, Lettres et ambassades, I, Paris 1645 e da Henri Hauser all'edizione di Le voyage du Levant dello stesso Canaye de Fresnes, Paris 1897, p. 212. Per la visita di Carlo Borromeo cf. Silvio Tramontin, La visita apostolica del 1581, "Studi Veneziani", 9, 1967, pp. 435-525. Cf. poi Jean Baptiste du Val, Les remarques triennales de Jean Baptiste du Val advocat au parlement à Paris et secrétaire de la Reine pendant l'ambassade de monsieur Jean Brochard (1607-1610), Paris, Bibliothèque Nationale, Département des manuscrits Fr., n. 13977, cc. 45, 51, 54, 57 e Gaetano Cozzi, Appunti sul teatro e i teatri a Venezia agli inizi del Seicento, "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 1, 1959, pp. 187 ss. (pp. 187-192). La relazione dell'anonimo è stata in gran parte pubblicata da Federico Odorici, Paolo V e le città di Terraferma, "Archivio Storico Italiano", n. ser., 10, 1859, pp. 171 ss. (pp. 171-180) (io mi sono valso della copia manoscritta conservata a Venezia, Museo Correr, ms. Cicogna 2989, la quale reca il titolo Relatione dello Stato, costumi, disordini et rimedii di Venetia).
273. Rodolfo Pallucchini, La pittura veneziana del Seicento, I, Milano 1981, Prefazione, e pp. 15, 16, 109.
274. Cf. oltre ai saggi di D. Calasi e E. Concina in La città degli ebrei, quello di G. Cozzi, Società veneziana e società ebraica, pp. 333 ss.
275. Domenico Sella, Commerci e industrie a Venezia nel secolo XVII, Venezia-Roma 1961, pp. 36-38; G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, pp. 139 ss.
276. G. Cozzi, Giuspatronato del doge e prerogative del primicerio, pp. 57 ss.
277. P. Sarpi, Opere, pp. 227-228 e 234-235.
278. Geoffrey Parker, Europe in Crisis 1578-1648, London 1984, pp. 124 ss.
279. Ibid., pp. 87-92; J.V. Polišenský, La guerra dei Trent'anni, pp. 63 e 80 ss. Il 7 giugno 1611 il francese Philippe Duplessis-Mornay, uno dei personaggi più autorevoli del calvinismo europeo, informava fra Paolo Sarpi di aver scritto a Karel Z̆erotín di curare "opportune" in Stiria e in Carinzia ciò che il servita aveva proposto (Paolo Sarpi, Lettere ai protestanti, a cura di Manlio Duilio Busnelli, II, Bari 1931, p. 234).
280. P. Sarpi, Opere, pp. 461 ss. e 635 ss.
281. R. Quazza, Storia politica d'Italia, pp. 110 ss.; Federico Seneca, La politica veneziana dopo l'Interdetto, Padova 1957, pp. 85 ss.
282. Victor Ceresole, Relevé des manuscrits des Archives de Venise se rapportant à la Suisse et aux III Ligues Grises, Venise 1890, p. 91; P. Sarpi, Opere, pp. 684-689 e 1193-1194; Michael E. Mallett-John R. Hale, The Military Organisation of a Renaissance State. Venice c. 1400 to 1617, Cambridge, Mass. 1984, p. 328.
283. P. Sarpi, Opere, p. 686.
284. Ibid., p. 618; G. Cozzi, Paolo Sarpi tra Venezia e l'Europa, pp. 201-204 e, pure di Id., Introduzione, a AA.VV., Venezia e la Germania, Milano 1986, p. 12. La relazione di Gerolamo Soranzo, presentata al senato nel settembre del 1614, è in Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, a cura di Luigi Firpo, III, (Germania 1557-1564), Torino 1966, p. 27 (697).
285. M.E. Mallett-J.R. Hale, The Military Organisation, pp. 241 ss.; P. Sarpi, Opere, pp. 1017 ss.; sulla richiesta rivolta dalla Serenissima Signoria a Gabor Bethlen nel 1617 cf. Diplomatarium relationum Gabrielis Bethlen cum Venetorum Republica, a cura di Léopold Ovàry, Budapest 1866, p. 55.
286. London, Public Record Office, State Papers 99 (Venice), b. 22, c. 14. Io mi sono valso anche della trascrizione di tutto il carteggio del Micanzio col Carleton eseguita da Maria Paola Terzi in Una vicenda della Venezia seicentesca: l'amicizia e la corrispondenza tra Fulgenzio Micanzio e Sir Dudley Carleton ambasciatore d'Inghilterra, tesi di laurea, Università degli Studi di Venezia, a.a. 1979-80 (una copia è conservata presso il Dipartimento di Studi storici). La lettera del Sarpi al Groslot è in P. Sarpi, Opere, p. 1030.
287. F. Seneca, La politica veneziana, pp. 171 ss.
288. P. Sarpi, Opere, pp. 1017 ss., 1059 ss., 1071 ss.; Italo Raulich, Una relazione del marchese di Bedmar sui Veneziani, "Nuovo Archivio Veneto", 16, 1898, pp. 5 ss. (pp. 5-32).
289. J.V. Polišenský, La guerra dei Trent'anni, pp. 120 ss. Cf. la cordialissima lettera di congratulazioni inviata il io dicembre 1619 dal senato a Federico del Palatinato dopo la sua elezione a re di Boemia, lettera votata a stragrande maggioranza (A.S.V., Consultori in iure, f. 452).
290. P. Sarpi, Opere, pp. 641-694, 1163 ss.; Samuele Romanin, Storia documentata di Venezia, VII, Venezia 1925, p. 245.
291. London, Public Record Office, State Papers 99 (Venice), b. 23, cc. 18 e 46; Diplomatarium, p. 28.
292. J.V. Polišenský, La guerra dei Trent'anni, pp. 138 ss.
293. G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, pp. 169-190 e 134 e 155. La relazione di Pietro Contarini è in Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, a cura di Luigi Firpo, IX, (Spagna), Torino 1978, p. 587.
294. S. Romanin, Storia documentata, VII, p. 254.
295. Cf. la corrispondenza di Micanzio col Carleton in London, Public Record Office, State Papers 99 (Venice), b. 32, c. 150; l'interesse del Micanzio per Gabor Bethlen è confermato dalla frequenza con cui egli ne parla nel carteggio con William Cavendish (Fulgenzio Micanzio, Lettere a William Cavendish (1615-1628) nella versione di Thomas Hobbes, a cura di Roberto Ferrini e con introduzione di Enrico De Mas, Roma 1987). Giovanni Pesaro, ambasciatore a Parigi, scriveva il 7 giugno 1622 che in Francia si accusava la Repubblica di amare "troppo la libertà e poco curare la religione": Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, a cura di Luigi Firpo, VI, (Francia), Torino 1975, p. 732. In una Secretissima instruzione data a Federico quinto conte palatino elettore francese, britano, batavo etc. che, edita nel 1620 e nel 1621 in varie lingue, circolava manoscritta in traduzione italiana, l'accusa di voler fare alleanza con Gabor Bethlen era, con quella di avere "naturalmente in odio le monarchie" e di considerare "nemico" il loro dominio, una delle tante rivolte ai senatori veneziani e per le quali si sconsigliava caldamente a Federico di allearsi con loro (cf. P. Sarpi, Opere, p. 1171 n. 2). Cf. sul Bethlen D. Angyal, Gabriel Bathor, "Revue Historique", 157-158, 1928, pp. 45-47 e Diplomatarium, pp. 28 ss. Cf. anche quanto scriveva al suo ritorno dall'Ungheria il nobiluomo Polo Minio: Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, a cura di Luigi Firpo, IV, (Germania), Torino 1968, pp. 757 ss.
296. Cf. le lettere di Micanzio a Carleton del 24 aprile 1620 e del 25 marzo 1621, London, Public Record Office, State Papers 99 (Venice), b. 23, cc. 22 e 150. Il consulto del Micanzio è in A.S.V., Consultori in iure, f. 310, cc. 59 s. e 61. Cf. poi Diplomatarium, lettere del senato al bailo a Costantinopoli del 1620, p. 28; Calendars of State Papers, Venice, XVIII, a cura di Allen B. Hinds, London 1911, pp. 109, 183.
297. Diplomatarium, pp. 152 ss.
298. J.V. Polišenský, La guerra dei Trent'anni, pp. 204-205.
299. Su ciò v. R. Quazza, Storia politica d'Italia, pp. 156-157 e Politica europea nella questione valtellinica (la lega veneto-savoiarda e la pace di Monçon), "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 41-42, 1921, pp. 141-142.
300. J.V. Polišenský, La guerra dei Trent'anni, p. 210.
301. Diplomatarium, pp. 231-232. La Cronaca di Girolamo Priuli jr. è a Wien, Oesterreichische Nationalbibliothek, cod. Foscarini 6228, c. 47.
302. La relazione di Antonio Barbaro è in A.S.V., Collegio (secreta), Relazioni, b. 52.
303. R. Quazza, Storia politica d'Italia, pp. 171 ss.
304. G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, pp. 285 ss.
305. S. Romanin, Storia documentata di Venezia, VII, pp. 299 ss.
306. R. Quazza, Storia politica d'Italia, pp. 178 ss.
307. G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, p. 301.
308. Id., Repubblica di Venezia, pp. 181-182.
309. R. Finlay, Politics in Renaissance Venice, pp. 81 ss. Cf. poi I. Raulich, Una relazione del marchese di Bedmar, pp. 20 ss. e A. Stella, Chiesa e Stato nelle relazioni, pp. 221 ss. Cf. in particolare Antonio Menniti Ippolito, Politica e carriere ecclesiastiche nel secolo XVII. I vescovi veneti tra Roma e Venezia, Bologna 1993, pp. 123-126.
310. S. Romanin, Storia documentata di Venezia, VII, pp. 164 ss.; G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, pp. 232 ss.
311. Gino Benzoni, I teologi minori dell'Interdetto, "Archivio Veneto", ser. V, 91, 1970, pp. 31-108; P. Sarpi, Opere, pp. 726 ss.; Marc'Antonio de Dominis, La pace della religione, a cura di Enrico De Mas, Pisa 1990, pp. 1 ss.; cf. la voce De Dominis, Marc'Antonio, redatta da Silvano Cavazza, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXIII, Roma 1987, pp. 642-650. Cf. poi G. Cozzi, Stato e Chiesa, p. 46.
312. R. Pallucchini, La pittura veneziana del Seicento, I, Prefazione e pp. 15, 16, 109; José Antonio Maravall, La cultura del barocco, Barcelona 1975, pp. 353-354; Gaetano Cozzi, Politica, cultura e religione, in Cultura e Società nel Rinascimento. Tra riforme e manierismi, a cura di Vittore Branca-Carlo Ossola, Firenze 1984, pp. 21-23 e 39 ss. (pp. 21-42).
313. G. Cozzi, Il doge Nicolò Contarini, p. 229.
314. Ibid., pp. 229 ss.; A.S.V., Inquisitori di Stato, b. 18, lettera dei rettori di Brescia del 6 settembre 1628 e Consiglio dei Dieci, Secreta, reg. 18, c. 156v, comunicazione del consiglio dei dieci ai savi del collegio e al senato del 12 maggio 1628.
315. Gaetano Cozzi, Una vicenda della Venezia barocca: Marco Trevisan e la sua "eroica amicizia", "Bollettino dell'Istituto di Storia della Società e dello Stato Veneziano", 2, 1960, pp. 61 ss. (pp. 61-154) e Paolo Sarpi tra Venezia e l'Europa, p. 272. Le Cronache del Priuli sono mss. Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. it. cl. VII. 2493 (= 10146), cc. 269-270, 275 ss.
316. G. Cozzi, Stato e Chiesa, pp. 48-54. La relazione di Alvise Mocenigo è in Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, IX, (Spagna), pp. 618 ss., quella di Francesco Corner in Relazioni di ambasciatori veneti al Senato, a cura di Luigi Firpo, X, (Spagna), Torino 1979, pp. 40-41. Su Federico Corner cf. la voce redatta da Giuseppe Gullino, sul Dizionario Biografico degli Italiani, XXIX, Roma 1983, pp. 185-188.
317. Andrea Zannini, Burocrazia e burocrati a Venezia in età moderna: cittadini originari (sec. XVI-XVIII), Milano 1993, pp. 249 ss.; Matteo Casini, Realtà e simboli del Cancellier Grande veneziano in età moderna (secoli XVI-XVII), "Studi Veneziani", n. ser., 22, 1991, pp. 195-251. Cf. il contributo di G. Trebbi nel volume.