Venezia e l'Adriatico
Nel corso del secolo XIV la politica veneziana nell'area adriatica risultò guidata dalle stesse considerazioni che l'avevano già ispirata da alcuni secoli. Si trattava in primo luogo di mantenere la libertà e la sicurezza della navigazione dei propri vascelli in quel mare, poi di impedire a qualsiasi Stato o principe di tentare di insediarsi sulle due sponde dell'Adriatico. Soprattutto però si trattava di garantire il predominio della Serenissima in Dalmazia, regione-chiave per tutta la navigazione veneta dentro e fuori di quello che la città lagunare considerava come il proprio Golfo. Il principale fattore da cui dipendeva l'intera vita economica della Repubblica era infatti il commercio marittimo, in un'epoca in cui la terraferma le era ancora in massima parte estranea se non anche ostile. Mantenendo il proprio dominio in Dalmazia, Venezia veniva a soddisfare nello stesso tempo tre essenziali esigenze della sua politica. Anche per questo motivo tale nesso vitale e l'insieme di problemi che insorsero in questo periodo nell'area dalmata non potranno non essere al centro della nostra attenzione, tanto più che attraverso la loro analisi emergerà nel modo più chiaro e immediato il profilo dell'atteggiamento veneziano nei riguardi di tutte le zone adriatiche.
Proprio su questo piano il secolo XIV non si era aperto sotto auspici favorevoli per la città lagunare. L'area dalmata, sulla quale - dopo molte lotte condotte con varia fortuna dall'anno Mille in poi - essa aveva potuto assicurare il proprio dominio durante e dopo la quarta Crociata, non risultò facile da controllare. Una serie di rivolte, seguite da un rinnovo dei patti stipulati in precedenza, sta a testimoniare degli ostacoli che già nel Duecento Venezia aveva incontrato nei suoi domini dalmati. Va innanzitutto sottolineato che nel Due come poi nel Trecento esistettero notevoli differenze fra il comportamento di Zara nei riguardi della Serenissima e quello, per esempio, di Ragusa. Mentre la resistenza di Zara era molto più decisa e si trasformava sovente in rivolta armata, l'insoddisfazione ragusea per il dominio veneziano approdava a dei compromessi e a degli accordi, senza conflitti aperti né cruenti. Il divario di tali atteggiamenti risulta chiaro quando si tenga conto di alcuni fattori geopolitici. Zara era molto più vicina a Venezia e quindi più facile da tenere sotto controllo. Dal canto suo, dalla metà del Duecento in poi, Ragusa aveva cominciato ad arricchirsi in modo notevole grazie al rapido sviluppo dei suoi commerci con il retroterra balcanico (dove proprio in quell'epoca entravano in piena attività le miniere di rame, ferro, piombo e soprattutto di argento). Divenuti presto proprie-tari maggioritari nelle miniere serbe ed in seguito bosniache, i Ragusei furono i principali mediatori dell'esportazione di quei metalli verso l'Occidente. Ciò permise ai loro patrizi di mantenere nei confronti del doge e di Venezia quell'atteggiamento molto ossequioso, ma ben più indipendente di quello che era consentito al patriziato zaratino (1).
Il dominio veneto, d'altra parte, aveva recato una serie di benefici apporti alle città dalmate. L'influenza del modello veneziano era stata notevole sullo sviluppo delle loro istituzioni urbane (dai consigli di governo alle strutture giudiziarie e dal notariato alla cancelleria). Anche là dove la presenza ed il peso di Venezia erano minori, come a Ragusa, si erano venute gradualmente a creare istituzioni che per secoli assicurarono la stabilità e l'efficace funzionamento del governo locale. Le città dalmate inoltre furono avvantaggiate dalla protezione veneziana tanto sui mari - malgrado i limiti imposti alle loro marine specialmente sull'Adriatico - quanto nei loro rapporti con le potenze del retroterra balcanico. Le condizioni delle une e delle altre erano diverse anche in questi campi. Non si può infatti agevolmente paragonare l'attività della diplomazia lagunare nei rapporti fra Zara o Spalato ed i vicini potentati croati con gli interventi veneziani nelle relazioni fra Ragusa ed i Bosniaci o i Serbi delle aree limitrofe, in particolare con la loro funzione protettiva in tempo di guerra.
Per i Veneziani la Dalmazia non costituiva soltanto una zona di eccellenti porti (Zara, Sebenico, Traù, Ragusa), ma anche di numerosissime baie ed isole che servivano da rifugio per le navi in caso di tempesta o di altri pericoli marini. Persino le alte montagne che si allineavano lungo quasi tutta la costa servivano da ottimi punti di riferimento, mentre risultavano favorevoli per loro tanto i venti che le correnti. Quasi nulla di analogo si verificava sulle coste occidentali, quelle della penisola italiana. Non sorprende affatto quindi che i Veneziani navigassero pressoché esclusivamente presso le coste dalmate e che esse risultassero di straordinaria importanza per i rapporti con Costantinopoli, il Levante e l'intero bacino mediterraneo. Per di più già nel tardo Duecento e nelle prime decadi del Trecento, alcune città ivi situate avevano organizzato, anche su ordine di Venezia, degli arsenali, ove i vascelli locali o veneti trovavano sicurezza e tutto il necessario per le eventuali riparazioni (2).
Nella capitale lagunare il Trecento si apriva - dopo la "Serrata" del maggior consiglio - sotto il segno di grossi problemi interni, come la congiura di Baiamonte Tiepolo e Marco Querini nel 1310 (3). In campo internazionale, dopo la battaglia di Curzola (1298) e la pace di Milano del 1299, le difficoltà con Genova non accennavano a cessare (4). Lo stesso Baiamonte Tiepolo, "quel nequitosissimo traditore e seduttore iniquo, figlio d'iniquità e alunno di maledizione" (5), non si era rifugiato in Dalmazia, ove le autorità lagunari lo ricercavano? I problemi più grossi si trovavano tuttavia concentrati ancora una volta a Zara. Città piccola, ma collocata in un punto strategico per la navigazione veneta, ben fortificata e con un buon porto, Zara aveva già dato molto filo da torcere ai Veneziani nel corso del Duecento. I contrasti vertevano principalmente sul piano del commercio, dell'attività marittima e della vita economica e si manifestavano in primo luogo fra il conte veneto preposto alla città ed il patriziato locale. Quest'ultimo, che ai primi del Trecento non aveva ancora chiuso i suoi ranghi, rappresentava una forza piuttosto consistente a Zara. Nelle sue fila figuravano famiglie ricche e prestigiose, il cui ruolo - non solo in città ma nelle sue relazioni con Venezia - era ben noto e riconosciuto (6).
Il fatto ò che Zara, già dal secolo XI, si era trovata esposta anche alle mire del regno ungaro-croato. Fattasi padrona della città, Venezia non ebbe a fronteggiare solo il dissenso e l'insoddisfazione degli Zaratini, manifestantisi soprattutto sul piano economico, ma anche le trame e gli intrighi tendenti a privarla dell'acquisito possesso. Ai primi del Trecento, che coincisero con l'indebolimento del potere regio in Ungheria, furono le grandi famiglie feudali croate a promuovere la lotta antiveneziana. Fra di esse la più prestigiosa era quella dei principi Šubić-Bribirski, i cui domini si estendevano dal retroterra ai pressi di Sebenico e di Zara e talora anche fino a Spalato e Traù. Paolo Šubić, nobile molto attivo ed influente, fu bano della Croazia dal 1273 al 1312 ed ebbe legami familiari con Baiamonte Tiepolo - cosa che non poteva non insospettire notevolmente Venezia (7).
Per quest'ultima la situazione si fece ancor più precaria con la morte del re Andrea III (1290-1301) e l'estinzione della dinastia ungherese degli Arpadi, quando salirono sul trono magiaro gli Angioini di Napoli. Proprio in quelle circostanze Zara si ribellò ancora una volta al dominio veneziano e nel novembre del 1311 accettò la signoria di Paolo Šubić, il cui figlio Mladen divenne governatore della città con il pomposo titolo di "comes Jadre, princeps Dalmatie et secundus banus bosniensis" (8). Naturalmente Venezia non poteva accettare né la perdita di una delle basi principali della sua navigazione né - cosa forse ancor più pericolosa - la perdita di prestigio causata dalla rivolta zaratina. Essa decise dunque di reagire vigorosamente all'usurpazione dei Šubić. La morte del principe Paolo, nel maggio del 1312, sopravvenne a facilitare il compito dei Veneziani. Il suo successore, Mladen II, indebolito ed occupato in altre aree, non fu in grado di difendere Zara in modo adeguato. Nel 1313 la città stessa decise di arrendersi "volendo [...> i nobili e gli uomini di Zara [...> sottomettersi alla protezione e grazia del signor Doge e del Comune di Venezia". Nel "nuovo patto di Zara" del 23 settembre 1313, a differenza dei trattati precedenti, venne abolito fra l'altro l'obbligo degli Zaratini d'inviare ostaggi nella capitale lagunare, mentre l'autorità del conte veneto venne ridotta. Tutti i funzionari locali, inoltre, dovevano essere eletti nel maggior consiglio di Zara e non più mandati da Venezia. Mentre il conte doveva agire "secondo la forma degli statuti che sono stati o saranno fatti dagli stessi Zaratini", questi s'impegnavano a provvedere "acciocché il signor bano Mladen abdicasse il titolo e tutti i diritti provenienti dal titolo della contea e dominio di Zara e affinché non si chiamasse conte di Zara né lui né altra persona o Comune [...> altri che il signor Doge ed il Comune di Venezia" (9). Se si può dire che con il trattato del 1313 il ruolo della Repubblica venne alquanto ridimensionato negli affari interni della città, non è agevole individuare in quale misura ciò risultò da un rafforzamento del centro dalmata o da un calcolo politico veneto. Veniva comunque realizzato l'intento di Venezia di mantenere il controllo di Zara.
Qualche anno più tardi Venezia ebbe l'occasione di agire ancora una volta come protettrice di Ragusa, quando questa venne attaccata dai Serbi, guidati dal loro potente re Stefano Uroš II Milutin (1282-1321). Nella prima metà del Trecento la città lagunare continuò così a salvaguardare Ragusa dagli attacchi serbi, come aveva già fatto nel secolo XIII. Essa teneva a Ragusa, perché questa era l'ultimo grande scalo sicuro per le sue navi prima del loro ingresso in mare aperto, verso il Mediterraneo ed il Levante, e reciprocamente il primo porto adriatico che esse incontravano al ritorno. Venezia non intendeva certo che questo centro ben sviluppato, attrezzato e fortificato, oltre che provvisto di una flotta mercantile e di un arsenale ben organizzati, cadesse in mano dei Serbi (la cui espansione ed il cui dinamismo parevano inarrestabili, sostenuti com'erano dalle loro risorse minerarie). Ragusa inoltre si trovava proprio dirimpetto alle terre dell'Italia meridionale in mano agli Angioini, ai quali si doveva impedire di estendere il loro potere su ambedue le sponde dell'Adriatico. Proteggere Ragusa insomma, per questi ed altri motivi, significava per Venezia salvaguardare un proprio interesse vitale. Delresto la ragione delle minori tensioni fra Veneziani e Ragusei - che avevano sviluppato il loro patriziato e le loro istituzioni sul modello lagunare - non risiedeva tanto nella distanza geografica. I commerci ragusei avevano una struttura e direzioni diverse da quelli di Zara - condizionata in larga misura proprio dai traffici e dalla navigazione - , ambiti nei quali Venezia aveva imposto già nel 1204-1205 limitazioni severe per eliminare una pericolosa competizione. Ragusa risentiva molto meno delle limitazioni veneziane, i suoi negozi essendo orientati dalla metà del Duecento in poi soprattutto verso il retroterra balcanico e le sue produzioni minerarie - area ed attività per le quali Venezia non mostrò mai grande interesse (10).
Proprio perché le relazioni fra Ragusa e la Serbia erano intense e davano talora luogo a contrasti e conflitti, la protezione e l'impegno della Serenissima dimostrarono tutto il loro valore. L'intervento dei diplomatici lagunari, secondati da quelli ragusei, presso la corte reale serba, dimostrava quasi sempre la sua grande utilità, malgrado le contropartite abitualmente imposte dai Veneziani.
Forse il miglior esempio di tale fenomeno fu la guerra serbo-ragusea del 1327-1328. Già all'inizio del 1326, mentre la tensione fra Ragusa e la Serbia stava crescendo, la prima aveva chiesto aiuto a Venezia, che fece sapere al sovrano serbo Stefano Uroš III Dečanski (1321-1331) che non intendeva abbandonarla (11). Nell'aprile di quell'anno Zaninus Calderarius, "notarius curie" a Venezia, già esperto di tali questioni, fu inviato presso il monarca per intervenire in favore della città adriatica (12). Il Calderaro aveva l'incarico di notificargli che doveva "sapere come cosa sicura che il governo [veneziano> non poteva abbandonare [...> i suoi fedeli di Ragusa [...> perché non c'è governo al mondo [...> contro il quale il Comune potrebbe fare a meno di proteggere i propri sudditi". Se il re non avesse accettato le richieste venete e ragusee, tutti i mercanti delle due città sarebbero stati richiamati dalla Serbia. Venezia peraltro esigeva contropartite alla sua mediazione e cioè modifiche e correzioni degli statuti e delle consuetudini dei Ragusei, che si traducevano in un netto miglioramento del trattamento dei suoi cittadini nel centro adriatico. Il conte veneto doveva avere quasi esclusiva giurisdizione sui Veneziani a Ragusa ed il risarcimento dei debiti dei Ragusei nei confronti dei Veneziani doveva risultare più efficace. Il Calderaro sarebbe andato in Serbia solo se queste condizioni fossero state accettate; altrimenti tutto sarebbe stato "come se su di questo nulla fosse stato mai deciso" (13).
Malgrado un considerevole numero di voti contrari nel loro maggior consiglio i patrizi ragusei, non avendo alternativa, accettarono (14) ed il Calderaro si recò alla corte di Stefano Dečanski. Per quanto tuttavia essi elogiassero presso il doge il suo comportamento, la sua missione non ebbe successo (15). Così la tensione sfociò nella guerra aperta, probabilmente già nell'estate del 1327. Grazie forse alla mediazione veneta, il conflitto terminò all'inizio dell'autunno 1328, quando venne conclusa la pace: risulta infatti che un ambasciatore veneziano (forse lo stesso Calderaro) si trovava in quell'anno a Ragusa per recarsi presso la corte serba "se così parerà a lui, al conte e al comune di Ragusa" (16). Ma anche se non ci fu mediazione diretta, è palese che Venezia teneva a sostenere in modo evidente i suoi "fedeli", pur non lasciando sfuggire l'occasione di incrementare i propri interessi.
Nella sua politica verso l'insieme della Dalmazia, Venezia si atteneva ad alcuni criteri fondamentali e permanenti. Il primo era quello di evitare vuoti politici nella zona, esistendo sempre delle forze pericolose che avrebbero potuto insinuarvisi e minacciare le sue posizioni. Tali elementi non desiderabili potevano provenire dall'una come dall'altra costa dell'Adriatico. Su quella orientale stavano gli Ungheresi ed i nobili croati, sempre pronti a cogliere ogni occasione per indebolire, se non addirittura eliminare, la presenza veneta. Più a sud, anche se in forme meno esplicite, prima la Serbia e poi la Bosnia per molto tempo carezzarono intenti simili. Sull'altra sponda, poi, in quest'epoca il pericolo degli Angiò - specie se congiunto con la loro presenza in Ungheria - poteva rappresentare una minaccia seria, essendo rischiosissimo che su ambedue le sponde adriatiche si affacciasse un unico potere. È quindi comprensibile che l'obiettivo di Venezia fosse di mantenere una situazione politicamente stabile, senza vuoti di potere e senza conflitti nelle città dalmate. Proprio per questi motivi lo spirito di resistenza zaratino costituiva il nodo più problematico mentre lo stabile assetto raguseo rappresentava un solido punto di riferimento per l'amministrazione veneta.
Una seconda costante della politica veneziana nella regione fra Due e Trecento era l'intento di limitare la collaborazione diretta fra le città dalmate, fuorché sotto il suo controllo. Negli accordi tra la capitale lagunare e quelle città non si trovavano invero clausole specifiche che proibissero simili contatti, ma si immagina agevolmente ch'essi non potevano essere ben visti da Venezia. Di fatto erano molto numerosi, a cominciare dal piano della vita quotidiana commerciale e marittima, fra quasi tutti i centri costieri e fra le isole, dal Quarnaro all'Albania. V'erano inoltre collaborazioni specifiche, ad esempio nella lotta perenne contro i pirati (in particolare i famigerati Kačić di Almissa, che figurarono persino in alcuni trattati fra Venezia e le città dalmate). Notevole era la cooperazione nello scambio reciproco di informazioni sul movimento delle flotte, sulle situazioni nei vari porti e paesi oltre che sui pirati o i nemici comuni: piccoli vascelli facevano all'uopo la spola da una località all'altra. Naturalmente Venezia intendeva controllare tutte queste attività ed approfittarne a proprio vantaggio.
Più o meno ostacolato dalla Dominante, lo sviluppo economico dei centri dalmati nel Trecento vi creava bisogno di manodopera. La più qualificata e professionale (dottori, farmacisti, notai, cancellieri, insegnanti, ecc.) proveniva principalmente da Venezia ed in gran parte dall'Italia: quella meno qualificata, dal retroterra balcanico e dalle isole. I legami fra le varie città e le aree loro vicine creati da questi movimenti di popolazione erano certo meno pericolosi per il potere centrale. Era almeno in parte nei porti dalmati, ad esempio, che le navi veneziane reclutavano i loro equipaggi. Sulla costa orientale dell'Adriatico Venezia stessa trovava manodopera e perfino schiavi, condotti e utilizzati in laguna o venduti nelle regioni più diverse e lontane (17). Nell'insieme si può dire che, se i Veneziani erano preoccupati dalle possibili alleanze fra le città dalmate, questi timori erano infondati, simili intese non realizzandosi mai nel corso del Trecento nonostante sporadiche eccezioni. Infatti gli interessi delle varie città dalmate erano troppo divergenti, il livello di sviluppo della loro società significativamente disuguale e, forse soprattutto, le loro condizioni esterne troppo dissimili perché una collaborazione più stretta e permanente potesse instaurarsi.
Quando comunque un pericolo più esteso si profilava sulla regione, Venezia percepiva benissimo che essa rappresentava una entità globale e di vitale interesse per lei. Ciò divenne palese durante il drammatico quindicennio 1344-1358, quando la Repubblica si trovò impegnata in una estenuante lotta con l'Ungheria per il destino della Dalmazia. Dopo la morte di Carlo I (1308-1342), primo re angioino d'Ungheria e Croazia, il suo successore Lodovico I (1342-1382) non tardò a divenire uno dei più potenti sovrani europei. Uno dei suoi primi progetti fu proprio la conquista della Dalmazia, benché fosse conscio che per realizzare tale piano avrebbe dovuto affrontare non solo il potere veneto ma anche alcuni signori feudali croati. Egli aspettò pertanto fino alla morte, nel 1344, di Nelipac, uno dei più aggressivi nobili croati della zona: poi lanciò il suo attacco (18).
Durante il regno di Carlo I Venezia aveva approfittato dei problemi interni ungheresi per estendere il suo dominio in Dalmazia ed in alcuni casi per abolire le concessioni ch'essa aveva fatto ad alcuni suoi centri. Ci si riferisce in particolare a quelle che nel 1313 aveva accordato a Zara per farvi cessare la rivolta. Allora era stato abolito l'obbligo di inviare ostaggi zaratini nella capitale lagunare, la cui ingerenza negli affari interni di Zara era pure stata alquanto limitata. Ne era risultato un incremento dell'influenza del patriziato locale e dei suoi organismi costituiti (maggior consiglio, senato, ecc.), assai malvisto dalla Dominante. Le autorità veneziane cercarono in seguito di reintrodurre le misure soppresse e di rinforzare quelle attenuate nel 1313, provocando reazioni specialmente fra i patrizi zaratini (19).
D'altra parte già prima della morte di Nelipac Venezia aveva cercato invano di attirare alcuni grandi nobili croati implicati in Dalmazia (da Nelipac stesso a membri della famiglia Subić-Bribirski), concedendo loro la cittadinanza veneta oltre a privilegi e facilitazioni varie. Alla scomparsa di Nelipac, i tentativi veneti di stabilire rapporti più stretti con la sua vedova ed il figlio fallirono: come vari altri nobili croati, i Nelipčić si sottomisero a Lodovico I d'Ungheria. Così questi ottenne dei possedimenti nel retroterra dalmata (Knin, Ostrog), avvicinandosi in modo significativo alla costa ed ai suoi centri. In segreto e senza informare la Repubblica, queste città inviarono ambasciatori a Lodovico I per recargli il loro omaggio. Per questo gesto di infedeltà Venezia non tardò a reagire.
Una squadra veneziana arrivò di fronte a Zara e la strinse d'assedio mentre gli abitanti compivano inutili sforzi per negoziare e spiegare il loro atteggiamento. Le forze della Signoria al comando di Marco Giustinian aprirono le ostilità nell'estate del 1345, favorite da sedizioni interne alla città. Conscia del pericolo che l'omaggio zaratino al re ungherese costituiva per gli altri suoi possessi nella zona, Venezia era decisa a stroncarne la resistenza. Nell'autunno del 1345 la città assediata inviò un ambasciatore a Lodovico I e fu ben accolta la notizia che le truppe regie le si stavano avvicinando. Ben presto divenne chiaro invece che gli Ungheresi non l'avrebbero soccorsa - vuoi per un'intesa fra loro ed i Veneziani vuoi per altri motivi. Rifiutata l'offerta veneta di armistizio, Zara si trovò investita dall'offensiva, priva di vettovaglie, colpita da epidemie, con migliaia di profughi ed in una situazione quasi disperata. Patrizi e popolani zaratini vennero imprigionati a Venezia ove, nel dicembre 1345, si permise ad alcuni di loro di mendicare aiuto (20).
Questa vera e propria battaglia per Zara durò sedici mesi durante i quali - malgrado la propaganda di Lodovico I - la maggioranza delle città e delle isole dalmate rimase fedele alla Serenissima. Il momento decisivo arrivò ai primi del luglio 1346, quando il re magiaro giunse con il suo esercito nei pressi di Zara. Sicuri della sua vittoria, gli abitanti gli inviarono le chiavi della città. Ma i Veneziani sconfissero gli attaccanti ungheresi, la cui cavalleria non era in grado di misurarsi, in un sito come quello di Zara, con le loro forze navali. Anche per i problemi insorti con la grande aristocrazia del suo regno, il sovrano abbandonò il campo mentre fra gli Zaratini, provati dall'assedio e delusi dal monarca, scoppiò un'insurrezione di popolani contro i patrizi. La maggioranza dei primi era favorevole al ripristino del dominio veneto e ostile all'apertura del patriziato verso l'Ungheria, sostenuta da una parte dei contadini vicini. Anche se la rivolta fallì (21), era chiaro che si voleva farla finita e arrendersi. Provati anch'essi, il 21 agosto 1346 i Veneziani fecero proclamare "in lingua slava e latina, nei luoghi da dove gli Zaratini potevano bene udire e capire", che tutto sarebbe stato perdonato se si fossero arresi entro otto giorni (22). Gli assediati rifiutarono di nuovo. Finalmente, il 25 novembre 1346, costretti dal popolo stremato dalla fame, i patrizi decisero di proporre - sotto certe condizioni - la resa. I Veneziani accettarono subito; gli Zaratini mandarono un'ambasciata a Venezia e la pace venne conclusa il 15 dicembre 1346 (23).
Gli Zaratini prestarono giuramento di fedeltà al doge ed a Venezia il 23 e 24 dicembre 1346 (24). Allora i Veneziani cominciarono a smantellare le mura della città, a disarmarne la popolazione e ad inviare in laguna tutte le navi zaratine, eccetto una galea. Tutti i poteri amministrativi, giudiziari e militari vennero concentrati in mano a funzionari della Repubblica, mentre cinquanta fra i più distinti patrizi furono mandati a Venezia come ostaggi; varie tasse e dogane vennero imposte per ostacolare i futuri commerci di Zara (25). Tutto questo creò molta tensione e grande risentimento specialmente fra i patrizi i cui interessi ed il cui rango erano presi di mira. Ovviamente l'esilio di cinquanta di loro, impediti a occuparsi dei propri affari e proprietà, indeboliva non solo essi stessi, ma tutto il loro ceto, tanto più che i patrizi rimasti furono sottoposti a severe limitazioni nei commerci e nella navigazione e persero la maggior parte delle loro prerogative politico-amministrative. Anche i popolani ebbero a soffrire danni ingenti alle loro attività economiche, con notevole malcontento.
Lodovico I concluse nel 1348 una pace di otto anni con Venezia, impegnandosi in quel periodo in altri progetti che lo condussero anche due volte nell'Italia meridionale. Ma il suo tentativo di impadronirsi del trono angioino di Napoli si rivelò troppo difficile e costoso per lui, mentre Venezia seguiva queste mosse con gravissima inquietudine, per il rischio che l'equilibrio dell'intera zona adriatica venisse sconvolto (26). Mentre si allentava in questi anni l'interesse del sovrano angioino per la Dalmazia, non diminuiva l'attenzione di Venezia per quell'area, in particolare per quanto accadeva tra le file dell'alta nobiltà croata della regione. Sempre bene informati, i Veneziani sapevano che nel 1347 Lodovico I aveva preso alcuni possessi dalmati di Paolo III Šubič-Bribirski - sposato con Caterina Dandolo - in cambio della cittadina di Zrinj in Slavonia (27). Questo poteva significare lo spostamento verso l'entroterra del centro degli interessi della più prestigiosa famiglia nobile croata della zona. Ma a Venezia si sapeva pure che il più potente dei Šubič, il principe Mladen III, fratello di Paolo, era sempre in Dalmazia e si era sposato per di più con la sorella dell'imperatore serbo Stefano Dušan (1331-1355). In modo più o meno realistico i Veneziani speravano che i nobili croati, ed in particolare i Šubič-Bribirski, potessero venir utilizzati come alleati contro Lodovico I. Quali che fossero i loro calcoli ed i loro piani, nell'anno 1347 la situazione subì una svolta con la morte prematura di Mladen III Šubič. Questi lasciò i propri possessi dalmati (Scardona, Clissa, Almissa, ecc.) al figlio minorenne Mladen IV (28).
Tanto Venezia, con le sue risorse finanziarie, quanto l'Ungheria tramite il bano della Croazia, cercarono allora di mettere le mani sulle città del Šubič. Ma la madre del giovane Mladen IV, Jelena, chiese aiuto al suo potente fratello, l'imperatore serbo. Poco dopo, nel 1353, la situazione si complicò ulteriormente per la morte del longevo bano della Bosnia, Stefano Kotromanić (1314-1353). Gli succedette il nipote Tvrtko, figlio di Vladislav Kotromanić e di Jelena Šubič-Bribirski, il cui casato risultò rinforzato tanto sul versante bosniaco che su quello dalmata. Quanto a Lodovico I d'Ungheria, egli sposò allora la cugina di Tvrtko, Elisabetta Kotromanic, figlia del defunto bano bosniaco Stefano. In tal modo anche il re magiaro rinforzò le proprie posizioni in Bosnia e le proprie ambizioni dalmate (29).
Il risultato di queste combinazioni matrimoniali e delle congiunte manovre politiche fu l'intervento contemporaneo in Dalmazia delle forze serbe, ungheresi e veneziane. I Serbi arrivarono a Scardona ed a Clissa, che anche gli Ungheresi assediarono. I Veneziani, che parevano fuori gioco, ebbero da un lato l'appoggio di Paolo III Šubič e di sua moglie Caterina Dandolo e dall'altro si allearono con i Serbi. Nel 1355, mentre unità serbe e veneziane difendevano insieme Scardona dall'attacco ungherese, morì improvvisamente l'imperatore Stefano Dušan sconvolgendo la situazione nell'intera penisola balcanica. Le forze serbe lasciarono subito Scardona, che rimase in mano ai Veneziani, ma Clissa ed Almissa vennero prese dagli Ungheresi (30).
Ognuno era insoddisfatto di tali risultati: i Šubič per aver perso la maggior parte dei loro possessi dalmati, Venezia per aver ottenuto solo Scardona ed i Magiari per non aver realizzato tutte le loro mire. Ciononostante rimaneva valido l'armistizio veneto-ungherese firmato nel 1348, avendo ambedue le parti grossi problemi interni da risolvere. Tutti erano ancora alle prese con le conseguenze della grande Peste Nera ed inoltre la Repubblica era attivamente impegnata in un grande conflitto con i Genovesi, che infuriò dal 1350 al 1355 dal mar Nero e dalle acque del Levante fino a tutto il Mediterraneo occidentale (31). Proprio nel corso di questa lotta si profilò per Venezia una gravissima minaccia quando, nel 1352, Genova e l'Ungheria si allearono per un attacco congiunto contro di lei. La repubblica ligure doveva fornire le navi ed il regno magiaro l'esercito terrestre. In un primo momento la flotta genovese penetrò nell'Adriatico, ma gli Ungheresi, occupati altrove, non si mossero, facendo svanire la minaccia contro Venezia (32). La cospirazione di Marin Faliero si risolse essa pure nel 1355 in modo favorevole alla classe dirigente lagunare. Venezia vide così ristabilito l'equilibrio politico-militare interno ed esterno, mentre altri problemi distoglievano l'Ungheria dal conflitto diretto. La tregua fra le due potenze durò fino al 1356; nel frattempo tuttavia gli sforzi veneti per acquistare Clissa ed Almissa rimasero senza successo.
All'inizio del 1356 Lodovico I allestì nondimeno un nuovo attacco, pur assicurando i Veneziani: "noi non cominceremo la guerra [...> senza dichiararla tre settimane prima tramite un nunzio o per nostre lettere" (33). Il servizio di spionaggio della Repubblica venne abbastanza presto a sapere che il sovrano magiaro allestiva un forte esercito a Zagabria, pur sostenendo che preparava un attacco contro la Serbia (in preda ad una fase di disintegrazione dopo la scomparsa dell'imperatore Stefano Dušan). Mentre di fatto Lodovico I puntò direttamente contro Venezia, costringendola a concentrare le sue forze nella laguna, altre unità ungheresi al comando del bano della Croazia e di vari nobili croati si diressero contro le città dalmate, le cui difese erano sguarnite. I negoziati che intervennero parallelamente portarono comunque ad una tregua temporanea fra le due potenze in campo.
A questo punto i centri veneti della Dalmazia cominciarono ad agire per conto proprio, senza che la Dominante vi si potesse opporre. Nel luglio del 1357 prima Spalato e poi Traù cacciarono i conti veneziani passando sotto il dominio di Lodovico I. La vittoria totale di quest'ultimo venne completata dalle successive rese di Sebenico e di Zara, che a loro volta provocarono la dedizione della Brazza e di Lesina e - dopo notevole resistenza - della città di Nona. Il sovrano magiaro venne di persona a prendere possesso di Zara, alla quale concesse particolari privilegi (34).
La pace tra Venezia e l'Ungheria venne conclusa il 18 febbraio 1358 con il trattato di Zara, che segnò per la Repubblica la perdita dei suoi possessi dalmati. I Veneziani dovettero allora rinunciare all'intera regione, "da metà Quarnaro sino ai confini di Durazzo, a tutte le città, terre, castelli, isole, porti e diritti che avessero e tenessero e che ebbero e tennero su di loro in qualunque modo e specialmente alle città di Nona, Zara, Scardona, Sebenico, Traù, Spalato e Ragusa [...>, come pure alle città e terre di Ossero, Cherso, Veglia, Arbe, Pago, Brazza, Lesina e Curzola, con le isole e tutte le loro dipendenze [utilitatibus> e pertinenze, ed ai titoli di Dalmazia e Croazia di cui usavano fregiarsi i predetti Dogi e ad ogni loro diritto, dominio e proprietà [...>, trasferendoli a noi ed ai nostri successori". Tutti questi luoghi dovevano essere consegnati alle autorità ungheresi. entro venti giorni, i prigionieri rilasciati da ambedue le parti. Il re prometteva "che in alcuna terra o isola o località che verranno sotto il nostro dominio, o che già vi sono, non saranno armate navi per la pirateria né verranno esercitati [...> danno o violenza ai naviganti, né nei loro porti si riceveranno corsari o malfattori, che anzi verranno perseguitati ed arsi come si conviene alla giustizia ed all'onore regi". Qualsiasi cittadino o suddito veneziano che fosse venuto in quei porti, città, isole, ecc., che da quel momento in poi erano sotto il dominio magiaro, sarebbe stato "salvo e sicuro" (35).
Il 25 febbraio 1358 il doge confermò tale trattato, accettando di rinunciare a tutta la Dalmazia, nonché "ai titoli di Dalmazia e Croazia", riprendendo quasi alla lettera le su esposte clausole. Nel loro documento i Veneziani sottolineavano altresì la promessa di Lodovico I di mantenere "salvi e sicuri" i loro cittadini che si recassero nell'area dalmata ormai a lui soggetta (36). Era quanto essi potevano salvare da una "pace disastrosa [...> con la quale accettavano che la Dalmazia - la prima e più antica base del predominio veneziano in Adriatico - passasse al re d'Ungheria" (37). Pare che essi avessero cercato di salvare almeno la parte meridionale dei loro possedimenti - e cioè le isole di Curzola e Meleda e la città di Ragusa - sostenendo che non erano mai appartenute in passato ai sovrani magiari, ma spettavano invece alla famiglia veneziana degli Zorzi e pertanto non potevano venir considerate parte della Dalmazia (38). Tuttavia simili allegazioni non ebbero alcun effetto o successo presso Lodovico I.
Il trattato di Zara rappresentò così una disfatta per la Repubblica che perdeva il dominio su luoghi vitali per i suoi commerci. Per quanto inclusa nel trattato, Ragusa seppe ottenere una posizione speciale dal nuovo signore della Dalmazia. Congedato rispettosamente l'ultimo conte veneziano alla fine del febbraio 1358, un po' più tardi Ragusa inviò una speciale ambasceria a Lodovico I. Dopo un prolungato negoziato, ottenne - con il trattato di Višegrad del maggio 1358 - l'indipendenza di fatto, anche se de iure il re era considerato protettore e dominus noster e gli si versava un tributo annuo di 500 ducati. A differenza delle città dalmate, Ragusa veniva a godere di piena libertà nel campo della politica interna ed internazionale. Anche in campo economico le era permesso di commerciare con la Serbia e con Venezia, perfino se gli Ungheresi fossero stati in conflitto con quelle potenze (39).
Subito dopo i Ragusei cercarono di stabilire buoni rapporti con i Veneziani, come illustra bene un episodio del 1359. Il capitano delle galere da mercato veneziane dirette ad Alessandria rifiutò di caricare piombo nel loro porto, dicendo che non era tenuto a "caricare alcuna mercanzia fuori di Venezia da alcun cittadino che non dimorasse in quella città e che non vi pagasse [faciat faciones> le imposte" (40). Nel loro ricorso al doge i Ragusei non si peritavano di sostenere che egli aveva concesso loro "la grazia speciale di poter navigare sulle vostre navi con le nostre mercanzie come tutti gli altri vostri cittadini e di trattarci [...> come membri della vostra città" (41). Rivolgendosi alla fine di agosto di quell'anno ai procuratori di San Marco, essi insistevano ancora dicendo che il governo veneziano aveva loro "conferito la grazia, molto preziosa per noi [...>, che tutti i Ragusei, nati a Ragusa e quelli che in futuro nascessero da loro, fossero cittadini di Venezia e potessero commerciare come cittadini a Venezia e navigare sulle navi veneziane". Le autorità ragusee pretendevano di possedere un documento al riguardo e quindi si lagnavano della condotta del comandante delle galere veneziane per Alessandria, chiedendo che venisse rispettato il privilegio in questione (42).
Se il proseguimento di buoni e normali rapporti con Venezia dopo il 1358 era così di grande importanza per Ragusa, dopo il trattato di Zara la Repubblica non era disposta a favorire i suoi ex sudditi, da cui era stata abbandonata dopo centocinquanta anni di dominio. Quest'ultimo nondimeno aveva lasciato tracce profonde e molteplici in tutta la Dalmazia e su ogni aspetto della sua vita, dall'arte e dalla cultura alla struttura economica, sociale ed amministrativa. Proprio lo sviluppo economico realizzato sotto il dominio veneziano aveva permesso ai suoi centri urbani una notevole crescita materiale e demografica. Malgrado la perdita del dominio politico nel 1358, le impronte di ogni tipo lasciate da Venezia non potevano essere cancellate. Delle proprietà veneziane di case e terreni a Ragusa fra il 1280 ed il 1400, il 22% risaliva al periodo 1280-1300, il 68% apparteneva al periodo 1301-1350 ed ancora il 10 % alla seconda metà del secolo XIV. Inversamente, delle proprietà ragusee di case ed edifici in laguna il 20% datava alla prima metà, mentre ben l'80% alla seconda metà del Trecento (43). Ciò indica chiaramente non solo l'esistenza di ininterrotti contatti ma un costante movimento di gente fra questi due poli adriatici, come senza dubbio avvenne anche per altre città dalmate (44). I fattori economici dominarono la politica veneziana e quella delle città dalmate dopo il 1358. Questo lo si vide pure durante l'altro drammatico conflitto che sconvolse l'intera area adriatica: la guerra di Tenedo e Chioggia degli anni 1378-1381.
Le cause e i particolari di questa rinnovata lotta, che si svolse dalle acque levantine a quelle del Mediterraneo occidentale, sono ben noti. La zona adriatica vi svolse un ruolo notevolissimo ed ancora una volta la Dalmazia si trovò coinvolta nelle principali vicende riguardanti Venezia. Lo scontro fra Genova e Venezia per il possesso della piccola ma importante isola bizantina di Tenedo, iniziato nel 1376, Si trasformò presto in un conflitto ben più vasto. Oltre a coinvolgere altre potenze, esso parve offrire alla Repubblica l'occasione di recuperare le perdite del 1358. Il 30 maggio 1378 la flotta veneziana di Vettor Pisani sconfisse quella genovese presso Anzio, in agosto conquistò Cattaro ed in ottobre Sebenico, mentre non le riuscì di riprendere Zara e Traù (45). Senza darsi per vinti i Genovesi riorganizzarono le loro forze e al comando di Luciano Doria penetrarono nell'Adriatico all'inizio di settembre. Una vasta coalizione antiveneziana si era appena formata tra Genova, l'Ungheria, Ragusa e Padova (46). La Serenissima non riuscì a trovare un alleato neppure in Tvrtko I (1353-1391), re di Bosnia (47). Installati a Cattaro, i Veneziani condizionavano gli interessi commerciali di Ragusa che, pur avendo bisogno del loro favore, attendeva l'arrivo della squadra genovese. La città ligure era ora alleata di Lodovico I ed il rappresentante di quest'ultimo - il bano di Croazia e Dalmazia - chiedeva che i Ragusei unissero le loro navi alla flotta comune. Pur non accogliendo del tutto la richiesta, questi ultimi vi inviarono una galea propria ed un'altra che si trovava nel loro porto, appartenente al sovrano magiaro (48). Senza dubbio essi tentavano di approfittare dell'occasione anche per contrastare la concorrenza marittima e la superiorità navale di Venezia.
Fra le contromisure della Repubblica si può segnalare l'autorizzazione ai mercanti sudditi di Dulcigno di inviare un nuncius con le unità venete allo scopo di proteggere i loro beni dal pericolo "delle galee dei Genovesi e dei Ragusei" (49). Tali unità erano probabilmente quelle sei che il 24 settembre passarono al largo di Ragusa, provocando considerevole inquietudine in quella città(5°). Quel giorno la flotta genovese non era ancora giunta, poiché le autorità ragusee scrissero al suo comandante tramite il sindicus della loro comunità in Puglia (51). Nondimeno il giorno successivo esse ne attendevano l'ingresso in Adriatico, mentre pareva che anche le forze navali veneziane si trovassero alla bocca del Golfo (52).
I Genovesi giunsero in prossimità di Ragusa alla metà dell'ottobre 1378: vi furono accolti cordialmente, ma Luciano Doria rifiutò di restarvi per difendere la zona contro possibili attacchi veneti (53). Fra il gennaio ed il febbraio successivi altre navi liguri vi fecero comunque sosta e vi si approvvigionarono (54), così come nel maggio vi si rifornirono sei galere degli alleati (55). La squadra di Vettor Pisani aveva intanto fatto il tentativo di occupare Zara e Traù, sventato peraltro dagli Ungaro-Genovesi (56). Allora il comandante sfortunato si diresse verso Pola ove, ai primi del maggio 1379, si svolse una battaglia decisiva, con gran numero di morti e prigionieri veneziani. Lo stesso Pisani venne arrestato, processato e condannato a sei mesi di detenzione nella capitale lagunare (57). Tuttavia il peggio doveva ancora venire. I Genovesi, dalle loro basi in Dalmazia, presero Grado, Caorle, Pellestrina e - dopo strenua resistenza - anche Chioggia, mentre forze ungheresi e padovane cercavano di accerchiare dalla parte di terra la capitale (58), la cui situazione parve veramente disperata.
Già prima della caduta di Chioggia il governo lagunare aveva stabilito contatti con Lodovico I e ambasciatori erano stati inviati in Ungheria per negoziare. Fra le altre richieste il re magiaro domandava risarcimenti per i danni che i Veneziani avevano inflitto alla Dalmazia, specialmente con la proibizione di vendere nei propri domini il sale di Pago (59). Scrivendo dall'Ungheria al doge, gli stessi ambasciatori veneti facevano sapere: "Abbiamo [notizia> da persona degna di grandissima fiducia [...> e informata delle condizioni della Dalmazia [...> che, a causa delle crudeltà commesse dalle vostre genti in quelle parti, e specialmente a Cattaro ed a Sebenico, tutte le genti delle dette aree sono maldisposte contro la vostra dominazione [...> e dove anteriormente, prima che tali novità fossero commesse [...>, difficilmente si sarebbero mosse a vostro danno, ora, indignate e provocate [...>, sono disposte ad ogni vostro nocumento" (60). Non si sa a cosa alludessero di preciso tali severi propositi, ma certo vi doveva essere un vivo risentimento da parte della popolazione dalmata in quei frangenti. Essendo Genova e Padova ancora più ostinate dell'Ungheria contro Venezia, gli ambasciatori, alla metà dell'agosto 1379, consigliavano di cercare di fare la pace piuttosto con quelle città che con il re magiaro (61). Poté sembrare che dopo la caduta di Chioggia i Veneziani fossero in procinto di accettarne la sovranità e di versargli un tributo annuo di 100.000 ducati: ma, troppo sicuro delle proprie posizioni, Lodovico I chiedeva molto di più e la cosa si risolse nel nulla (62).
Come. tante altre volte nella loro storia, i Veneziani seppero finalmente reagire in modo deciso ed energico in tale critica situazione, mentre i loro nemici si mostravano insufficientemente uniti e disciplinati. Con grandi sacrifici di tutti i suoi abitanti, la Repubblica ricostituì la propria flotta, Vettor Pisani fu liberato dal carcere per riprenderne il comando, cosicché nel dicembre del 1379 le prospettive erano nettamente cambiate. Invece dei Genovesi ad assediare Venezia, erano ora i Veneziani a circondare e ad assediare i Genovesi a Chioggia. La posizione dei Liguri era assai indebolita anche nell'area adriatica, dandosi poco da fare le città dalmate per assecondarli. Le cose andavano particolarmente male a Zara, ove essi avevano lasciato una guarnigione indisciplinata oltre che indebolita dalle malattie e dalla mancanza di viveri. La penuria era aggravata dal gran numero di prigionieri veneziani, inviati colà dopo la cattura nelle acque di Pola (63).
Soprattutto apparivano sempre più chiari i segni di disunione fra i coalizzati. Le controversie si moltiplicavano tra i Genovesi ed i Padovani e fra questi e gli Ungheresi, come fra i Magiari ed i Genovesi, mentre la Repubblica faceva il possibile per ampliarle ed approfondirle. Il suo maggiore obiettivo era di eliminare dall'Adriatico gli avversari più pericolosi e cioè i Genovesi. Essa perciò cercava di persuadere Lodovico I che era pronta a far la pace, mentre vi si opponevano i Liguri, animati dall'odio e consci che l'accordo avrebbe fatto perdere loro le basi dalmate, riducendo sostanzialmente, se non completamente, la loro presenza nel Golfo. Va comunque preso atto del fatto che, ciascuno dal canto suo, né i Genovesi né i Magiari si mostravano sufficientemente flessibili ed inclini a negoziare (64).
Intanto la situazione dei Liguri si stava facendo sempre più precaria, mettendo in evidenza l'importanza del fattore dalmata. Dapprima i Genovesi erano stati largamente approvvigionati per la via di Marano (65), ma l'assedio di Chioggia li aveva costretti a ricercare rifornimenti e nuovi rinforzi navali dalla parte della Dalmazia - le cui città si pensava potessero provvedere sei galere, se non le dieci sperate (66). Ma assediati in Chioggia, essi non ne ricevettero alcuna - anche se due navi spedite da Ragusa lungo la prospiciente costa italiana nel febbraio del 1380 catturarono quattro vascelli veneziani ed alla metà del mese successivo una galea ragusea venne mandata a Zara per unirsi alla flotta genovese (67). Tutte queste piccole azioni non potevano contribuire in modo determinante a migliorare la gravissima posizione dei Genovesi nell'Adriatico settentrionale. Del resto, a Ragusa ed altrove si sentiva già che il clima politico-militare nella zona stava cambiando. Nella primavera del 1380 si intravedevano segnali che indicavano un mutamento nelle sorti della guerra. Così a Ragusa si prendevano misure per rinforzare le difese della città in vista della crescente minaccia di un contrattacco veneto (68).
Simili preoccupazioni e timori divennero naturalmente molto più forti e reali dopo la caduta di Chioggia in mano dei Veneziani il 24 giugno 1380. Dopo questa vittoria Vettor Pisani condusse la sua flotta verso sud, fino a Manfredonia, dove perse la vita nell'agosto in uno scontro con una squadra genovese (69). Un'altra squadra veneziana pare che mettesse in rotta in quel torno di tempo un gruppo di navi liguri nei pressi di Zara (70). Forse la scomparsa del Pisani fece rientrare la minaccia di un attacco contro Ragusa dove - malgrado i preparativi militari in vista di un assedio - la tensione diminuì. I Ragusei infatti rinviarono la loro galea nella flotta ligure, di cui invitarono due unità a passare l'inverno nella loro città (71). Anche se la loro proposta non venne accettata, sei galere genovesi passarono per Ragusa alla metà del novembre 1380, dirette verso le acque bizantine (72).
Quando i Genovesi vollero portare via i Veneziani imprigionati a Zara dopo la battaglia di Pola, la cittadinanza impedì che li imbarcassero per scambiarli con i prigionieri liguri caduti in mano della Serenissima (73). Era questo uno dei tanti problemi che dovevano essere risolti dai negoziati in corso e che furono finalmente conclusi con la pace di Torino dell'agosto 1381. Durante le trattative continuarono i movimenti delle due flotte nemiche lungo le coste della Dalmazia. Così ad esempio una squadra ligure passò per Ragusa diretta verso nord nell'agosto 1381 e vi fece ritorno a metà settembre (74).
La pace invero influì solo in maniera marginale sulla situazione della Dalmazia e sui suoi rapporti con la capitale lagunare - anche se della regione e di Zara in particolare vi si fece esplicita menzione. Una delle clausole stipulava che i 7.000 ducati di annuo tributo che Venezia doveva versare al re ungherese venissero avviati a Zara a rischio dei Veneziani e fossero fatti poi proseguire di là per Buda. Di particolare interesse senza dubbio fu l'obbligo per la Repubblica di rinnovare le clausole del trattato del 1358 concernenti la Dalmazia, "perché l'antica pace, che altra volta fu fatta [...> tra il signor re ed il Comune di Venezia contiene che il signor Doge ed il Comune di Venezia rinunceranno effettivamente di fatto nelle mani del [...> signor re d'Ungheria o dei suoi successori a tutta la Dalmazia". I rappresentanti della Serenissima a Torino quindi rinunciarono "effettivamente de iure et de facto" a vantaggio del re Lodovico I "a tutta la Dalmazia e cioè dalla metà del Quarnaro sino ai confini di Durazzo, come spettante e pertinente di diritto antico al regno ed alla corona d'Ungheria" (75).
Per di più tutti i sudditi del re, e specialmente gli Zaratini, erano liberi di commerciare a Venezia e nelle regioni sottoposte al suo dominio, come erano soliti fare prima della guerra. Il limite del valore delle mercanzie che gli Zaratini potevano portare a Venezia dai territori del sovrano magiaro nei successivi venti anni era fissato a 20.000 ducati annui e quello degli altri Dalmati a 5.000. Gli stessi limiti dovevano essere osservati nelle esportazioni dall'emporio lagunare verso Zara, la Dalmazia e le altre terre del re. Agli Zaratini ed ai Dalmati era permesso di commerciare a Venezia con i forestieri ma - come si è detto - non potevano importare sale né un certo numero di altre merci - articoli il cui traffico era proibito ai Veneziani stessi (76). Nessuna galea armata della Repubblica doveva entrare in alcun porto appartenente al re o ai suoi sudditi "contro la volontà degli abitanti [...> del detto porto". Soprattutto le città e terre di Lodovico I conquistate dai Veneziani durante la guerra dovevano essere restituite al re, compresa Cattaro. A loro volta gli Ungheresi dovevano restituire ai Veneziani le loro conquiste, specialmente quelle fatte nella regione vicina alla laguna. Tutti i prigionieri infine dovevano essere liberati da ambedue le parti (77).
Queste ed altre misure erano intese a restaurare condizioni normali nella zona adriatica e gli effetti di tale processo di normalizzazione nei rapporti fra Venezia e le città dalmate non tardarono a farsi sentire. Già nell'ottobre del 1381, ad esempio, una squadra veneziana venne a far sosta a Ragusa, dove fu ben accolta ed imbarcò provvigioni (78). Ragusa aveva certo grande interesse a ristabilire buoni rapporti, una volta finita la guerra e ridivenuto chiaro che Venezia avrebbe continuato a svolgere un ruolo predominante sulla scena adriatica. Non solo occorreva adattarsi alla situazione ma cercare di riparare ai danni provocati dalle scelte politiche precedenti, in un'epoca di crescente caos internazionale e di fronte alla minaccia dell'invasione ottomana nel retroterra balcanico. Quanto alla Dalmazia settentrionale, Zara - che vi si era affermata come centro politico-economico dopo il 1358 - continuò ad assolvere a questo ruolo anche dopo il 1381.
Di lì a poco, nondimeno, in tutta l'area la situazione risultò profondamente modificata dalla morte di Lodovico I l'11 settembre 1382. Egli aveva riunito sotto la sua corona intorno al polo magiaro, nella fedeltà ad un'autorità unica, territori che andavano dalla Lituania e dalla Polonia alla Croazia ed alla Dalmazia. Dopo la sua scomparsa l'esteso regno cominciò immediatamente a disgregarsi fra rotture e rivalità - facilitate dall'infausta circostanza che non solo Lodovico non aveva lasciato un erede maschio ma sua figlia Maria era ancora minorenne. Essa fu tuttavia incoronata come "re" - non regina! -, benché il vero potere risiedesse nelle mani di sua madre, l'ambiziosa ed energica Elisabetta Kotromanić, appoggiata da una parte della nobiltà ungherese e croata. Ma la reazione di un gran numero di altri magnati non si fece attendere.
Fu proprio in Dalmazia - ove si seguivano con molta attenzione questi sviluppi - che scoppiò già nel 1383 la prima ribellione contro Elisabetta e Maria. Le due regine decisero allora di far una visita a Zara e nella regione circostante, senza però che i contrasti venissero risolti. La rivolta si estese anzi in modo ancor più grave alla Croazia settentrionale ed alla Slavonia. Nel 1385 i ribelli decisero di innalzare sul trono magiaro il principe Carlo di Durazzo, anch'egli membro - come già Lodovico I - della dinastia angioina di Napoli. Mentre le città dalmate, da Zara a Ragusa, rimanevano fedeli alle regine, Carlo venne ad assumere il potere a Buda, se pur per breve tempo. Elisabetta e Maria lo fecero infatti assassinare dopo solo due mesi, ai primi del 1386, e ripresero il controllo del regno (79). Venezia seguiva non senza notevole preoccupazione lo svolgersi di tutti questi eventi. Non le dispiaceva probabilmente che Carlo di Durazzo fosse uscito dalla scena, perché venisse meglio sventata l'antica minaccia dell'unione sotto un solo sovrano di territori situati sulle due sponde dell'Adriatico. D'altra parte l'instabilità nella zona non era vantaggiosa per lo sviluppo della navigazione e dei commerci veneziani, tanto più che essa non investiva soltanto l'Ungheria e la Croazia ma anche la condotta del re bosniaco Tvrtko I (80).
Un nuovo protagonista venne comunque alla ribalta nel 1385: Sigismondo di Lussemburgo che, sposata in quell'anno la giovane regina ungherese Maria, rivendicò subito il titolo regio magiaro come suo consorte. Poiché la ribellione aveva il suo centro in Slavonia, le due regine decisero di recarvisi: ma vi furono catturate da nobili in rivolta alla fine del luglio 1386 (81). A guisa di vendetta per l'uccisione di Carlo di Durazzo, Elisabetta fu portata vicino a Zara e strangolata a Novigrad; riportato a Zara, il suo corpo venne sepolto nella chiesa di San Grisogono (82). Se la città era diventata un polo dell'opposizione contro la regina Maria e suo marito, gli Zaratini non si sentivano, come al solito, molto sicuri delle proprie scelte politiche. Così verso la fine del 1386 essi nominarono alla testa della loro amministrazione cittadina il genovese Pietro Piconcio - sperando forse di evitare in questo modo ulteriori coinvolgimenti nelle lotte magiare(83). Pochi mesi dopo, alla fine del marzo 1387, Sigismondo ricevette ufficialmente la corona di santo Stefano e divenne re d'Ungheria (84). Il suo primo progetto fu quello di liberare la moglie e, temendo che un'aperta mossa da parte sua la condannasse alla stessa sorte subita dalla madre, chiese l'intervento congiunto di Venezia e di alcuni nobili croati.
Il giorno prima dell'incoronazione di Sigismondo, e cioè il 30 marzo 1387, i Veneziani misero all'ordine del giorno le istruzioni da impartire al loro capitano del Golfo ed ai loro provveditori diretti a Corfù. Ancora una volta vi si può notare la proverbiale cautela con la quale il loro governo osservava e seguiva la confusa ed imprevedibile situazione dalmata. Venne infatti proposto che il capitano ed i provveditori dovessero fermarsi a Spalato, Traù e Ragusa per ricevere "con grazia e benevolenza [...> i rinfrescamenti" che le comunità locali, come di consueto, avrebbero portato loro. Da un lato era ad essi suggerito di sottolineare il grande amore che Venezia nutriva per quelle genti, ma anche di dire, da parte del governo, che "noi desideriamo molto che loro siano disposti a conservare il loro stato per l'onore del regno d'Ungheria". Il capitano in Golfo doveva persino limitare al massimo il numero dei marinai ai quali sarebbe stato permesso di scendere a terra "affinché le galee fossero sempre in buon ordine". Nei contatti con i Dalmati infine doveva "servirsi di parole sagge, destre ed amichevoli" (85). Tutto ciò si può interpretare come segno dell'atteggiamento peritoso da un lato e dell'intento di ispirare fiducia dall'altro che la Repubblica teneva a manifestare e ad alimentare in quel periodo di fluttuazioni politiche.
Venezia, del resto, era coinvolta in questi affari ancor più di quanto si potrebbe dedurre dalle decisioni e dagli avvertimenti sopracitati. Da una relazione dell'aprile 1387, stilata da Lorenzo de' Monaci, segretario di Pantaleone Barbo, ambasciatore veneziano in Ungheria, si ricava che il patrizio era stato inviato in quel regno già al tempo del governo delle due regine Elisabetta e Maria (cioè prima del luglio 1386) e che queste ultime avevano sollecitato un'alleanza marittima con i Veneziani. Sigismondo stesso, agli inizi dell'aprile 1387, ricercava una lega con la Repubblica "come volevano ed avevano richiesto nostra madre [più esattamente la suocera> e nostra moglie". Con piena accettazione dell'ambasciatore veneto, il sovrano aveva formulato la richiesta che il Barbo mandasse a Venezia il suo segretario per trasmettere la proposta regia. Dopo tale conversazione per di più Sigismondo prese da parte il Barbo e il "dominum Stephanum voyvodam, magnum comitem", essendo stato informato dal conte di Veglia ch'egli sperava "che la nostra signora madre vive ancora [cioè la suocera Elisabetta, ed era un errore> e che certamente la nostra moglie è viva". Per salvarla non occorreva solo un esercito terrestre, ma anche forze navali: perciò il re desiderava che il segretario presentasse alla Signoria la sua richiesta di aiuto navale, mentre egli avrebbe inviato le proprie truppe. Il Barbo rispose che prima bisognava fare la "liga in mari" e poi la Repubblica avrebbe provveduto a fare quello che il sovrano sollecitava. Fermo nel suo intento di liberare la consorte, secondo il de' Monaci, il 9 aprile 1387, durante la messa nella cappella reale, Sigismondo aveva confidato al Barbo il suo intento di attaccare ed annientare i ribelli entro due settimane, recandosi lui stesso dove riteneva detenute le due regine. Sospettando nondimeno che queste ultime avrebbero potuto essere trasportate altrove per mare, desiderava appunto che il segretario andasse a chiedere che Venezia tenesse "galere in mare per impedire simile operazione". Il Barbo promise che il de' Monaci avrebbe riferito su questo argomento al suo governo (86).
I piani di Sigismondo tuttavia andavano molto oltre la manovra da effettuare per liberare la propria consorte. Nella sua relazione il de' Monaci notò che "da quello che il signor ambasciatore ha potuto comprendere dalle parole del sovrano e dei baroni, essi vogliono che la lega venga estesa dal settore marittimo alle terre della Dalmazia ribelli e disobbedienti" (87). In tale maniera, a quanto pare, erano qualificati in primo luogo gli Zaratini. Non vi sono indizi probanti che Venezia abbia accettato e neppure discusso un'alleanza di tale portata e neppure che abbia intrapreso qualche azione concreta per indurre Zara ed altre città dalmate ad una maggiore obbedienza al re magiaro. Sta di fatto, però, che in quell'aprile del 1387 il governo lagunare si rivolse a Spalato, a Traù ed a Sebenico esortandole ad essere leali nei riguardi della "sacra corona ungherese" (88). Si può presumere nello stesso tempo che Venezia non si premurasse particolarmente di rafforzare il dominio del sovrano ungherese sulla Dalmazia ed ancora meno la sua presenza nell'Adriatico. Appena uscita da una guerra lunga, estenuante e costosa, evidentemente la Repubblica non desiderava vedersi coinvolta in altre situazioni pericolose e dagli sbocchi imprevedibili.
Ciò non toglie che nell'affare della liberazione della regina Maria, Venezia prendesse una parte attiva ed importante, sollecitata in questo anche dal pontefice che - nel giugno del 1387 - la ringraziava per il suo contributo al successo di tale operazione (89). Anche nella lettera con la quale si congratulava con Maria per il ricupero della sua libertà, il papa sottolineava il ruolo della flotta veneziana che aveva agito di concerto con l'esercito ungherese (90). La regina medesima, nella sua "regratitoria" al doge del 10 giugno 1387, scriveva fra l'altro: "Possiamo dire in verità che, quanto alla nostra liberazione, considereremo il vostro ruolo come principale". Maria prometteva che non avrebbe mai dimenticato "di ricompensare tanto notabili e grandi servigi e di riconoscere tanti meriti", raccomandando al doge in modo particolare il "vostro capitano e nostro cavaliere [miles> " Giovanni Barbarigo (91). Ancora una volta dunque i Veneziani avevano assolto una funzione di grande rilievo nelle vicende dalmate, anche se per il momento questo non mutò la situazione politica nella regione.
Nella seconda metà degli anni '80 del Trecento il contesto di quest'area si fece ancora più complesso per il già menzionato irrompere sulla scena del re della Bosnia Tvrtko I. In un primo momento egli si era schierato a fianco dei nobili ribelli contro Sigismondo e Maria. Dopo i successi della coppia reale nel corso del 1387, egli decise di concentrare i suoi sforzi in Dalmazia ove le città erano in maggior parte rimaste fedeli all'Ungheria. Sembrava a Tvrtko una proficua occasione di impossessarsi dei più importanti porti dalmati, che avrebbero dato al potente e ricco Stato bosniaco un accesso ampio e sicuro verso l'Occidente, in particolare verso l'Italia, per l'esportazione delle sue risorse minerarie (argento e piombo soprattutto). Ciononostante Tvrtko non comprese nei suoi piani di aggressione il centro più ricco ed importante e cioè Ragusa con la quale, nella primavera del 1387, rinnovò patti commerciali e di collaborazione politica (92).
Diversamente andarono le cose nei riguardi di altri centri dalmati. Già nel luglio del 1387 i Bosniaci conquistarono Clissa, fortezza strategicamente importantissima perché dominava le comunicazioni fra Spalato ed il retroterra croato. L'intera area compresa fra Nona e le vicinanze di Spalato venne saccheggiata dalle truppe bosniache, che giunsero fino alle porte di Zara. Le città rimastegli fedeli aspettavano l'aiuto di Sigismondo, che però in quei frangenti non poté far molto per aiutarle, neppure nel corso del 1388. Mentre le forze che il re inviava erano poche e troppo deboli, neppure i tentativi di Spalato, Sebenico e Scardona per formare un'alleanza e trovare appoggio fra i nobili croati ebbero successo. Pertanto, nel marzo del 1389, queste ed altre città inviarono ambasciatori a Tvrtko I per negoziare la loro resa: Spalato avrebbe dovuto essere l'ultima ad arrendersi, proprio il fatidico 15 giugno 1389 (93).
Fu proprio quello infatti il giorno della famosa battaglia di Kosovo, nella quale l'esercito serbo - secondato anche da una unità bosniaca - venne sconfitto dalle forze turche (94). Accompagnato da una sempre più tenace penetrazione ottomana verso il nord ed il nord-ovest dell'area centrale dei Balcani, l'evento distrasse inevitabilmente Tvrtko I dai suoi piani in Dalmazia, tanto più che nel luglio del 1389 egli aveva perfino perduto Clissa. Il sovrano non desistette nondimeno dai suoi progetti di espansione sulla costa adriatica. Nell'autunno di quell'anno rinnovò i suoi attacchi, riconquistò Clissa nel dicembre e mise di nuovo gli altri centri dalmati in una situazione pressoché disperata. Sempre vigilante, Venezia aveva dapprima dimostrato amicizia nei riguardi di Tvrtko, ma poi cambiò atteggiamento e si schierò dalla parte di Sigismondo, incoraggiando le città dalmate alla resistenza (95). Naturalmente la Repubblica stava ricercando la possibilità di approfittare della complessa situazione che si era venuta creando.
Così nel febbraio del 1390 l'inviato veneziano presso la corte ungherese era incaricato di informare Sigismondo "che il signor re della Bosnia [...> è molto risoluto ad acquistare ed occupare le terre ed i luoghi della Dalmazia, a tal punto che [essi> sembrano essere in massimo dubbio e timore, dubitando di non poter resistere alla potenza di quel re e di doverglisi sottomettere" (96). Dopo che, nel marzo successivo, un ambasciatore bosniaco ebbe fatto visita a Venezia (97), alla fine d'aprile il governo lagunare spedì in Dalmazia un inviato "poiché [si affermava> a causa delle condizioni e dei termini nei quali si trovano al presente le comunità [di quella regione> dobbiamo concentrare la nostra attenzione su quanto vi accade, allo scopo - venendone il momento - di poter fare e procurare ciò che dovrà render sicuro lo Stato nostro in avvenire". L'inviato doveva discretamente informarsi della situazione - in particolare a Traù, Sebenico e Spalato - e cercare di apprendere quanto Sebenico fosse unita con gli Zaratini, i Tragurini e gli Spalatini e come subissero il peso degli eventi (98). È ovvio che i Veneziani avevano dei piani lungimiranti in vista dell'obiettivo di volgere la complessa vicenda dalmata a loro favore e cioè di far tornare quell'area sotto il loro dominio.
Nell'aprile del 1390 i centri della Dalmazia erano di nuovo impegnati in negoziati con Tvrtko I; ai primi di maggio Spalato decise di sottometterglisi, seguita subito da Traù e Sebenico oltre che dalle isole di Brazza, Lesina e Curzola. Con Clissa ed Almissa già conquistate, la Bosnia pareva affacciarsi allora come la maggiore potenza della costa orientale dell'Adriatico, da Sebenico a Cattaro, tranne che a Ragusa (99). Tvrtko non esitò ad assumere l'ambizioso titolo di "Dei gratia Rassie, Bosne, Dalmatie, Croatie, Maritimeque rex" (100). I Veneziani si rendevano conto molto bene di tale nuova situazione. Il 26 maggio 1390 essi si rivolgevano a certi "amici in Dalmazia" che "avevano una disposizione perfetta ed ottima [...> per l'onore e lo Stato nostro": evidentemente si trattava di fautori del ristabilimento della loro presenza nella regione. Il senato prendeva l'iniziativa di ringraziarli ma, "dato il modo in cui le dette comunità hanno inviato la loro ambasciata al re di Bosnia e le condizioni in cui si trovano, non ci sembra utile per ora fare altra menzione di questi fatti" (101).
Nel luglio del 1390, rispondendo ad una richiesta di Tvrtko, Venezia si mostrava pronta a mandare a Sebenico una nave armata per imbarcare un'ambasciata di quel re diretta in laguna e riportarla poi in Dalmazia (102). Va tenuto presente che Tvrtko I nel prendere le città di quella regione si considerava nel suo buon diritto, dato che non ne riconosceva Sigismondo di Lussemburgo come legittimo sovrano. Infatti Tvrtko si era strettamente collegato con il partito del nuovo pretendente alla corona di santo Stefano, Ladislao di Napoli, figlio minorenne di Carlo di Durazzo (ucciso a Buda ai primi del 1386). In base ad alcuni rapporti veneziani, Tvrtko avrebbe sostenuto che la sua offensiva era stata intrapresa appunto per conto ed a beneficio di quel giovane principe angioino (103). D'altra parte, il titolo di cui si era di recente insignito, e che comprendeva tanto la Dalmazia quanto la Croazia, faceva piuttosto pensare che egli si fosse mosso ed agisse per l'espansione del proprio Stato e del proprio potere.
Le iniziative che Venezia prese di fronte alla nuova situazione che si era venuta a creare rivelano che essa era ben conscia della linea politica seguita da Tvrtko I. Questi, nell'agosto del 1390, informò la Repubblica del suo intento di compiere un altro grande passo nella sua espansione in Dalmazia, quello di conquistare Zara: a questo fine egli chiese addirittura "aiuto e favore" ai Veneziani. Essi naturalmente non desideravano affatto secondarlo in tale impresa, ma non intendevano opporgli un'aperta ripulsa. Essi risposero pertanto che si trovavano "in buona pace e benevolenza" con il re d'Ungheria oltre che "in buono amore" con gli Zaratini: non volevano compromettere o infrangere questo rapporto e non lo avrebbero potuto fare "se non con grande onere per il nostro Comune ed il nostro Dominio" - cosa che non ritenevano Tvrtko certamente desiderasse; chiedevano dunque al re che li considerasse come scusati (104). Di fatto il sovrano bosniaco aveva proposto a Venezia un piano molto più vasto: una lega generale e cioè "che gli amici di una parte siano amici dell'altra ed i nemici, nemici". La Repubblica non voleva né poteva sottoscrivere un patto così ampio ed impreciso: rispose che, come il re ed ognuno sapevano, "la nostra città è situata e fondata in modo tale da alimentarsi e nutrirsi solamente esercitando il commercio". Avendo i loro antenati stabilito certi patti e convenzioni con tutti per conservare la loro città, per conseguenza i Veneziani non potevano "in nessun modo accettare questa lega" perché essa avrebbe procurato danno al loro Stato. Nondimeno essi promettevano di ricevere sempre i sudditi di quel re "come se fossero nostri propri, benignamente e favorevolmente", raccomandando lo stesso trattamento per i loro sudditi che si trovassero in terra bosniaca (105).
La Signoria venne finalmente liberata dall'ansia provocata dagli ambiziosi piani di Tvrtko con la scomparsa di quest'ultimo nel marzo del 1391. Non solo la sua morte cambiò subito la situazione in Bosnia, ma ebbe larga eco su tutta la scena adriatica e dei Balcani. Ancora una volta le città dalmate si trovarono in circostanze incerte e pericolose. In un primo momento esse si mantennero fedeli al nuovo sovrano bosniaco, Dabiša Kotromanić (1391-1395). Dal canto suo Ladislao di Napoli - che si era fatto incoronare re nel 1390 - cercava ora in modo più deciso di rivendicare i propri diritti sulla Dalmazia. Re Sigismondo, occupato altrove, aveva pur sempre Zara sotto il proprio dominio, ma almeno per il momento non dimostrava un grande interesse per gli altri centri dalmati. Da parte sua Venezia seguiva con attenzione gli sviluppi delle vicende, ma non era disposta a farsi coinvolgere nelle nuove combinazioni che stavano prendendo campo.
Questo infatti era un periodo di crescente pericolo ottomano, sempre più incombente - dopo la sconfitta dei Serbi a Kosovo nel 1389 - su varie regioni balcaniche, compresa la Bosnia. Per i Veneziani era senz'altro importante che i Turchi non si affacciassero sulle sponde orientali dell'Adriatico, ma, conoscendone già molto bene la potenza, non intendevano impegnarsi in imprese che avrebbero potuto comprometterli con quelli che stavano divenendo i nuovi padroni dell'importantissimo mercato del Levante (106). Non sorprende dunque che nell'aprile del 1393 il governo lagunare rifiutasse con belle parole l'alleanza con Sigismondo, giacché "tra quel signor re e la corona ungherese da un lato, noi ed il nostro Comune dall'altro, vige un amore tanto buono ed un affetto tanto sincero che [...> a noi non sembra necessario entrare in un trattato di lega". I Veneziani inoltre respinsero la richiesta di tre galee che avrebbero dovuto essere utilizzate per recare danni agli Zaratini affinché fossero "obbedienti al signor re ed alla corona ungherese" (107). Nel settembre successivo rifiutarono anche la proposta avanzata dal vice-capitano del Golfo Francesco Bembo di conquistare Almissa (108). Se nel corso del 1394 continuarono ad intrattenere rapporti con il re bosniaco ed il bano della Croazia e Dalmazia, mantennero sempre le distanze nei confronti degli avvenimenti adriatici. Proprio in quell'anno infatti, a proposito degli affari zaratini, facevano sapere al vicario di Segna che il loro "governo non s'immischierà in nessun modo in quelle faccende" (109). Tuttavia, quando gli abitanti di Aurana (Vrana) catturarono una nave veneziana e ne uccisero il proprietario, essi spedirono una galea sottile (trireme da combattimento) per perseguire i colpevoli e scrissero al re d'Ungheria - oltre che a Zara e Sebenico - affinché facesse in modo che simili cose non si ripetessero (110).
Nel frattempo si erano verificate in Bosnia alcune vicende che avrebbero avuto delle ripercussioni sulla politica veneziana in Dalmazia. Nell'estate del 1394 il re Dabiša e il re Sigismondo si erano incontrati a Dobor. Il risultato dell'incontro fu che il primo si dichiarò vassallo del secondo, rinunciò a tutte le pretese sulla Croazia e sulla Dalmazia e cedette al sovrano magiaro tutti i diritti che avesse potuto accampare su queste terre. Fu stabilito inoltre che dopo la morte di Dabiša, Sigismondo sarebbe diventato re di Bosnia (111). Il patto di Dobor indicava non solo in modo evidente l'indebolimento della Bosnia ma anche il rinnovato interesse del re magiaro per la Dalmazia e l'Adriatico. Malgrado quell'intesa, tuttavia, nel 1395, quando Dabiša morì, sul trono gli successe la vedova Jelena e non Sigismondo. A parte il fatto che era coinvolto in altri progetti, quest'ultimo era sempre più preoccupato della crescente pressione ottomana (112). Le sue iniziative del momento culminarono infatti nella Crociata del 1396, che finì con la totale sconfitta dell'esercito cristiano presso Nicopoli. Sigismondo stesso riuscì a malapena a fuggire e - via Costantinopoli, Ragusa e Zara - a ritornare in Ungheria(''3). Nicopoli, però, non indebolì le ambizioni del sovrano, né il suo desiderio di rivendicare i propri diritti su tutte le città della Dalmazia. Zara d'altronde, per quanto recalcitrante, restava sotto il suo dominio e Ragusa gli rimaneva fedele, mentre tutta la parte centrale dell'area dalmata versava in uno stato di notevole incertezza.
È vero che la sconfitta di Nicopoli aveva dato speranza al partito di Ladislao di Napoli. Questa tendenza si manifestò specialmente verso il 1398, quando il più potente ed incostante nobile della regione dalmata e bosniaca - il granduca Hrvoje Vukčić-Hrvatinić - divenne il nuovo campione del partito di Ladislao (114). Come sempre, i Veneziani reagirono a questa svolta politica con grande cautela. Quando appresero, nel settembre del 1398, che otto galee erano state allestite a Gaeta su richiesta di Ladislao e sembrò che con esse egli dovesse penetrare nell'Adriatico, non tardarono a prendere le misure necessarie innanzitutto per la sicurezza dei propri vascelli (115). Si trattava di provvedimenti tanto più opportuni in quanto il governo lagunare era conscio delle divisioni interne esistenti tra le file delle aristocrazie ungherese e croata, tra i partigiani di Sigismondo e quelli di Ladislao - discordie che si ripercuotevano inevitabilmente su tutta l'area. Nel 1397 aveva avuto poco successo il tentativo di Sigismondo di riportare la concordia nel proprio regno per unirne le forze nella lotta contro gli Ottomani. Non è senza significato che nel 1401, quando prese la decisione di recarsi in Boemia, egli fosse, sia pure per breve tempo, addirittura catturato da alcuni nobili ungheresi (116). Mentre naturalmente questo indeboliva le posizioni di Sigismondo e rafforzava quelle di Ladislao, le città dalmate si trovavano nell'incomoda situazione di doversi risolvere a prender partito fra i due contendenti, che pretendevano ambedue alla corona magiara ed al dominio in Dalmazia.
Specialmente sotto le pressioni del granduca Hrvoje, Zara, dopo aver ondeggiato fra i due re, si schierò dalla parte di Ladislao. Tale decisione indusse le altre città dalmate, ancora titubanti, a seguirne l'esempio. Così si giunse all'effettiva venuta di Ladislao nell'estate del 1403. I suoi sostenitori magiari avrebbero voluto ch'egli si recasse subito in Ungheria per cingere in piena regola la corona di santo Stefano. Ben memore del destino che aveva colpito il proprio padre, Carlo di Durazzo, egli non vi si volle recare ed alla fine venne incoronato a Zara, ma con un'altra corona (117). Non fu un trionfo di lunga durata. Nel frattempo infatti Sigismondo era riuscito a modificare il corso degli avvenimenti in Ungheria ed a radunare intorno a sé un crescente numero di nobili - processo facilitato dall'abile mossa di proclamare un'amnistia subito dopo l'incoronazione di Ladislao (118). Quest'ultimo, dal canto suo, si sentiva poco sicuro a Zara cosicché, dopo tre soli mesi di soggiorno, decise di tornare in Italia. Come suo "principale luogotenente in Ungheria, Croazia, Dalmazia e Bosnia" egli lasciò il granduca Hrvoje, con il titolo di principe ("Herzeg") di Spalato. Va pur detto che l'ambizioso e potente Hrvoje usava qualche volta perfino il titolo di "viceré della Croazia e della Dalmazia" (119). In realtà nondimeno Ladislao ed il suo partito stavano già perdendo terreno, mentre le più prestigiose famiglie della nobiltà croata passavano una dopo l'altra nel campo di Sigismondo (120).
Ma il contesto politico continuava a rimanere piuttosto confuso. Proprio in quel periodo il sovrano magiaro si venne a trovare molto coinvolto in sanguinosi conflitti interni della Bosnia. In questa regione, nella complessa situazione caratterizzata da molteplici antagonismi che opponevano potenti rivali nella corsa al potere, la minaccia ottomana si faceva sentire sempre di più. Nel 1408 Sigismondo lanciò un grande attacco proprio in Bosnia, ove catturò ed uccise un notevole numero di nobili (121), ma non riuscì a sottometterla. In quello stesso anno il granduca Hrvoje cambiò ancora una volta la propria posizione, abbandonò il partito di Ladislao e aderì a quello di Sigismondo, che naturalmente gli confermò tutti i possessi ed i titoli, compreso quello di viceré della Bosnia (122). In tale maniera Ladislao stava evidentemente perdendo tutte le sue posizioni sulla costa orientale dell'Adriatico.
Ci siamo dovuti dilungare alquanto su queste vicende, così fluide oltre che confuse ed incerte, perché a poco a poco fu proprio Venezia a trarne i maggiori profitti, almeno nell'area dalmata. Già ai primi dell'ottobre 1401 era venuta da Spalato nella capitale lagunare un'ambasciata per rendere noto che quella città "era contenta di accettare il suo potestà da Venezia sotto certi patti e condizioni e di mettersi sotto la sua protezione"; ma la Signoria rifiutò tale offerta (123). Molto diversa però risultò la reazione della Repubblica alle profferte zaratine (recate alla fine del novembre 1401 da un tale "ser Jacobus") di sottomettersi al dominio veneziano. La proposta venne messa in discussione segreta in senato. Si sottolineò in quell'occasione che si trattava di cose capaci di "ridondare in massimo bene del nostro Stato" e che "sono di tale natura ed importanza che non si deve perdere tempo [...> perché riguardano di molto lo Stato nostro" (124).
Pochi giorni dopo si parlò apertamente in senato di "seguire e concludere il trattato di Zara" proposto "dal detto nostro fedele" (evidentemente "ser Jacobus"). Pertanto furono prese misure affinché la flotta fosse in grado di prestare assistenza alla realizzazione di tali piani (125). Come si ripeteva, il ristabilimento del dominio veneziano a Zara era stato prospettato "da questo bravo uomo, nostro fedele, a nome suo ed a nome di quattro altri nobili zaratini i quali godono, com'egli afferma, di un grande seguito da parte di altri ancora". Così il 6 dicembre il senato diede istruzioni dettagliate per discutere dell'impresa con lo zaratino; con la consueta cautela tuttavia prese in considerazione la proposta di ottenere il consenso di Sigismondo al passaggio di Zara sotto l'autorità della Serenissima, allegando che in tal modo sarebbe stato ostacolato il piano di Ladislao di tornare di nuovo in Dalmazia. Intanto a "ser Jacobus" dovevano esser rimborsati i 100 ducati che aveva speso di tasca sua; per di più, se la sua città fosse di nuovo pervenuta a far parte dello Stato veneziano, egli stesso, i suoi figli e le sue figlie avrebbero ricevuto annualmente la somma di 500 ducati. Ai nobili e popolani zaratini insomma si doveva senz'altro "dare larghissima speranza" che il governo della Serenissima avrebbe fatto tutto il possibile per loro (126). Malgrado ciò, questo tentativo di ottenere Zara non ebbe né immediato seguito né successo e la città rimase per allora sotto il dominio di Ladislao.
Un anno più tardi, nell'agosto del 1402, fu proprio Ladislao invece a proporre a Venezia un'alleanza per riacquistare le terre dalmate (oltre al regno d'Ungheria), "le quali sono indebitamente occupate". Il sovrano inoltre chiedeva che gli venisse precisato quale sarebbe stato l'atteggiamento della Signoria se egli avesse mosso guerra in Dalmazia ed in Ungheria, come si dichiarava disposto a fare. Con la circospezione abituale, alla prima proposta la Repubblica fece rispondere in termini diplomatici ma negativi; di fronte alla seconda richiesta si pronunciò facendo sapere che essa avrebbe trattato "le sue galee e la sua gente nei nostri luoghi in modo amichevole e fraterno" (127). Quando Ladislao giunse effettivamente in Dalmazia - come si è già ricordato - e vi si fece incoronare re d'Ungheria e di Croazia, Venezia gli fece presentare le sue congratulazioni (128). Ma essa non poteva fare a meno di vigilare con molta attenzione sulla mutevole situazione adriatica.
Se ce ne fosse bisogno, per constatarlo nel modo più chiaro basterebbe osservare le decisioni che la Signoria ebbe a prendere ai primi di novembre del 1403, quando la sua flotta catturò tre galee genovesi che erano penetrate nel Golfo. Come sottolineava il provvedimento veneziano in materia, questo avvenimento esigeva "da noi molte e molte decisioni, discussioni e azioni, che devono essere compiute in gran segreto e fatte presto: e non si deve perdere tempo quando si tratta di faccende gravi e ponderose, considerando soprattutto quanto è importante per il nostro Stato che le regioni della Dalmazia ci siano favorevoli e non contrarie" (129). Aspettandosi fra l'altro in quella congiuntura una guerra con Genova, Venezia chiese a Ladislao di permettere alle navi della Repubblica di rifornirsi di viveri in Puglia e di proibire alle città dalmate di procurare vettovaglie o di permettere l'accesso tanto alle unità da guerra genovesi che a quelle veneziane (130). Come si può dedurre dalle risposte che la Signoria fece pervenire alla metà del febbraio 1404 sia a Ragusa che a Zara, queste due comunità reagirono in modo positivo alle sue richieste riguardanti il loro atteggiamento durante un eventuale conflitto fra Genova e la Serenissima (131).
Si era in frangenti che si avviavano a sbocchi decisivi e che esigevano un fitto lavorio diplomatico, come conferma l'interessante scambio di messaggi che nel frattempo aveva avuto luogo tra Sigismondo e Venezia proprio riguardo al dominio della Dalmazia. Da Višegrad in Ungheria il re aveva scritto il 3 dicembre del 1403 lagnandosi di aver sentito, "anche se da rapporto non molto sicuro ", che Ladislao era disposto a trasferire parte delle terre dalmate, a determinate condizioni, sotto l'autorità della Repubblica. Sigismondo affermava di non credere che ciò potesse essere vero, soprattutto perché avrebbe significato "violare le condizioni di pace [il trattato di Torino del 1381>, nelle quali si fa presente in modo specifico che voi [Veneziani> non vi dovete in alcun caso o evenienza immischiare in alcun modo negli affari della provincia di Dalmazia. Voi sapete pure [proseguiva il sovrano> che il re Ladislao non è il vero possessore e padrone della Dalmazia, ma piuttosto l'invasore, perché la Dalmazia per diritto è soggetta alla corona d'Ungheria, corona che con l'aiuto di Dio noi legittimamente deteniamo". Sigismondo pertanto chiedeva alla Signoria, "se ciò che abbiamo sentito è vero", di rifiutare gli approcci di Ladislao (132).
Venezia rispose solo il 29 gennaio 1404 a questa imbarazzante missiva del re che intanto, in una lettera successiva, aveva chiesto il pagamento del tributo annuo di 7.000 ducati, che non era stato versato per l'ultimo quadriennio (133). Anche se rivestita come sempre di espressioni deferenti, questa volta la replica veneziana risultò piuttosto dura. Il senato infatti faceva notare a Sigismondo che se avesse voluto esaminare con attenzione le condizioni di pace, "sia di quella nuova", appunto del 1381, che di quella vecchia (del 1358) - alla quale la nuova pace si riferiva - e se avesse guardato ad altri notevoli aspetti della questione, avrebbe potuto vedere "che noi in nulla abbiamo cercato né cerchiamo di derogare ai diritti della corona d'Ungheria". Ogniqualvolta infatti i Veneziani avessero avuto quello che dovevano avere "in vigore delle paci predette" - e si riferivano in particolare alla salvaguardia delle loro navi lungo la costa dalmata, essi sarebbero stati pronti a fare "ciò che sarà secondo Dio ed il nostro onore, come sempre abbiamo fatto". Questo significava, in altri termini, che Sigismondo non era considerato in grado di adempiere alle condizioni della pace di Torino e che quindi neppure la Repubblica si sentiva costretta ad adempiere ai propri obblighi nei confronti del re (134). Per quanto poi riguardava la questione dell'offerta di Ladislao per la Dalmazia, i Veneziani assicuravano il sovrano magiaro che i rapporti che aveva ricevuto sui predetti fatti della Dalmazia erano "remoti da ogni verità" e che né Ladislao né alcun'altra persona avevano fatto menzione di cose simili. Si aggiunga che Sigismondo aveva fatto pervenire una missiva a messer Giovanni Barbarigo, cavaliere, nella quale proponeva una lega con i Veneziani - che naturalmente questi respinsero "per via di molte, grandi e ardue preoccupazioni" che avevano (135). Era infatti proprio in quel momento che essi si trovavano alle prese con la fase acuta dei problemi dell'acquisto della Terraferma.
Le divergenze con il sovrano comunque non si limitarono a questo. All'inizio di febbraio del 1404 la Signoria si mostrò offesa per il fatto che "questo nunzio del signor re Sigismondo d'Ungheria, con massima impertinenza", chiedesse una risposta immediata, il che - si sosteneva - "è contro l'onore e tutta la pratica degli ambasciatori". Il diplomatico al quale ci si riferiva era senza dubbio quel segretario del re che era di recente venuto a chiedere che i Veneziani giurassero a lui, a nome del re, "secondo la forma della pace". Non solo essi non intendevano addivenire a questo ma neppure accettare di pagare il tributo richiesto (136). In questa medesima fase d'altra parte anche Ladislao di Napoli manifestava un grande interesse ad intrattenere buoni rapporti con Venezia ed a quanto pare all'inizio del 1405 egli le avrebbe perfino proposto un'alleanza. Agli ambasciatori del re napoletano, che avevano riferito "sul fatto di questa lega soltanto in termini generali", il 31 gennaio di quell'anno si faceva rispondere che a sua volta la Signoria gli avrebbe inviato un suo rappresentante "per trattare e concludere [...> quello che sarà con onore e beneplacito di ambedue le parti" (137). Difatti qualche giorno più tardi venne eletto un ambasciatore "per i fatti dell'unione e della lega" in questione, con istruzioni molto ambigue dalle quali risultava che la Repubblica era disposta a promettere di non aiutare né ricevere sulle proprie terre e nei suoi porti i nemici del re per un periodo da tre a cinque anni, se il sovrano avesse fatto analoga promessa e preso lo stesso impegno nei riguardi dei Veneziani (138).
Anche se tali contatti con Ladislao non portarono per il momento alcun frutto, era evidente che i sospetti di Sigismondo non risultavano affatto privi di fondamento. Qualche mese più tardi, nell'agosto del 1405, fu di nuovo lo stesso re magiaro a proporre l'alleanza con i Veneziani. Egli precisava addirittura di aver già riunito 5.000 soldati per conquistare la Dalmazia e chiedeva loro "di entrare in lega con lui solo per quel tanto ch'egli potesse realizzare la sua intenzione". Allegando le difficoltà della sua guerra contro Padova, nonché altri problemi e spese, la Signoria rifiutò senz'altro l'offerta. Analoghe ragioni vennero evocate per respingere la richiesta di Sigismondo di provvedergli delle galee "perché il signor re potesse acquistare il dominio della Dalmazia" (139). Mostrando di non desistere facilmente da tale suo progetto, il re magiaro fece recare da un'altra sua ambasceria nell'ottobre del 1405 la proposta di "corroborare l'amicizia" tra l'Ungheria e Venezia "con una buona unione e lega stipulate contro chiunque". Ancora una volta, sia pur con diplomatiche espressioni, la Repubblica rifiutò simile profferta. Allora gli inviati di Sigismondo non si peritarono di chiedere che venisse permesso al re di armare in laguna per proprio conto alcune galee, se ciò fosse stato necessario. Ovviamente questa richiesta venne respinta con buoni argomenti in quanto - come gli si fece sapere - "consentendo che le dette galee siano armate qui, potremmo facilmente entrare in guerra [...> con coloro con i quali siamo in pace: il che arrecherebbe gran danno a Venezia" (140).
Era chiaro che, pur seguendo con vivissima attenzione gli sviluppi della situazione dalmata, la Serenissima intendeva allora mantenersi neutrale nella partita che si giocava fra i due contendenti coronati. È quanto risulta altresì in maniera molto netta dalla risposta che i Veneziani diedero nell'aprile del 1406 agli ambasciatori del conte di Segna. Essi avevano riportato voci dall'Ungheria che Sigismondo avrebbe voluto "volentieri fare l'unione e la lega con il nostro Dominio contro re Ladislao per acquistare le terre della Dalmazia promettendo, se noi lo desiderassimo, di soddisfarci di una parte o della totalità delle terre dalmate e di farci altri gesti di compiacimento". "Noi siamo in buona pace con [...> re Ladislao e similmente siamo in buona pace con [...> re Sigismondo [venne loro replicato> ed intendiamo con tutte le nostre forze conservarla con ambedue" (141). Il secondo monarca perseverava nondimeno nei suoi sforzi per ottenere l'alleanza con la Signoria. Così, nel luglio del 1407, quest'ultima doveva reiterare agli ambasciatori regi: "al presente siamo in pace e tranquillità con tutti e non ci pare essere necessaria alcuna lega"; venne pure di nuovo rifiutato il versamento del tributo, già tante volte sollecitato dal monarca, "per alcune giuste e ragionevoli cause che [...> sono note alla reale maestà" (142). Un'ennesima profferta ungherese di alleanza venne rigettata nel febbraio del 1408 (143).
Una tale insistenza da parte di Sigismondo si può attribuire alla sua ferma intenzione ed al suo desiderio di rientrare in possesso della Dalmazia - ch'egli considerava come regione di proprio diritto sua - e di cacciarne Ladislao ed i suoi sostenitori: a meno che non si trattasse pure di costringere la Serenissima ad uscire dalla sua apparente e non rassicurante neutralità. Poiché l'Ungheria non era un paese marittimo e non disponeva di alcuna flotta degna di menzione, essendo consapevole nello stesso tempo che senza disporre di forze navali non era possibile conquistare le città dalmate, Sigismondo cercava di raggiungere contemporaneamente con questa iniziativa e con questa proposta di lega due scopi importanti. Il primo ed il più immediato era quello di venir aiutato da una potente squadra navale a ristabilire i suoi domini adriatici; il secondo era di eliminare per questo tramite il pericolo che Venezia stessa cercasse ormai per proprio conto di riappropriarsi della regione contesa. Ma la Repubblica era ben consapevole di non aver bisogno di affrettarsi, neppure quando Sigismondo le offriva delle concessioni. Ben informata come sempre, la Signoria non ignorava che l'Ungheria era impegnata altrove (in Bosnia, con la situazione creata dagli Ottomani, ecc.) e che d'altra parte il potere di Ladislao in Dalmazia si stava disgregando. Restando neutrali e tenendosi per il momento da parte, i Veneziani senza dubbio attendevano il momento propizio per una loro mossa decisiva.
È vero che nel frattempo essi parevano incontrare qualche difficoltà in quella regione. Nella primavera del 1408 alcuni loro cittadini e sudditi ebbero a soffrire "gravi danni" da parte di piccole imbarcazioni che saccheggiavano i loro vascelli partendo dalle basi di Zara ed Aurana. Il governo lagunare fece chiaramente sapere che "tali cose non possono in alcun modo essere tollerate" in considerazione degli interessi che la Repubblica aveva in Adriatico. Così un notaio venne inviato a Zara ed in altre località della zona per lagnarsi dell'accaduto e per chiedere indennizzi. Se ciò non fosse stato sufficiente, si minacciava, "al momento dell'uscita delle galee del Golfo, si venga in questo Consiglio [e cioè in senato> e si provvederà sul caso come a noi parrà necessario" (144). Un mese più tardi, quando effettivamente la squadra del Golfo stava per partire da Venezia, il suo capitano ebbe l'ordine di portarsi davanti a Zara e - nel caso che gli Zaratini avessero continuato a non soddisfare le richieste di risarcimento - di avvertirli "che Venezia non potrà fare altro che provvedere al rimborso"; se poi avesse trovato i predoni, avrebbe dovuto arrestarli e dar fuoco ai loro vascelli (145). Di fatto il capitano catturò due brigantini di Zara e la Signoria respinse, quando le giunsero, le proteste del rappresentante del re Ladislao, perché non solo i danni inflitti in precedenza non erano stati risarciti "ma adesso [e cioè nel giugno del 1408> di nuovo i nostri cittadini sono stati danneggiati". I Veneziani, si concludeva, "non tollereranno che simili cose si ripetano e provvederanno in proposito" (146). Situazioni di questo genere non potevano che aumentare il loro desiderio di rimettere la Dalmazia sotto il loro controllo ed assicurare così l'incolumità dei propri cittadini e delle proprie navi, che viaggiavano lungo le coste orientali dell'Adriatico.
Ben presto si profilò all'orizzonte l'occasione di soddisfare tali intenti. Proprio nel luglio del 1408 iniziarono tra la Repubblica e re Ladislao di Napoli i contatti che dovevano riportare un anno più tardi il potere veneziano in Dalmazia. In questa regione la posizione di quel sovrano stava diventando disperata. Dopo il passaggio della maggior parte della nobiltà croata dalla parte di Sigismondo, il suo avversario rimaneva con le sole città di Zara, Aurana e Novigrad, oltre all'isola di Pago, sotto il proprio controllo (147). Come si è già messo in rilievo, verso la fine del 1408 perfino il suo luogotenente in Dalmazia - il duca Hrvoje Vukčić-Hrvatinić - lo aveva abbandonato (148). In un primo momento i negoziati tra Venezia e Ladislao si indirizzarono verso la prospettiva dell'alleanza fra le due parti, che il re aveva proposto (149). Per trattare di tale materia "molto difficile e ponderosa e tanto utile e necessaria per la sicurezza del nostro Stato" - come ci si espresse ancora - venne formata una commissione speciale di trenta senatori che dovevano partecipare alle trattative insieme al collegio (150). Il 18 luglio si cominciò a parlare della "proposta che loro [gli ambasciatori di Ladislao> ci hanno fatto sugli affari della Dalmazia" come cosa che doveva essere trattata celermente (151).
Questi rappresentanti del re napoletano proposero dapprima che i Veneziani prendessero sotto la loro protezione le regioni dalmate - in particolare Zara - controllate dal re. In contraccambio o Ladislao avrebbe versato loro l'ammontare dell'annuo tributo che la loro città doveva pagare a Sigismondo, o sarebbe stato permesso alle loro galee e navi armate di entrare nel porto di Zara, o infine sarebbe stato loro consentito di prendere per sé la città di Cattaro. Dopo aver rifiutato simili offerte la Signoria avanzò una controproposta: se il re fosse stato disposto "a darci la città di Zara [...> con tutti i diritti e giurisdizioni ch'egli ha" colà e nel suo distretto, come pure "le altre terre e luoghi che tiene nella regione di Dalmazia [...> ed i loro diritti e giurisdizioni", Venezia sarebbe stata disposta da parte sua a "fare le cose che fossero giuste e ragionevoli" (152).
Gli inviati di Ladislao chiesero allora che i Veneziani promettessero - qualora ciò fosse stato accettato da lui - di consentirgli libero transito verso l'Ungheria se egli avesse voluto andarvi più tardi: ma essi ribatterono che bisognava prima arrivare ad un accordo sulla Dalmazia e poi si sarebbe parlato delle altre cose (153).
Le trattative ripresero all'inizio del dicembre di quell'anno. Riferendosi ad esse, nella capitale lagunare si parlava di nuovo di "una cosa difficile e ponderosa la quale, trattata in modo segretissimo, potrebbe essere molto utile e necessaria allo Stato nostro", rendendo subito chiaro che era questione ancora una volta "degli affari della Dalmazia" (154). Tre patrizi membri del collegio furono designati per negoziare con gli inviati di Ladislao e per accertare "quali terre della Dalmazia vuole vendere" ed a quale prezzo - cercando naturalmente di ridurlo quanto possibile (155). Ai rappresentanti del re che chiedevano 300.000 fiorini venne risposto che "considerando i termini e le condizioni in cui sono le terre della Dalmazia - che sono in guerra ed abbandonate e senza alcun, anche piccolo, introito -, considerando che avendole acquisteremo più odio che amicizia ed entreremo in grandissima spesa", la richiesta di 300.000 fiorini "era tanto eccessiva ed oltre ogni convenienza" che non c'era neanche da sentirne parlare né da dire alcuna parola in merito. Nondimeno i Veneziani fecero la controproposta di pagare 100.000 ducati "per la città di Zara e tutte le altre terre, castelli e luoghi che [Ladislao> tiene in Dalmazia ed in Croazia" (156).
Si assistette ad un ulteriore mercanteggiamento tra la fine di gennaio ed i primi del febbraio del 1409, quando "il giudice Pandellus, oratore del signor re Ladislao" offrì la vendita della Dalmazia per 200.000 ducati. Dal canto suo la Signoria in quell'occasione rifiutò di nuovo all'esercito del re - una volta che la regione fosse ridiventata veneziana - il permesso di attraversarla per andare a combattere contro Sigismondo. In compenso la Serenissima era pronta a proibire simile transito anche al re magiaro, nel caso in cui questi avesse mosso guerra a Ladislao. Quanto al prezzo, essa fece ripetere ancora una volta più dettagliatamente gli argomenti impiegati per rifiutare il pagamento di 300.000 fiorini e ripropose la somma di 100.000 ducati, pagabili in quattro rate: la prima sarebbe stata versata un "mese dopo aver avuto le tenute e possedimenti predetti" e le tre rimanenti nei tre anni seguenti. Il rappresentante napoletano replicò allora abbassando il prezzo a 150.000 ducati, ma la Signoria rimase ferma sull'offerta di 100.000. L'unica concessione che essa fece a Ladislao fu l'impegno di permettere al suo esercito di attraversare la Dalmazia qualora si fosse diretto contro Sigismondo, ma solo nel caso in cui essa stessa si fosse trovata in stato di guerra contro il sovrano magiaro (157).
La conclusione dell'affare continuò a rimanere in sospeso, finché nel marzo del 1409 il rappresentante di Ladislao accettò finalmente la somma di 100.000 ducati, perché "le terre di Nona, Sebenico e Traù, mentre si aspettava la conclusione del trattato, gli si erano ribellate". Le principali località che il re poteva quindi offrire ancora erano Zara ed Aurana, con i loro dintorni; nondimeno egli si diceva pronto "a cedere nell'atto di vendita i diritti e le attività che gli competono in tutta la Dalmazia". Da buoni mercanti, e pur rimanendo disposti a versare fino a i 100.000 ducati, i Veneziani cercarono allora di abbassare ulteriormente il prezzo a soli 70.000 ducati "poiché le terre di Traù, Sebenico e Nona si sono ribellate e sono tra le principali in Dalmazia" (158).
Nell'aprile successivo subentrarono d'altronde nuovi problemi. In primo luogo Ladislao aveva dato la città di Novigrad al nobile zaratino Guido de' Matafari mentre a Venezia si riteneva che quella comunità "era sempre espressamente nominata in questa vendita". In secondo luogo, della somma di 100.000 ducati - sulla quale le due parti sembravano a questo punto essere d'accordo - non era concorde l'interpretazione del ritmo dei versamenti. Come prima rata Ladislao voleva che gliene fossero rimessi 40.000 ed il resto in due anni; i Veneziani ne proponevano 25.000 per la prima rata, con una corresponsione delle altre lungo un periodo di tre anni. Almeno su questo punto delle modalità del pagamento la Signoria accettò la richiesta del re "perché ulteriore indugio non può essere utile ad alcuna delle parti". Sulla terza parte dell'accordo, e cioè sulla questione dell'eventuale transito delle truppe di Sigismondo che si dirigessero a combattere contro Ladislao, i Veneziani dichiararono che non avrebbero né permesso, né aiutato tale passaggio nelle terre e nei porti dalmati sotto il loro dominio (159).
Alla metà del maggio 1409 il re napoletano rese pubblica la sua solenne promessa nei confronti del doge e di Venezia di non accordare per dieci anni ad alcuno che volesse attaccare i Veneziani per terra e per mare "accoglienza, transito, porto, cibo, aiuto, consiglio o favore alcuno, pubblico o segreto" (160). Anche se in questo documento non si faceva esplicita menzione della Dalmazia, sembra chiaro che esso non fosse altro che una parte dell'accordo che riguardava la vendita di quella regione. Eppure neanche questo portò subito il negoziato ad una favorevole conclusione. Ladislao la procrastinava e non era pronto ad includere Novigrad e l'isola di Pago nella transazione. Il 20 maggio la Signoria reagì allora in modo molto fermo ed in questi termini: "perché è da sospettare che il detto signor re ha introdotto queste controversie per tirare in lungo le cose, non avendo la volontà di concludere [...> non conviene al nostro Dominio di occuparsi più a lungo di questo trattato, ma invece di vederne la fine". Essa si risolse pertanto, poiché erano passati già più di sei mesi dall'inizio dell'ultima fase dei negoziati, a pregare il re di dare la sua definitiva risposta prima della metà di giugno e cioè di lì a venticinque giorni (161).
Di fatto all'inizio di luglio giunse a Venezia un nuovo ambasciatore regio con la "procuratoria, ovvero sindacato, scritto di proprio pugno" dal sovrano di Napoli, tramite il quale questi accettava sostanzialmente le condizioni proposte dalla Serenissima per la compravendita, inclusi Novigrad e Pago (162). Il 6 luglio vennero allora nominati tre nobili per andare in Dalmazia a prendere possesso di Zara. Inoltre furono predisposti soldati e vascelli per recarsi in quest'ultima città, mentre si fissò il termine di un mese per il passaggio del potere in mani veneziane a Zara, Aurana, Novigrad, Pago, ecc. (163).
Finalmente il lunghissimo e dettagliato atto di vendita della Dalmazia fu steso e firmato nella chiesa veneziana di San Silvestro il 19 luglio 1409. Oltre alle appena menzionate città di Zara, Novigrad ed Aurana ed all'isola di Pago, Ladislao cedeva in perpetuo alla Repubblica "tutti i suoi diritti su tutta [...> la Dalmazia" per 100.000 ducati. Di essi, 40.000 dovevano essere versati, entro quaranta giorni dal passaggio del potere nei centri adriatici, al re o al suo rappresentante a Francavilla o nelle vicinanze; i rimanenti 60.000 ducati andavano corrisposti entro i due anni seguenti in due rate di 30.000 ducati ciascuna (164). Il giorno stesso della firma del trattato vennero stabiliti ulteriori particolari per la consegna di Zara, Aurana, Novigrad, Pago, ecc. (165) ed il 20 luglio furono nominati quattro patrizi come "solenni Provveditori dell'illustre governo veneziano per i fatti di Zara e di tutta la Dalmazia" (166).
In tal modo, dopo cinquantun anni i Veneziani tornavano finalmente in Dalmazia. Negli anni successivi, e fino al 1420, a poco a poco essi sottomisero al loro dominio l'intera regione, con le sue città ed isole, con la sola eccezione di Ragusa (che rimase sotto la protezione del re magiaro). Rispetto alla posizione della Serenissima nell'area dell'intero Adriatico, e specialmente per quanto riguarda i rapporti con la costa orientale di quel mare, l'anno 1409 apre un'era nuova. Iniziò infatti allora un periodo che doveva durare fino al 1797, con notevolissime conseguenze tanto per Venezia che per la Dalmazia. Ancora una volta - e questa in modo che si può chiamare definitivo - la Repubblica si installava saldamente come potere dominante sull'Adriatico, ottenendo il pieno controllo della più importante rotta della sua navigazione e dei suoi commerci. La sicurezza dei vascelli e dei mercanti veneziani veniva a trovarsene grandemente migliorata. Questo si verificava proprio nel periodo in cui la Serenissima, a causa dell'espansione ottomana nel Levante e nei Balcani, aveva le più gravi ragioni di essere preoccupata per il futuro del suo impero coloniale e per i suoi traffici nell'area del Mediterraneo orientale. Il consolidamento delle posizioni in Dalmazia e nell'Adriatico costituiva senz'altro un successo di prim'ordine per la Repubblica di San Marco.
Come già si è avuto l'occasione di mettere in rilievo, già prima del 1358 l'influenza veneziana aveva lasciato moltissime tracce in Dalmazia, specialmente per l'ascendente che il modello offerto dalla società e dall'amministrazione lagunari aveva avuto sulle strutture sociali ed amministrative dei centri dalmati. Nel corso del Quattrocento e nel periodo successivo Venezia eserciterà altresì il suo influsso sulla formazione dell'aspetto fisico delle città di quella regione. Si realizzò infatti una fortunata coincidenza fra il ritorno del potere veneziano e la trasformazione urbanistica di molte località da nuclei piuttosto piccoli - in gran parte costituiti ancora da case di legno e con strade strette o poco rispondenti ad un ordine razionale - in città assai più estese, con arterie, vie e piazze ben tracciate, con fortificazioni, palazzi, chiese, monumenti, ecc., tutti in pietra o mattoni e tutti segnati da un evidente carattere veneziano.
Va detto nondimeno che tale influenza si estese anche più oltre, su quella che si può chiamare la mentalità urbana delle popolazioni dalmate. Nel Trecento la grande maggioranza di queste genti era slava, croata, anche se i patriziati locali si consideravano di origine "romana" o "latina" nella loro maggioranza. Il contatto quotidiano fra queste popolazioni slave e gli Italiani, sia in Dalmazia stessa che in Italia - e principalmente a Venezia -, contribuì alla creazione di un rapporto speciale fra i due gruppi etnici e tra le due sponde dell'Adriatico. Le basi di quel fenomeno molto particolare che si verificò in Dalmazia dal tardo Medioevo in poi - e cioè la simbiosi culturale latino-slava - vennero a concretarsi già nelle società urbane di quella regione fra il Due ed il Trecento. Il ruolo centrale della presenza veneziana in Dalmazia, prima e dopo il 1358, nella formazione di tale simbiosi, deve essere pienamente riconosciuto ed apprezzato (167). Tale fenomeno naturalmente, rinforzando l'influsso veneto sulla costa orientale dell'Adriatico, in modo non violento e non aggressivo e pur molto efficace e durevole, contribuì a rafforzare altresì la posizione e l'influenza venete nell'intera zona dell'Adriatico, contribuendo alla stabilità dell'impronta e della presenza veneziana in quest'area.
1. Su Zara in generale ed in quest'epoca in particolare v. Grad Zadar. Presjek kroz povijest, a cura di Grga Novak - Vjekoslav Maštrović, Zadar 1966; Nada Keaić - Ivo Petricioli, Prosldst Zadra,II, Zadar u srednjem v jeku do 1409, Zadar 1976; Tomislav Raukar, Zadar u XV stoljeću. Ekonomski razvoj i društveni odnosi, Zagreb 1977; Id., Zadar pod mletačkom upravom 1409-1797, Zadar 1987. Su Ragusa v. Jorjo Tadić, Dubrovnik od postanka do kraja XV stoljeća, in, Historija naroda Jugoslavi je, I, a cura di Bogo Grafenauèi Dušan Perović - Jaroslav Šidak, Zagreb 1953 pp. 629-667; Barièa Krekić, Dubrovnik in the 14th and 15th Centuries: A City between East and West, Norman 1972; Vinko Foretić, Pov jest Dubrovnika do 1808, I, Od osnutka do 1526, Zagreb 1980; Susan Mosher Stuard, A State of Deferente. Ragusa/Dubrovnik in the Medieval Centuries, Philadelphia 1992. Sull'industria mineraria nei Balcani v. Mihailo Dinić, Za istoriju rudarstva u srednjevekovnoj Srbiji i Bosni, I-II, Beograd 1955-1962; Sima Ćirković, ne Production of Gold, Silver and Copper in the Centrai Parts of the Balkans from the 13th to the 16th Century, in Precious Metals in the Age of Expansion, a cura di Hermann Kellenbenz, Stuttgart 1981, pp. 41 -69.
2. V. Liber statutorum civitatis Ragusi compositus anno 1272, a cura di Valtazar Bogišić - Konstantin Jireček, Zagreb 1904 (ristampato in Statut Brada Dubrovnika 1272, Dubrovnik 1990), lib. II, cap. XIV; B. Krekić, Dubrovnik, pp. 18, 74. Per Zara v. N. Klaić - I. Petricioli, Zadar, pp. 284, 286.
3. Frederic C. Lane, Venice. A Maritime Republic, Baltimore - London 1973 (trad. it. Storia di Venezia, Torino 1978), pp. 114-117; Giorgio Cracco, Un "altro mondo". Venezia nel Medioevo. Dal secolo XI al secolo XIV, Torino 1986, pp. 116- 118.
4. G. Cracco, Un "altro mondo", p. 115.
5. Listine o odnosajih izmedju Juznoga Slavenstva i Mletacke Republike, a cura di Šime Ljubić, I-X, Zagreb 1868-1891: I, p. 254.
6. N. Klaić - I. Petricioli, Zadar, pp. 19 - 195.
7. Ibid., pp. 209-211; Nada Klaić, Povjest Hrvata u razvyenom srednjem vijeku, Zagreb 1976, pp. 414-425.
8. N. Klaić - I. Petricioli, Zadar, p. 213.
9. Listine, I, pp. 266-271.
10. Bariša Krekić, Le relazioni fra Venezia, Ragusa e le popolazioni serbo-croate, e Id., Venetian Merchants in the Balkan Hinterland in the Fourteenth Century, ambedue in Id., Dubrovnik, Italy and the Balkans in the Late Middle Ages, London 1980, capp. IV e XIV.
11. Listine, I, pp. 163, 167.
12. Ibid., p. 363.
13. Ragusa, Archivio storico, Reformationes, reg. 8, cc. 36-37.
14. Bariša Krekić, O ratu Dubrovnika i Srbije 1327-1328, "Zbornik radova Vizantološkog instituta", 11, 1968, pp. 198-199 (pp. 193-204).
15. Listine, I, pp. 363-364; B. Krekić, O ratu, p. 199.
16. Listine, I, p. 163; B. Krekić,, O ratu, p. 203.
17. Charles Verlinden, L'esclavage dans l'Europe médiévale, II, Gand 1977, pp. 713-800; Bariša Krekić,, Dubrovnik As a Pole of Attraction and a Point of Transition for the Hinterland Population in the Late Middle Ages, in AA.VV., Migrations in Balkan History, Beograd - Santa Barbara 1989, pp. 65-75; Dušanka Dinić - Knez̆ević, Migrace stanovništva iz juz̆noslovenskih zemalja u Dubrovnik tokom srednjeg veka, Novi Sad 1995, pp. 15-33.
18. N. Klaić, Povijest, pp. 597-598; Id. - I. Petricioli, Zadar, pp. 297-298.
19. N. Klaić - I. Petricioli, Zadar, pp. 291-292.
20. Listine, II, p. 303.
21. N. Klaić - I. Petricioli, Zadar, pp. 243-244, 308.
22. Listine, II, p. 374.
23. Ibid., pp. 409-417; N. KLAic - I. Petricioli, Zadar, pp. 308-310.
24. N. Klaić - I. Petricioli, Zadar, pp. 3 10-311.
25. Listine, II, pp. 414-416; N. Klaić - I. Petricioli, Zadar, pp. 311-312.
26. Listine, III, pp. 96-98; N. Klaić, Povjest, p. 6 10; Id. - I. Petricioli, Zadar, p. 3 16.
27. N. Klaić, Povjest, pp. 599-602; Id. - I. Petricioli, Zadar, p. 317.
28. Sima Cirković, Istorja srednjovekovne bosanske drzave, Beograd 1964, p. 123; N. Klaić, Povjest, p. 620.
29. S. Ćirković, Istorja, pp. 121, 387 (genealogia dei Kotromanić); N. Klaić - I. Petricioli, Zadar, pp. 317-318.
30. N. Klaić, Povjest, p. 620; Id. -I. Petricioli, Zadar, p. 318.
31. Georg Ostrogorsky, History of the Byzantine State, Oxford 1968, pp. 528-529; F.C. Lane, Venice, pp. 174-179; G. Cracco, Un "altro mondo", pp. 135-136.
32 N. Klaić, Povyest, p. 621; Id.-I. Petricioli, Zadar, p. 319; G. Cracco, Un "altro mondo", p. 136.
33. Listine, III, p. 257; N. Klaic, Povjest, p. 622.
34. N. Klaić, Povyest, pp. 622-625; Id. - I. Petricioli, Zadar, pp. 320-322.
35. Listine, III, pp. 369-370, 372.
36. Ibid., pp. 377-378, 380.
37. G. Cracco, Un "altro mondo", p. 140.
38. V. Foretic, Povyest, I, p. 131.
39. Dubrovncka akta i pove je, a cura di Jovan Radonié, I/ I, Beograd 1934, pp. 90-98.
40. Pisma i uputstva Dubrovaéke Republike, a cura di Jorjo Tadié, Beograd 1935, pp. 16-17; Barisa Krekic, Dubrovnik (Raguse) et le Levant au Moyen Age, Paris-La Haye 1961, p. 203.
41. Pisma i uputstva, p. 16.
42. Ibid., pp. 18-20.
43. Barisa Krekic, Mlecani u Dubrovniku i Dubrovcani u Mlecima kao vlasnici nekretnina u XIV sto jeéu, "Anali Zavoda za povijesne znanosti Jazu u Dubrovniku", 28, 1990, pp. 36-37 (pp. 7-39). V. anche Id., Un mercante e diplomatico da Dubrovnik (Ragusa) a Venezia nel Trecento, in Id., Dubrovnik, Italy and the Balkans in the Late Middle Ages, London 198o, cap. V.
44. Tomislav Raukar, Cives, habitatores, forenses u srednjovjekovnim dalmatinskim gradovima, "Historijski zbornik", 29-30, 1976-1977, pp. 139-149; LovoRKACoRALIC, Dubrovcani u Venec ji od XIII do XVIII sto jeéa, "Anali Zavoda za povijesne znanosti Hazu u Dubrovniku", 32, 1994, pp. 15-57.
45. G. Cracco, Un "altro mondo", p. 144; Barisa Krekic, Dubrovnik (Ragusa) and the War of Tenedos/Chioggia (1378-1381), in Id., Dubrovnik, Pali) and the Balkans in the Late Middle Ages, London 198o, cap. VI, p. 6.
46. F.C. Lane, Venice, pp. 186, 189-190; N. Klaic Povijest, p. 634; B. Krekic, Dubrovnik (Ragusa) and the War of Tenedos, pp. 6-7; Gaetano Cozzi - Michael Knapton, La Repubblica di Venezia nell'età moderna. Dalla Guerra di Chioggia al 1517, Torino 1986, pp. 4-5.
47. Tvrtko si era proclamato re nel 1377, v. S. Cirkovic, Istorja, p. 145.
48. B. Krekic, Dubrovnik (Ragusa) and the War of Tenedos, pp 4-5.
49. Listine, IV, p. 115.
50. B. Krekić, Dubrovnik (Ragusa) and the War of Tenedos, pp. 4-5.
51. Monumenta ragusina. Libri reformationum, IV, a cura di Giuseppe Gelcich, Zagreb 1886, p. 166.
52. Ibid., pp. 167-168.
53. B. Krekić, Dubrovnik (Ragusa) and the War of Tenedos, p. 7.
54. Ibid., p. 8.
55. Ibid., pp. 8-9, 30 n. 75.
56. N. Klaić, Povijest, p. 634; Id. - I. Petricioli, Zadar, p. 329.
57. F.C. Lane, Venice, pp. 189-190; N. Klaić - I. Petricioli, Zadar, p. 329; B. Krekić, Dubrovnik (Ragusa) and the War of Tenedos, p. 9; G. Cracco, Un "altro mondo", p. 144.
58. F.C. Lane, Venice, p. 193; G. Cracco, Un "altro mondo", p. 144.
59. B. Krekić, Dubrovnik (Ragusa) and the War of Tenedos, pp. 11 29 n. 50. 60. Ibid., p. 10.
61. Ibid., p. 11.
62. Ibid., pp. 11, 30 n. 55. Secondo la lettera degli ambasciatori al doge, gli Ungheresi minacciavano "che, se non faremo la pace con loro, tra pochi giorni essi faranno altro con calzolai e popolani, e sapevano bene quello che dicevano" (ibid., p. 12).
63. Ibid., pp. 9-10, 29 n. 46. Genovesi e Ragusei prigionieri a Venezia nel 1379: Listine, IV, p. 119. Sulla riscossa veneziana v. F.C. Lane, Venice, p. 193; G. Cracco, Un "altro mondo", p. 145.
64. B. Krekić, Dubrovnik (Ragusa) and the War of Tenedos, pp. 12-13.
65. Ibid., p. 13. Alla fine di ottobre del 1379, non meno di tredici galee genovesi erano arrivate a Marano per imbarcare cibi: ibid., p. 30 n. 65.
66. Ibid., pp. 17, 32 n. 96.
67. Ibid., p. 17.
68. Ibid., p. 18.
69. Ibid., p. 20; F.C. Lane, Venice, pp. 193-195; G. Cracco, Un "altro mondo", p. 145.
70. B. Krekić, Dubrovnik (Ragusa) and the War of Tenedos, p. 20.
71. Ibid., pp. 20-21.
72. Ibid., p. 21.
73. Ibid.
74. Ibid., p. 22.
75. Listine, IV, pp. 126-127.
76. Ibid., pp. 127-128. Interpretazione erronea del testo con conclusioni ingiustificate da parte di N. Klaić - I. Petricioli, Zadar, pp. 329-330. Sul traffico del sale v. Tomislav Raukar, Zadarska trgovina solju u XIV stojeću, "Radovi Filozofskog fakulteta, Odsjek za povijest", 7-8, 1972, pp. 19-79. Id., Venezia, il sale e la struttura economica e sociale della Dalmazia nel XV e XVI secolo, in Sale e saline nell'Adriatico, secc. XV-XX, a cura di Antonio Di Vittorio, Napoli 1981, pp. 145-156.
77. Listine, IV, pp. 128-129, 130.
78. B. Krekić, Dubrovnik (Ragusa) and the War of Tenedos, p. 23.
79. N. Klaić, Povijest, pp. 653-656; Id. - I. Petricioli, Zadar, pp. 350-355; S. Ćirković, Istorija, pp. 151-154.
80. Tvrtko si serviva del sale come strumento molto efficace di pressione su Ragusa, creando - perfino un mercato parallelo per il commercio del sale all'entrata delle Bocche di Cattaro (Boka Kotorska), fondando, cioè, la città di Novi (più tardi Hercegnovi). V. S. Ćirković, Istorija, pp. 37, 148-150; N. Klaić, Povijest, pp. 655-656.
81. S. Ćirković, Istorja, p. 154.
82. N. Klaić - I. Petricioli, Zadar, pp. 355-356.
83. Ibid., p. 356. Klaić pensa che gli Zaratini attendevano aiuto dalla flotta genovese, ma non si vede la ragione per tale parere.
84. N. Klaić, Povijest, p. 657.
85. Listine, IV, pp. 232-233.
86. Ibid., pp. 237-238.
87. Ibid., p. 237.
88. Ibid., pp. 236, 238, 239; S. Ćirković, Istorija, pp. 154-155.
89. Listine, IV, pp. 240, 241.
90. Ibid., pp. 241-242.
91. Ibid., pp. 242-243; S. Ćirković, Istorja, p. 154.
92. S. Ćirković, Istorija, p. 155.
93. Ibid., pp. 155-157.
94. Sulla battaglia di Kosovo ed il suo significato v. ibid., p. 159; Rade Mihaljčić, in Istorja srpskog naroda, II, a cura di Jovanka Kalić, Beograd 1982, pp. 36-46; Id., The Battle of Kosovo in History and in Popular Tradition, Beograd 1989; Thomas A. Emmert, Serbian Golgotha: Kosovo 1389, New York 1990; Kosovo, Legacy of a Medieval Battle, a cura di Wayne S. Vucinich - Thomas A. Emmert, Minneapolis 1991.
95.. S. Ćirković, Istorija, p. 161.
96. Listine, IV, p. 274.
97. Ibid., p. 275.
98. Ibid., pp. 276-280.
99. S. Ćirković, Istorija, pp. 161, 163; N. Klaić, Povijest, p. 658; Id. -I. Petricioli, Zadar, p. 359.
100. S. Ćirković, Istorija, p. 164.
101. Listine, IV, p. 280.
102. Ibid., p. 282.
103. Nella lettera che il governo veneziano inviò in Ungheria il 3 febbraio 1390, scrivevano, tra l'altro: "Come abbiamo udito, lo stesso re [Tvrtko> dice che fa le sopradette [conquiste della città e terre dalmate> per il figlio [...> del signor re Carlo, e che qualunque cosa egli acquista, acquista a nome suo": ibid., p. 274. V. anche S. Ćirković, Istorija, p. 163.
104. Listine, IV, pp. 284-285.
105. Ibid., pp. 285-286; S. Ćirković, Istorija, p. 164.
106. G. Cozzi - M. Knapton, La Repubblica, pp. 10 - 11.
107. Listine, IV, pp. 305-306.
108 Ibid., p. 316.
109. Ibid., pp. 329-330.
110. Ibid., p. 377.
111. S. Ćirković, Istorija, p. 174.
112. Ibid., pp. 175-176; G. Cozzi - M. Knapton, La Repubblica, pp. 18 - 19.
113. N. Klaić - I. Petricioli, Zadar, p. 361; Bariša Krekić, The Battle of Kosovo and International Repercussions, in Kosovo, Legacy of a Medieval Battle, a cura di Wayne S. Vucinich - Thomas A. Emmert, Minneapolis 1991, pp. 100-101 (pp. 89-107).
114. S. Ćirković, Istorja, p. 177; N. Klaić, Povijest, p. 659. Hrvoje era stato sostenitore degli interessi di Ladislao prima di Dobor, dopo di che divenne alleato di Sigismondo, per abbandonarlo ora e raggiungere ancor una volta il campo di Ladislao.
115. Listine, IV, p. 414.
116. Ferdo Šišić, Pregled pov jesti hrcatskoga naroda, Zagreb 1962, p. 221; N. Klaić, Povijest, p. 659; Id. - I. Petricioli, Zadar, p. 363.
117. F. Šišić, Pregled, p. 221; N. Klaić, Povijest, p. 660; Id. - I. Petricioli, Zadar, pp. 365-366. Sisié e Klaić, pensavano che si trattasse probabilmente della vecchia corona reale croata.
118. N. Klaić, Povijest, p. 660.
119. Ibid., p. 661; S. Ćirković, Istorja, pp. 167-197.
120. N. Klaić, - I. Petricioli, Zadar, p. 366.
121. Secondo una fonte, gli Ungheresi uccisero e gettarono dalle mura della città di Dobor nel fiume Bosna non meno di 171 nobili bosniaci. V. S. Ćirković, Istorija, p. 210. F. Šišić (Pregled, p. 221) e N. Klaić (Povijest, p. 661) pensavano erroneamente che Sigismondo aveva perfino catturato il re bosniaco, Tvrtko II Tvrtković. V. S. Ćirković, Istorija, p. 210; Pavo Z̆ivković, Tvrtko II Tvrtković. Bosna u prvoj polovini XV stoljeéa, Sarajevo 1981, pp. 57-58.
122. S. Ćirković, Istorya, pp. 210-211.
123. Listine, IV, p. 438.
124. Ibid., pp. 440, 441.
125. Ibid., pp. 441-442.
126. Ibid., pp. 442-449; N. Klaić - I. Petricioli, Zadar, p. 367.
127. Listine, IV, p. 469.
128. Ibid., V, pp. 13-14.
129. Ibid., p. 26.
130. Ibid., p. 29. Un'anticipazione di una guerra con Genova si può vedere anche dal fatto che un nunzio veneziano fu inviato a Ragusa alla fine di novembre del 1403 per chiedere ai Ragusei - nel caso di guerra tra Venezia e Genova - "di non ricevere i Genovesi e le loro navi durante la guerra nelle proprie terre e luoghi e di non prestar loro alcuna assistenza o favore": v. ibid., pp. 30-31.
131. Ibid., pp. 35-36.
132. Ibid., pp. 31-32.
133. Ibid., p. 32. Il mercante di Buda, "Sigismundus Lerberer", che aveva portato la lettera del re a Venezia, era diventato impaziente aspettando la risposta veneta "ed ogni giorno con grande insistenza chiede la nostra risposta per la sua partenza" e già giorni fa voleva "protestare presso di noi ed andare per i fatti suoi": v. ibid., p. 32.
134. Ibid., pp. 32-33. Analoghe dichiarazioni il 3 febbraio ed il 31 luglio 1404. Ibid., pp. 35, 44-45.
135. Ibid., pp. 32-33.
136. Ibid., pp. 33-34. Nuovo rifiuto del pagamento il 31 luglio 1404: ibid., pp. 44-45.
137. Ibid., p. 51.
138. Ibid., pp. 51-52.
139. Ibid., pp. 61-62. Nel novembre del 1404 e di nuovo nell'agosto del 1405 i Veneziani rifiutarono di ammettere Cattaro sotto il proprio dominio: ibid., pp. 48-49, 62.
140. Tra le altre ragioni per il loro rifiuto, i Veneziani dichiararono: "Considerando che la nostra città vive del traffico ed esercizio della mercatura con tutti ed ovunque, e che, per la grazia di Dio, al presente siamo in pace e tranquillità con tutti, non ci sembra essere necessaria alcuna lega, perché potrebbe condurci in guerra e novità con quelli con i quali siamo in pace, il che sarebbe a danno e detrimento della nostra dominazione": ibid., pp. 65-66.
141. Ibid., pp. 74-75.
142. Ibid., p. 100.
143. Ibid., pp. 110-111.
144. Ibid., p. 114.
145. Ibid., pp. 115-116.
146. Ibid., p. 121.
147. N. Klaić Povijest, p. 661; Id. - I. Petricioli, Zadar, pp 366-367.
148. S. Ćirković, Istorja, pp. 210-211; F. Šišić, Pregled, p. 221.
149. Listine, V, pp. 127-128.
150. Ibid., pp. 129-131.
151. Ibid., pp. 131-132.
152. Ibid., p. 132.
153. Ibid., pp. 133-134.
154. Ibid., pp. 140-142.
155. Ibid., p. 142.
156. Ibid., pp. 142-145.
157. Ibid., pp. 155-158.
158. Ibid., pp. 163-165. Uno dei sapientes consilii aveva proposto di offrire solamente 60.000 ducati: ibid., p. 165.
159. Ibid., pp. 169-170.
160. Ibid., p. 172.
161. Ibid., pp. 173-175.
162. Ibid., pp. 177-179. L'ambasciatore di Ladislao premeva perché si facesse presto "perché in cose simili, in un'ora ed in un momento diverse cose possono accadere": ibid., p. 178.
163. Ibid., pp. 179-181.
164. Ibid., pp. 181-199.
165. Ibid., pp. 199-203.
166. Ibid., pp. 204-207. Sugli avvenimenti dal 1382 al 1409 e sul ritorno del potere veneziano in Dalmazia v. pure Marko Šunjić, Dalmacja u XV stoljćeu. Uspostavljanje i organizacija mletačke vlasti u Dalmaciji u XV stoljeéu, Sarajevo 1967, pp. 27-47; T. Raukar, Zadar u XV stoljeću, pp. 30-37; Id., Zadar pod mletačkom upravom, pp. 29-33; Id., Komunalna društva u Dalmaciji u XV st. i u prvoj polovini XVI stoljeća, "Historijski zbornik", 35/1, 1982, pp. 43-118.
167. Bariša Krekić, On the Latino-Slavic Cultural Symbiosis in the Late Medieval and Renaissance Dalmatia and Dubrovnik, "Viator", 26, 1995, pp. 321-332.