Venezia e l'entroterra (1300 circa - 1420)
Se si privilegia il piano dell'espansione territoriale, l'assunzione del biennio 1404-1405 come terminus ad quem di una trattazione dedicata ai rapporti fra Venezia e il suo entroterra nel secolo XIV si presenta indiscutibile. Nel giro di diciotto mesi, dalla dedizione di Vicenza del maggio 1404 alla conquista di Padova del novembre 1405 - passando per l'acquisizione del dominio su Verona nel giugno dello stesso anno -, Venezia crea infatti un vasto dominio territoriale fra la Livenza, il Mincio ed il Po. E rispetto a questi eventi, è pacifico che si inscrivano in una diversa congiuntura politica alcuni importanti episodi successivi, come l'assoggettamento di Brescia e Bergamo - città geograficamente lontane, legate sin dal Due-Trecento a Venezia da rapporti commerciali non diversi da quelli di altre città padane - e dei loro territori (1428); per tacere poi delle conquiste di Crema (a metà Quattrocento) e della Ghiaradadda e di Cremona (a fine secolo), che porteranno alla massima espansione territoriale, nel cuore della pianura padana, dello stato veneziano di Terraferma. Ma il discorso si presenta in termini un po' diversi per quanto riguarda da un lato l'acquisizione del dominio su Ravenna e Cervia, che avviene nel 1441 nel quadro delle guerre viscontee ma che è il punto d'arrivo di una plurisecolare, saldissima egemonia commerciale ed economica (ciò che, mutatis mutandis, si può dire in certa misura anche per il dominio del Polesine, nel 1395-1438 e poi dal 1484); e dall'altro lato, soprattutto, per quanto riguarda l'acquisizione del dominio sul Friuli patriarchino nel 1420. Questo evento si presenta a sua volta come l'atto finale di un rapporto che l'analisi trecentesca rivela come assolutamente fondamentale per la politica veneziana nei confronti dell'entroterra, e dunque in sé e per sé appare più significativo, dal punto di vista della periodizzazione, della stessa canonica data del 1404-1405.
Non si vuoi dire, con questo, che il ceto dirigente veneziano, di fronte alla crisi susseguita alla morte di Giangaleazzo Visconti (settembre 1402), non avesse profondamente maturato la convinzione della necessità di un intervento contro i da Carrara, o che non si rendesse conto di essere ormai irreversibilmente coinvolto nelle vicende politico-diplomatiche padano-venete. Si vuole semplicemente sottolineare il fatto che l'intervento quattrocentesco nelle terre adriatiche (in Friuli in dura lotta contro re Sigismondo d'Ungheria fino alla soluzione finale del 1420; e in Romagna con il ῾protettorato' sugli esausti signori da Polenta (1) sono inscritti nel DNA della politica veneziana trecentesca in modo ancor più marcato che non l'intervento nel Veneto, maggiormente orientato e condizionato nei cruciali anni di primo Quattrocento dagli accidenti diplomatico-militari. È sembrato dunque opportuno assumere i citati avvenimenti quattrocenteschi (e in particolare il 1420) come punto d'arrivo di questa trattazione, e nel contempo articolare geograficamente, anche nel titolo di questo capitolo, il concetto di ῾entroterra' (preferendo questo termine a quello in certa misura fuorviante - perché teleologicamente proiettato sullo stato quattrocentesco - di ῾Terraferma').
Questa scelta sottolinea, in altre parole, la complessità e la varietà di articolazioni del rapporto fra Venezia e il suo entroterra nel corso del Trecento, nei diversi scenari geografici. Questo rapporto ha, com'è ben noto, un tornante significativo negli anni della guerra di Chioggia (1378-1381): fu questa guerra, che mise a repentaglio la sopravvivenza stessa dello stato, ad ῾insegnare' ai Veneziani la necessità di un coinvolgimento ancora più stretto e definitivo in un gioco politico e diplomatico che si allargava ormai, inevitabilmente, a tutta l'Italia e all'arco alpino, e non più ad intermittenza, con alti e bassi, ma in modo duraturo. Sino ad allora, nei decenni centrali del secolo Venezia aveva contrastato con successo i tentativi di alcuni ῾stati' padano-veneti (Verona scaligera innanzitutto) di consolidare egemonie territoriali, ma era rimasta molto maggiormente e più continuativamente impegnata nella politica adriatica (la guerra con Genova negli anni '50, le ribellioni di Creta e di Trieste nei decenni successivi) che non in quella padana o alpina. Non a caso, in una prospettiva di complessiva ricostruzione politico-istituzionale, in una recente importante sintesi si è potuto assumere l'anno 1381 e la pace di Torino come elemento di periodizzazione per la storia della città nel suo insieme (perché, fra l'altro, quella guerra rinvia ad un complesso scenario di politica mediterranea e perché le esigenze della guerra mutano irreversibilmente l'assetto della finanza pubblica veneziana) (2). Anche la ῾svolta' di Chioggia, tuttavia, non poté determinare ripercussioni meccaniche né immediate: nell'ultimo ventennio del secolo Venezia non cessò di puntare agli obiettivi tradizionali della sua politica estera (la conservazione della libertà dei traffici, la pace connaturata alla pratica mercantile, refrains che ritornano così frequentemente nelle fonti pubbliche e nelle cronache (3); e non a caso sull'opportunità di puntare ad obiettivi di espansione territoriale il ceto dirigente veneziano era allora - e avrebbe continuato ad esserlo nei primi decenni del secolo successivo - profondamente diviso al proprio interno.
L'individuazione di un terminus ad quem per la presente trattazione ha dunque elementi di complessità, ed è sembrato opportuno prendere in limine le distanze da quel tanto di convenzionale che è insito nella periodizzazione tradizionale. Allo schema corrente ci si atterrà invece per il punto di partenza, per il quale i caratteri di convenzionalità sono ancor più evidenti. Ci si limiterà a richiamare quanto sostenuto dal Mallett in altro volume di questa stessa opera, il fatto cioè che "l'analisi delle origini dello Stato di Terraferma deve partire dalla metà del secolo XIII", per una serie di motivi che vanno dal crescente condizionamento annonario imposto dalla crescita demografica della popolazione veneziana, alla più dura concorrenza genovese nel Levante dopo la perdita della posizione di privilegio goduta nell'Impero latino d'Oriente, e alla conseguente maggiore necessità per Venezia, sin da allora, di tutelare la sicurezza degli itinerari padani ed europei (4).
Una pur rapida analisi della storiografia sul tema pare legittimare almeno alcune delle scelte fatte in sede di impostazione. Sul lungo travaglio della politica veneziana trecentesca verso l'entroterra si sono esercitate diverse generazioni di studiosi a partire dalla seconda metà dell'Ottocento, privilegiando largamente - nonostante la robustezza del filone di storia economica e di storia della finanza pubblica - la prospettiva politico-diplomatica. Questo orientamento si mantiene vitale all'incirca sino alla metà di questo secolo, quando con la lunghissima operosità di Vittorio Lazzarini e poi con l'attività degli ultimi scolari di Roberto Cessi, il massimo protagonista di queste ricerche (5), lo si può considerare esaurito, in sintonia con complessive modificazioni del clima storiografico. In queste ricerche vi è stata nel complesso una notevole omogeneità di metodo. Sono state portate a termine importanti edizioni di fonti documentarie e di fonti cronistiche veneziane (cronache ῾monografiche', relative ai singoli episodi bellici della guerra con gli Scaligeri [1336-1339> e della guerra di Chioggia [1378-1381>); ma soprattutto sono state utilizzate sistematicamente le serie archivistiche delle deliberazioni dei consigli veneziani. Si può ancora osservare al riguardo che, per una lunga spanna cronologica, le ricerche più importanti e significative sono state dedicate a episodi specifici, ma di centrale rilievo della politica veneziana: si pensi per fare solo alcuni esempi alla monografia del Soranzo sulla guerra di Ferrara (1308-1311), o alle ricerche e alle edizioni documentarie del Simeoni sulla guerra veneto-fiorentino-scaligera del 1336-1339 (6), o ancora alle ricerche del Lazzarini e di altri sulla guerra di Chioggia. Ovviamente, già queste ricerche contemperavano l'ottica veneziana con l'attenzione al complessivo sviluppo delle vicende politiche padano-venete; ma nella loro stessa monograficità rinviavano all'assenza di un interesse organico, coerente, compiuto da parte del ceto dirigente veneziano per l'entroterra, l'attenzione per il quale era subordinata alla politica marittima e governata dalla volontà di evitare egemonie territoriali troppo marcate.
La ricostruzione degli eventi diplomatici e politico-militari diventa assai più difficilmente controllabile per il quarto di secolo fra la fine della guerra di Chioggia e la conquista di Padova (1381-1405), quando le relazioni interstatali divengono più complesse e la documentazione diplomatica cresce in modo esponenziale. Per questo periodo, è ben noto, sono state svolte diligenti e minuziosissime ricerche di storia politico-diplomatica nelle fonti e negli archivi fiorentini, bolognesi, padovani, milanesi, mantovani, pontifici (basterà citare i nomi di Romano, Collino, Pastorello, Bolognini, ecc. (7)) oltre che in quelli veneziani, friulani ed austriaci. Nelle riletture d'insieme che si sono date di questo materiale vastissimo è tuttavia percepibile, a mio avviso, un qualche squilibrio. Risulta infatti complessivamente privilegiata una prospettiva in senso stretto ῾padana' ed italiana, orientata a dare particolare importanza ai rapporti coi Visconti e con le signorie venete (8): non senza un lieve sentore di teleologismo, di inevitabilità dell'approdo delle terre fra l'Adige e il Piave alla sicura ombra del leone di S. Marco. Perlomeno, si può dire che la ricerca relativa all'area friulana, altrettanto analitica, è stata meno organicamente inserita nelle ricerche di sintesi. Ad esempio, ai rapporti fra Venezia e il patriarcato aquileiese - ma più in generale ai problemi dell'area friulana - furono dedicate, dal Cessi in particolare (ma anche da altri ῾venezianisti'), numerose ricerche analitiche (9). Tuttavia nelle indagini d'insieme dello storico padovano - "autore complesso e tutt'altro che alieno, specie nelle opere di sintesi" (e particolarmente, si potrebbe aggiungere, nelle opere più tarde) "dal mito di Venezia" (10); prospettiva quest'ultima che in qualche misura non è estranea anche ai suoi allievi (11) - questi aspetti non sono valutati in modo adeguato, perché prevale tutto sommato la sottolineatura della separazione, dell'isolamento, delle peculiarità della città lagunare ("mundus alter Venetia dicta est"). Anche un'opera come quella del Cusin - che negli anni '30 di questo secolo seguendo una sua personale ed originale vocazione di studioso delle terre di confine, Trieste come Trento, analizzò minutamente le vicende del territorio friulano-istriano-carinziano al "confine orientale d'Italia" (12), e inserì in questo ambito, dandole il giusto rilievo, la politica veneziana - risulta un po' isolata e poco valorizzata (13). Del resto, per quanto riguarda le ricostruzioni d'insieme della politica veneziana trecentesca verso l'entroterra, è sintomatico che alla metà degli anni '50 di questo secolo si ispiri ad un rapporto equilibrato fra attenzione all'area padano-veneta e a quella friulano-istriano-dalmata un rapido Überblick del vecchio Gioacchino Volpe (14): che è portato dalla sua prospettiva ῾nazionale', e dalla sottolineatura della italianità della Dalmazia, a dare un forte risalto al ruolo ῾adriatico' di Venezia. Da allora in poi, una impostazione siffatta non è stata ripresa in modo adeguato. Non sembra illecito supporre che un inespresso ma non per questo ininfluente condizionamento politico, una sorta di rimozione, abbia portato negli anni '50 e '60 la storiografia veneta a trascurare le ricerche relative al ῾confine orientale'.
Tutte queste osservazioni, e in particolare la constatazione dell'ampiezza dell'interesse riservato dalla storiografia erudita alla questione friulana, ci sembrano motivare a sufficienza la periodizzazione prescelta. In ogni caso, per quanto riguarda gli aspetti politico-militari e diplomatici è da questo scenario che occorre partire, perché le ricerche dell'ultimo quarantennio non solo non hanno toccato nella sostanza il solido impianto événementiel costruito fra 1880-1890 e 1950, ma anche su punti specifici non hanno apportato nessuna novità; ed è il caso di dire che anche in questo ambito settori importanti - ad esempio quello della storia militare, in tutti i suoi risvolti - risultano tuttora trascurati.
Le novità sono state molte, invece, sul piano della storia istituzionale, sociale ed economica. Si è approfondito il quadro delle conoscenze a proposito delle relazioni fra Venezia e l'entroterra nel Trecento (15), proponendo ad esempio nuove prospettive sul dominio veneziano a Treviso fra il 1339 e il 1381, la prima modesta esperienza (non esperimento) di dominio territoriale veneziano (16). Si sono rilanciate, sia pure senza svilupparle in modo adeguato, prospettive di ricerca già impostate nel passato: si pensi al tema così importante dell'espansione della proprietà fondiaria veneziana nell'entroterra, individuato dal Lazzarini sin dagli anni '20 (17). Ripetuto interesse hanno destato, per fare ancora un esempio, le ripercussioni economiche e sociali della guerra di Chioggia (18). Ha avuto sviluppo, soprattutto, la ῾storia sociale', con riferimento prevalente ma non esclusivo al patriziato, grazie alle ricerche di Cracco, Lane, Chojnacki ed altri (19), senza peraltro che si siano percorse sino in fondo le piste che collegano tali tematiche al problema Venezia/entroterra (oltre che alla proprietà fondiaria, si pensi alle signorie rurali, ma anche alla presenza dei Veneziani nelle podesterie delle città venete e padane, e più in generale ai nessi fra gli schieramenti e le aggregazioni interne al patriziato e le alternative politiche che si pongono a fine Trecento, anche in connessione con il ricambio che porta alla ribalta la cosiddetta ῾generazione di Chioggia'). Nel complesso, un quadro d'insieme equilibrato e di ampiezza adeguata, che recuperi il molto di valido e di solido che c'è nella vecchia ricerca erudita, ancora manca (20); e anche in questa sede non si potranno proporre che alcune linee di fondo.
In conseguenza di ciò, e per i limiti di spazio imposti a questo contributo, si è optato per una distribuzione della materia molto schematica. Nei paragrafi 2-3 si enunceranno alcune problematiche strutturali, soprattutto di carattere economico, che condizionano nel corso del Trecento i rapporti fra Venezia e l'entroterra. Si seguirà poi, prevalentemente, il filo degli eventi politico-militari (paragrafi 4-10) e delle loro conseguenze più dirette e specifiche.
L'impostazione scelta, oltre che i citati limiti di spazio, esime dal trattare in modo analitico il dibattito interno e le ripercussioni sulla dialettica sociale dell'evoluzione dei rapporti fra Venezia e il suo entroterra: temi per i quali si rinvia ad altri capitoli di questo volume (21), e ai quali si faranno solo occasionali accenni. Del resto, come è stato osservato, nel Trecento "il pur esistente contrasto presente in seno al patriziato veneziano non precipitò mai in un'opposizione di consorterie che avesse una qualche rilevante ripercussione sul terreno della politica estera" (22), e gli stessi pur gravi episodi Tiepolo-Querini (1310) e Falier (1355) appaiono oggettivamente circoscritti, al di là della consapevole sottovalutazione che ne diede la storiografia ῾ufficiale' coeva. Non si è rinunciato tuttavia al tentativo di dare un'idea delle complesse relazioni culturali, economiche, sociali che la società veneziana, e in particolare il patriziato, intrattenne con l'entroterra nel corso del Trecento, condividendo l'opportunità del superamento delle brusche oscillazioni di giudizio tra una prospettiva di estraneità ed una di integrazione che ha talvolta caratterizzato la storiografia veneziana (23). Pertanto, la trattazione si conclude (paragrafo 11) con alcuni accenni - pur se tutt'altro che esaustivi - alle carriere podestarili, agli studi universitari, alle cariche ecclesiastiche ricoperte dai Veneziani nell'entroterra trecentesco.
Se è vero che le relazioni fra Venezia e il suo entroterra nel corso del Trecento sono segnate dal faticoso e lentissimo emergere della necessità di ῾nuove' e più incisive forme di coinvolgimento e di intervento politico e militare, e se è vero che larga parte del patriziato veneziano rilutta a lungo di fronte a questa prospettiva, restando tenacemente fedele a schemi mentali e stereotipi tradizionali (" civitas nostra vivit de exercicio mercancie"; "secundum morem progenitorum nostrorum [...> procurare pacem et concordium"; sino al notissimo "mare colere terramque postergare" di Raffaino Caresini, enunciato in occasione della fine della guerra di Chioggia e della perdita del dominio di Treviso nel 1381), occorre allora richiamare sinteticamente gli istituti e le consuetudini, nonché i fattori fondamentali di carattere economico-politico, che regolavano le relazioni fra Venezia e il suo entroterra sullo scorcio del secolo XIII.
La prassi di stringere con altre città e potentati patti bilaterali - volti ad assicurare la libertà e la sicurezza dei commerci fluviali e terrestri (in un contesto politico e territoriale fatto anche di particolarismi signorili e ῾feudali', oltre che cittadini, alieni dal riconoscere la libertà commerciale come un valore) e a definire le sedi di regolazione di questioni complesse come le rappresaglie, le esenzioni e la modalità della loro concessione, le questioni relative all'estradizione - risaliva ai secoli centrali del medioevo. Non per caso, la serie archivistica dei libri pactorum fu iniziata dal governo veneziano nel 1197-1198: è il momento in cui ovunque in Italia, negli archivi comunali, la documentazione pubblica assume stabilmente la forma di registro (24). Nel Duecento, il patto rappresenta la tipologia documentaria più emblematica e diffusa delle relazioni intercittadine veneziane (25).
In questi accordi, le garanzie per i commerci veneziani sono spesso (almeno sulla carta) rese concrete dall'organizzazione di servizi di scorta o di pattuglia sui corsi d'acqua, o dalla costruzione di sbarramenti o posti di guardia. Sono clausole che consentono ai Veneziani di penetrare anche fisicamente negli spazi territoriali dei comuni contermini, esercitandovi funzioni di controllo di polizia e di dogana formalmente riconosciute; ciò che faceva tanto adirare Salimbene de Adam ("contra quos [Venetos> omnes Lombardi indignari deberent et exercitum ad pugnam producere"). Sul Po, ad esempio, i posti di guardia sulle bocche di Goro, di Primaro, di Volano e Magnavacca erano stati istituiti fra il 1240 e il 1274; la fortezza di Marcamò (S. Alberto), "propter quod [Veneti> tenebant Lombardos in magna servitute pro mercatoribus" (26), fu costruita nel 1253 (27); negli accordi stipulati con Verona scaligera nel 1274 e nel 1278 i Veneziani si impegnano ad assicurare in prima persona, con proprie imbarcazioni, la sicurezza dell'itinerario dell'Adige non solo a valle dei confini del territorio di Verona (il rischio era, in quel contesto, quello di interferenze padovane), ma anche entro i confini medesimi fino a Legnago (28). Naturalmente, l'attuazione pratica di queste misure e la loro efficacia non erano definite una volta per tutte; come sempre, esiste un gap fra la norma e la sua applicazione. La politica dei patti ha insomma grande importanza, ma ha anche una sua ovvia intrinseca fragilità, esposta com'è a tutti i venti delle congiunture politiche locali. Oltre al controllo degli itinerari fluviali, altro elemento fondamentale, che figura assai di frequente in questi accordi, è costituito dalle rappresentanze e dalle magistrature - consolati, visdominati (29) - mantenute da Venezia nelle città partners. Si trattava di una presenza ῾ufficiale', che prevedeva spesso forme di immunità e di privilegio fiscale e giurisdizionale, o forme peculiari di giustizia arbitrale (affidate a collegi scelti secondo criteri diversi). In taluni casi - come accade a Ferrara (30) e in altre città romagnole laddove l'egemonia veneziana sui commerci è totale - queste istituzioni potevano condizionare seriamente l'esercizio del potere da parte delle autorità locali. È quasi superfluo ricordare, del resto, che si tratta di situazioni tutt'altro che eccezionali: non solo nel caso di Ferrara sarebbe anacronistico applicare concetti di integrità territoriale e di pienezza di sovranità agli stati cittadini trecenteschi.
È su questo quadro d'insieme che si innestano, a partire dall'ultimo decennio del Duecento, le difficoltà (per requisizioni di merci o tassazioni extra legem) nei rapporti commerciali con molte città padane: Mantova, Milano, Brescia, e poco dopo Padova, Verona, Como, Ferrara (31). Specialmente sulla linea politica da adottare nei confronti delle città politicamente più influenti (ad esempio Milano), il governo veneziano manifestò incertezza (32); i rinnovi dei patti furono talvolta procrastinati di molti anni. Ma questo strumento non fu abbandonato: anche nei confronti di una città come Treviso, il cui territorio affacciava per lungo tratto sulla gronda lagunare, e che pur politicamente autonoma era legata a Venezia dai mille fili di un rapporto economico di stretta integrazione, si procedette nel primo Trecento - forse proprio per questa intimità di rapporti - ad una nuova stipula (33). La fedeltà alla politica dei patti vale anche per i decenni seguenti, pur se le pattuizioni subiranno nel corso del secolo un processo di selezione e di trasformazione connesso con l'evoluzione dei rapporti politici.
Strettamente intrecciate con la materia commerciale sono - nelle relazioni bilaterali che Venezia ha a fine Duecento con tutte le città dell'entroterra - le questioni relative al sale. La riduzione della fornitura (strictura salis) è un'arma talvolta usata dal governo veneziano, che ha tuttavia crescente bisogno proprio a partire "dagli anni Ottanta del Duecento" - lo hanno mostrato le ricerche. di Hocquet su singoli contesti territoriali, come quello di Treviso - di scambiare sale versus materiali indispensabili per le costruzioni navali, come il legno e il ferro, controllati direttamente o indirettamente dai comuni cittadini perialpini, o contro grano (34). La materia del sale è centrale anche per le relazioni con le città lombarde (Mantova, Milano, Brescia) (35), tra le quali solo Milano potrà di quando in quando avvalersi, nel corso del Trecento, del rifòrnimento alternativo genovese; ed è ben noto che proprio il tentativo o le velleità di emancipazione dal costoso monopolio della città lagunare, mediante la minacciata costruzione di saline al confine fra territorio padovano e veneziano, costituiscono uno dei motivi o dei pretesti dei contrasti e delle guerre del 1304-1305 con Padova e degli anni '30 con Verona.
Una clausola dei patti con Mantova, sopra citati, è rivelatrice di un altro ῾minimo comune denominatore', di un altro basilare elemento strutturale del rapporto fra Venezia e l'entroterra: elemento la cui importanza aumenta nel corso del Trecento, in funzione della crescita demografica della prima metà del secolo. Anche nei periodi di maggiore frizione, quando proibisce sotto pena del 25% o del 50% del valore l'importazione di prodotti mantovani, il governo veneto mantiene lecita l'importazione delle derrate alimentari (oltre che del carbone). Specialmente per quanto riguarda le aree circumlagunari - i territori trevigiano, padovano, ferrarese e ravennate (36) - le ricerche recenti hanno manifestato un'acuta e crescente consapevolezza della centralità di tale questione, che si intreccia e si identifica con un altro fenomeno di lunghissimo periodo, quello della espansione della proprietà fondiaria veneziana (37). Si è parlato del resto, forse esagerando, dell'esistenza di un vero e proprio ῾partito' dei proprietari, sottolineando ad esempio, in riferimento alla guerra di Ferrara del 1308, che i Badoer ed i Querini (protagonisti della congiura che prende il nome da Baiamonte Tiepolo) erano i maggiori proprietari fondiari veneziani nel territorio della città estense (38).
Ciò che il commune Veneciarum non ereditava dal Duecento era, ovviamente, il controllo diretto ed esplicito di giurisdizioni e di territori nell'entroterra. Una modesta eccezione è costituita dal castello di Motta di Livenza e dai possessi dei Caminesi ῾di sotto', posti nel 1291 "sub dominio [...> domini ducis et comunis Venetiarum et sub eorum protectione et sub eorum gratia"; i Caminesi conservavano tuttavia l'autorità di amministrare la giustizia fra i propri sudditi (39). Eccezione modesta, ma non del tutto irrilevante, e soprattutto rivelatrice di quelli che erano alcuni obiettivi della politica veneziana: Motta permetteva di controllare quella rete di sicure vie d'acqua interne - solcate da chiatte e plate - che collegavano tra di loro attraverso canali i diversi corsi dei fiumi di risorgiva della bassa pianura facilitando il raggiungimento del Trevigiano e del Friuli. Si trattava di un sistema complesso e sviluppato già nel Duecento, la cui importanza è stata forse sottovalutata (40).
economia, moneta, finanza pubblica fra Venezia e l'entroterra
Nel rapporto fra Venezia e il suo entroterra, la congiuntura politica trecentesca interferisce - influenzandole, ma essendone anche, a sua volta, condizionata ed orientata - con alcune tendenze di fondo dell'economia, che devono qui essere in estrema sintesi richiamate (41).
L'importanza dell'entroterra come fornitore di cereali, vino ed altri prodotti agricoli non è trascurabile, ma neppure decisiva (Venezia può all'occorrenza, se la congiuntura politica lo richiede, rivolgersi in modo esclusivo al mercato mediterraneo). Queste relazioni riguardano con particolare intensità le città e i territori circumadriatici (Treviso, Padova, Ravenna) (42); va però ricordato che fra i protagonisti di rilievo di questi scambi economici figurano, in prima persona, gli stessi signori lombardi. Gonzaga e Scaligeri in primis, ma anche i Visconti, e nei brevi periodi di pace gli stessi da Carrara signori di Padova, collocano sul mercato veneziano quantitativi molto cospicui di granaglie: l'organizzazione dei patrimoni signorili - basata su istituzioni decentrate denominate gastaldie o garanze, autonome dal punto di vista gestionale, ove funzionari signorili introitavano cospicue quote di decime e di affitti di cereali - rendeva possibili e proficue queste attività commerciali (43). Sempre in tema di annona, un rilievo crescente ha, come si sa, nel corso del Trecento la selettiva espansione della proprietà fondiaria veneziana, che predilige l'immediata fascia circumlagunare per ovvie ragioni di raggiungibilità e di economia; il problema della libera circolazione delle rendite in natura è perciò sempre all'ordine del giorno. Nel basso Trevigiano e nel territorio di Piove di Sacco, in particolare, si concentrano le piccole e piccolissime proprietà dei popolari e dei ceti minuti, la cui influenza politica è indiretta, ma tutt'altro che scarsa; nel Ferrarese, in altre aree del Trevigiano o del Padovano e in Friuli si trovano invece feudi e possessioni assai meno numerosi ma di maggiore consistenza (44).
Già da queste considerazioni risulta evidente la profonda, crescente divaricazione esistente, in ordine alla ῾qualità' delle relazioni economiche con Venezia, fra due aree geograficamente distinte dell'entroterra veneziano. Le città del Veneto occidentale (Vicenza, Verona) e quelle lombarde mantengono con Venezia relazioni prevalentemente commerciali, imperniate sulla funzione di redistribuzione svolta da Venezia, delle quali è comunque difficile, in mancanza di studi analitici e di dati seriali, apprezzare la tendenza trecentesca. Nell'area circumlagunare, invece, i rapporti sono sempre più stretti ed integrati. Chi studia l'economia romagnola nel Trecento insiste ad esempio sulle caratteristiche ῾coloniali', di fortissima dipendenza, che assumono le relazioni fra Venezia e Ravenna (45). Una novità significativa è poi costituita, sotto questo profilo, dal consolidamento trecentesco dei centri urbani del Friuli, che come è stato dimostrato in modo convincente rivolgono a Venezia urla domanda crescente (nonostante i rapporti politici molto spesso tesi e difficili) di manufatti tessili e di beni di lusso; e nel manuale di mercatura del Balducci Pegolotti, il Friuli viene citato come luogo di smercio di tessuti di lana e di lino, e come produttore di cereali (46).
Su un altro piano, un elemento di novità importante, che ha contraccolpi significativi sulla politica veneziana nei confronti dell'entroterra, è costituito dallo sviluppo della manifattura veneziana, soprattutto tessile, della quale ricerche recenti e meno recenti hanno dimostrato la consistenza. Conseguenze importanti di questo sviluppo si hanno, nel Trecento, nel campo della politica demografica: in particolare dopo la crisi epidemica di metà secolo, che decurtò la popolazione forse del 5o% (da 110-120.000 a 50-60.000 abitanti (47)), il governo veneziano favorì l'immigrazione di manodopera attraverso un'attenta gestione delle concessioni di cittadinanza (48). E se lo sviluppo del setificio è largamente dipendente dall'immigrazione lucchese (49) e svincolato da un rapporto diretto col territorio, un discorso diverso va fatto per il lanificio (ove pure gli immigrati - pistoiesi, mantovani, comaschi, ecc. - hanno nel Trecento un ruolo importante). Il primo essor di questo settore era già duecentesco, ed aveva presto interessato vari siti dello spazio urbano e lagunare (con lo spostamento delle attività di tessitura a Torcello, mentre la filatura continuò per un certo tempo ad esser svolta prevalentemente nel centro urbano, per poi disperdersi in tutto il territorio del Dogado) (50). Qui soprattutto interessa l'inevitabile ῾decentramento' delle fasi di produzione che abbisognavano d'acqua dolce e di energia idraulica (oltre che di manodopera): la lavatura della lana (sul Bottenigo e sulla Tergola, a Mestre), soprattutto la follatura, compiuta sotto la sorveglianza dei visdomini Lombardorum a Portogruaro (ovviamente favorita, contro Treviso, dal governo), e appunto a Treviso sul Sile, a Padova, alla Torre delle Bebbe. Per la costruzione di folloni, l'Arte della lana veneziana ebbe nel 1375 un cospicuo prestito di 33.300 ducati dalla Camera del frumento (51). Ma già nel primo Trecento, inevitabilmente, lo sviluppo del lanificio veneziano aveva accresciuto di una `voce' importante il già vasto contenzioso tra Venezia e il comune di Treviso. A latere di queste considerazioni, va osservato poi che Padova carrarese sviluppa la sua industria laniera proprio nella seconda metà del Trecento - quando più acuto è il suo contrasto politico con Venezia (52).
Sul piano della storia monetaria, l'evoluzione trecentesca non è meno significativa. Si realizza infatti la definitiva affermazione, nella regione fra l'Isonzo e l'Adige, del circolante veneziano. Un tornante per certi aspetti decisivo è stato individuato negli anni '30. Il doge Francesco Dandolo introduce infatti due nuove monete argentee, il mezzanino e il soldino, del valore di 16 e 12 denari (a sedecim parvis, a duodecim parvis). L'operazione ha successo, e porta ad un'affermazione della moneta veneziana a scapito di quella veronese. Già durante la dominazione di Cangrande I della Scala (1309-1329) la moneta veronese era stata svalutata; nei primi anni '30, i successori di Cangrande I, Mastino II ed Alberto II, si disinteressarono sostanzialmente della questione, per "incomprensione nei confronti dei fenomeni monetari" o per altri motivi, reagendo solo al momento della crisi politico-militare del 1336-1339 con l'emissione di un mediatino di (cattivo) argento. Nel 1349 poi le autorità veronesi compirono una scelta di politica monetaria ῾provinciale', rivalutando la propria moneta d'argento e mettendosi fuori del mercato monetario dell'entroterra padano. Fu una scelta che determinò conseguenze durature: da allora data infatti il distacco dell'unità di conto veronese da quella veneta (la lira veronese ebbe un valore superiore di un terzo rispetto a quella veneziana sino al Quattrocento ed oltre). Ciò che qui interessa, comunque, è il fatto che si creò una sub-regione monetaria, limitata al dominio scaligero (Verona e Vicenza) e distinta dal resto del Veneto: nel quale invece le monete coniate a Venezia dominarono incontrastate. La parabola della produzione monetaria veronese - un tempo corrente, è il caso di ricordarlo, dal Friuli allo spartiacque alpino, ma ora schiacciata a nord dai tirolini e dagli aquilini austriaci e ad est dalla moneta veneziana - era insomma giunta alla fine, rispecchiando l'azzeramento delle ambizioni politiche della dinastia veronese. Quanto a Padova, anche la sua moneta segue la ῾curva' delle fortune politiche della città e della sua signoria: riapertura della zecca all'inizio della dominazione carrarese, relativa espansione negli anni '50, guerra monetaria con Venezia nei decenni successivi (con coniazione anche aurea), non priva di successi. Ma anche senza le guerre di inizio Quattrocento, che portarono (1405) alla chiusura della zecca, le autorità monetarie veneziane "sarebbero riuscite ad aver ragione" di questa pericolosa concorrente, "troppo vicina e troppo attiva" (53).
Un cenno al ῾mercato' finanziario, infine, che già nel Duecento aveva attirato investimenti dalle città vicine, in misura non quantificabile ma certamente consistente. Non si spiegherebbe altrimenti come nel 1313, nell'intento di allettare la Repubblica veneta - ovviamente freddissima nei riguardi dell'imperatore - ad un'alleanza, i consiglieri di Enrico VII di Lussemburgo avessero preso in esame (realisticamente o meno, è un altro discorso) l'eventualità di proporre al governo ducale, oltre all'infeudazione dei diritti sul fiume Brenta e sulle terre dal Brenta in là, anche la confisca dei ῾tesori' che i cittadini padovani avevano a Venezia "tam in debitis quam in depositis" (54). Ma è proprio in questi primi decenni del Trecento che l'appeal esercitato dai ῾titoli' di debito pubblico veneziani presso gli investitori delle città dell'entroterra diviene un fatto strutturale, stabile, che prescinde in certa misura dagli episodi e dalle congiunture dei rapporti politici; e il governo veneziano ben comprende come lo stato di cose che si viene progressivamente a determinare possa giocare un ruolo importante anche dal punto di vista politico, fornendo alla Repubblica una potente arma di ricatto e di pressione diplomatica e portando alla contrapposizione, negli entourages di governo delle signorie e delle città dell'entroterra, fra interessi privati degli investitori (anche e soprattutto se si tratta di esponenti delle famiglie signorili) e interessi ῾collettivi' della città o dello stato. Nel corso del secolo, si consuma infatti nell'ambito delle istituzioni finanziarie veneziane la parabola della Camera del frumento, presso la quale investono non solo potenti signori feudali come un Guglielmo Castelbarco (appunto nel secondo decennio del secolo) (55), ma soprattutto - in prosieguo di tempo - membri illustri delle dinastie signorili padane (Luchino Visconti, Marsilio da Carrara, Ludovico Gonzaga, Cangrande II ed Antonio della Scala, Pandolfo II Malatesta) ed esponenti di rilievo dei ceti dirigenti padovano, veronese, trevigiano (alcuni nomi importanti sono rispettivamente quelli degli Scrovegni, dei Maffei, dei della Torre - si tratta del ramo veronese della grande casata lombardo-friulana -, di Oliviero Forzetta). Parecchi, dell'una e dell'altra categoria, erano del resto cives veneziani per privilegio. L'importanza finanziaria della Camera del frumento fu compromessa dalla crescita del debito durante la guerra di Chioggia; da allora in poi essa declinò come banco pubblico, e divennero via via più difficili e contrastate le restituzioni di capitali. Ma per un secolo aveva svolto un ruolo di indubbio rilievo nello stringere e nel complicare il rapporto fra gli interessi dei ceti dirigenti delle città dell'entroterra e quelli dello stato veneziano (56).
In conclusione, il complesso dei fattori economici, monetari e finanziari qui evocati (sulla base di numerosi studi recenti, che hanno innovato ed articolato le classiche ricostruzioni del Luzzatto, del Cessi e di altri studiosi della prima metà di questo secolo) costituisce uno sfondo imprescindibile, sul quale collocare - senza determinismi ma senza sottovalutazioni - i rapporti politico-diplomatici. È bene ribadire d'altronde che anche nel Quattrocento l'economia dello stato di Terraferma, a causa della perdurante impostazione municipalistica della politica economica veneziana, resterà ben lontana da quella fisionomia di ῾regione economica', nella cui formazione si è ritenuto di vedere la premessa indispensabile per la creazione dello stato regionale in Toscana (e mutatis mutandis anche in Lombardia) (57): ma indubbiamente il Trecento segna un progresso notevolissimo, pur se chiaroscurato e fortemente diversificato fra città e città, nella intensificazione delle relazioni economiche fra Venezia e l'entroterra (58).
alla pace di Venezia (1339)
Se i fattori strutturali dei rapporti fra Venezia e il ῾mondo' padano-veneto-friulano costituiscono un contesto di ineludibile importanza, resta però vero che nel breve e medio periodo le scelte politiche compiute da Venezia nei riguardi dell'entroterra sono governate dal vario incrociarsi e sovrapporsi, hic et nunc, delle necessità di tutelare la sicurezza delle vie di commercio, di difendere il monopolio del sale, di garantire la certezza del possesso fondiario e della percezione della rendita (per i patrizi, per i popolari proprietari di vigne e di poca terra sul margine della laguna, per gli enti ecclesiastici). Ed è soprattutto la geografia che influenza, in modo decisivo, queste scelte: se le relazioni con le autorità politiche assise su territori lontani continuano ad essere regolate dai patti, il livello dell'interesse veneziano si alza ogniqualvolta si manifestano interferenze nell'entroterra immediato, e la Repubblica imposta in più occasioni una politica aggressiva e d'attacco (contrariamente allo stereotipo storiografico - legato al ῾mito di Venezia'- secondo il quale nel corso della prima metà del Trecento, ma anche dopo, essa sarebbe sempre stata trascinata controvoglia all'intervento militare).
Sulla base delle constatazioni svolte nel paragrafo precedente, non sorprende che un filo conduttore della politica veneziana verso l'entroterra sia, all'inizio del secolo, l'antagonismo con il comune di Padova. La città era allora all'apice della sua prosperità e conduceva (o si apprestava a condurre) una robusta politica di espansione territoriale (verso il Polesine e, nella Marca, contro Verona) (59). Nel 1300 era giunta a scadenza l'alleanza decennale che Padova e Venezia avevano stipulato nel 1291(60), e risorsero immediate tutt'altro che nuove questioni di confine. Rientra in questo quadro l'iniziativa padovana del 1303 (61), volta a costruire saline ai confini con il territorio di Chioggia, in un'isola già appartenuta al monastero cittadino di S. Giustina, occupata con la forza già nel 1297 e concessa al comune dal compiacente nuovo abate di quell'ente, Gualpertino Mussato (62). Le parole che il cronista vicentino Ferreto Ferreti mette in bocca ai rappresentanti padovani in occasione delle trattative diplomatiche intercorse in quell'anno bene esprimono il sentimento di insofferenza per l'esercizio monopolistico della produzione del sale e dell'attività commerciale che animava i Padovani: "cur in finibus patrie nostre id fieri prohibetis quod vestrum non est? a quo rege vel principe hoc constat indultum? iudicate etiam merces venales aut forum nobis non esse", ma - si soggiunge - "nec terre velut mari imperabitis" (63). La crisi durò, peraltro, l'espace d'un matin. Dopo un primo tentativo di mediazione di Gherardo da Camino, signore di Treviso (aprile 1304), poi alleatosi con Venezia (64) (così come il patriarca d'Aquileia ed il marchese d'Este), si giunse ad un momento di più forte contrapposizione tra le parti, ma non vi furono iniziative militari significative, e seguirono presto trattative di pace (concluse il 5 ottobre 1304), con la mediazione dei signori di Verona, Mantova e Padova (Alboino della Scala, Guido Bonacolsi e Gherardo da Camino) (65). L'episodio è dunque in sé modesto, ma è tuttavia rivelatore di alcune costanti, destinate ad animare le relazioni politiche fra le tre principali città venete nel corso del Trecento (66). Per Padova, la destabilizzazione della situazione politico-territoriale nella fascia circumadriatica e il sovvertimento del monopolio veneziano del sale saranno infatti, nei periodi nei quali la città potrà sviluppare una sua iniziativa politica, uno degli obiettivi politici principali. La pressione padovana verso il Polesine, che caratterizza gli anni immediatamente successivi alla guerra, si inserisce nello stesso contesto (67); e, prima o poi, lo scontro con Venezia si sarebbe inevitabilmente prodotto. Un'altra indicazione interessante riguarda Verona scaligera, che anch'essa non aveva rinnovato il patto decennale con Venezia, scaduto nel 1302, e durante la crisi del 1304, dopo essersi proposta in un primo momento come mediatrice, appoggiò per qualche tempo, sia pure senza compromettersi più di tanto, le rivendicazioni padovane; ma successivamente si era nuovamente proposta come paciera.
In breve arco di tempo dunque un'oscillazione fra due esigenze diverse, ma ambedue significative. Da un lato sta, anche per la città dell'Adige, la potenziale insofferenza al monopolio veneziano del sale, non diversa da quella che animava l'altra città della Marca demograficamente e politicamente cospicua, cioè Padova; dall'altro, la robusta tradizione di buone relazioni politiche ed economiche con Venezia, basate su una convergenza di interessi commerciali e territoriali sostanzialmente ininterrotta sin dalla prima età comunale (il primo patto fra le due città è del 1107). I buoni rapporti con Venezia, in funzione antipadovana, furono un elemento importante nella strategia politica di Cangrande I della Scala nei decenni immediatamente successivi, durante le guerre per il predominio nella Marca del primo quarto del Trecento, contro quella Padova cui Venezia guardava con sospetto.
Se la ῾guerra del sale' è un incidente di percorso, il conflitto scoppiato nel 1308 con la Curia avignonese, a motivo della successione del marchese Azzo VIII d'Este, ha invece in ordine alla politica veneziana verso l'entroterra un significato di svolta, forse superiore alla stessa guerra contro gli Scaligeri del 1336-1339, che pure - costosa, relativamente lunga, diplomaticamente impegnativa - come si vedrà a suo luogo "ebbe portata e dimensioni ben diverse dalle precedenti imprese" (68). La guerra di Ferrara dimostra infatti che già nel 1308-1310, quando si tratti di difendere l'agibilità di una via di traffico indispensabile come quella del Po, e di tutelare gli interessi veneziani in un'area strategica come la Romagna, il governo veneziano non esita a prendere le armi e a porre in essere un'occupazione militare di una città dell'entroterra (69).
Le importanti e convincenti ricerche del Dean, basate su uno spoglio sistematico della documentazione pubblica veneziana, hanno in parte modificato (senza ribaltarla) l'interpretazione tradizionale, che collegava in modo diretto e quasi meccanico l'insignorimento estense in Ferrara (1240) e la crescente depressione economica della città, da allora strettamente soggetta all'egemonia veneziana (70) (nonché orientata alla terra piuttosto che alle attività economiche di trasformazione). Ad avviso dello studioso inglese, "the turning point in economic relations between Ferrara and Venice would be not the coup de grate of 1240 [...>, but much later, in the 1360s" (71). Ovviamente - oltre al fatto che gli interessi fondiari veneziani furono in quest'area precoci come in nessun'altra area esterna alla gronda lagunare - una certa subordinazione economica ferrarese si veniva già manifestando con la serie dei patti, che inizia nel sec. XII (72), in particolare per quanto riguarda il commercio del sale, i presidi armati e l'attività giurisdizionale del visdomino; e resta vero che nella seconda metà del Duecento gli Estensi avevano progressivamente orientato i loro interessi politici verso l'Emilia e la Romagna, acquisendo il controllo di Modena e Reggio e abbandonando di fatto lo scenario politico veneto (73): una scelta di fondo che lasciò certamente margini ampi di manovra alla politica veneziana. Tuttavia, l'attutire lo schematismo o il ritardare l'impatto della valutazione più largamente accettata, nonché la sottolineatura della intrinseca fragilità dell'apparato di polizia che (attraverso il castello di S. Alberto ed altri punti di guardia) doveva garantire per Venezia la sicurezza dei traffici sul Po, crea uno scenario nel quale meglio si inserisce la dura iniziativa politico-militare veneziana del 1308. I rapporti con Azzo VIII - che inizialmente aveva mostrato di non voler rispettare i patti stipulati con Venezia da Obizzo d'Este nel 1273 e poi rinnovati nel 1277 e 1290 (74) - erano stati infatti, specie nell'ultima parte del suo reggimento (durato dal 1293 al 1308), tutt'altro che cattivi (75), nonostante il governo veneziano avesse chiesto senza risultato al marchese una revisione dei patti fra le due città.
Le vicende della guerra - note sulla base della monografia del Soranzo, un solidissimo prodotto di una storiografia politica che è davvero riduttivo definire ῾erudita' (76) - meritano di essere ripercorse con una certa minuziosità, per sottolineare la ratio seguita dal governo veneziano: il quale, come dimostrano indizi significativi, si orientò precocemente e deliberatamente ad un progetto di occupazione della città (77). Dopo la morte di Azzo VIII (gennaio 1308), la Repubblica sostenne Fresco d'Este, figlio illegittimo del defunto (78), contro Francesco che fu inizialmente sostenuto dal comune di Padova. Dopo mesi di schermaglie diplomatiche, nel luglio 1308 il governo veneziano prese senz'altro provvedimenti finanziari (un prestito dell'1 %) e militari "super facto Ferrarie", e richiese al marchese (ed egli li concesse nonostante una grave rivolta popolare) pesanti privilegi, che di per sé precostituivano la conquista territoriale (d'altronde - la circostanza va sottolineata - già preannunciata in un'ambasciata del novembre 1307, vivo ancora Azzo VIII (79)). Di fronte all'azione dei nunzi pontifici giunti a rivendicare la sovranità della Chiesa sulla città e a mobilitare le città ῾guelfe' (Bologna, Ravenna, Padova), il governo veneto - dando esecuzione, nel settembre 1308, ad un piano "ardito e forse da più mesi preparato" - chiese formalmente a Fresco di cedere alla Repubblica il dominio su Ferrara. Il 1 o ottobre infatti il marchese "donavit et sponte tradidit [...> ut a modo in perpetuum dominus dux et commune Venetiarum sint gubernatores et generales domini cum mero et mixto imperio", nonostante la parziale occupazione della città da parte dell'esercito guidato dai nunzi pontifici e la conseguente guerra urbana. Significative dell'ottimismo che regnava a Venezia, che sentiva di avere la vittoria in pugno, sono le espressioni usate nella corrispondenza diplomatica col comune di Padova: "[Veneti> sunt in statu de habendo residuum civitatis". Il legato papale, recatosi a Venezia per una estrema mediazione, fu accolto a sassate. Ne seguì la scomunica del 25 ottobre 1308, ma a fine novembre la resistenza fu vinta e la città - che è ora una "piccola Venezia", secondo la definizione di un cronista contemporaneo - fu assoggettata. Le condizioni che Giovanni Soranzo, comandante dell'esercito e primo podestà, e poi il governo veneto dettano in questa occasione sono a loro volta interessanti, perché limitate al controllo di alcuni aspetti dell'apparato comunale (il podestà deve essere veneziano), di alcuni punti strategici (il castel Tedaldo, due forti sul Po), e perché concilianti con i Ferraresi cui sono condonati i debiti e garantita libertà e sicurezza in Venezia.
La guerra riprese poi nell'aprile 1309: prendendo spunto dal malcontento della popolazione di Ferrara, papa Clemente V inviò come legato Arnaldo di Pelagrua, che bandì il verbum Crucis contro Venezia, ottenendo il sostegno delle città emiliane e romagnole, e di Padova soprattutto. La scomunica ebbe effetto, oltre che sui commerci, anche sulla composizione dell'esercito veneziano, che giocoforza fu costituito ora quasi solo di cittadini: una ripercussione questa sgraditissima alla popolazione urbana (e di questo non ci si dimenticò in successive occasioni, puntando in modo quasi esclusivo - come nel 1336-1339 - sul mercenariato). Dal punto di vista militare, fu importante il fallimento della sortita dei Veneziani - costretti nel castel Tedaldo - volta a riattivare le comunicazioni per via d'acqua tra Ferrara e la laguna (agosto 1309). Immediatamente dopo fu distrutto, da parte dei Ravennati e dei Bolognesi, il castello di Marcamò, posto a controllo del Po; all'impraticabilità del fiume, conseguente a questo evento non meno che alla scomunica papale, la Repubblica reagì alleandosi con gli Scaligeri di Verona, che si impegnarono nel marzo 1310 ad aprire un nuovo canale fra Adige e Po che avrebbe permesso alle navi veneziane - passando per il ramo di Ficarolo - di evitare il ramo del fiume che bagnava il Ferrarese (80). Alla incipiente rivolta dell'Istria si era tentato, inoltre, di rimediare preventivamente mobilitando contro il patriarca l'alleato Rizzardo da Camino signore di Treviso, che entrò in Udine nel novembre 1309 (81), senza che questo impedisse la ribellione di Zara, che si protrasse sino a tutto il 1312. Ma nonostante l'appoggio delle due signorie venete, la città si trovò isolata. Padova esercitò il consueto potere d'interdizione sul deflusso delle rendite agrarie a Venezia, e anche Mantova, Como, Brescia, Milano e Genova, il re Roberto d'Angiò presero spunto dall'interdetto per aprire più o meno lunghi contenziosi. Particolarmente animose furono Ravenna e Cervia, per il commercio delle quali l'embargo pontificio schiudeva rosee prospettive. Le trattative per la composizione della vertenza, presto iniziate, durarono per tutto il 1310 e per buona parte del 1311, intrecciandosi con le questioni poste dalla spedizione italiana di Enrico VII, per concludersi definitivamente non prima del febbraio 1313, con la completa vittoria del papato che vide riaffermati i suoi diritti su Ferrara. Fu sancito l'obbligo, per i Veneziani, di servirsi dello scalo ferrarese per il commercio sul Po, e il conseguente abbandono della nuova via d'acqua artificiale aperta nel territorio veronese.
L'andamento della guerra, e le clausole della pace, ebbero per Venezia conseguenze rilevanti anche sul piano interno, con l'imposizione di pesanti prestiti e, per il pagamento dei 100.000 fiorini di risarcimento, col rifacimento dell'estimo. Del resto sin dal giugno 1310 le difficoltà politiche nelle quali si trovava la città avevano determinato gravi contraccolpi. La congiura Tiepolo-Querini (giugno 1310) (82) mise a nudo i limiti della coesione del ceto dirigente veneziano e rivelò la consistenza e la capacità condizionante delle relazioni politiche e degli interessi fondiari che non poche famiglie patrizie avevano nel territorio ferrarese e in quello padovano (83), anche se come si è accennato è forse eccessivo parlare di un ῾partito', di una lobby che avrebbe orientato la politica estera veneziana.
Al di là del completo insuccesso patito, la guerra di Ferrara insegna - fra le altre cose - che in nessun'altra congiuntura, nello sviluppo delle relazioni politico-militari fra Venezia e il suo entroterra nel Trecento, la Repubblica e il suo ceto dirigente mostrarono la tenace determinazione alla conquista e all'occupazione esibita nel 1308-1310. Viene provata la centralità dei rapporti con la Romagna e con il Po. L'atteggiamento che si ebbe qualche decennio più tardi verso Treviso - e in generale verso la minaccia scaligera - fu nei primi anni '30 assai più a lungo cauto ed attendista, prima di rompere gli indugi e di assumere iniziative militari. Anche per quanto riguarda i rapporti tra Venezia e la curia pontificia la guerra di Ferrara fu uno spartiacque, una ferita significativa: non a caso si sentì, nei decenni successivi, il bisogno di rifarsi una verginità filopapale, ed ha questo significato l'invenzione della leggenda di Alessandro III celebrata in versi da Castellano da Bassano nei due libri sulla Venetiana pax inter Ecclesiam et imperatorem (e un secolo più tardi effigiata da Pisanello in palazzo Ducale).
Dopo la conclusione della ῾guerra del sale' con Padova (1305), i rapporti fra Venezia e Verona scaligera erano rientrati nell'alveo tradizionale delle buone relazioni, cui già si è fatto cenno, fra le due principali città mercantili dell'Italia nord-orientale. Nel 1306 era stato stipulato un nuovo trattato (rinnovato nel 1317, quando anzi Cangrande I si era impegnato a organizzare il trasporto via terra delle merci veneziane e del sale verso Bergamo); durante la guerra di Ferrara, dopo una prima fase di ostilità Cangrande I si era prestato al progetto veneziano di aggirare, grazie allo scavo del nuovo canale Adige-laguna, il blocco del Po. Ma più significativo è osservare che, per quasi tutto il lungo periodo (1313-1329) delle guerre di Cangrande I contro Padova e Treviso, Venezia mantenne la tradizionale posizione di neutralità, di arbitro in potenza - e qualche volta in atto. Il governo ducale mediò ad esempio in occasione degli attacchi padovani contro Vicenza scaligera nel 1314 (anche se invano il signore veronese richiese che la Repubblica obbligasse Padova a pagare, nel 1317, la prevista penale). Le cose non cambiarono nel decennio 1320-1329. Cangrande I, del resto, non mancò di usare prudenza rispetto agli interessi veneziani: conquistando Feltre nel 1321, ebbe cura di salvaguardare la sicurezza dei commerci per la via di Alemagna, e nello stesso anno rimborsò i danni patiti nel Trevigiano dai proprietari veneziani. Nonostante qualche screzio doganale (1325) (84), questi buoni rapporti furono sanciti dalla concessione a Cangrande I della cittadinanza veneziana, il 29 marzo 1329 - già dopo, si badi, la conquista scaligera di Padova. I domini controllati dal vicario imperiale veronese già si estendono sino ai bordi della laguna, ma il governo veneziano non fa una piega, non dà affatto la percezione di sentirsi minacciato da un dominio che comprendeva l'intera Marca trevigiana, dal Cadore alla Livenza al lago di Garda, e controllava la porzione veneta dei due principali itinerari commerciali verso la Germania (85).
Nel secondo e terzo decennio del secolo, Venezia aveva mantenuto del resto un atteggiamento di cautela e di attesa anche nei confronti della intermittente presenza non solo nel territorio del patriarcato di Aquileia, ma anche nel cuore della Marca, a Treviso e a Padova, di principi alpini: una presenza che era un contraccolpo delle guerre fra Cangrande I e Padova e Treviso. Enrico II conte di Gorizia capitano del Friuli (e sposato ad una Caminese) era stato vicario a Treviso per Federico d'Asburgo re dei Romani (in lotta con Ludovico il Bavaro per la corona imperiale); era intervenuto ripetutamente nel territorio veneto anche Enrico di Carinzia-Tirolo, ex re di Boemia, che governava quel Tirolo ove confluivano, al Brennero e al Resia, gli itinerari dell'Adige e della strada di Alemagna attraverso la Pusteria, e controllava il passo di Monte Croce Carnico (86). Della disponibilità di questi itinerari - in un momento nel quale l'insicurezza della via del Po era all'ordine del giorno - il governo veneto (che già con Mainardo II conte di Tirolo, nella seconda metà del Duecento, aveva stretto precisi accordi) aveva bisogno. Accortamente, ad ogni buon conto, Venezia aveva evitato di prendere atto in modo formale del ruolo istituzionali di vicari regi che i principi citati svolgevano nelle città venete: la corrispondenza diplomatica veneziana non ha mai come destinatari Enrico di Carinzia-Tirolo o i suoi rappresentanti, ma sempre i comuni di Treviso e Padova (87).
A quest'epoca, Venezia appare' invece già fortemente interessata al, e certo coinvolta in modo non meno significativo nel, complicato puzzle politico-territoriale dell'area patriarchino-friulana, sul margine settentrionale della laguna. Qui nel corso del Duecento si erano affermati diversi nuovi porti - punti di snodo fra il commercio terrestre e quello marittimo - in concorrenza con lo (e a danno dello) scalo tradizionale, Aquileia: Monfalcone, Portogruaro, Marano, soprattutto Latisana, per la quale il governo veneziano manifestò un particolare interesse, giungendo a progettare assieme ai conti di Gorizia che ne erano signori lo scavo di un canale volto a rendere più rapidi i collegamenti con la laguna veneta (1315-1317). Nel complesso, tuttavia, in questi primi decenni del secolo i problemi in questo settore restano limitati. Venezia continuò qui a perseguire la politica tradizionale di "tenersi aperte tutte le strade", in modo da potersi servire in modo alternativo di questo o quel porto (88). La crisi del potere patriarcale, eroso dagli avvocati (i conti di Gorizia), e l'affermazione dei centri urbani dell'entroterra erano già in corso: tuttavia le conseguenze ultime di questi fenomeni si sarebbero viste solo nella seconda metà del secolo, quando l'evoluzione della situazione friulana avrebbe assorbito da parte di Venezia - proprio per la estrema complessità determinata dal grande frazionamento politico, dalla molteplicità delle forze in gioco, dall'ampiezza degli scenari coinvolti (ungherese, austro-tedesco, adriatico) - moltissime energie.
Nel complesso, alla fine del terzo decennio del Trecento la situazione politico-diplomatica nell'entroterra veneziano appare dunque delicata e complessa, ma sostanzialmente controllabile in via diplomatica, caratterizzata com'era dalla presenza di una pluralità di soggetti politici ed istituzionali nessuno dei quali (a partire da Cangrande I) aveva interesse a modificare lo statu quo. Ovviamente un fatto nuovo, di grande rilevanza, destinato a modificare in modo sostanziale e in tempi abbastanza stretti i rapporti fra Venezia e il suo entroterra, fu la conquista scaligera di Treviso, cui seguì immediatamente la morte di Cangrande I (22 luglio 1329), al quale successero i nipoti Mastino II ed Alberto II.
Nei rapporti fra Venezia e Verona, gli anni immediatamente successivi - mentre gli eserciti scaligeri erano impegnati in Emilia e Lombardia nella guerra contro re Giovanni di Boemia - furono segnati da uno stillicidio di contrasti (89) gestiti localmente per i signori veronesi da due autorevoli personalità come Pietro dal Verme (90) e Bailardino Nogarola (podestà rispettivamente di Treviso e Padova, e prototipi del ῾politico' trecentesco legato ai regimi signorili, esperto d'armi, d'amministrazione e di diplomazia). Si trattava tuttavia di problemi non diversi né più gravi da quelli pacificamente mediati nei decenni precedenti, e a questo proposito val la pena di svolgere qui una riflessione di carattere generale che almeno in parte si riverbera sulla complessiva interpretazione della guerra del 1336-1339. A torto, infatti, la storiografia venezianistica ha visto una linea costantemente provocatoria nella politica degli Scaligeri ("questa fatua potenza corrosa da sentimenti ed interessi antinomici", per dirla col Cessi (91)) degli anni 1330-1334; ed ha costantemente avuto una visione poco problematica (e tutto sommato poco realistica) dello ῾stato' scaligero, non tenendo conto in modo adeguato della estrema complessità della costellazione politica soggetta a Mastino II ed Alberto II, considerata un dominio territoriale unitario e compatto mentre in realtà era costituita di città "che conservavano sufficiente autonomia per difendere da sé la loro economia contro Venezia e le sue pretese [e la> sua situazione privilegiata" (92). La portata della motivazione che tradizionalmente si avanza, secondo la quale Venezia avrebbe teso ad "impedire il predominio di un'unica autorità su tutte le terre che circondavano la laguna" (93), va dunque in qualche misura attenuata. Non v'era nulla di ferreo né di decisivamente strategico - né poteva esserci - nel dominio scaligero su Padova e su Treviso, che pur rappresentava - con la ricostituita unità politica della Marca - una novità importante, e che doveva essere osservato, da Venezia, con preoccupata attenzione.
Un significativo, ma non ancora irreversibile, peggioramento delle relazioni diplomatiche fra gli Scaligeri e Venezia si ebbe nel giugno 1335, col nuovo tentativo veronese di imporre uno sbarramento doganale ad Ostiglia (forse ponendo una catena nel fiume (94)), connesso con il contemporaneo consolidamento del dominio scaligero sul Po grazie all'acquisto di Parma e Brescello e alle contemporanee modificazioni nel regime politico di Reggio (soggetta dal luglio 1335 ai Gonzaga), Modena, Cremona, Piacenza. Si modificava così radicalmente, in termini generali, il quadro politico del controllo dell'intera strata Padi, e Venezia intervenne immediatamente con durezza, "assumendo un atteggiamento intransigente che rifiutava ogni discussione" (95). Contemporaneamente all'ambasciata inviata a Verona nel settembre 1335 (96), fu infatti deliberata la sospensione delle forniture di sale, con ovvie ripercussioni anche sugli stati vicini (Mantova e Ferrara). Solo dopo diversi mesi (nel gennaio 1336) Mastino II inviò la legazione destinata a discutere le diverse questioni sul tappeto (oltre a quella di Ostiglia, le decime riscosse sui beni veneziani nel territorio padovano, i problemi legati ai castelli trevigiani di Motta, di Livenza e di Camino). È da rilevare comunque che nell'aprile 1336 Si giunse vicinissimi ad un accordo, perché gli Scaligeri cedettero sul punto essenziale del ripristino dello statu quo ad Ostiglia, e il doge si dichiarò disposto a riprendere la fornitura del sale alle città soggette agli Scaligeri. Rimanevano alcune questioni di procedura; ma proprio nelle risposte venete alle tentate mediazioni di Marsilio da Carrara e Azzone Visconti e in due successive delibere del 14 maggio 1336 si riscontra un nuovo e duro atteggiamento, "una ferma decisione veneta di ottenere una piena vittoria". Fu immediatamente dopo queste prese di posizione che si ebbe da parte scaligera l'inizio della costruzione del castello delle Saline, sul confine fra il territorio padovano e la laguna (nel luogo che era già stato teatro del tentativo del comune di Padova nel 1303-1304): negli ambienti veronesi si ritenne probabilmente di aver troppo ceduto nelle trattative del mese precedente, e l'inizio dei lavori va interpretato come uno scatto d'orgoglio, questa sì una inutile provocazione (97). Da parte veneziana ne seguì invece immediatamente (nel giro di appena venti giorni (98)) la decisione - prima, si badi, che le trattative diplomatiche con gli Scaligeri fossero giunte ad un punto di non ritorno - di concludere il 21 giugno 1336 con Firenze (ostile a Mastino II della Scala per la mancata cessione di Lucca, promessa nel 1335) l'alleanza le cui trattative erano già iniziate, e di dar principio subito dopo alle operazioni militari (luglio 1336). "Appena decisa la rottura, Venezia preparò una guerra offensiva terrestre che era in contrasto con tutte le sue tradizioni militari, con le sue stesse possibilità e con le ragioni che la spingevano alla guerra, cioè il Castello delle Saline, che poteva essere bloccato e inutilizzato, nella sua pretesa finalità di produzione del sale, con mezzi più modesti e meno pericolosi" (99).
Questa minuta ricostruzione delle premesse della guerra è stata effettuata - attraverso una puntuale analisi, attenta alla cronologia, della documentazione diplomatica soprattutto veneziana - dal Simeoni, autore di un ampio, esemplare studio (100) ed editore della principale fonte narrativa dedicata a questo episodio, la cronaca (cui si accompagna un poema in esametri, interrotto per la morte del doge Francesco Dandolo cui era dedicato) scritta fra il febbraio e l'ottobre 1339 dal notaio della cancelleria veneziana Jacopo Piacentino (101) Ne abbiamo dato conto analiticamente perché a nostro avviso le conclusioni del Simeoni non sono state adeguatamente metabolizzate dalla storiografia (102), che si è mantenuta eccessivamente fedele ad una prospettiva ῾venezianocentrica' ed ha continuato ad adeguarsi alla tesi tradizionale della provocazione scaligera, e di Venezia tirata per i capelli nella guerra ("novit Deus quam inviti trahimur ad opem belli", fa dire Jacopo Piacentino al Dandolo), anche se in qualche occasione il Cessi ha pur fatto riferimento alla decisa iniziativa antiscaligera della Repubblica lagunare (103). In realtà, non solo l'alleanza veneto-fiorentina non si intende bene se non si tiene conto, contestualmente, della complicata situazione toscana, ove Firenze contrastava le aspirazioni scaligere e desiderava fortemente l'alleanza con Venezia; ma anche considerando solo lo scenario locale, a ben vedere un atteggiamento aggressivo ed attivo da parte di Venezia, quando vengono conquistate Padova e Treviso, e soprattutto nel momento in cui viene toccato lo statu quo di privilegio veneziano sulla strata Padi, è coerente con la politica veneziana così come si era concretizzata nei decenni precedenti. Come già nel caso della guerra di Ferrara, una deliberata opzione per la guerra non era insomma estranea alla filosofia di governo veneziana, anche se il patriziato veneto si divise (e la cosa non stupisce) sulla prospettiva della guerra terrestre (fra gli ostili, o perplessi, c'era anche il doge Dandolo).
Del resto, la cronaca di Jacopo Piacentino va letta tenendo conto del momento preciso in cui essa fu scritta, nell'arco di pochi mesi nell'estate 1339, e degli obiettivi che il governo veneziano aveva in quel momento. Il testo ha da un lato lo scopo di difendere il punto di vista veneziano di fronte alle recriminazioni del comune di Firenze, il quale - oltre a contestare l'ammontare delle spese di guerra (104) - accusava duramente Venezia - con un risentimento profondo, che emerge con chiarezza dalla cronaca del Villani - di non aver tenuto fede ai patti che prevedevano l'acquisto di Lucca(105); e dall'altro di "riaffermare la vecchia politica pacifica ed astensionista" nei confronti dell'entroterra, in un momento in cui, con l'acquisizione del dominio su Treviso, aveva conseguito un importante obiettivo (106).
In tale quadro torna utile sostenere che la Repubblica era stata "trascinata a forza alla guerra dalle provocazioni e dagli errori dei due giovani signori della Scala", secondo una linea interpretativa che come si è detto è poi stata accettata in modo indiscusso dalla tradizione storiografica non solo locale (107).
Una svolta importante nella guerra, combattuta inizialmente nel Trevigiano e nel Padovano, si ebbe nella primavera 1337, quando Milano viscontea e Mantova gonzaghesca (ambedue molestate dall'aggressività di Mastino II) oltre a Ferrara estense si allearono alle due repubbliche in una seconda lega, stretta a Venezia (l0 marzo 1337) e mirante ora alla distruzione del dominio scaligero.
In verità, il progettato attacco contro Verona fallì; ma proprio questo fallimento indusse Venezia al passo decisivo della trattativa e dell'alleanza (14 luglio 1337) (108) con Marsilio da Carrara, sino ad allora plenipotenziario scaligero, al quale fu offerta la signoria di Padova. La ῾liberazione' della città (3 agosto 1337) decise di fatto la guerra, che pure continuò stancamente per tutto il 1338, sostenuta esclusivamente per la lega dai mercenari ingaggiati da Venezia e Firenze. Mastino II perse anche il dominio di Feltre e Belluno, oltre che di Brescia, ma si accordò con Venezia per cederle il dominio su Treviso; la pace fu stipulata a Venezia il 24 gennaio 1339. Ovviamente Venezia, liberatasi dalla pressione scaligera, non aveva alcun interesse a che lo stato scaligero si indebolisse vieppiù, ciò che sarebbe stato utile solo ai Visconti. Mastino II poté pertanto conservare il dominio di Vicenza (109).
Con l'acquisito ῾protettorato' su Padova e col dominio su Treviso, Venezia risolse dunque brillantemente i problemi di sicurezza: ma su questo si ritornerà nel paragrafo seguente. È utile invece richiamare alcuni aspetti significativi delle relazioni instaurate da Venezia con i diversi soggetti istituzionali attivi durante la guerra. Va rilevata intanto l'abilità con la quale il governo veneziano si mosse in un quadro molto complesso, caratterizzato dalla presenza di ancor robuste dinastie signorili e di borghi semiurbani non privi di velleità d'autonomia.
Coi Caminesi, che "de conscientia et licentia dominationis Venetorum" conquistarono all'inizio della guerra Camino ed Oderzo, Venezia aveva intrecciato strette relazioni da molto tempo: ma anche l'ovvio opportunismo dell'aristocrazia signorile padovana (Guglielmo Camposampiero), trevigiana (i Collalto, gli Onigo, i Sinisforti, ecc.) e vicentina (gli Arzignano, i da Vivaro), stirpi ancora forti nei propri castelli e pronte a giocare un proprio ruolo, fu gestito con abilità. Fra i centri minori, è noto e rilevante poi il rapporto con Conegliano, che si assoggetta una prima volta a Venezia sin dal marzo-aprile 1337 (110).
Sul piano interno, inoltre, la guerra produsse effetti significativi sulla finanza pubblica, perché determinò un primo consistente, pur se temporaneo, abbassamento delle quotazioni dei titoli del debito pubblico (fino all'85%), e l'adozione ripetuta di pratiche di storno di entrate e di contrazione di debiti fluttuanti (111).
Ma soprattutto, più in generale, questo episodio segna per Venezia una prima esperienza di superamento della politica ῾regionale' per una politica ῾nazionale', e in questo senso la sua importanza può difficilmente essere sottovalutata; così come essa segnò una svolta importante (anche al di là dello specifico veneziano) sotto il profilo dell'organizzazione militare (112).
Non sembrano avere invece un peso eccessivo i risvolti ῾ideologici' del crescente coinvolgimento di Venezia nelle vicende italiane, portati alla ribalta dalla guerra scaligera. Pur se non irrilevanti, sono infatti del tutto occasionali, nella documentazione pubblica veneziana degli anni 1337-1339, gli echi dell'adesione di Venezia agli ideali del guelfismo tramontante. Recependo la prima dedizione del comune di Conegliano, il governo veneziano dichiara di combattere "pro destruenda et exterminanda tirannica pravitate ipsorum de la Scala et pro danda libertate et franchitate terris et gentibus oppressis per eos", espressioni che vanno certamente ricollegate all'esultanza di tutti i guelfi italiani per la liberazione di Padova dagli Scaligeri (1337). Ma anche se nel 1339 il senato veneto rinnovò la proibizione per i patrizi veneti di coprire podesterie in città a regime tirannico, queste affermazioni di propaganda (113) - come riconobbe Tabacco che ne sottolineò l'interesse - sono poi contraddette dagli sviluppi immediatamente successivi (in Treviso e nel Trevigiano assoggettati a Venezia così come in Padova, sotto il larvato regime signorile dei primi anni post 1337) (114). Com'è ovvio, "libertà dei popoli" ed "onore della Chiesa" sono del resto parole che corrono facilmente sulla penna dei Veneziani quando c'è, nei fatti, da difendere l'interesse della città: così accadde nel 1384, quando si affettò zelo per la franchisia et libertas di Sacile ed Udine minacciate dal Carrarese (115).
tra pace in terra e guerre sul mare (1339-1370 circa)
I rapporti fra Venezia e il suo entroterra nel trentennio successivo alla pace di Venezia devono essere valutati sullo sfondo delle vicende mediterranee. Fra gli anni '40 e '50, si ebbe la guerra con Genova; in Dalmazia, fu necessario fronteggiare l'espansionismo ungherese e reprimere le ripetute ribellioni di Zara; più tardi, negli anni '60, la rivolta di Creta e quella di Trieste comportarono un ulteriore sforzo finanziario e militare. Ciò spiega almeno in parte perché le relazioni con città ed aggregazioni politiche dell'entroterra ῾lombardo' (Verona e Vicenza scaligere incluse) sono segnate molto più da una continuità che si muove su binari consolidati, che non da scarti o innovazioni; così come una sostanziale tranquillità caratterizza i rapporti con le città romagnole, con Treviso (dal 1339 soggetta a Venezia) e per un certo tempo con Padova carrarese.
In questo contesto i patti commerciali con le città lombarde mantengono un rilievo notevole: ne è esempio l'andamento delle relazioni della Repubblica lagunare con Milano e Mantova, caratterizzato dopo le asperità del primo Trecento dall'assenza di contenziosi gravi. Con la metropoli lombarda (che alimentò per tutto il Trecento, in Venezia, una cospicua colonia di mercanti) i rapporti furono come si è accennato assai difficili fra il 1302 (quando fu denunciato il trattato stipulato nel 1299) e il 1317; gli ostacoli alla via de Lombardia furono anzi fra i motivi che indussero il senato a promuovere, nel 1313, l'apertura dell'itinerario marittimo per le Fiandre, destinato a costituire una stabile alternativa alla via del Po anche se non poteva in alcun modo sostituirla (116). Appunto nel 1317 fu stipulato un nuovo patto, e da allora in poi le relazioni fra le due città furono migliori, portando alla concessione ad Azzone Visconti della cittadinanza, all'investimento da parte del signore milanese nel debito pubblico veneziano, al rinnovo (complessivamente più favorevole a Milano) del patto commerciale nel 1349 (117). Un successivo rinnovo si ebbe nel 1359. Nei decenni successivi, la convergenza fra interessi privati (leggi lo smercio di cereali sul mercato veneziano) e ragione politico-commerciale fa sì che Galeazzo II, Bernabò e poi Giangaleazzo mantengano a lungo buone relazioni con la Repubblica (118). Durante la guerra di Chioggia le industrie d'armi milanesi sostennero Venezia con cospicue forniture, e la corte viscontea vendette alla Repubblica ingenti quantitativi di cereali (119). Anche con Mantova -dopo un decennio di ostilità iniziato al tempo della guerra di Ferrara (cui l'esercito mantovano partecipò) e durato sino al 1317-1318 (quando Mantova modifica le tariffe doganali e Venezia proibisce l'importazione di merci mantovane sotto pena del 25% e vieta l'esportazione del sale di Cervia) -, i patti commerciali mantennero il loro pieno vigore. Ciò anche perché sotto i nuovi domini al potere dal 1328, i Gonzaga (interessati anch'essi ad esitare i propri cercali sul mercato veneziano, e ad investire in titoli di stato (120)), la città si svincolò da quella stretta simbiosi politica con gli Scaligeri che ne aveva contraddistinto la politica a partire dall'ultimo quarto del Duecento (121) Nella seconda metà del secolo è attestata anche la presenza di mercanti di panni mantovani a Venezia (122).
Riguardo a Milano, va aggiunta poi una ulteriore considerazione, suggerita dalla constatazione delle ripercussioni limitate che la formazione di una dominazione territoriale pluricittadina ad opera della dinastia viscontea ebbe sui rapporti con Venezia. Non è da credere infatti che la perdita di sovranità abbia ripercussioni meccaniche ed immediate sulla capacità di un comune cittadino di stringere accordi economicamente impegnativi: l'inserimento delle città lombarde nella costellazione milanese non ne inibisce necessariamente, in altre parole, la capacità di stipulare patti commerciali con Venezia. Così nel 1317, rinnovando gli accordi con Milano, la Repubblica di Venezia ne tiene fuori Como, importante partner commerciale, con la quale stipula un accordo separato un decennio più tardi (tanto per quanto riguarda i panni di lana quanto per il sale (123)). In verità, in quel momento Como non era ancora formalmente soggetta a Milano; ma nel 1339 Brescia, già assoggettata ai Visconti, rinnova autonomamente il proprio patto con Venezia (124), e nei medesimi giorni fanno lo stesso Bergamo, ancora Como, Lodi (125) e Cremona (126). Ovviamente, poi, anche i maggiorenti delle città soggette, come un Alberto Suardi di Bergamo nel 1349 (127), possono ottenere la cittadinanza veneziana. Tali considerazioni portano qui a ribadire quanto per incidens accennato nel paragrafo precedente a proposito dei della Scala. Occorre cautela e duttilità nell'analisi di un problema fondamentale per la storia dei rapporti fra Venezia e l'entroterra nel Trecento: quando si afferma che la Repubblica sente come una minaccia l'affermarsi, nella pianura padano-veneta, di stati signorili estesi (non più di città stato tra di loro ostili, facilmente condizionatili sul piano economico), si dice una lapalissiana verità; è ovvio che uno stato retto da un tiranno potesse avere più facilmente "guida ferma e costante", capace di perseguire in modo conseguente obiettivi politici e territoriali. Ma non per questo si deve fare ipso facto credito al dominio visconteo (o a quello scaligero, o più tardi a quello carrarese) di una monoliticità e di una compattezza che non avevano, e che le ricerche più recenti smentiscono (128). Qui è sufficiente osservare che, nella politica veneziana, il patto commerciale manterrà tanto più facilmente importanza, quanto maggiore è la distanza geografica da Venezia, e quanto più - di conseguenza - non sono applicabili gli altri più convincenti strumenti che la Repubblica può adottare per difendere i propri interessi e mantenere sicuri i traffici, vale a dire la guerra (per le zone circumlagunari) o l'embargo economico.
Osservazioni del tutto parallele possono essere fatte per la signoria scaligera, con la quale i rapporti sono dal 1339 al 1387 (cioè sino alla caduta degli Scaligeri) prevalentemente tranquilli. Il consolato veneziano a Verona è regolarmente officiato ('29). Mastino II ed Alberto II, insigniti subito dopo la pace di Venezia della cittadinanza, ingaggiano ripetutamente podestà veneziani; Cangrande II (1351-1359) investe per sé e per i propri figli illegittimi centinaia di migliaia di, ducati in titoli del debito pubblico veneziano, come altri maggiorenti veronesi; infine Cansignorio (1359-1375) rinnova nel 1367 e 1369 un trattato di estradizione (130) e mantiene, durante le guerre mosse a Venezia da Padova carrarese negli anni '70, un atteggiamento oscillante e sempre molto cauto, ma sostanzialmente benevolo verso la città lagunare, consentendo tra l'altro il reclutamento e il passo di mercenari (131). Basta del resto scorrere i Commemoriali per avere, dalla scarsità stessa dei dati, un ottimo argumentum ex silentio a favore di un tran-tran sostanzialmente privo di grossi problemi.
La Lombardia viscontea e il dominio scaligero sono caratterizzati da una sostanziale egemonia urbana: è con i poteri cittadini che Venezia ha a che fare. Una sfaccettatura alquanto diversa, che comporta l'esercizio di una funzione politicamente attiva, va individuata invece nello sviluppo del rapporto che Venezia aveva inaugurato durante la guerra veneto-scaligera con le comunità della riviera gardesana occidentale: un caso marginale, ma tutt'altro che privo di interesse. Questi centri rivieraschi, non privi di articolazione sociale e di vitalità economica, chiesero nel 1336 (in funzione antiveronese ed antibresciana) di potere "de terris lige rectorem eligere" (132). Le acque del Garda non erano ignote ai Veneziani e ai Chioggiotti, già fra Due e Trecento, così come non lo erano la Valcamonica e i passi delle Prealpi bresciane (133), Per un dodicennio, sino al 1349, patrizi veneti ressero quelle comunità; il primo fu Marco Dandolo (134), Fu un'esperienza di governo di una realtà policentrica, che non dovette forse sembrare ai patrizi veneti troppo dissimile da quella del capitaneus riperie Marchie, da tempo esistente sulla riva dell'Adriatico. Anche in questo modo, insomma, si affina la familiarità dei patrizi veneziani con la complessa e variegata realtà politico-istituzionale padana. Questa sorta di protettorato (135), o di rapporto preferenziale, anticipa inoltre nella sostanza quelle più formalizzate relazioni di ῾raccomandazione' che la Repubblica veneta strinse poi, nel corso del Trecento e soprattutto agli inizi del Quattrocento, con altre istituzioni comunitarie e soprattutto con famiglie signorili dell'area italiana nord-orientale, insediate in territori a debole o assente egemonia urbana (nel Trentino meridionale, per esempio) (136).
Tutti questi sviluppi vanno inscritti, più in generale, nel complessivo riordinamento del sistema di accordi commerciali cui il governo veneto mise mano, prestando attenzione "più che per l'innanzi [alle> vie di comunicazione dell'alta Italia, verso la Francia, la Germania e le Fiandre". Importante è, al riguardo, il patto con Ludovico di Savoia, barone del Vaud, del 1338 (a guerra con gli Scaligeri non ancora formalmente chiusa, quindi), accompagnato da quelli con il signore di Arles di poco precedente, che consente alle merci veneziane di giungere in Francia e Fiandra evitando del tutto la Lombardia: un'alternativa in più di cui disporre per ogni eventualità, secondo un collaudato modus operandi (137). Anche con il Tirolo - nonostante le complesse vicende susseguite alla morte (1335) di Enrico di Carinzia-Tirolo, e al rapido avvicendamento nel governo della regione tra i Lussemburgo e i Wittelsbach determinato dai due matrimoni di Margherita Maultasch - le relazioni si mantennero sino agli anni '60 lineari (138). Scenari diversi si sarebbero preparati negli anni successivi, con l'avvicendamento al governo del Tirolo degli Asburgo (1363) (139). Ma sul complicarsi delle relazioni fra la città lagunare e i poteri alpini si avrà modo di tornare nel paragrafo seguente.
Nei rapporti tra Venezia e Ferrara, dopo che la pace del 1313 aveva sancito il mantenimento dello statu quo, tutti i problemi restavano aperti. Gli anni '20-'30 e seguenti videro frequenti contrasti (sino al progetto, forse non messo in pratica, di un embargo) con gli Este a causa delle inevitabili e frequentissime infrazioni al monopolio veneziano: Ferrara importava sale da Cervia, vino ed olio da Ravenna e da Rimini, e lo riesportava in Lombardia. Del resto, argomentava il governo estense, i privilegi veneziani riguardavano solo la città e il comune di Ferrara, non le terre governate dai marchesi sulla base di altri diritti (Adria, il Polesine, Comacchio, Argenta) (140). Un tentativo convinto di porre rimedio a questi problemi fu compiuto da Venezia negli anni '60, con l'intensificazione delle misure di polizia, il ripristino del capitaniato del Po, l'introduzione di un controllo dei traffici mediante bollette e l'uso, come deterrente politico, dell'embargo (141). La carica di console veneziano a Ferrara, spesso affidata peraltro a patrizi giovani all'inizio del cursus honorum, mantenne una importanza notevole. Le relazioni economiche fra le due città, d'altronde, non cessarono di intensificarsi lungo tutto il Trecento: la proprietà fondiaria veneziana crebbe (e non solo per i feudi vescovili, né solo in vecchie roccaforti come Papozze o Massafiscaglia, ma anche per nuove concessioni dei marchesi o per vendite di altre istituzioni o famiglie) (142), così come non mancò presso il ceto dirigente ferrarese (gli Estensi stessi, i Roberti) l'investimento in titoli veneziani (143).
È avvertita nella storiografia l'esigenza di una sintesi che assimili in un nuovo quadro d'insieme il rapporto fra Venezia e le città romagnole nel Trecento nel contesto del ῾problema adriatico', senza disconoscere ovviamente i meriti di un Cessi o di un Soranzo (144) (o, a livello di singole città, di eruditi della stessa o di precedenti generazioni: si pensi ai ravennati Pasolini o Torre). Raccogliamo qui alcuni spunti in questa direzione dalle numerose, recenti storie municipali: è questa la dimensione che prevale, infatti, nei decenni centrali del secolo, nella crescente incapacità del potere pontificio di intervenire efficacemente (145). A partire dagli anni '20-'30, è stato osservato dal Vasina, "Ravenna non rappresenta più un serio ostacolo per Venezia, che può così riprendere in condizioni più favorevoli la sua penetrazione capillare nella regione". L'ambasciata dantesca a Venezia è in qualche modo emblematica di un rapporto, che d'ora in poi sarà sempre qui squilibrato a favore della città lagunare. Lo schema dei rapporti è ovviamente analogo a quello vigente nelle relazioni con Ferrara. Un ruolo centrale ha il visdomino veneziano; l'obbligo di importare il sale di Chioggia (o di Pago, o di Pola) e l'impossibilità di usufruire di quello cerviese fotografa emblematicamente la situazione, sancita dai duri accordi commerciali del 1328 e del 1336. Accusando il governo ravennate di non reprimere il contrabbando, il governo veneziano poteva inoltre evitare di pagare i previsti rimborsi al comune di Ravenna (146). Non appariscente, ma significativa in modo crescente, è poi l'estensione dell'influenza veneziana dalle città costiere (Ravenna appunto, Rimini) a sud del delta del Po, verso l'entroterra delle ῾signorie di Romagna', per distribuire il sale e per controllare gli itinerari stradali provenienti dall'Appennino, arginando così la possibile espansione di Bologna e più tardi dei Visconti. È stata di recente segnalata, per esempio, la necessità di un approfondimento dei rapporti fra Venezia e Faenza (147), mentre con la più lontana Imola le relazioni commerciali appaiono scarse (148). Con Forlì vengono stretti nel 1321 patti anche in funzione antibolognese e antiravennate; nei decenni successivi, esponenti degli Ordelaffi stanno in esilio a Venezia, e Cecco Ordelaffi militerà più tardi agli ordini di Venezia (149).
Nel complesso, l'azione del cardinale Albornoz nella seconda metà degli anni '50 - se ripristinò dal punto di vista giuridico la dipendenza dei signori romagnoli dalla curia pontificia - non modificò sostanzialmente gli assetti di potere nella regione. Conseguenze più durature ebbe invece la pressione viscontea: Guido di Bernardino da Polenta signore di Ravenna, che contro i Visconti aveva guidato le truppe pontificie a S. Ruffillo (nel 1361), svolse la sua coerente opposizione all'espansionismo lombardo in direzione di un definitivo accostamento a Venezia. Fu "un momento veramente traumatico e determinante nella vicenda del suo potere signorile e nella sorte dei Ravennati", tale da orientare anche i suoi successori alla scelta filoveneziana (150): nel 1406, in significativa coincidenza con l'espansione territoriale veneziana nella Marca, Obizzo da Polenta si impegnò, in caso di estinzione della dinastia, a cedere il dominio su Ravenna alla Repubblica, chiedendo nel contempo l'invio di un podestà veneziano che avesse maggiore autorità del visdomino (151).
Venezia si trovò parzialmente implicata nelle rese dei conti interne al ceto dirigente signorile padovano, dopo la ῾liberazione' di Padova dalla ῾tirannide' scaligera e l'affermazione della signoria carrarese con Marsilio (1337-1338) e Ubertino da Carrara (1338-1345): Vitaliano Dente, che aveva tentato di uccidere Ubertino, fu bandito dalla città lagunare (152). Nel complesso, tuttavia, la situazione maturata dopo la guerra era più che soddisfacente per la Repubblica, che otteneva dai Padovani quanto voleva "non minus quam si esset civitas Padue nostra propria comunis Veneciarum" (153). L'iniziale patto stipulato con Marsilio da Carrara nel luglio 1337, poi rinnovato nel 1338 con Ubertino, forniva di per sé garanzie fiscali per i cittadini e i proprietari veneziani. Ma soprattutto un indiretto controllo sulla situazione locale fu reso possibile dalla ininterrotta serie di podesterie del comune di Padova esercitate per un ventennio da patrizi non di rado prestigiosi (fra i primi, Marino Falier, specialista in podesterie delle città venete). Si fece eccezione pertanto alla legge, appena rinnovata, che proibiva di collaborare con regimi tirannici, con la motivazione che "potest dici quod [il reggimento di Padova> est nostrum factum proprium", è una cosa nostra. Anche con Marsilietto Papafava, subentrato nel 1345 ad Ubertino e ucciso dopo un mese, il governo veneziano si era immediatamente, dopo la sua elezione a signore, impegnato a tenere Padova "in sua protectione et defensione contra quamlibet personam"; e Giacomo II, che lo assassinò e resse la città nel quinquennio successivo, rispettò a sua volta la sostanza dei patti vigenti (154). Come riferisce Raffaino Caresini, a tali pacta antiqua, come ad uno strumento ancora efficace al quale tornare dopo una parentesi di ostilità, ci si rifece anche in occasione della pace del 1373 che concluse la ῾guerra dei confini', la prima condotta da Francesco il Vecchio da Carrara contro la Repubblica.
Primarie famiglie veneziane già godevano, in questi anni, di solide posizioni signorili nel territorio padovano, come i Foscari, che avevano avuto nel 1331, da re Giovanni di Boemia, una larga investitura per Noventa e Zelarino (155). Si stringevano vieppiù, con patrizi e con popolari veneziani, quelle relazioni - anche con l'ambiente signorile carrarese che in un clima politico diverso alimenteranno quegli intrighi, congiure, sospetti, processi indiziari (del consiglio dei dieci) destinati a precedere e ad accompagnare la crisi dei rapporti fra Padova e Venezia negli anni '60 e '70 (156).
Bastò però che un dominus dal grande carisma come Francesco il Vecchio desse nuovo impulso alle ambizioni politiche di Padova, galvanizzando tutte le energie della società urbana (157), e compisse - subito all'inizio del suo reggimento - scelte che colpivano il cuore del divide et vende veneziano, come quella di appoggiare nel 1356 l'attacco contro Venezia del re d'Ungheria, perché i rapporti fra le due città prendessero la piega di duratura e per certi aspetti irreversibile ostilità, che caratterizzò tutta la seconda metà del Trecento.
Gli spunti offerti da un relativamente recente saggio programmatico (158) per una ricerca sistematica sul quarantennio della prima dominazione veneziana a Treviso non sono stati sinora raccolti in modo adeguato.
Le fonti documentarie, notevolissime per qualità e quantità (a Treviso soprattutto, ma anche a Venezia), consentirebbero un approfondimento molto significativo: per quanto avessero confidenza con istituzioni cittadine e rurali di talune zone dell'entroterra (ma specialmente in Istria e Dalmazia), e proprio a partire dagli anni '40 patrizi veneti reggessero Padova o le comunità gardesane, per la prima volta i Veneziani si trovarono ad amministrare in prima persona una città di lunga se non solida tradizione comunale e un distretto di una certa consistenza.
Va detto, peraltro, che uno studio su Treviso sotto la prima dominazione veneziana dovrebbe accuratamente evitare l'uso del concetto di ῾sperimentazione', nel senso di consapevole apprendistato nel governo di un distretto cittadino svolto dal ceto di governo veneziano in Treviso trecentesca, suggerendo implicitamente che tecniche e pratiche fossero poi utili per il governo di Vicenza, Padova, Verona, ecc. (anche se - è ovvio - indubbiamente l'esperienza delle cose dell'entroterra divenne per non pochi patrizi più frequente). Vanno infatti subito ribadite almeno due peculiarità del ῾caso' trevigiano, alla prima delle quali si è già accennato nel paragrafo 3 di questo capitolo: peculiarità nitidamente percepibili, che costringerebbero quanto meno ad una estrema cautela nella comparazione.
La prima è costituita dalla profondissima, e crescente nel Trecento, integrazione esistente fra l'economia trevigiana e l'economia veneziana (159). La porzione più popolosa del territorio trevigiano (l'area pianeggiante circumlagunare, soggetta direttamente al comune cittadino) era infatti la zona d'elezione dell'investimento fondiario veneziano (non solo dei patrizi, è bene precisare, ma anche dei popolari) (160); e l'energia idraulica dei fiumi di risorgiva (Sile, Dese, Melma, ecc.) costituiva una risorsa irrinunciabile per l'annona, per la manifattura tessile e l'industria del legname della città lagunare. La stessa presenza fisica degli abitanti di Venezia in Treviso è nel pieno Trecento, in tempo di pace, fittissima: le fonti fiscali relative al vino, per esempio, mostrano che tutto il variopinto popolo minuto veneziano - coi suoi mille mestieri marinari andava su e giù per il Sile e per il Terraglio con le sue botticelle di vino e con le sue scorte di cereali, `conosceva' e praticava questi luoghi (161).
Le numerose recenti ricerche locali dedicate a comunità del territorio trevigiano, pur se incentrate in genere sull'età moderna, lasciano intravedere spunti significativi in direzione di una stretta ed antica consuetudine per le località della bassa pianura (Quinto, Marcon, ovviamente Mestre) (162), sottolineando in particolare l'importanza dei mulini, mentre per converso emerge la quasi totale estraneità del ῾mondo' veneziano dalle località dell'alta pianura e della collina trevigiana. Altre ricerche ribadiscono che, per risorse assolutamente strategiche nell'ottica veneziana come il legname, i rapporti con alcune comunità montane e il controllo anche dell'alto e medio corso dei fiumi per la fluitazione (specialmente Piave e Sile) erano altrettanto fondamentali del rapporto con la bassa pianura. I fiumi dunque, oltre ovviamente alle strade, come vettori di una penetrazione economica che, lontano dalle sponde della laguna, è fortemente selettiva, circoscritta ai bisogni della città di mare.
L'altro dato di fatto di basilare importanza è la condizione di notevole debolezza politico-istituzionale nella quale il comune di Treviso era giunto all'appuntamento del 1339 (163). Esso aveva sostanzialmente fallito nella `missione storica' che ogni città comunale ha di fronte a sé nei secoli XII-XIV, cioè il disciplinamento e l'organizzazione del proprio territorio; un fallimento determinato da vari fattori, fra i quali ha rilievo anche la presenza nel territorio trevigiano di ῾quasi-città' di cospicua consistenza demografica ed economica, ricche di robuste tradizioni istituzionali (Conegliano prima di tutte, ma anche Asolo, ed ovviamente Cèneda - con l'ulteriore complicazione della discrasia fra territorialità civile ed ecclesiastica) (164).
Già il fatto che la dedizione effettiva di Treviso alla sua nuova dominante non sia formalizzata che nel 1344, ben cinque anni dopo l'effettiva conquista, è significativo dello stato comatoso in cui versavano le istituzioni locali (va qui ricordato, per inciso, che solo dopo la guerra con l'Ungheria che mise a repentaglio il possesso di Treviso [1356> Venezia tentò di ottenere da Carlo IV una legittimazione del suo dominio sulla città). L'élite dirigente trevigiana era poi disarticolata, incerta, divisa al proprio interno, ancora fortemente radicata ai propri castelli, segnata da una mentalità profondamente ῾signorile'; mai aveva fatto (e il discorso non riguarda solo le grandi dinastie signorili come i Collalto o i da Camino) una franca e irreversibile scelta a favore della città, e aveva insomma caratteristiche quasi ῾friulane'. Di questa debolezza, del resto, i cittadini trevigiani erano pienamente consapevoli: "si populus Tarvisii esset valens", si dicono l'un l'altro alcuni notai fantasticando la velleitaria congiura del 1356 (quando in occasione della guerra veneto-ungherese, sopra citata, si progettò di dare la città al conte Schinella V Collalto), "bonum esset quod aufferemus istam civitatem de manibus Venetorum et ponere ipsam ad populum"; ma soggiungono con mesto realismo "nos sumus debiles homines", siamo dei poveracci e degli inetti (165). Proprio il malessere e il disagio manifestato in questa occasione dal ceto notarile - ovunque, nell'Italia due-trecentesca, vestale della `tradizione' comunale - è prova inequivocabile della crisi della città.
Nei decenni successivi, del resto, anche gli organismi collegiali del comune trevigiano appaiono in agonia, e il senato (è sempre lui a deliberare de rebus tarvisinis) interviene a suo piacimento nelle modalità di reclutamento degli amministratori locali. Non a caso il cancelliere del comune di Treviso, Andrea Redusio (tutt'altro che ostile a Venezia), può annotare come una novità nella sua cronaca, alla data 1381 - al momento dell'assoggettamento della città a Leopoldo III d'Asburgo -, che "in ea [stil. civitate> magistratus ordinantur tam in foro quam in curia Antianorum secundum ritus antiquos, longo iam tempore destitutos" (166); e non molto dopo il ritorno di Treviso alla soggezione a Venezia (1388) consigli e rappresentanze furono aboliti sic et simpliciter, con un tratto di penna (167).
In questa situazione, il governo veneto poté prendere sin dagli inizi della dominazione su Treviso una serie di provvedimenti estremamente incisivi (che nulla ebbero di quella cautela che ispirerà le mosse veneziane ai primi del Quattrocento al momento dell'acquisizione del dominio su città come Vicenza, Verona, Brescia, la stessa Padova). Che la podesteria cittadina - con la quale gli organismi di governo della Dominante mantengono una intensa corrispondenza - sia retta da patrizi assai in vista fra quelli ῾in carriera', è facilmente prevedibile trattandosi, nella seconda metà del Trecento, della città e del territorio più popolosi ed estesi fra quelli soggetti a Venezia (tre dogi - Falier, Dolfin e Celsi - erano stati rettori di Treviso una o più volte). Ma ciò che più conta è che sin dal 1339 le podesterie di tutti i principali castelli del distretto (Conegliano - che si era autonomamente dèdita a Venezia nel 1337 e poi di nuovo nel marzo 1339, anche se una parte del suo ceto dirigente avrebbe voluto essere aggregata al Friuli (168) -, Asolo, Castelfranco, Mestre, Serravalle, Portobuffolé ed Oderzo; più tardi si aggiunsero Noale e Motta di Livenza) sono conferite a patrizi veneziani e sostanzialmente rese autonome dalla città dal punto di vista giurisdizionale, e in parte anche fiscale (169). Assai gradito al ceto dirigente della Dominante dovette essere questo cospicuo ῾pacchetto' di cariche pubbliche disponibili nell'entroterra immediato (in aggiunta a quelle assai più lontane, scomode e politicamente gravose dell'Istria e della Dalmazia), anche se non si trattava verosimilmente di incarichi troppo remunerativi (170). Sempre sotto il profilo istituzionale, sin dall'approvazione degli statuti comunali vigenti (marzo 1339) il governo ducale affermò il principio che le ducali relative a Treviso e al suo territorio avessero vim statuti, con preferenza sugli statuti locali in caso di contrasto; nel corso del Trecento si predisposero organiche raccolte di tali documenti, conservate assieme al testo degli statuti, e anche questa è una prassi assolutamente inusitata nella ῾politica statutaria' adottata dal governo veneziano, nei decenni successivi, in città come Vicenza, Verona e Padova (171). Nel merito, sin dai primissimi anni '40 si intervenne in modo incisivo e selettivo soprattutto sulla materia civile; l'orientamento complessivo andò in direzione di un superamento, attraverso le forme equitative ed arbitrali preferite dalla giustizia veneziana, dei formalismi del diritto locale. Non a caso si puntò su settori che i rapporti economici fra le due città (e la crescente pressione degli investimenti fondiari veneziani nel Trevigiano) rendevano ῾strategici', come gli acquisti di beni e le loro modalità di registrazione in cancellaria (1375), oppure i testamenti.
Sul piano militare e fiscale, la pressione sugli uomini e sui loro patrimoni fu notevole: I cittadini trevigiani furono mobilitati come ausiliari già in occasione della guerra contro Genova (nel 1349-1350) (172). Non si hanno per ora dati quantitativi, ma certo la pressione fiscale non fu lieve: dopo il salasso dei primi anni, quando c'erano da recuperare le spese di conquista (173), si perseguì l'obiettivo non solo di rendere autosufficiente il reggimento trevigiano, ma di procurare un qualche avanzo alle casse del comune di Venezia. Sui dazi si intervenne ripetutamente (andando peraltro incontro all'inevitabile contraddizione tra una più facile importazione in laguna dei beni e la tendenziale caduta degli introiti derivanti dagli appalti trevigiani); negli anni '60 (174) e '70 si intervenne anche sulla fiscalità diretta. Sin dal 1344 furono poi deliberati, e a quanto sembra regolarmente eseguiti, censimenti annonari per i cereali e per il vino, con conseguenti incameramenti delle scorte sovrabbondanti le quote di consumo standard (175): anche di altri prodotti della terra si favorì il deflusso verso il mercato veneziano, e la stessa impostazione municipalisticamente difensiva rivelano taluni provvedimenti nel settore tessile. La prospettiva nella quale leggere questi rapporti e questi provvedimenti sembra nel complesso piuttosto quella di una ῾conquista del contado', analoga per taluni aspetti alle politiche poste in essere dai comuni cittadini italiani dei secoli XII-XIII.
Anche in altri settori l'intervento veneziano fu immediato e incisivo. Con gli enti ecclesiastici non si andò per il sottile, se già nel 1338 furono sequestrati i beni dei monasteri di S. Bona di Vidor, di S. Andrea in Bosco e di S. Maria in Monte di Conegliano, accusati di aver danneggiato il fisco (176). Anche se non sembra che vi sia stata una ῾corsa' all'occupazione di benefici ecclesiastici (177), la presenza veneziana nelle istituzioni ecclesiastiche locali si fece, nel tempo, sentire in modo crescente: ma su questo si avrà occasione di ritornare (178). Del resto, fu il clero trevigiano ad eleggere vescovo nel 1359 - dopo un fallito tentativo nel 1357, quando la cattedra trevigiana fu data a Pileo da Prata - un ecclesiastico come Pietro da Baone, cittadino e canonico trevigiano e attento al mondo locale (179) che aveva fatto la sua carriera ecclesiastica a Venezia, e che da Venezia amministrò la sua diocesi, durante i "tempora felicissima dominii et dominationis illustris Venetiarum", per esprimersi con le sue parole (180). Anche il mondo ecclesiastico trevigiano dunque gravita inevitabilmente verso Venezia.
Ma più che le istituzioni cittadine, il fisco, le istituzioni ecclesiastiche, una novità interessante e un dato problematico, per l'attività di governo veneziana, è costituito dai rapporti con il complicato mondo della signoria rurale trevigiana, le cui radici e pratiche sociali (si pensi alle tracce di sopravvivenza delle dipendenze personali: masnade e rapporti servili) erano diffuse in tutto il territorio, non solo nelle roccaforti dell'area del Piave e della Livenza e nell'area montana. L'erosione di questo ῾mondo' signorile fu lenta, lungo il Trecento. La crisi di qualche famiglia, come quella dei Tempesta, fu ben gestita da Venezia, che come si è accennato nel 1360 trasformò il castello di Noale - del resto assai vicino alla laguna - in una nuova podesteria officiata da un veneziano (181); taluni aristocratici trevigiani trovarono soddisfazione nella carriera militare, specialmente nella seconda metà del secolo (un Pilio Onigo che si distinse a Trieste nel 1369 (182), Rizzolino Azzoni, Guecellone da Fossalta (183), Giacomo Rover (184)). La minore nobiltà rurale invece talvolta si estinse o si inurbò senza lasciar tracce. Ma in altri casi, la pianta della grande signoria di castello era piuttosto robusta. Sostanzialmente estranei al mondo urbano (anche se è a loro, alla famiglia comitale, che guardano i congiurati antiveneziani del 1356), in particolare i Collalto - che pur sono patrizi veneti sin dal 1306 - giocano un ruolo autonomo ed attivo, con proprie strategie, lungo tutto il Trecento (il secolo che segna, a partire dal privilegio imperiale del 1312, comportante il merum et mixtum imperium, il definitivo consolidamento della loro signoria). Così Schinella V nel 1356 è - contro Venezia - alleato al re d'Ungheria e ai da Carrara (185), salvo concedere negli anni '70 i propri castelli alla Repubblica (186).
Ripercussioni ancor più rilevanti hanno le relazioni di Venezia con i da Camino ῾di sotto', in buoni rapporti con la Serenissima sin dalla fine del Duecento (quando avevano ceduto alla Repubblica la signoria su Motta di Livenza). A seguito della morte di Rizzardo Novello da Camino e dell'estinzione del ramo dei Caminesi ῾di sopra', una durissima controversia con costoro fu innescata dall'investitura, che i procuratori di S. Marco avevano ricevuto e immediatamente inserito nei libri pactorum (ottobre 1337) dal vescovo di Cèneda Francesco Ramponi per le località di Serravalle, Cordignano, Valmareno ed altri cinque castelli (187). La battaglia legale, senza esclusione di colpi, portò infine alla transazione del 1343 ed alla spartizione (Serravalle e ville vicine furono rette da un podestà veneziano; ai da Camino spettarono Cordignano ed altre giurisdizioni, fra le quali la Valmareno). Quest'ultima, con la gastaldia di Solighetto fu poi retta da Marino Falier tra il 1349 e il 1355 (188), quando fu affidata - dopo il fallimento della congiura - ad un podestà patrizio (189). Cordignano fu poi acquisita da Venezia negli anni '80 (190). Anche Gherardo da Camino, nei difficili anni '70 ed '80, fu un alleato tutt'altro che sicuro (191), nonostante avesse sposato una veneziana, figlia di Pantaleone Barbo. Rispetto a queste famiglie, Venezia sperimenta dunque, in questi decenni, tanto l'ostilità più aspra quanto l'alleanza: un'alleanza che deve però sempre essere necessariamente rinegoziata. Nel progredire del tempo, si va gradualmente verso un modus vivendi più assestato, se i Collalto compaiono esplicitamente come adherentes di Venezia nei capitolati della pace di Torino (1381). In conclusione, fu forse dal rapporto quotidiano, mai così durevolmente e da vicino sperimentato come ora, con questa realtà signorile così complessa - analoga a quella del vicino Friuli - che il ceto di governo veneziano trasse dal contesto trevigiano i frutti più significativi in termini di consuetudine e di esperienza di governo.
nella seconda metà del Trecento
A partire dal primo attacco di re Ludovico d'Ungheria contro il territorio trevigiano (1356) e sino agli anni della guerra di Chioggia, le questioni relative all'arco settentrionale adriatico e al suo entroterra assumono per Venezia un rilievo crescente, mancando quegli elementi di stabilità che l'egemonia urbana (cittadina, o sovracittadina) in certa misura assicurava all'area lombarda, romagnola e veneta. Prima di soffermarsi rapidamente sugli episodi salienti, occorre passare in rassegna i principali protagonisti di questa partita estremamente complessa, accennando ai loro rapporti pregressi con Venezia: le diverse presenze istituzionali e politiche dell'area patriarcale (la chiesa, l'aristocrazia, le città), le potenze alpine ed orientali (i conti di Gorizia, gli Asburgo, il regno d'Ungheria), la signoria carrarese.
Il principato ecclesiastico aquileiese (192) non era mai stato un ῾principato feudale' rigidamente strutturato, sul modello di talune entità istituzionali transalpine, neppure nei decenni fra XII e XIII secolo che rappresentano certamente un momento di maturità e in certo senso di equilibrio della sua parabola istituzionale. Il potere patriarcale conservava infatti una forte base patrimoniale; le famiglie aristocratiche, "non portatrici di signorie locali", ma "tutte insediate su tutto il territorio, costituivano un ceto non facilmente inquadrabile nella burocrazia principesca"; al loro sostanziale predominio mancava quasi del tutto un contrappeso cittadino/comunitario (193). Il tardo Duecento ed il Trecento portarono ad un declino crescente dell'autorità patriarcale (indebolita, ma non sostituita dall'autorità della famiglia titolare della carica avvocaziale, ed erosa in Istria dal consolidamento del potere veneziano, e a nord dagli Asburgo), ad un sempre più labile inquadramento della disordinata vitalità delle famiglie aristocratiche (nonostante le istituzioni parlamentari) e ad una crescita del particolarismo dei centri urbani. In quest'area priva di un potere egemonico, la presenza di poteri territoriali esterni variamente interessati e variamente titolati ad intervenire si fa via via più evidente (194), in particolare dopo la fine del patriarcato di Bertrando da S. Ginesio (1334-1350). I patriarchi che si susseguono nella seconda metà del secolo sono, quale più quale meno, tutti ostili a Venezia e legati (o subalterni) ai suoi nemici, da Nicolò di Lussemburgo (1350-1358) a Ludovico della Torre (1359-1365) a Marquardo di Randeck (1365-1381) a Filippo d'Alençon (1381-1389) a Giovanni di Moravia (1389-1395) (195), sino al reggimento di tregua di Giovanni Caetani (1395-1402) e infine a quello del filoveneziano Antonio Panciera di Portogruaro (1402-1409). Un segno assai eloquente della crescente consapevolezza che si ha a Venezia della necessità di entrare in mediar friulanas res è data proprio dalla ripetuta (nel 1363 e nel 1365 (196), e poi ancora, più volte, nei decenni successivi in diverso contesto politico) segnalazione ad Avignone di un proprio candidato per la sede patriarcale.
Del resto, la proverbiale inaffidabilità e turbolenza delle famiglie signorili friulane - che hanno in molti casi, specie quelle del Friuli occidentale, relazioni tanto nelle città venete (specie Treviso e Padova) quanto nell'area carinziana - erano ben note alle cancellerie italiane della seconda metà del Trecento: "pessime observant conventionem et foedera colligationis", afferma una lettera di Antonio della Scala al senato veneziano nel 1386, con un giudizio che va al di là del caso specifico (197); e anche i Veneziani sanno bene che "illi de Patria comuniter vel in magna parte sunt suspicionibus pieni et capiunt persepe umbram de rebus de quibus capere non deberent" (198). Prive di un punto di riferimento in Aquileia, incerte sulle prospettive di prestigio che offre un inserimento (comunque non facile) in Udine, non sempre economicamente solide (199), queste famiglie sono sensibili all'attrazione di ambienti signorili prestigiosi come quello di Padova carrarese, che coltiva attentamente queste relazioni. Il governo veneziano è ovviamente estremamente prudente, per non dire renitente a legarsi a singole casate, o a concedere privilegi (di cittadinanza o altro). Le eccezioni sono costituite, oltre che dai Savorgnan, dagli Spilimbergo, che restano favorevoli a Venezia anche nelle difficili congiunture degli anni ' 70 (200). L'una e l'altra casata (ma prima gli Spilimbergo) sono ascritte, nel 1383 e 1385, al patriziato veneziano (201).
La crescita dei centri urbani pedemontani - Udine soprattutto, ma anche Venzone, Gemona, Sacile, S. Daniele -, nonché il rilievo ancor notevole di Cividale (pur in fase calante, e favorevole ai conti di Gorizia in opposizione a Udine filoveneziana) (202), e ancora il ruolo economico e politico di Trieste (203), crearono nell'area friulana ulteriori complicazioni. Nella prima metà del secolo, l'atteggiamento veneziano era stato estremamente prudente, bene attento a non farsi coinvolgere in questioni locali: quando nel 1333 il comune di Portogruaro chiese di assoggettarsi a Venezia, il doge rifiutò (204), con una scelta diametralmente opposta a quella che era stata fatta per le città costiere istriane (la conquista di Pola è degli stessi anni). Nella seconda metà del secolo, la politica delle ῾mani nette' non fu però più possibile per Venezia, e per tutelare gli obiettivi tradizionali di sicurezza degli itinerari stradali fu necessario di quando in quando prendere posizione. Esemplifica bene, dunque, i problemi posti a Venezia dalla situazione friulana il rapporto con Udine. La vita politica interna del comune, così come risulta dalle fonti cittadine della seconda metà del Trecento, ha un'articolazione e dialettica (di ῾partiti' connessi con le formazioni sociali e con le domus aristocratiche) che in altri centri urbani dell'entroterra di risalenti tradizioni comunali è alla stessa altezza cronologica del tutto impensabile (valga l'esempio di Treviso): tale articolazione pose ad esempio a Venezia l'alternativa fra la fazione filo ed antisavorgnana.
Andò drasticamente calando, nella seconda metà del Trecento, l'influenza dei conti di Gorizia, la dinastia avvocaziale aquileiese, contro la quale Venezia aveva lottato con successo, nel Duecento, per il controllo delle città costiere istriane (205). Nel Duecento, prima della divisione del 1271 fra il ramo tirolese e quello goriziano, l'influenza della famiglia si estendeva dalle sorgenti dell'Adige all'Istria, attraverso le contee di Pusteria e di Lurn, sino alle alpi friulane e al Carso. Mentre il ramo tirolese conosceva brillantissime affermazioni con Mainardo II, il grande state-maker ed ῾inventore' del Tirolo, il ramo goriziano sostanzialmente decadde; la crisi appare già evidente nel quarto-quinto decennio del secolo XIV (206). Durante la vacanza della sede patriarcale che portò all'elezione di Nicolò di Lussemburgo (1350), ad esempio, gli avvocati di Aquileia non riuscirono ad esercitare la reggenza in qualità di capitani del Friuli come era loro specifica prerogativa (207). Nella seconda metà del secolo, una serie di accordi matrimoniali, politici e finanziari portarono Mainardo VII e poi i suoi figli (posti sotto la tutela del vescovo di Gurk) alla mercé degli Asburgo. Riuscirono a sfuggire a questa soggezione appoggiandosi a Sigismondo, re d'Ungheria, ai primi del Quattrocento; ma nel 1424 la loro parabola si concluderà con un accordo di vassallaggio e di ῾raccomandazione' che li assoggetta alla nuova potenza territoriale veneziana per le terre a loro infeudate dal patriarcato (208).
Un ben maggiore rilievo nella storia politica dell'arco alpino orientale nel Trecento - ma anche nei diretti rapporti con Venezia, per la quale essi furono peraltro, per lungo tempo, "vicini scomodi, ma non avversari irriducibili" (209) - assunsero invece gli Asburgo, grazie all'opera di Alberto II e del suo primo figlio Rodolfo IV (cui più tardi si affiancarono, e successero, i fratelli Leopoldo III ed Alberto III). Dopo essersi assicurato il controllo della Carinzia alla morte del duca Enrico (1336) - circostanza nella prospettiva dei rapporti con Venezia già di per sé rilevante, perché poneva tutti i domini asburgici a diretto contatto con il Friuli patriarchino -, Alberto II manifestò grande interesse per il controllo dell'itinerario stradale di Gemona-Venzone (1350), ciò che non poteva non preoccupare il governo veneziano. Tuttavia la Repubblica mantenne un atteggiamento assai benevolo nei confronti del duca Rodolfo durante il durissimo contrasto che egli ebbe con il patriarca Ludovico della Torre (1361): in quell'anno, anzi, il duca fu accolto a Venezia con grandi onori. Il doge Lorenzo Celsi diede poi indiretto appoggio ad iniziative militari anticarraresi ed antipatriarchine di Rodolfo IV (1363) (210). Il governo veneto prese atto inoltre dell'acquisizione da parte degli Asburgo del controllo del Tirolo (1363), a seguito del matrimonio di Margherita d'Asburgo con Mainardo III di Tirolo (il figlio di Ludovico V di Wittelsbach e di Margherita Maultasch di Tirolo-Gorizia): controllo che attraverso la Pusteria, Lienz e Spittal (un itinerario importante anche per il commercio veneziano), assicurava il collegamento tra i domini asburgici originari e la Carinzia (impossibile o assai contrastato più a nord, attraverso le valli dell'Inn e della Salzach controllate dai Wittelsbach).
La presenza asburgica sul versante meridionale delle Alpi - che secondo il Paschini (autore non immune da qualche venatura ῾nazionalistica' nella sua ricostruzione, sempre importante sul piano éoénementiel, della storia friulana (211)) Venezia non avrebbe visto di buon occhio - lascia in realtà per una lunga spanna cronologica sostanzialmente indifferente, di per sé, il governo veneziano. Ad esempio, il controllo asburgico di Pordenone - ove i Veneziani erano ben presenti, se ante 1366 una famiglia mercantile veneziana (i Boninsegna) possiede il castello in pegno (in tale data Marquardo di Randeck lo riscatta per 12.500 fiorini) (212) - è rispettato. I rapporti Asburgo-Venezia divennero più difficili quando la dinastia austriaca progredì in Carniola e giunse infine all'Adriatico, in Istria (Pisino) e a Duino (1366). La flotta e l'esercito veneto assediarono Trieste, che si mise sotto la protezione dei duchi, ma fu conquistata (1369); gli Asburgo ottennero l'anno successivo un risarcimento di 75.000 fiorini. Da parte della dinastia austriaca seguì, nel decennio successivo, un crescente impegno in Italia - con rapporti alterni, ma tendenzialmente ostili, con Venezia: sviluppi che videro a protagonista soprattutto Leopoldo III, al quale spettarono poi, nella divisione del 1379 col fratello Alberto III, le terre alpine. La politica asburgica era destinata d'altronde per altri versi a coinvolgere, in modo indiretto ma non meno significativo, la situazione politica friulana e dunque ad intrecciarsi con gli interessi veneziani in un gioco assai complesso. La nobiltà carinziana - in particolare la potente famiglia degli Ortenburg, ma anche gli Auffenstein - condusse spesso una propria autonoma politica, in funzione antiasburgica, e intervenne frequentemente nelle questioni locali collegandosi anche con la famiglia istriana dei conti di Cilli (che sullo scorcio del Trecento presenzierà, con suoi rappresentanti, alle riunioni del parlamento friulano) (213).
Ma anche il pur crescente ruolo degli Asburgo è largamente inferiore, nell'ottica veneziana, a quello della potenza territoriale che dal bacino danubiano si proiettava verso ovest. Dall'Ungheria, re Ludovico d'Angiò tendeva infatti a mettere in discussione il controllo veneziano delle città istriane (che fra Duecento e Trecento si era trasformato da protettorato in governo diretto (214)) e dalmate (215), per riaffermare la sua egemonia e coltivare i suoi progetti di grandeur angioino-adriatica in alleanza con Genovesi e Fiorentini. In tutta l'area al ῾confine orientale', sono proprio le scelte del re d'Ungheria a determinare lo scenario politico d'insieme del secondo Trecento, secondo due linee fondamentali, una sfavorevole e l'altra in prospettiva favorevole agli interessi veneziani. Da un lato, l'alleanza con Padova, cui qui sotto si accenna, e dunque la convergente azione (da sud e da est) sull'area friulano-istriano-dalmata determinò una situazione potenzialmente assai pericolosa per la Repubblica, come risultò evidente nelle guerre degli anni '70. Dall'altro lato, però, il contrasto che fra il regno d'Ungheria e gli Asburgo si sviluppò - su uno scenario territoriale più vasto, che abbraccia la Carinzia e la Carniola - poneva le premesse di una reciproca elisione, o limitazione, dell'efficacia dell'azione politica e militare dei due potentati, creando nel medio e lungo periodo le condizioni per un assestamento e per la conquista veneziana del Friuli patriarchino. Non a caso, come è stato osservato, "per 150 anni, sino alla fine del Regno nazionale ungherese, canone fondamentale della diplomazia veneziana resterà quello di tener divisi i duchi d'Austria dai re di Ungheria" (216).
Francesco il Vecchio abbandonò all'inizio del suo reggimento (1355) la tradizione di rapporti con il comune di Venezia nella quale la signoria carrarese si era mossa sin dalla sua costituzione, e riprendendo compiutamente in mano la politica della sua città perseguì - con l'efficacia che veniva dall'unità di comando e dalla rapidità di decisione proprie del regime signorile, e soprattutto dal consenso e dall'appoggio del ceto dirigente cittadino - obiettivi tradizionali di espansione politico-territoriale di Padova, già tenuti presente in età comunale, quando la proiezione della città verso il Nord-Est era stata manifesta. Certo, anche la sua attenzione all'area prealpina ai margini settentrionali della diocesi di Padova - lungo la valle del Brenta e le valli afferenti (come il Primiero) - interferì in modo indiretto con la politica veneziana, per la quale tuttavia quell'itinerario (subordinato al Brennero ed alternativo a quello di Alemagna) era in fondo secondario anche se non trascurabile (217). L'acquisizione del dominio su Feltre e Belluno (le città del Piave che il signore padovano ottenne nel 1360 da Carlo IV attraverso il re d'Ungheria suo alleato, e che conservò sino al 1373) ha invece legami più stretti con la sua assidua azione di disturbo nel territorio trevi giano governato da Venezia - altro obiettivo fisso della sua politica, per un trentennio, sino al precario acquisto del 1384 (destinato a durare un quadriennio appena, sino al 1388). Ma la novità di maggiore rilievo, e senza dubbio uno degli elementi decisivi rispetto agli interessi veneziani, è per l'appunto la politica che egli seppe sviluppare in Friuli, a partire già dagli anni '50, stringendo rapporti con l'aristocrazia locale, valorizzando le sue entrature ad Avignone, avvalendosi della collaborazione di uno staff di diplomatici e di giuristi di prim'ordine, scelti spesso tra i docenti universitari (218). In particolare i rapporti con le famiglie signorili friulane costituivano un terreno sul quale un dominus prestigioso come Francesco il Vecchio vantava un'oggettiva superiorità. Basterà qui citare alcuni episodi: le mediazioni tra le forze in contrasto in Friuli che egli svolse (sin dal 1355; ben prima di quella, di fondamentale importanza dal punto di vista diplomatico, del 1385), le ambizioni alla carica patriarcale per Pileo da Prata (1358) (219), la formale alleanza con la Patria del 1364; e più tardi la stretta collaborazione con il patriarca Filippo d'Alençm. Come rapidamente si vedrà nel paragrafo successivo, il tentativo carrarese di radicare nel ventre molle dello stato patriarchino una sovranità territoriale efficiente andrà alquanto vicino al successo. Francesco il Vecchio, del resto, era portatore di una concezione dello stato più aggiornata di quella feudale e patrimoniale dei conti di Gorizia, aveva, come si è detto, robusti contatti con la curia romana e discrete capacità finanziarie, - nonché si è visto notevole ascendente sulle fazioni friulane e parentele con le dinastie signorili alpine, in Carinzia e in Carniola; ma un fattore decisivo, un quid in più che gli permette di svolgere per questi decenni un ruolo politico oggettivamente sproporzionato alle basi materiali fornitegli dalla sua città, è forse, come si è accennato, l'alta qualità dei suoi collaboratori di governo (politici, militari e diplomatici: dai Lupi di Soragna a Michele Rabatta ai giuristi dell'ambiente universitario).
Di queste presenze - agendo in quest'area territoriale nella seconda metà del secolo con lo scopo primario di mantenere sempre aperte le proprie vie di commercio, dal Friuli verso l'Europa centro-orientale (220) la Repubblica veneta non può non tener conto, in un quadro di relazioni diplomatiche e militari che si rivela difficile da padroneggiare. E su questo tessuto d'insieme si inseriscono i principali episodi di guerra guerreggiata, nei quali le diverse forze in campo si combinano variamente.
È un quadro che, certamente, si discosta molto da quello - assai più facilmente interpretabile - delle relazioni che si intrattengono coi meglio ῾disciplinati' stati signorili padani, segnati - lo si è accennato - da un secolare e sostanzialmente riuscito sforzo di costruzione del rapporto città/contado e da gerarchie consolidate fra città e città. Tali relazioni sono ormai tendenzialmente incanalate nelle forme della rappresentanza diplomatica: si pensi ai dispacci di un Pietro Corner da Milano, negli anni '70. Non così in Friuli; ed è in questa palestra che si allenano in questi decenni le decine di patrizi attivi - coi ruoli più disparati - nella regione, o i savi alle questioni friulane in più occasioni nominati dai consigli veneziani (221).
fra Padova carrarese e il regno d'Ungheria (1356-1378 circa)
L'attacco ungherese del 1356 contro Treviso si verificò alla scadenza della tregua di otto anni che papa Clemente VI aveva promulgato fra Venezia e Ludovico re d'Ungheria per il possesso della Dalmazia, dopo la fine della guerra per Zara (che Venezia aveva riconquistato nel 1346, dopo averla perduta nel 1310). Venezia era allora reduce dalla dura guerra con Genova, conclusasi nel 1355, e dalla congiura di Marino Falier (aprile 1355) (222). Il re Ludovico, che era stato già alleato con Genova, ottenne in questa occasione l'appoggio di quasi tutte le forze attive nell'area nord-orientale italiana: il patriarca Nicolò di Lussemburgo fratello di Carlo IV, i conti di Gorizia, e Francesco il Vecchio da Carrara, da poco al potere; ebbe anche l'avallo formale dell'imperatore, che lo creò suo vicario. L'apparato di difesa veneziano era estremamente modesto. Il cospicuo esercito ungherese non ebbe difficoltà ad occupare Conegliano, e di seguito tutto il territorio trevigiano, ottenendo l'appoggio delle famiglie signorili (Collalto, Onigo, Bonaparte) e del vescovo di Cèneda, ed attestandosi poi - con le ovvie conseguenze sull'economia delle campagne trevigiane, che i Veneziani cominciavano ad apprezzare - in fortificazioni campali (bastite). Il governo veneto ebbe però l'accortezza di concentrare le proprie risorse militari su Treviso: e anche in questo caso, come in tutte le guerre trecentesche, venne in luce quanto fosse problematica la conquista di una città murata, se appena decentemente difesa. Una tregua di cinque mesi fu stabilita nell'ottobre grazie alla mediazione del papa Innocenzo VI. Durante questo periodo, il re d'Ungheria offrì a Venezia Zara e una parte della Dalmazia dietro un esborso di 100.000 ducati; dal governo veneziano venne una risposta negativa, che chiarisce come nella sua ottica la vera posta in gioco fosse, al di là di Treviso, il controllo dell'Adriatico (223).
Riprese nella primavera 1357, le operazioni militari ebbero ancora un andamento complessivamente sfavorevole a Venezia, e si conclusero con la pace del febbraio 1358, nella quale Venezia fu costretta a riconoscere il possesso ungherese di tutta la costa dalmata, sino a Durazzo; la stessa Ragusa preferì il protettorato ungherese a quello veneziano. Sul bilancio negativo di questo episodio, ai vulnera formali (la rinunzia ai titoli di duca della Dalmazia e della Croazia) la Repubblica - che mantenne il possesso di Treviso - dovette aggiungere la definitiva ῾emancipazione politica' della signoria padovana, che si poneva ora, durevolmente, come elemento ostile e turbativo dello statu quo nell'immediato entroterra: tanto più che Padova era - lo si è già ribadito - economicamente in via di consolidamento e compatta nel consenso ad un dominus che ne interpretava le esigenze di espansione politica (224).
L'avvenimento politicamente e militarmente significativo, negli anni '60, è per Venezia la rivolta di Creta (ove non a caso - si può qui osservare per incidens - svolge un ruolo di rilievo un capitano come Giacomo Cavalli, proveniente da quell'ambiente scaligero che, politicamente in crisi, ῾esportava' ormai i suoi milites a Venezia e Milano). Una scorsa alla documentazione pubblica veneziana di questi anni è istruttiva, una volta di più, del fatto che quando maiora premunt l'interesse per le questioni dell'entroterra cala drasticamente. Anche quantitativamente, discussioni e delibere relative all'area friulano-padano-alpina sono poco numerose.
Dal punto di vista delle relazioni politiche, il nuovo episodio bellico nel quale Venezia fu coinvolta all'inizio del decennio successivo non è che una conseguenza delle scelte operate dai suoi interlocutori politici negli anni precedenti. Schieramenti e motivazioni di fondo furono analoghi alla guerra del 1356-1358, con l'alleanza fra Francesco il Vecchio da Carrara e re Ludovico d'Ungheria (del quale il padovano "se vassallum constituerat", dice il cronista trevigiano Redusio) e l'appoggio - ricercato dal signore padovano - di Leopoldo III ed Alberto III d'Asburgo, per il quale egli è disposto a sacrificare nella seconda fase della guerra il possesso di Feltre e Belluno (cedute loro, e precisamente a Leopoldo, nel 1373).
Per taluni aspetti, i preliminari immediati della guerra del 1372-1373 ricalcano la dinamica che aveva condotto Venezia, nel 1336, alla guerra contro gli Scaligeri. Contrasti e punzecchiature di confine tra Padova e Venezia non erano certo una novità; la crescente sensibilità anche del governo veneziano per una precisa definizione dei limiti territoriali e per la creazione di strutture di confine (mediante locorum municiones, rafforzamento di palude, ecc.) è del resto nota, per il Trecento (225). Neppure era una novità la costruzione, da parte di Francesco da Carrara, di fortificazioni sul confine con il territorio veneziano. E anche in questo caso, come già nel 1308 e nel 1336, fu infine la Repubblica ad andare deliberatamente verso la guerra, in considerazione della favorevole situazione militare e diplomatica che vedeva il re d'Ungheria impegnato contro i Turchi e gli altri potenziali alleati di Padova - Firenze e altre repubbliche toscane, il papa, gli Scaligeri, gli Estensi - incerti o disinteressati, ad eccezione del patriarca d'Aquileia; inoltre il recente acquisto veneziano di Trieste (1369) rendeva assai più difficile l'accerchiamento territoriale. Infatti, ancorché Raffaino Caresini sostenga che "sophisticis suggestionibus" il Carrarese aveva chiesto aiuto "in barbaras nationes, postergans antiquam et perfectam amicitiam", ebbe certamente un ruolo significativo nel condurre alla guerra guerreggiata la ῾rigidità' veneziana durante le trattative precedenti alla guerra: nel corso delle quali si richiese ad esempio la distruzione delle fortificazioni al confine tra il Trevigiano ed il Feltrino (allora ancora soggetto ai da Carrara) (226).
Non è il caso di ripercorrere qui vicende belliche che non hanno particolare rilevanza, e che sono state minutamente ricostruite sulla base di una cronistica notevolissima per quantità e per qualità, la cui stessa esistenza è per certi aspetti - ad esempio nella documentata ed argomentata ῾parzialità' di un Nicoletto d'Alessio (di Capodistria), cancelliere carrarese - un'altra manifestazione (sul piano ῾propagandistico' e culturale) dello scontro fra la signoria padovana e la Repubblica (227). Tra gli aspetti più interessanti della guerra in ordine alle relazioni tra Venezia e l'entroterra, va ricordata piuttosto la facilità con la quale lo spionaggio carrarese viene a conoscenza, grazie alla connivenza di alcuni patrizi veneziani (poi condannati) e alle singulares amicicie che aveva con loro Francesco da Carrara (il cui prestigio dunque faceva breccia), di talune decisioni degli organi di governo veneziani; nonché le tentate congiure carraresi, miranti all'uccisione dei patrizi veneti più ostili a Padova (che andavano ai consigli sotto scorta, "armis et famulis stipati"), o il timore dell'avvelenamento dei pozzi. Tutto ciò è reso possibile dagli intensi, inevitabili rapporti fra le due società e i due territori, ed alimenta presso larga parte del patriziato veneziano sentimenti di risentimento antipadovano destinati a non spegnersi tanto presto.
Dal punto di vista delle relazioni diplomatiche nell'entroterra adriatico, la ῾guerra dei confini' ha un'altra conseguenza importante. Essa segna una svolta per quanto riguarda il rilievo della presenza asburgica nella politica cisalpina. I duchi d'Austria, dei quali sia il governo veneto sia il re Ludovico cercano l'alleanza o la neutralità, e ai quali Francesco il Vecchio cede, come si è detto, le due cittadine alpine di Feltre e Belluno (e non si dimentichi che dal 1363 essi erano anche i signori di fatto del principato vescovile di Trento), ne sono in un certo senso i protagonisti occulti. Del resto pochi anni dopo (1376) si avranno nuovamente contrasti di confine (tra Feltre e il Trevigiano), con un assedio di Treviso veneziana da parte di Leopoldo III e una mediazione ungherese (228).
La guerra si concluse (luglio 1373) con una pace molto dura per Padova, e con l'immagine emblematica di Francesco Novello che in ginocchio davanti al doge chiede perdono. In tutto il Trecento, solo al signore padovano Venezia impone un gesto di così formale subordinazione; e l'adozione da parte del Carrarese del motto "memor" è la premessa e la promessa di future vendette.
all'espansione viscontea nelle "partes ultra Mincium" (1387-1388) (229)
Originatasi nel Levante per i contrasti con Genova a Cipro e a Costantinopoli, la guerra di Chioggia ha le sue motivazioni profonde (come si è già in parte accennato) nel contrasto fra il regno d'Ungheria - allora al massimo dell'espansione territoriale in Serbia e Bosnia ed in Dalmazia - e Venezia per il controllo del mare. Il re Ludovico era in grado di far concorrenza dalle città della costa adriatica al sale veneziano, ed ebbe modo di sollecitare (formalizzando gli accordi in una serie di alleanze strette nella primavera 1378) tutti coloro che potevano avere contenziosi con Venezia: il patriarca Marquardo di Randeck in Istria, i duchi d'Austria a loro volta impegnati nella Carniola e nell'entroterra triestino, ovviamente i da Carrara (230).
Le scelte militari di Venezia - che anche in questo caso si mosse per prima - non potevano, comunque, che privilegiare la guerra marittima contro Genova; e nel corso del 1378 la Repubblica ottenne notevoli successi nel Tirreno e sulle coste adriatiche. Pertanto "el signor de Padoa [...>, chavo e vida de tute vixende che se fexe per tera contra Veniciani per nome de tuta la liga", ebbe agio già nel corso di quell'anno di assediare Treviso, mentre l'esercito friulano comandato da Giacomo di Porcìa invadeva l'Istria, e i Genovesi col favore del patriarca controllavano il porto di Marano e tratta-vano con il comune di Udine (231). Il periodo cruciale fu l'estate 1379, dopo la grave sconfitta navale che portò all'occupazione di Chioggia da parte dei Genovesi (16 agosto 1379) e all'energica reazione della società e delle istituzioni veneziane di fronte al pericolo estremo. Mentre hec magna facinora aguntur, i fatti (indubbiamente di minor rilievo) della guerra terrestre - sui quali si soffermano con ampiezza se non con sistematicità i due cronisti trevigiani Daniele di Chinazzo e Andrea Redusio (232) -, non sono comunque favorevoli a Venezia, pur comportando (ad esempio con l'ingaggio della compagnia della Stella (233)) un impegno finanziario non trascurabile, che si aggiunse alle spese enormi della guerra sul mare. Nell'immediato entroterra (Trevigiano e Friuli), soltanto i Collalto restarono fedeli, e tutti i castelli del territorio trevigiano furono perduti. Solo la città di Treviso, com'era già accaduto nel 1356, poté essere difesa, sino alla primavera del 1381, quando - a guerra ormai in fase di conclusione (c'era già stato un tentativo di mediazione papale, al convegno di Cittadella nel febbraio 1381) - fu ceduta a Leopoldo III d'Austria (5 aprile 1381).
Anche in questa circostanza si manifestò la stabilità dei rapporti tra Venezia e le signorie padane. Bernabò Visconti, per ovvi interessi antigenovesi, fu anzi il solo ad offrire alla Repubblica un sostegno attivo, pattuito nell'accordo di Venezia del novembre 1377 e in un successivo trattato dell'aprile 1380, mediato dal rappresentante veneziano a Milano, Pietro Corner; piuttosto che in un attacco diretto contro Padova, come il governo veneziano avrebbe voluto, l'alleanza si concretizzò in una serie di iniziative militari, abbastanza incisive, contro il territorio ligure (maggio 1380) (234) Dal canto loro i due giovani signori scaligeri, Bartolomeo ed Antonio - appena reduci, a loro volta, da un attacco visconteo - si mantennero sostanzialmente neutrali.
Com'è ben noto, le conseguenze della guerra di Chioggia furono di grandissima portata: per lo ῾spirito pubblico' veneziano (235) - in conseguenza della dimostrata vulnerabilità dello spazio lagunare -, per gli assetti sociali interni al patriziato (con la ῾promozione' delle trenta famiglie che si erano distinte nel sostegno allo stato), per il sistema finanziario dissestato in modo irreparabile. Furono conseguenze ben più significative della stessa perdita del territorio trevigiano, ma che solo lentamente si faranno sentire sulla politica nei confronti dell'entroterra. Dopo la pace di Torino (mediata da Amedeo VI conte di Savoia e discussa fra il marzo e l'agosto 1381), che pur contenendo clausole non certo gradite a Venezia (come un censo annuo di 7.000 ducati, dovuto al regno d'Ungheria, per poter commerciare nel Golfo) non aveva modificato praticamente in nulla gli assetti territoriali - né nel territorio veneto, né in Friuli, né in Dalmazia, eccezion fatta per la successiva dedizione di Trieste agli Asburgo (1382) (236) -, gli interessi veneziani nell'entroterra continuavano comunque ad essere a rischio. A Padova ed a Treviso, Carraresi ed Asburgo costituivano tutt'ora una presenza non tranquillizzante; nel ceto di governo veneziano le opinioni sulle scelte politiche di fondo - tra mare e terra - non erano certo concordi.
Nell'immediato, Venezia si interessò in modo prioritario di arginare i progressi ottomani in Grecia e nelle isole ionie, dando inizio con la presa di Corfù dello stesso 1381 ad una serie di successi molto importanti per il ripristino di un controllo dell'Adriatico e dell'Egeo (acquisizione di Nauplia e Argos [1388>, di Tinos e dell'Eubea [1390>; recuperi in Dalmazia, acquisto di Corfù, protettorato su Cefalonia e Zante [1395> (237)). Nell'atteggiamento di complessivo attendismo che contraddistingue invece la politica veneziana verso l'entroterra - motivato anche dalle citate gravi difficoltà economiche (238) - non sorprende, ma anzi conferma quanto si è ripetutamente osservato in queste pagine, il fatto che, nell'immediato, i patrizi veneti abbiano concentrato la propria attenzione sul Friuli, "là dove li richiamava la voce possente di un interesse diretto" (239), quello della sicurezza dei traffici. L'elezione del nuovo patriarca Filippo d'Alençon (240), il formarsi della lega friulana e l'attenzione che a queste vicende prestavano Francesco il Vecchio da Carrara (che tra il 1381 e il 1383 guerreggiò continuamente nel Trevigiano allora soggetto agli Asburgo) e Leopoldo III rischiavano di essere un elemento di destabilizzazione. L'obiettivo di Venezia in Friuli era evidentemente quello di "isolare il conflitto nello stretto ambito della politica locale", presentandosi come forza di mediazione, evitando interventi asburgici, ungheresi, padovani: tale linea fu del resto perseguita anche negli anni successivi, di fronte alla minaccia di una intromissione viscontea nelle questioni friulane.
Se la tattica di temporeggiamento e mediazione (si cercò ad esempio di indurre il comune di Udine a venire ad un accordo con il patriarca) adottata negli anni 1382 e 1383 fu sostanzialmente coronata dal successo, un momento di grave rischio per gli interessi veneziani nell'entroterra fu certamente il 1384-1385. Vi fu innanzitutto l'accordo fra Leopoldo III d'Asburgo e Francesco il Vecchio, che consegnava al Carrarese il territorio di Treviso (dietro pagamento di 100.000 ducati) e di fatto anche quello di Cèneda, oltre che Feltre e Belluno.
Ma fu soprattutto attraverso il rafforzamento della sua presenza in Friuli - con la mediazione tra le fazioni udinese-savorgnana e patriarcale, della quale fu incaricato dalla regina Elisabetta d'Ungheria oltre che dal papa (lodo del 31 luglio 1384), e col tentativo di ottenere la nomina a vicario del patriarca Filippo d'Alenwon del figlio Conte - che il da Carrara tentò in quella congiuntura di porre le basi per il controllo diretto o indiretto dell'intero entroterra adriatico dalle foci dell'Adige al confine con Trieste. Con queste scelte, egli si spingeva più avanti (e giungeva più vicino all'obiettivo) in ordine al controllo dell'entroterra, rispetto a quanto avevano ottenuto gli Scaligeri di Verona negli anni '30, che al Friuli erano rimasti sempre estranei. Ove aveva fallito nel decennio precedente con le armi, il dominus padovano fu sul punto di riuscire con la diplomazia: il patriarca nominò fedelissimi carraresi alle cariche principali dello stato (vicario temporale e spirituale, maresciallo, capitano di Udine), e Francesco il Vecchio conseguì forse personalmente nel 1386 - in spregio ai diritti dei conti di Gorizia - la carica avvocaziale (241) (con l'investitura di Portogruaro, di S. Vito al Tagliamento e del castello di Savorgnan). Venezia temporeggiò il temporeggiabile, ed anche di più, sperando inutilmente nella diplomazia pontificia. Alla fine - e sia pure sempre cercando di esporsi e di apparire il meno possibile - il sostegno finanziario e militare alla fazione ostile al patriarca, e il conseguente stringersi del legame con i Savorgnan, furono in quella situazione magna et ardua una scelta obbligata e determinante per Venezia. Tre patrizi autorevoli come Giovanni Gradenigo, Leonardo Dandolo e Michele Steno (il futuro doge delle conquiste del 1404-1405 - esponente della ῾generazione di Chioggia' - è qui agli inizi della carriera) conclusero 1'8 febbraio 1385 un definitivo accordo con la lega friulana per la guerra contro il Carrarese e Filippo d'Alençon. Ad esso partecipavano diverse famiglie signorili (in prima fila i patrizi veneti Spilimbergo e Savorgnan, ma anche i da Castello, i Colloredo, i da Maniago) e i comuni di Udine, Venzone, Sacile e Maniago (cui altri si aggiunsero in seguito). Nei patti, che previdero una partecipazione alle spese da parte di Venezia nella proporzione di 2/5, "il principio della libertà e dell'indipendenza del Friuli dovea servire a spianar la via alla preminenza morale dell'interesse veneziano su tutto il confine orientale" (242). Lo stesso coinvolgimento a fianco di Venezia della signoria scaligera (che inviò a Venezia per le trattative, come proprio rappresentante, il patrizio veneto Gabriele Emo, podestà di Verona: anch'egli nei decenni successivi tra i protagonisti dell'espansione territoriale veneziana) fu d'altra parte la prova della impossibilità di mantenere la questione friulana nei termini ristretti dell'ambito locale, come Venezia avrebbe desiderato: nei mesi successivi, la Repubblica fu premuta dai rappresentanti veronesi perché la guerra contro il da Carrara fosse mossa sul territorio padovano.
Nella immediata preparazione della guerra friulana, Venezia "risolutamente volle mantenersi in una neutralità tutta formale", pur prendendo attivamente parte, come mostrano gli atti del senato, alla preparazione militare e pur impegnandosi finanziariamente in modo notevole.
La situazione politica e militare nel Veneto (243) precipitò nel corso del 1387, con le sconfitte che Padova carrarese inflisse ad Antonio della Scala nelle battaglie delle Brentelle (luglio 1386) e di Castagnaro (marzo 1387), e con l'intervento di Giangaleazzo Visconti, che acquisì nell'ottobre 1387 il dominio di Verona con l'appoggio dei fuorusciti veronesi; nonché in sede di trattative diplomatiche quello di Vicenza, promessa in precedenza a Francesco il Vecchio da Carrara. Venezia aveva prontamente abbandonato l'alleato veronese, e si accordò con il Visconti, essendo anche venute meno - a seguito dell'elezione del nuovo patriarca (che fu Giovanni di Moravia, fratello dell'imperatore Venceslao) - alcune delle ragioni di controversia in Friuli. Tale atteggiamento di sostanziale disinteresse nei confronti dell'espansione viscontea fu mantenuto nell'anno successivo. Venezia insomma "stese la mano al più temuto signore del tempo", si comportò con "incertezza e remissività" (244), restò sostanzialmente indifferente rispetto alla politica centro-italiana del Visconti: il comune di Firenze (con quello di Bologna), ben altrimenti minacciato dal signore milanese, dispiegò inutilmente nei primi mesi del 1388 uno strenuo impegno diplomatico per raggiungere, in funzione antiviscontea, una conciliazione tra Padova e Venezia (alla quale ostavano "troppi elementi sentimentali: rancore e sospetto a Venezia, orgoglio e rancore a Padova").
Proprio queste trattative, che portarono alla lega di Venezia e Milano contro Padova - lega alla quale aderirono anche Alberto d'Asburgo, il marchese d'Este, i Gonzaga, il patriarca di Aquileia ed il comune di Udine -, sono chiarificatrici degli obiettivi della politica veneziana. In una sua prima proposta, che - si badi - è respinta da Venezia, ma comunque viene discussa e non considerata previamente improponibile, il Visconti manifestò l'intenzione di lasciare a Venezia solo le località della gronda lagunare, mentre avrebbe tenuto per sé non solo Padova, ma anche Treviso e Cèneda; avrebbe inoltre riconosciuto l'indipendenza del patriarcato, lasciato così di fatto alla preminenza veneziana. "Il punto essenziale su cui Venezia non poteva transigere" appare ancora una volta quello di evitare "un sistema di accerchiamento che sarebbe stato oltremodo dannoso ai suoi interessi"; ma in questa prospettiva l'area patriarchina è il perno di tutto, ed ha un'importanza ancora maggiore di quella trevigiana. Peraltro, ottenuto questo scopo "di capitale importanza" (245) annullando il disegno carrarese di controllo del Friuli, Venezia approfittò poi della rivolta anticarrarese di Treviso (fine novembre 1388) e riottenne il controllo della città e del distretto.
Gli inizi della seconda dominazione veneta nella città del Sile meritano una breve analisi, perché segnano per certi aspetti una svolta, con la ricerca di un collegamento col ceto dirigente locale da parte del governo veneto, che coglie l'occasione che si presentò in una situazione politica, diplomatica e militare molto fluida e delicata. Sin dal 28-29 novembre, quando il popolo trevigiano si ribellò al Carrarese (ovviamente al grido di "vivat beatus evangelista noster sanctus Marcus", secondo il Redusio), vi fu infatti un appoggio anche armato (pur se non decisivo dal punto di vista militare) di "plures valentes nostri de Maiorbio et Torcello [...> missi in subsidium populi tarvisini"; e soprattutto una intesa con Franceschino da Borso, leader in Treviso del partito favorevole alla dedizione a Venezia (246) e figura di spicco del consiglio maggiore del comune, allora ricostituito. Nei giorni successivi, quando la città fu ceduta da Francesco il Vecchio a Ugolotto Biancardo comandante dell'esercito visconteo, il popolo trevigiano in accordo con alcuni rappresentanti veneziani (Giovanni Querini, che compare come vicepodestà, e il consigliere ducale Giovanni Miani) si mantenne in armi, allo scopo di evitare eventuali voltafaccia diplomatici viscontei, riunendosi in un quartiere della città; e "dopo una così efficace azione dimostrativa" il governo veneziano provocò la consegna della città a Iacopo dal Verme, e da esso ai rappresentanti veneziani, il 15 dicembre 1388 (247).
L'importanza del recupero di Treviso, come ha osservato il Cessi, non stava tanto, o non stava soltanto, nella città in sé, quanto "nell'opera di disgregamento degli stati, che Venezia poteva esercitare tenendoli divisi con un suo diretto dominio" (248), nella funzione di elemento separatore che il territorio trevigiano aveva. La Repubblica significativamente si mostrò paga di ciò, lasciando non solo che anche Padova fosse ceduta al Visconti (249), non solo che il Visconti fosse clemente con Francesco Novello, ma anche che Feltre e Belluno (che pur permettevano di controllare un itinerario di indubbia importanza, come quello di Alemagna) finissero pur esse nelle mani del signore lombardo.
la politica ῾nazionale'(1390 circa-1402) (250)
Anche dopo il 1388, la questione del Friuli "restò il fulcro" della politica veneziana verso l'entroterra, "perché di quella regione Venezia non voleva esser signora ma esercitarvi essa, ed essa soltanto, la propria influenza". Non la conquista dunque "era il supremo fine" della Repubblica, che anzi era "ben lontana dalle aspirazioni di un acquisto territoriale"; ma l'obiettivo era l'esercizio della "effettiva influenza che poteva far pesare sulla bilancia della politica italiana, in quanto si compromettessero i suoi più vitali interessi" (251). In quest'ottica, il mezzo diventa il fine: l'incessante attività diplomatica, l'estenuante tela di Penelope che patrizi veneziani (oppure notai della curia ducale, pure spesso scelti come ambasciatori) tessono sempre più numerosi in Friuli oltre che a Venezia, ha lo scopo di evitare che altre potenze territoriali modifichino radicalmente assetti ed equilibri.
A partire dal 1388-1389, proprio il timore di un possibile intervento visconteo in Friuli fu uno dei motivi che indusse la Repubblica a mantenere, con grande cura, una posizione assolutamente neutrale nel contrasto - politico, diplomatico ed ideologico - che oppose in modo crescente Giangaleazzo Visconti alla repubblica fiorentina. A rendere verosimile tale minaccia contribuiva anche il relativo disimpegno dei principati centro-europei dallo spazio italiano nord-orientale. In Ungheria, dopo la morte di re Ludovico (1382), Sigismondo di Lussemburgo (che ne aveva sposato la figlia ed ereditato la corona) si trovò impegnato nelle questioni interne al regno; lo stesso Leopoldo III d'Asburgo aveva subìto a Sempach (1386) una grave sconfitta. Le controversie interne, dunque, ripresero in Friuli il sopravvento. Dopo la rimozione di Filippo d'Alençon, l'inizio del patriarcato di Giovanni di Moravia fu scosso dal grave episodio dell'assassinio di Federico Savorgnan (esponente come si è visto di una delle famiglie più autorevoli, la cui posizione era particolarmente forte in Udine), che inasprì le relazioni fra la città e il patriarca. Nonostante l'ucciso fosse un patrizio veneto, l'atteggiamento della Repubblica fu estremamente cauto, attentissimo a non rompere le relazioni con il principe ecclesiastico, anche se restava aperto con lui un ampio contenzioso (per i confini in Istria, per il sale, per il rifugio offerto ai sostenitori di Francesco Novello da Carrara, appoggiato da potenti signori carinziani come i conti di Ortenburg). Proprio in una risposta del 1390 a Giangaleazzo Visconti, che premeva per la rimozione del patriarca, la Repubblica risponde col vetusto stereotipo che "civitas nostra vivit de exercicio mercancie", ma soggiunge che tali traffici avvengono "pro maiori parte cum Teothonicis et Hungaris, cum quibus patriarcha est in strictissimo gradu parentele coniunctus", casate e potenze territoriali che non avrebbero certo gradito un tale provvedimento.
Gli indizi di un possibile più attivo coinvolgimento nello scenario locale sono però significativi, in quest'ultimo decennio del Trecento. Il governo veneto, ad esempio, prende ora in seria considerazione la possibilità di controllare con proprio personale qualche castello o qualche porto importante del Friuli. Sacile (il castello del Friuli occidentale, quasi al confine con il territorio trevigiano) fu offerta nel 1393 da Giovanni di Moravia, ma rifiutata per il timore del malcontento degli Udinesi e per il contemporaneo modificarsi della situazione politica (252). Durante il patriarcato Caetani poi, Venezia andò ad un pelo dall'acquistare dai conti di Gorizia - per una somma attorno ai 10-12.000 ducati - il porto di Latisana, nel quale si aveva in animo di portare a termine lo scavo della fossa destinata a facilitare gli approdi, progettata sin dal 1315 (253). Nella stessa direzione vanno letti i tentativi compiuti dalla Repubblica - dopo l'assassinio di Giovanni di Moravia (1395) (254) e di fronte alla possibilità che la restaurata signoria carrarese puntasse a ripristinare gli stretti legami con la nobiltà friulana (255) - di avere un patriarca veneziano (sono i primi tentativi dopo trent'anni, e verranno ripetuti nel 1402): primo candidato fu Zaccaria Trevisan, il ben noto canonista, docente universitario a Bologna (256). Nell'occasione, per sostenere "quod unus Venetus elligatur in Patriarcham", si inviò un apposito ambasciatore al parlamento della Patria (257). Ma né i candidati veneti né quelli proposti da Firenze e dai nobili austriaci ottennero la carica, alla quale la curia pontificia designò Antonio Caetani per un patriarcato di pacificazione.
Analoghe mediazioni in ambito locale contraddistinsero in questi anni un altro nervo sempre scoperto del rapporto fra Venezia e il suo entroterra, quello romagnolo. Dopo il lodo di Genova, per un triennio almeno la Repubblica si tenne accuratamente fuori dalla - del resto inconcludente - lega antiviscontea formatasi nel settembre 1392, limitandosi a tutelare con discrezione le minori signorie padane (Ferrara, Mantova, Padova). Ma appena le questioni toccarono l'area romagnola, ecco scattare l'interesse e l'iniziativa. Così accadde, ad esempio, nel 1394, quando Bonifacio IX vendette il castello di Castrocaro presso Forlì al comune di Firenze: era opinione diffusa che l'obiettivo finale del comune toscano fosse l'acquisto di Forlì e Ravenna e lo sbocco all'Adriatico. Venezia sostenne la resistenza della guarnigione locale, e la sua diplomazia riuscì a far sì che un arbitrato fosse affidato proprio al comune veneziano (258).
Nella stessa linea si collocano successivi episodi come la mediazione operata nel 1400 da Zaccaria Trevisan in una controversia tra Nicolò III d'Este, da poco signore incontrastato di Ferrara, e Astorgio Manfredi. Anche con Ludovico Alidosi signore di Imola, che gravita nell'area politica fiorentina (e fa parte della lega antiviscontea), si mantengono buoni rapporti nell'intento di conservare lo statu quo: egli milita a Ferrara nel 1395 a fianco dell'esercito veneziano, ottiene (1398) la cittadinanza veneziana, richiede l'appoggio della Repubblica nel 1401 contro gli attacchi di Giovanni I Bentivoglio signore di Bologna - salvo poi farsi recommendatus di Giangaleazzo Visconti nell'estate 1402 (259).
Nella città estense infatti, negli stessi anni, la Repubblica intervenne nel contrasto fra Azzo e Nicolò III d'Este, proteggendo quest'ultimo (che ottenne anch'egli, una volta vittorioso, la cittadinanza veneziana), ma restando attenta anche a conservare immutati gli assetti territoriali fra Padova e Ferrara. Nel giro di pochissimi mesi, nel 1395, i rapporti con Ferrara vennero a configurarsi come una sorta di protettorato, con diversi nobili veneti che, per richiesta del marchese, partecipavano ai consigli e all'attività di governo (260); la forte dipendenza economica è attestata dalla cessione in pegno (per 50.000 ducati) del Polesine di Rovigo (261), che la Repubblica veneta si trova ad amministrare per oltre quarant'anni, sino alla guerra del 1438. Nella sua inopinatezza, anche questa acquisizione - concretatasi in breve tempo - testimonia come l'espansione veneziana nell'entroterra, lungi dall'essere il punto d'arrivo di strategie, nasca da congiunture: che si dettero, ma che avrebbero potuto non darsi, perché non si lavorò allo scopo che esse si determinassero. Le fonti pubbliche veneziane usano anche in queste circostanze espressioni emblematiche, che al di là del formulario esprimono orientamenti profondi e radicati: "omnis mutatio status horum" - si dice a proposito delle relazioni fra Padova e Ferrara nel 1395 - "posset esse valde nociva et periculosa factis nostris".
È in riferimento a questi contesti che va letto l'atteggiamento veneziano nei confronti dell'aggressività espansionistica a larghissimo raggio, peraltro orientata soprattutto verso l'Italia centrale e la Toscana, di Giangaleazzo Visconti. Si è parlato di un atteggiamento consapevolmente rinunciatario, di una "eterna politica ambigua" segnata - giunge a dire il Cessi - "dal più palese disinteresse per tutto ciò che si svolge in terraferma", compresa la dimensione ideologica ed ῾antitirannica' del contrasto in atto. Su quest'ultimo punto l'autore citato sente di dover in qualche modo portare qualche giustificazione (262), come se dalla forma mentis e dalla cultura politica del patriziato veneziano ci si potesse aspettare qualcosa di diverso, una qualche apertura alla difesa della ῾libertà'. Per forma mentis, cultura ed obiettivi politici i patrizi veneziani non potevano, invece, che avere un orizzonte municipale.
È piuttosto un altro l'aspetto da sottolineare, in sede di bilancio d'insieme della attività diplomatica veneziana di questi anni. La quantità di informazioni acquisite e il livello di consapevolezza raggiunto, da parte degli organismi di governo veneziano in ordine alla politica non solo regionale, ma nazionale, sono incomparabili con quelli di qualche decennio avanti. A leggere le discussioni del senato di fine Trecento, la capacità di una "chiara visione" d'insieme dello scenario politico e territoriale, la consapevolezza con la quale si discute - che so - della sorte di Nonantola o di qualche altro castello emiliano, sarebbero state impensabili non molto tempo avanti (263). Ma nonostante questo l'assimilazione di nuovi schemi mentali, un approccio diverso alla realtà politica e territoriale dell'entroterra non potevano che maturare su tempi lunghissimi.
Anche negli anni a cavallo del secolo, il pendolo oscilla ancora fra l'assoluta neutralità che la Repubblica mantiene nella successiva guerra antiviscontea del 1397, combattuta a Mantova e sul Po - fino alla primavera del 1398, quando stabilisce a nome di tutta la lega antiviscontea una tregua con Giangaleazzo (264) - e i problemi friulani. Qui Venezia rifiuta di assumersi in prima persona la carica di visdomino patriarcale (si trattava di togliere dal fuoco, per il patriarca, le castagne della conciliazione interna, senza una contropartita definita), ma agisce copertamente, grazie una volta di più ad intensi contatti con le singole realtà cittadine (Udine innanzitutto), con le famiglie aristocratiche e con lo stesso patriarca, allo scopo ancora una volta di creare un cordone sanitario attorno alla politica friulana, evitando una possibile interferenza viscontea (265).
tra ῾congiuntura' e ῾necessità' (1404-1420) (266)
In occasione della spedizione antiviscontea di Roberto del Palatinato (1401), "i Veneziani tennero una condotta ufficialmente neutrale, ma di fatto ambigua e segretamente ostile al Visconti: come già nel 1397-98" (267). Anche negli avvenimenti immediatamente successivi alla morte di Giangaleazzo Visconti (3 settembre 1402), Si seguita da parte del governo veneziano a troncare e sopire: a miti consigli viene ridotto Francesco Novello da Carrara, che aveva fatto a Venezia la proposta (respinta, ovviamente) di occupare insieme territori viscontei e che è indotto a fare la pace con la duchessa di Milano (268).
Anche nel 1403 il signore padovano e la sua diplomazia continuarono a tentar di profittare della crisi viscontea; nel dicembre di quell'anno, a Padova, si svolsero trattative con la repubblica fiorentina (che si tirò subito indietro) e con fuorusciti viscontei in vista di un attacco contro Milano. Il progressivo isolamento nel quale si trovò Francesco Novello - che ciononostante continuò a perseguire una linea aggressiva, cercando di riempire il vuoto di potere determinatosi - è certamente un "fattore decisivo" (269). Ma sono gli avvenimenti della primavera-estate 1404 che devono essere minutamente seguiti nella loro successione (270). Ancora nel febbraio 1404, Venezia fu richiesta di una mediazione fra Caterina Visconti e il Carrarese, su proposta della duchessa (rappresentata in laguna da Iacopo dal Verme - il vero capo della legazione -, Enrico Scrovegni e Giovanni Capogalli vescovo di Feltre), che chiedeva in subordine alla pace la formazione di una lega anticarrarese. Qualche settimana più tardi, mentre assieme a Guglielmo della Scala il signore padovano preparava l'attacco contro Verona, nelle trattative fra Iacopo dal Verme e la Repubblica quest'ultima prima sembrò accettare la cessione di Feltre, Belluno e Bassano, poi (4 aprile 1404) chiese senz'altro il controllo di Verona (subito dopo - 1'8 aprile - conquistata dall'esercito padovano e affidata a Guglielmo della Scala). Gli aristocratici vicentini che gestirono questa fase così delicata si erano sua sponte rivolti a Venezia, "non perché se ne sentissero particolarmente attratti" e non senza forse aver pensato a qualche altra rischiosa soluzione (271), ma perché - come già nel 1388, quando era iniziato il dominio visconteo - tutto appariva loro migliore di un assoggettamento a Padova, aborrito in base ad irriducibili ostilità municipali (risalenti ad un passato lontano ma non per questo meno vitali). Avuta notizia della presa di Verona, il 9 aprile il governo veneziano interruppe le trattative, limitandosi a promettere alla duchessa la somma invero modesta di 60.000 ducati qualora fosse riuscita a conquistare Verona e Vicenza; ma soprattutto prendendo spunto dall'offerta dei rappresentanti vicentini assoldò un contingente militare per prendere formalmente possesso della città berica, operazione che il 25 aprile fu cosa fatta. Francesco Novello era nel frattempo ancora impegnato nella conquista dei castelli e della cittadella di Verona (conclusa il 28 aprile) e nei problemi seguiti alla morte di Guglielmo della Scala (18 aprile) e alla sua sostituzione coi figli Brunoro e Antonio; fu pertanto battuto sul tempo e non poté che inviare truppe nel territorio vicentino, il che determinò un inutile tentativo di arbitrato da parte di Nicolò III d'Este. Nel maggio furono promulgati i privilegi pattuiti dalla delegazione vicentina, e nelle settimane successive, entro la metà di giugno, vennero le sottomissioni di Belluno, Bassano e Feltre. Dopo una ulteriore, vana mediazione fiorentina, il 18 giugno l'esercito veneziano (comandato da Malatesta Malatesta) attaccò la bastita carrarese di Anguillara e pochi giorni dopo Francesco Novello dichiarò la guerra. Dunque nel giro di pochissime settimane, fra la fine di febbraio (quando nei registri del senato veneto si cessa di parlare esplicitamente della pace e appare "una tendenza per un più deciso intervento della Repubblica" (272)) e l'aprile 1404, il governo veneziano passò da un orientamento tenacemente propenso alla tutela dello statu quo a richieste che prospettano - in un contesto di trattative diplomatiche - l'acquisizione anche del controllo di Verona, oltre che di Vicenza; fu veramente un "cambiamento radicale" (273). Se le richieste e le promesse del 9 aprile 1404 fossero convinte, o se rappresentassero un ballon d'essai, è difficile dire.
È certo comunque che la dedizione di Vicenza rappresentò, in una situazione militare e politica ancora estremamente fluida ed incertissima, davvero un punto di svolta: in nessun modo preparata o prevista da un'azione politica, o da rapporti preferenziali o specialmente intensi sotto il profilo economico (274). È una circostanza questa che sia la storiografia veneziana che le tradizioni storiografiche municipali, influenzate dalle periodizzazioni correnti e dal valore `epocale', discriminante così sovente assegnato all'inizio della dominazione veneziana, tendono talvolta a sottovalutare.
La guerra veneto-carrarese che seguì (iniziata il 23 giugno 1404, e conclusasi con la dedizione di Verona - verificatasi esattamente un anno più tardi - e con la conquista di Padova nel novembre 1405) aveva un esito segnato, anche se la resistenza del signore di Padova (che ebbe come alleato il solo Nicolò III d'Este) fu probabilmente superiore a quella che a Venezia ci si attendeva (275). Va ribadito che combattere contro Francesco Novello da Carrara significava per Venezia combattere anche per un obiettivo Verona appunto - del tutto estraneo alla logica della politica che Venezia aveva condotto, nei confronti dell'entroterra, lungo tutto il Trecento. La Repubblica fu pertanto indotta durante la guerra ad un'attività diplomatica a vasto raggio: oltre a compiere gli opportuni passi diplomatici a Genova, a Firenze e in Romagna, a pagare Alberico da Barbiano perché non combattesse per il Carrarese, promise a Francesco Gonzaga - con un accordo stipulato nell'agosto 1404 - il castello veronese di Peschiera e la conferma del possesso di Ostiglia e di altre località di confine, stipulando contestualmente accordi con i signori del Trentino meridionale e della Valsugana, per chiudere la strada del Brennero (276).
Coerente con questo contesto diplomatico è il tentativo di conquistare anche Ferrara, abbozzato sin dall'ottobre 1404 mediante una trattativa con il legato pontificio Baldassarre Cossa, presto esauritasi, e tentando di sostituire Nicolò III con Azzo (relegato da anni a Creta, e ivi rispedito dopo il fallimento del tentativo). Sono accordi in vista di una conquista; è un'attività diplomatica in qualche modo correlata e conseguente all'evoluzione (povera peraltro di episodi significativi) degli eventi militari. Ed anche tutto questo è in qualche misura una novità. Non si può citare nessun episodio, nella storia trecentesca dei rapporti fra Venezia e l'entroterra, che possa essere letto in una chiave analoga. La guerra, significativamente, non subì interruzioni durante i mesi invernali; nella primavera del 1405 i patti di dedizione - consueti in questi casi - delle comunità rurali della montagna e della collina veronese all'esercito veneziano, guidato da Iacopo dal Verme affiancato dal provveditore veneziano Gabriele Emo, prepararono la resa della città, priva di rifornimenti annonari. Questa si verificò, come detto, il 22-23 giugno, ed ebbe per certi aspetti caratteristiche intermedie fra la dedizione (frutto di una pur relativa autodeterminazione) di Vicenza e la conquista di Padova, giunta nel novembre 1405 dopo un assedio molto duro: l'iniziativa del popolo veronese poté forse infatti anticipare, di qualche tempo, una resa inevitabile. Il 12 luglio 1405 il doge Michele Steno accettò la formale dedizione della città e concesse dei capitula che tutelavano largamente lo statu quo (277), non mutando nella sostanza la condizione di una città già dal 1387 inserita in una compagine statale sovracittadina. A Padova, invece, Francesco Novello da Carrara - che aveva perso sin dal marzo l'appoggio di Nicolò III d'Este, accordatosi con Venezia cui riconobbe il possesso del Polesine di Rovigo già cedutole nel 1395 - resistette ancora diversi mesi, sperando nell'aiuto fiorentino e genovese, e non rinunciando a corrompere alcuni patrizi veneziani (fra i quali lo stesso Carlo Zeno, provveditore in campo).
Alla fine di novembre però la popolazione, esausta, si accordò direttamente con il governo veneziano, che fu bene attento a distinguere la resa della città da quella del signore, col quale non si patteggiò alcunché: Francesco Novello fu incarcerato e nel gennaio 1406, coi figli, fu ucciso in carcere. Fu un gesto che fece scalpore; un "inumano peccato [...> onde ne piange e grida qualunque di milizia è onorato", nel giudizio di un poeta fiorentino.
Durante la discussione che a Venezia si svolse sulla sua sorte, i rappresentanti padovani cercarono di intercedere per il Carrarese, non ovviamente in quanto signore ma in quanto zitadino de Padoa: non era ancora spezzato, evidentemente, il filo inossidabile del rapporto fra la dinastia e la città.
La storiografia recente - ha giustamente osservato il Mallett - ha superato "quel senso di sistematica pianificazione e di ineluttabilità" (278) che è stato, per molto tempo, la chiave di lettura degli eventi del 1404-1405, anni mirabiles della storia del rapporto Venezia/entroterra. La rapida evoluzione che permette alla città lagunare, nell'arco di poco più di un anno e mezzo, di assicurarsi il controllo delle tre maggiori città della regione ad est del Mincio fu determinata da una pluralità di fattori, strutturali ma forse soprattutto congiunturali, che portano ad un'accelerazione improvvisa, e in qualche misura imprevista, un rapporto meno intenso e maturo (almeno per quanto riguarda Verona e Vicenza), meno sorretto da un substrato di interessi economici rispetto a quello che Venezia aveva da lungo tempo intrecciato con altri territori (il Friuli, la Romagna).
Non insistiamo sugli aspetti strutturali, limitandoci a ricordare le profonde trasformazioni di carattere economico e finanziario che avevano caratterizzato il Trecento veneto. Si apprezza così in questa campagna militare, in tutto il suo peso, la disponibilità di grandi risorse finanziarie - pecunia nervus belli -: la signoria carrarese non poteva reggere il confronto, sotto questo profilo, con Venezia che arrivò a spendere, secondo il cronista padovano Gatari, 120.000 ducati al mese per mantenere un esercito forse superiore ai ventimila uomini, in campo contemporaneamente contro Verona, contro Padova e nel Polesine (279).
Fra le congiunture favorevoli, invece, va soprattutto sottolineato che col dato basilare della crisi viscontea coincide temporalmente la crisi interna ottomana - ambedue momentanee, e lo si sarebbe visto lungo il Quattrocento quando l'una e l'altra potenza avrebbero duramente contrastato Venezia. Ciò favorisce la disponibilità di risorse finanziarie e militari da impiegare nell'entroterra (280). E un altro elemento importante ed imprevedibile è il ruolo di alcune singole figure. Valga l'esempio della partecipazione alla guerra, con un ruolo di primissimo piano, di un grande capitano come Iacopo dal Verme, profondamente radicato nel territorio di Verona, donde proveniva la sua famiglia, e irriducibilmente ostile ai da Carrara: egli è coinvolto, con modalità diverse, nell'acquisizione di tutte e tre le città; civis Venetiarum, presenzia con tale qualifica alla dedizione di Verona, nel giugno 1405 (281). Non a torto chi ne ha approfondito il ruolo ne ha dedotto un "ulteriore monito alla cautela nel tentativo di identificare le tendenze di lungo periodo della politica veneziana" (282).
Da ultimo, su un piano diverso va ribadita - più di quanto non faccia una storiografia incline a considerare unitariamente le tre città acquisite da Venezia in così breve tempo - la profonda diversità della situazione nella quale si trovano al momento dell'assoggettamento Padova da un lato, e le città di Verona e Vicenza dall'altro. Solo la prima (che anche nell'età di Francesco Novello da Carrara fornisce alla dinastia un sostegno convinto) ha un ruolo davvero antagonistico a Venezia. Verona e Vicenza ex scaligere ed ex viscontee erano già infatti "città use a servire" - Vicenza, poi, lo era dal Duecento -, per dirla con un ricordo famoso di Francesco Guicciardini; giungevano all'appuntamento del 1404-1405 con un passato - breve o lungo, ma comunque assai significativo in termini politici (283) - di soggezione ad un dominus esterno. Un'esperienza che rese tutto sommato poco traumatico il passaggio ad una dominazione marciana incline a rispettare lo statu quo.
Se non di progettualità, nel caso della conquista del Friuli che si realizza nel quindicennio successivo all'espansione in Veneto si può invece, quanto meno, parlare del punto d'arrivo della privilegiata attenzione, che si era esplicata con particolare evidenza lungo tutta la seconda metà del Trecento. Ai primi del Quattrocento, senza averne mai perseguito l'effettiva conquista, la propaganda veneta poteva sostenere con qualche verisimiglianza di avere speso "per ῾preservare la libertà e lo stato pacifico della Patria' [...> 300.000 ducati senza i quali [essa> sarebbe caduta ῾sotto il giogo dei tiranni'" (284), Mai, del resto, neppure nei momenti più caldi del primissimo Quattrocento, il governo veneto trascura i problemi dell'entroterra friulano-dalmata, e della politica adriatica in genere.
La Repubblica aveva negli anni precedenti - dalla fine degli anni '80 - appoggiato Sigismondo di Lussemburgo, ora re d'Ungheria (285). Ma di fronte alla politica di costui che riprese alla grande le "tradizioni adriatiche e antiveneziane" del regno ungherese nonché l'interesse per l'Italia (alla quale d'altronde tutti i grandi Lussemburghesi del Trecento, da Enrico VII a Giovanni a Carlo IV, avevano aspirato) (286), Venezia si era accostata a Ladislao di Angiò-Durazzo, il re di Napoli che contro re Sigismondo ambiva (appoggiato da una fazione interna) al trono ungherese: da lui aveva acquistato Corfù nel 1403, e Zara (ove Ladislao era stato incoronato re d'Ungheria) nel 1409 per 100.000 ducati, dopo una lunga trattativa. Alla corte ungherese, dopo il 1405 soffiavano sul fuoco antiveneziano, ed esercitavano una certa influenza, i signori spodestati delle città venete, Brunoro della Scala e Marsilio da Carrara (287); occupandosi attivamente, come fece, dello scisma d'Occidente, re Sigismondo (divenuto nel frattempo re dei Romani) ebbe modo inoltre di imporre come patriarca di Aquileia, nel 1412, un suo fedele seguace, Ludovico di Teck, al posto del filoveneziano Antonio Panciera (in carica dal 1402 al 1409, deposto da Gregorio XII) (288) e di Antonio da Ponte (insediato da costui), in lite per la carica. Visdomino della diocesi aquileiese fu confermato Federico di Ortenburg (già eletto da Venceslao), cugino dell'imperatore, nominato anche vicario imperiale, cognato di Ludovico di Teck. In questo contesto, ben si spiega l'attacco ungherese del 1411 condotto da Pippo Spano (con l'occupazione di Udine e la conquista di Feltre e Belluno), e quello successivo del 1412 quando l'esercito ungherese fa una puntata sino a Verona. Durante il periodo di tregua quinquennale stipulato a Castelletto del Friuli nell'aprile 1413 (289), la Repubblica veneta si trovò in posizione piuttosto debole, perché rispetto a Sigismondo che (alleato ai conti di Gorizia e ai Gonzaga oltre che al patriarca) controllava tutto il Friuli, Cèneda, Feltre e Belluno, il Cadore, non poteva contare in modo incondizionato se non sull'appoggio di alcune famiglie signorili (Savorgnan, Porcìa e, ai confini del Friuli, i Collalto).
Pertanto, la decisiva guerra del 1418-1420 fu attentamente preparata a tavolino dal governo veneto, che si coprì le spalle con un'alleanza quinquennale col nuovo duca di Milano, Filippo Maria Visconti (1414), e con l'occupazione di Rovereto (1416). Ma in questa fase ha rilievo ancora maggiore, lungo tutto il secondo decennio del secolo, il fatto che un minuto lavorio di trattative, una lunga serie di pattuizioni con le comunità locali (Marano, Caneva, Sacile, Aviano) o con le famiglie aristocratiche (Porcìa, Valvasone, Polcenigo, da Prata) (290) accompagni e si intrecci con l'azione politica e militare condotta dalla Repubblica su scala più vasta, con gli interlocutori deputati.
Alla fine della tregua quinquennale, le ostilità ripresero con l'occupazione veneta di Serravalle (maggio 1418); re Sigismondo, impegnato nel concilio, reagì nell'immediatocon dei pezzi di carta (nomina di Ludovico di Teck - ora riconosciuto da Martino V - a vicario imperiale in Friuli; investitura della Marca Trevigiana a Pietro, reggente del Portogallo, per la rinuncia del quale Venezia era in trattative ancora negli anni '40) e con un tentativo di embargo contro Venezia in Germania (291). Intanto però continuava l'assoggettamento dei castellani e dei comuni alla Repubblica veneta, intensificatosi poi nel 1419 e 1420. Famiglie e borghi si diedero alla Repubblica alla spicciolata, suscitando una certa qual deplorazione dello storico friulano legato alla tradizione della Patria: "senza collegialità ma solo salvando la loro posizione individuale" (così il Paschini), con pattuizioni specifiche che rispettavano le consuetudini e le prerogative dei singoli. Durante la guerra guerreggiata, le posizioni si divaricarono in modo irreparabile: fra gli aristocratici ci fu chi, come i da Prata, subì da parte di Venezia la confisca del patrimonio e si trasferì in Ungheria. Tra i centri urbani, proprio Cividale - il punto di forza del partito filopatriarcale, la città più ostile a Venezia e più propensa ad accordi e collegamenti con i poteri alpini - seguendo la bussola antiudinese della sua politica fu alla fine la prima ad accordarsi con Venezia (maggio 1419). È anche significativo che il governo veneto si disinteressi, per il momento, del parlamento. Nel maggio-giugno 1420, comunque, l'esercito veneziano conquista rapidamente Portogruaro, Udine, e in successione Gemona, Venzone, S. Daniele e la Carnia, oltre che Feltre e Belluno; Aquileia fu invece presa solo nell'agosto. Per la grande complessità e frammentazione del quadro istituzionale, il processo di regolarizzazione e di formalizzazione durò poi parecchi mesi, attraverso il consueto strumentario di dedizioni e di patti - parecchi dei quali peraltro (ad esempio quelli di Sacile, S. Vito al Tagliamento, Portogruaro) sono già conclusi nell'estate 1420 (292).
Venezia lasciò al patriarca il dominio di S. Vito, S. Daniele ed Aquileia ed un censo di 5.000 ducati; ma l'opposizione del Teck e di Sigismondo durò a lungo, concretizzandosi in tentativi militari ancora nel 1431. Ovviamente, il noto diploma rilasciato dall'imperatore Sigismondo alla Repubblica nel 1437 che ratifica il dominio di una porzione dello stato di Terraferma non menziona il Friuli (così come non menziona Verona e Vicenza, delle quali gli Scaligeri, influenti alla corte imperiale, reclameranno ancora a lungo la restituzione); e solo dopo la scomparsa di Ludovico di Teck e la sua sostituzione col veneziano Ludovico Trevisan (293) i rapporti si svincolarono da una logica di mera contrapposizione, sino al trasferimento del patriarcato a Venezia nel 1451. Non meno favorevole fu l'andamento della guerra marittima in Dalmazia, che portò alla conquista di Lesina, Curzola, Spalato e Traù e alla dedizione di Cattaro e Sebenico (294).
Le modalità delle conquiste del 1404-1405 e del 1420 - che nel ventennio successivo, in un contesto politico diverso, sarebbero state seguite dalla conquista della Lombardia orientale e da quell'assoggettamento di Ravenna, che un esponente della dinastia al potere, Ostasio da Polenta, già nel 1406 predisponeva (295) -, nonché il diverso sviluppo dei rapporti trecenteschi che le presuppone, portano a ribadire, in conclusione, una linea interpretativa sulla quale molti studiosi dello stato di Terraferma veneto quattrocentesco sembrano convergere in modo crescente. È una linea interpretativa, che essi sostengono con tanta maggiore limpidezza quanto più si muovono in un'ottica che non privilegi il ῾centro', ma dia adeguato spazio alle ῾periferie' (296).
Non esiste un `modello' di statualità per la Terraferma veneziana quattrocentesca: per un lungo tratto cronologico - certamente sino al Quattrocento inoltrato, ma per certi aspetti anche oltre - essa non è che una "sommatoria di realtà distinte", un aggregato di distretti cittadini - talvolta ben ordinati o comunque saldamente egemonizzati dalle città (come a Padova, a Vicenza, e in misura minore e con diversa articolazione anche a Verona), talaltra assai meno compaginati (come quello trevigiano, o come il bergamasco, così ricco di autonomie di valle), di galassie signorili comprendenti anche realtà urbane e semiurbane (come l'area friulana, il Trentino meridionale, il Polesine), di comunità montane. "Passaggio scarsamente innovativo", "aggiustamento [...> marginale" non legato "ad un progetto di razionalizzazione istituzionale e amministrativa", "rapporti bilaterali" con la Dominante come "collante primo del sistema", "sforzi di omogeneizzazione fragili [...> ben lontani dalla misura in cui [altrove> si stavano inseguendo largamente, e non in Italia soltanto, i modelli in cui noi riconosciamo lo stato moderno": espressioni come queste, usate per il Friuli in una sintesi recente (297), possono essere in larga misura applicate all'intero ῾sistema' della Terraferma. È ben possibile che queste scelte seguano "le logiche di una Venezia nata come realtà policentrica, in un contesto in cui nello stesso dogado (da Grado a Cavarzere) avevano potuto sopravvivere antiche autonomie che si erano combinate in una struttura assai poco monolitica anche se decisamente compatta" (298); una realtà policentrica dunque, ma anche municipale. Qui importa comunque constatare che il ceto dirigente veneziano aveva lungo il Trecento ῾pensato' l'entroterra in termini senza dubbio di crescente coinvolgimento sul piano politico e militare, ma sempre in un'ottica selettiva, e non ne aveva certo ῾programmato' l'assoggettamento. Non poteva dunque che compiere le scelte `conservatrici' che compì.
i canali di un dialogo
Ovviamente, le relazioni tra Venezia e l'entroterra seguite in queste pagine lungo il secolo non si esauriscono nella dinamica politica e militare che è stata privilegiata. Mille fili economici, sociali, culturali legano la classe dirigente veneziana soprattutto ai territori più vicini: le motivazioni che orientano lo stato - il controllo delle vie commerciali, l'annona, ecc. - nelle scelte politiche relative all'entroterra debbono essere arricchite da altri e complementari approcci, attenti ad esempio alle strategie patrimoniali delle famiglie patrizie, alle politiche matrimoniali, alle carriere, agli interessi culturali dei singoli. In questo campo vastissimo - che una secolare erudizione ha indefessamente percorso, seguendo sentieri numerosissimi - si tenterà qui semplicemente di indicare a titolo d'esempio qualche filone significativo di relazioni che sono ovviamente condizionate dai rapporti politici (più di tutto, è ovvio, nel caso delle cariche podestarili), ma che seguono anche loro proprie dinamiche, comunque segnate da una accelerazione ed intensificazione tardotrecentesche.
Ad alcune considerazioni si prestano, innanzitutto, le liste dei podestà delle città dell'entroterra (299). Quando la situazione politica lo permette, la presenza di magistrati veneziani è abbastanza consistente, è un fatto d'ordinaria amministrazione: risultano dunque tacitamente abrogate (ed è anche questo un significativo segno dei tempi) le ripetute norme in contrario, risalenti agli anni '70-'80 del Duecento (durante il quale peraltro non erano mancati periodi di fitta presenza veneziana nelle podesterie soprattutto venete) e ai primi decenni del Trecento (300). In Padova c'è la serie ininterrotta fra la seconda metà del 1338 e il 1356 (con diciannove presenze, che per lo più cumularono diversi mandati semestrali), durante il ῾protettorato' veneziano sulla signoria carrarese degli inizi, e inoltre una ulteriore consistente presenza nell'ultimo decennio del secolo, quando fra il 1392 e il 1402 si riscontrano altre sei podesterie veneziane; e non ne manca una (di Marino Memmo, 1382-1383) immediatamente successiva alla guerra di Chioggia, in un intervallo del quasi ininterrotto periodo di difficili rapporti fra Francesco il Vecchio da Carrara e Venezia. Dunque, in assenza di controindicazioni politiche il ricorso ad un magistrato veneziano era immediato (3°'). Mentre a Vicenza (soggetta agli Scaligeri) la presenza veneziana è occasionale, in Verona scaligera si riscontrano invece sette presenze fra il 1339 e il 1370 (soprattutto nel primo quindicennio, durante il periodo di buoni rapporti con Mastino II (302), ma anche con Cansignorio), prima della serie dei podestà che accompagnano fra il 1384 e il 1387 l'alleanza fra la Repubblica veneta ed Antonio della Scala e la fine della signoria scaligera su Verona. Si sono a suo luogo citati i rettori veneziani della riviera occidentale del Garda, fra gli anni '30 e '40; si può aggiungere ancora la ricorrenza di Veneziani nel vicariato cadorino, in Polesine, e ovviamente le lunghe liste di chi regge Treviso (303), i castelli del suo distretto, Conegliano. Sono spesso cariche di modesto significato politico, stante la crescente tecnicizzazione, la perdita di ῾politicità', appunto, della figura del podestà, che nei regimi signorili trecenteschi ha sempre più il compito di assicurare l'ordinaria amministrazione, il corretto funzionamento dell'apparato fiscale e giudiziario soggetto alla volontà decisionale del signore: ma non per questo il fenomeno è irrilevante, proprio nella misura in cui indica la capacità dei patrizi veneti di uniformarsi ad una koinè di ῾cultura' amministrativa ormai diffusa. Solo l'analisi prosopografica permetterebbe un discorso più articolato e preciso; ma questo sembra, ad esempio, il significato delle podesterie svolte a Padova dai podestà veneziani degli anni '90 (304).
Un significato diverso, politicamente più pregnante, hanno invece nel tardo Trecento alcune carriere pubbliche di grande prestigio, caratterizzate da grande frequenza e rilievo delle cariche ricoperte: pur prevedendo sempre tappe nel Levante, esse configurano la tipologia dello ῾specialista' nelle questioni politiche e diplomatiche dell'entroterra. Si è già menzionato Zaccaria Trevisan il Vecchio, che passa dalla possibile nomina a patriarca di Aquileia ad una legazione in Romagna, ad esperienze a Corfù e a Genova, all'assedio di Padova nel 1405 (dove è provveditore in campo), infine ai capitaniati e alle podesterie di Padova e Verona fra il 1406 e il 1408-1409 (305). Importanti sono poi gli esempi di Pietro Emo (306), e soprattutto di Gabriele Emo, la cui carriera è davvero lunga e significativa: capitano del popolo a Firenze nel 1380, podestà di Verona tra il 1384 e il 1386, ambasciatore in Friuli nel 1389, procuratore del marchese d'Este nel 1390 (307), bailo a Negroponte tra il 1391 e il 1394, ambasciatore a Mantova nel 1404 (per la preparazione della guerra anticarrarese), provveditore in campo alla presa di Verona nel giugno 1405, capitano a Creta nel 1406-1408 e a Padova nel 1409, e infine presente ancora a Verona a sventare il pur flebile tentativo filoscaligero del 1412 (308).
Questi casi, punte di un iceberg, vanno collocati sullo sfondo della crescita esponenziale dell'attività diplomatica veneziana, nel corso del Trecento, alla quale si è più volte accennato nelle pagine precedenti ma che risulta implicita da tutta la trattazione sin qui svolta. Sarebbe interessante, per esempio, censire prosopograficamente i tanti nomi di patrizi (e di notai) che, come si è accennato, frequentano il Friuli nell'ultimo ventennio del secolo. Più in generale, è noto che progressivamente l'organizzazione delle missioni diplomatiche divenne un costo ordinario dello stato: dalla iniziale imposizione di specifici prestiti coatti si passò poi ad un finanziamento stabile (309). E su un altro piano, una schedatura sistematica delle cronache italiane trecentesche, così ricche di notizie sull'attività diplomatica, permetterebbe forse di valutare meglio da un lato la difficoltà per i Veneziani di adeguarsi allo stile di vita delle corti signorili, dall'altro di analizzare gli stereotipi negativi dei quali sono fatti oggetto (" Salomon sibi quisque videtur", ma sono in realtà pescatori, osserva con disprezzo un poeta filopapale del primo Trecento, dopo la guerra di Ferrara (310); un topos poi ripreso fin da Pio II e da Giulio II). Dà un esempio di tutto ciò la straordinaria descrizione che l'Anonimo romano fa dell'ambasciata "preziosa, moito adorna" inviata dai Veneziani a Mastino II della Scala nel 1335. Trattandosi di presentarsi ad un nemico potente e ricchissimo, gli aspetti anche formali furono molto curati, seguendo un criterio di uniforme eleganza nell'abbigliamento dei "dodici maiurienti de Venezia, grannissimi mercatanti e ricchissime perzone", animati del resto da orgoglio e forte autocoscienza (essi infatti "regoglioso [῾orgogliosamente'>, senza umanitate, parlaro a missore Mastino", perché "naturalmente la favella de Veneziani è regogliosa"). L'apparato adottato fece colpo sulla popolazione; ma nei cortigiani scaligeri, secondo il cronista, il comportamento impacciato dei legati, oltre che il loro abbigliamento, suscitò al contrario lo stupore ed il riso (311).
Un punto di osservazione altrettanto importante, e che si connette a quanto sopra osservato a proposito delle `carriere' civili (e anche delle ecclesiastiche), è costituito dagli studi universitari, un settore nel quale un salto di qualità di fine Trecento è abbastanza nettamente percepibile. Naturalmente, il problema riguarda soprattutto i rapporti con l'Università di Padova, a parte pochi casi di studi a Bologna od Oxford (312). Il dato d'insieme più rilevante per il Trecento - noto da tempo - è la presenza di sette patrizi veneziani nel collegio dei giuristi di Padova, nel 1382. Più in generale, uno spoglio sistematico dei nomi di studenti e docenti veneziani citati nei Monumenti del Gloria (313), che raccolgono documenti dal 1318 al 1405, consente di individuare (314) - a parte alcune sporadiche presenze nella prima metà del secolo - quattro o cinque nominativi di studenti per il ventennio 1350-1370, e sei o sette per ciascuno dei due decenni successivi (1370-1379 (315) e 1380-1389 (316)). Per l'ultimo quindicennio invece, fra il 1 390 e il 1404 - che è del resto segnato da rapporti politici per lo più buoni fra Venezia e la restaurata signoria carrarese, e come si è appena visto da numerose podesterie veneziane in Padova - si raccolgono almeno una trentina di nominativi, con presenza di numerosi esponenti di famiglie patrizie di antica o recente affermazione (Soranzo, Foscari, Dandolo, Malipiero, Memmo, Dolfin, Garzoni, Cocco, Trevisan), ma anche di molte famiglie popolari o di persone semplicemente qualificate de Venetiis. Accanto agli studi giuridici, svolti da ecclesiastici (Guido Memmo vescovo di Pola, Domenico da Ponte poi canonico di Castello e Padova, oltre a parecchi altri di più modesta origine, come un Bartolomeo Gallina canonico padovano) e da laici in funzione delle carriere pubbliche, sono coltivati anche, in modo all'incirca paritetico, gli studi di filosofia e medicina. Fra gli studenti e i laureati (spesso queste carriere studentesche si concludono dopo il 1405), si trovano figure di primo piano, destinate a luminosi cursus honorum. Com'è ovvio, l'apertura ad una cultura che restava sostanzialmente estranea al patrizio veneto fu influenzata (ad esempio per famiglie ῾nuove' come i Trevisan annobiliti dopo Chioggia, o per i Dandolo, bere tre esponenti dei quali si laureano in breve giro di anni) da strategie e progetti che non sono certamente generalizzabili, e che porteranno per l'appunto a carriere come quelle ecclesiastiche di Fantino Dandolo, Pietro Marcello, e un po' più tardi di Pietro Donà (317).
Un brevissimo richiamo sarà sufficiente in questa sede per il fenomeno, la cui importanza è ben nota, dell'espansione della proprietà fondiaria veneziana nell'entroterra, con le pur sporadiche articolazioni in senso prettamente signorile e feudale (sin dai decenni centrali del Trecento la signoria dei Foscari nel Padovano, la Valmareno di Marino Falier). Al riguardo è opportuno ribadire anche la forte selettività che caratterizza la crescita trecentesca delle terre, patrizie e non. Essa riguarda in misura assai nettamente prevalente l'area immediatamente alle spalle della laguna: la pianura trevigiana lungo gli assi di penetrazione costituiti dai fiumi, alcune zone del territorio padovano, alcune zone del ferrarese (318).
Va almeno delibato, infine, il tema così ricco di suggestioni della presenza dei Veneziani nelle istituzioni ecclesiastiche dell'entroterra. Occorrerebbe al riguardo, anche in questo caso, uno spoglio documentario di grande ampiezza nelle fonti e nella bibliografia locale, e le considerazioni qui svolte devono ritenersi come preliminari e provvisorie.
Si sa che anche sotto questo profilo il vero salto di qualità avviene indubitabilmente solo nel Quattrocento, a livello di ῾occupazione' di sedi episcopali, di canonicati, di abbaziati; e ciò è diretta conseguenza dell'assunzione del dominio politico. Il governo veneto si comporta infatti, dopo il 1404-1405 (e in Friuli dopo il 1420), in modo non molto diverso da come si era comportato Giangaleazzo Visconti nelle diocesi dei territori ultra Mincium (Verona, Vicenza, Belluno e Feltre) da lui governati fra 1387 e 1403 e prima ancora i regimi signorili locali (Scaligeri e Carraresi): vengono rapidamente collocati in tutte le sedi vescovi patrizi, spesso dotati di esperienza politica e di cultura giuridica (319).
Per quanto riguarda il Trecento, occorre una volta di più distinguere nello spazio e nel tempo. Non è forse un caso, innanzitutto, che alcuni segnali vengano, sin dai decenni iniziali e centrali del secolo, piuttosto dall'area romagnola che da quella veneta. Un veneziano è abate di Pomposa (ente che aveva beni a Venezia, in città) sin dal 1315; Ravenna e Fano hanno nel Trecento non brevi episcopati di Veneziani (320). Ma su quest'area occorrerebbero, come si è detto, maggiori approfondimenti. Meglio noto è il caso di Treviso, dove il governo lagunare non aveva avuto necessità di premere, durante la prima dominazione (1339-1381), perché fosse eletto un vescovo amico come Pietro da Baone (1359) (321); ma la figura complessa e ricca di questo presule non si presta a facili schematizzazioni ῾politiche'. Egli risiede a Venezia, ha tra i suoi collaboratori amici e sodali del cancelliere preumanista Paolo de Bernardo, conferisce benefici a chierici veneziani; ma rinnova anche a Francesco il Vecchio da Carrara i suoi cospicui feudi in diocesi di Treviso, dando al suo lungo governo "un indirizzo ortodosso e strettamente ecclesiastico" (322). Dopo la riconquista di Treviso, la capacità d'indirizzo del governo veneziano è testimoniata dal placet al trasferimento a quella sede di Lotto Gambacorta, nel 1394 (323). Anche a Cèneda, dopo il fallito tentativo di far eleggere nel 1378 un Nicolò Morosini (324), si hanno in seguito quasi continuativamente vescovi veneziani (Lando, Marcello, Correr). In parte diverso si prospetta il problema degli altri benefici e cariche ecclesiastiche, ove piuttosto che ad una pressione ῾istituzionale' si deve pensare probabilmente ad una lenta penetrazione, anche qui più evidente negli ultimi decenni del secolo. In diocesi di Treviso troviamo ad esempio abati d'origine veneziana nel monastero di S. Maria del Pero (dal 1377), ad Ospedale di Piave, a S. Maria di Follina (325); nell'ambito veneziano ruota la Certosa del Montello (326). Si percepisce in ogni caso un sensibile mutamento dell'atteggiamento veneziano dopo il 1388, quando non a caso si registrano le prime probae per benefici trevigiani (S. Maria del Pero [1389>, S. Maria di Follina [1391> (327)).
Escludendo, come è ovvio, le tre chiese signorili (Padova, Verona, Vicenza), riserva di caccia dei ceti dirigenti locali e delle élites legate agli Scaligeri e ai Carraresi, più sporadiche notizie si hanno per le istituzioni ecclesiastiche di altri territori. Si possono tuttavia citare alcuni casi di monasteri friulani indebitati con patrizi veneti, i cui abbaziati vengono chiesti a fine Trecento - per il momento (ma ancora per poco) invano - alla curia pontificia, come Rosazzo in Friuli (328).
In prospettiva, ebbe certamente un ruolo di grande rilievo, nel favorire in modo indiretto l'assunzione - da parte del ceto patrizio veneziano - di tante responsabilità di governo e di riforma in istituzioni monastiche dell'entroterra nel primo Quattrocento, il movimento religioso veneziano di fine secolo, sorretto e guidato come fu da figure di grande spessore e prestigio spirituale. Si trattò, nel rapporto tra i ceti dirigenti di Terraferma (e i consigli civici da loro egemonizzati) e il patriziato veneziano, d'un terreno d'incontro di grande importanza, forse non adeguatamente valutato nella storiografia al di fuori dello specifico ambito storico-ecclesiastico (penso in particolare a Vicenza, Verona, e alle città della Lombardia veneta). Ma questo è ovviamente un altro discorso, che qui ci si limita ad enunciare.
1. Nel 1406 Obizzo da Polenta si impegna a trasferire i diritti signorili alla Repubblica, all'estinzione della sua linea famigliare: Augusto Vasina, Dai Traversari ai da Polenta: Ravenna nel periodo di affermazione della signoria cittadina (1275-1441), in Storia di Ravenna, II/2, Dal Mille alla fine della signoria polentana, a cura di Id., Ravenna-Venezia 1993, p. 595 (pp. 555-603); Achille Corbelli, La fine di una signoria (gli ultimi "da Polenta"), Torino 1909.
2. Gaetano Cozzi, Politica, società, istituzioni, in Id. - Michael Knapton, La Repubblica di Venezia nell'età moderna. Dalla guerra di Chioggia al 1517, Torino 1986 (Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, XII/1), pp. 4 ss. (pp. 1-271).
3. Ne fornisce una ragionata esemplificazione, in limine alla sua ricerca monografica, Dieter Girgensohn, Kirche, Politile und adelige Regierung in der Republik Venedig zu Beginn des 15. Jahrhunderts, I, Göttingen 1996, pp. 24-30.
4. Michael E. Mallett, La conquista della Terraferma, in Storia di Venezia, IV, Il Rinascimento. Politica e cultura, a cura di Alberto Tenenti - Ugo Tucci, Roma 1996, p. 181 (pp. 181-244).
5. Dopo le ricerche di Paolo Saivibin (si cf. in particolare La guerra del 1372-73 fra Venezia e Padova, "Archivio Veneto", ser. V, 38-41, 1946-1947, pp. 1-76, e Le relazioni tra Venezia, Padova e Verona all'inizio del sec. XIV, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 111, 1952-1953, pp. 205-215) e di Federico Seneca (ad esempio L'intervento veneto-carrarese nella crisi friulana [1384-1389>, in Studi di storia padovana e veneta, a cura di Paolo Sambin-Federico Seneca-Maria Cessi Drudi, Venezia 1952, pp. 1-95), non sono state più svolte indagini significative sui rapporti fra Venezia e l'entroterra padano-veneto nel Trecento sotto il profilo specificamente politico-diplomatico. Tali ricerche del Sambin e del Seneca si collocano in più casi in esplicita continuità con le ricerche del Cessi: nei casi citati, rispettivamente con l'edizione curata per i R.I.S.2 della Cronaca di Nicoletto d'Alessio (XVII/1, t. II, 1942-1948) e con il saggio Venezia e la preparazione della guerra friulana (1381-1385), "Memorie Storiche Forogiuliesi", 10, 1914, pp. 414-473. Per le ricerche del Cessi cf. qui sotto, n. 9.
6. Peraltro complessivamente sottovalutate dalla storiografia veneziana; cf. qui sotto, nn. 91-101 e testo corrispondente.
7. A titolo esemplificativo cf.: Giacinto Romano, La pace tra Milano e i Carraresi del 1402, "Archivio Storico Lombardo", 18, 1891, pp. 841-857 (che dà specifici riferimenti alla politica veneziana); Giovanni Collino, La preparazione della guerra veneto-viscontea contro i Carraresi nelle relazioni diplomatiche fiorentino-bolognesi col conte di Virtù (1388), ibid., 34, 1907, pp. 209-289; Id., La guerra viscontea contro gli Scaligeri nelle relazioni diplomatiche col Conte di Virtù (1386-87), ibid., pp. 105-159; Giorgio Bolognini, Le relazioni fra la Repubblica di Firenze e la Repubblica di Venezia nell'ultimo ventennio del sec. XIV, "Nuovo Archivio Veneto", 9, 1895, pp. 5-109 (sulla base della sola documentazione fiorentina).
8. Anche il Simeoni, nella sua tuttora fondamentale sintesi sulle signorie italiane, enuncia i tre aspetti fondamentali, "italiano, adriatico e orientale", della politica estera veneziana, ma non ne sviluppa poi in modo paritetico ed equilibrato le implicazioni - del resto in conformità al suo assunto (Luigi Simeoni, Le signorie, I, Milano 1950, pp. 229 ss.).
9. Le ricerche di Roberto Cessi sulla politica veneziana di terraferma nell'ultimo terzo del Trecento non seguono un filo cronologico, e quindi non ricostruiscono nel suo farsi la politica veneziana: risalgono al 1909 due saggi relativi a La politica veneziana di terraferma dalla caduta dei Carraresi al lodo di Genova (1388-1392), "Memorie Storiche Forogiuliesi", 5, 1909, fascc. II-IV, pp. 127-144, e Venezia e la prima caduta dei Carraresi, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 17, 1909, pp. 311-337 (ristampato in Id., Padova medioevale. Studi e documenti, raccolti e riediti da Donato Gallo, I, Padova 1985, pp. 171-190); la continuazione logica e cronologica di tali ricerche è Venezia neutrale nella seconda lega antiviscontea (1392-1397), "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 28, 1914, pp. 233-307, mentre è edito nel 1914 Venezia e la preparazione della guerrafriulana (1381-1385). Su questi anni della carriera scientifica del Cessi, cf. Paolo Sammibin, Gli studi di Roberto Cessi da studente a professore dell'Università di Padova. Cronaca bibliografica di un ventennio (1904-1926), in R. Cessi, Padova medioevale, I, pp. IX-XL (peraltro senza attenzione specifica a questo settore della ricerca cessiana).
10. Giorgio Cracco, Venezia nel medioevo: un "altro mondo", in AA.VV., Comuni e signorie nell'Italia nordorientale e centrale: Veneto, Emilia-Romagna, Toscana, Torino 1987 (Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, VII/1), p. 152 (pp. 1-157). Di "ottica preventivamente e permanentemente ῾filoveneziana'" del Cessi parla anche, dal punto di vista particolare ma non per questo meno significativo dei rapporti fra Venezia e la Romagna nel Due e Trecento, Augusto Vasina, Ravenna e Venezia nel processo di penetrazione in Romagna della Serenissima (secoli XIII-XIV), in Ravenna in età veneziana, a cura di Dante Bolognesi, Ravenna 1986, p. 15 n. 12 (pp. 11-29); e per un giudizio sulla storiografia veneziana come un "blocco di tradizioni consolidate entro le quali riesce già difficile aprirsi un varco" cf. pure Fabio Cusin, Il confine orientale d'Italia nella politica europea del XIV e XV secolo, Trieste 19772, p. 1 (la ricerca risale al 1937).
11. Si cf. ad esempio il giudizio conclusivo della ricerca di P. Sanibin, La guerra del 1372-73, p. 76, laddove si giudica quella sconfitta come "inizio del declino della signoria carrarese", che aveva "preferita [...> la alleanza ungherese [...> alla tutela veneziana" e si valuta l'ultimo trentennio del Trecento (guerra di Chioggia compresa) come una crescente affermazione veneziana. Per l'analogo atteggiamento del Seneca, cf. una garbata osservazione critica di Carlo Guido Mor, nella sua recensione al lavoro sopra citato ("Memorie Storiche Forogiuliesi", 40, 1952-1953, p. 269 [pp. 267-269>).
12. F. Cusin, Il confine orientale; sull'autore e sull'opera cf., ibid., il saggio introduttivo di Giulio Cervani, La storia d'Italia ed il concetto del "confine orientale" nel pensiero di F. Cusin, pp. V-LI.
13. La sua ricerca è sostanzialmente scevra di coloriture ῾nazionali', il che non si può dire del tutto della sintesi - più o meno contemporanea - del Paschini: Pio Paschini, Storia del Friuli, II, Dalla lotta per le investiture alla pace di Torino, Udine 1935; III, Dalla pace di Torino (1381) all'invasione francese (1797), Udine 1936, pp. 1-153. Citerò da questa edizione.
14. Gioacchino Volpe, L'Italia e Venezia, in AA.VV., La civiltà veneziana del Trecento, Firenze 1956, pp. 22-83. Cf. comunque Jorio Tadiâ, Venezia e la costa orientale dell'Adriatico fino al secolo XV, in Venezia e il Levante fino al secolo XV, a cura di Agostino Pertusi, I/2, Firenze 1973, pp. 687-704.
15. Per un approccio diversificato, cf. i contributi relativi al Trecento raccolti in Istituzioni, società e potere nella Marca trevigiana e veronese (secc. XIII-XIV). Sulle tracce di G.B. Verci, Atti del convegno, Treviso 25-27 settembre 1986, a cura di Gherardo Ortalli - Michael Knapton, Roma 1988.
16. Michael Knapton, Venezia e Treviso nel Trecento. Proposte per una ricerca sul primo dominio veneziano a Treviso, in Tomaso da Modena e il suo tempo, Atti del convegno internazionale, Treviso 31 agosto - 3 settembre 1980, Treviso 198 1, pp. 41-78.
17. Lesley A. Ling, La presenza fondiaria veneziana nel Padovano (secoli XIII-XIV), in Istituzioni, società e potere nella Marca trevigiana e veronese (secc. XIII-XIV). Sulle tracce di G.B. Verci, Atti del convegno, Treviso 25-27 settembre 1986, a cura di Gherardo Ortalli - Michael Knapton, Roma 1988, pp. 305-320; Marco Pozza, Penetrazione fondiaria e relazioni commerciali con Venezia, in Storia di Treviso, II, Il medioevo, a cura di Daniela Rando - Gian Maria Varanini, Venezia 1991, pp. 312-316 (pp. 299-321).
18. Cf. Philippe Braunstein, Pénurie et cherté à Venice pendant la guerre de Chioggia (1378-1380), in Beiträge zur Handels- und Verkehrsgeschichte, Graz 1977, pp. 17-31 (e cf. anche la ricerca citata qui sotto, n. 88); Reinhold C. Mueller, Effetti della guerra di Chioggia (1378-1381) sulla vita economica e sociale di Venezia, "Ateneo Veneto", n. ser., 19, 1981, pp. 27-41.
19. Giorgio Cracco, Società e stato nel medioevo veneziano (secoli XII-XIV), Venezia 1967, e su posizioni diverse Frederic C. Lane, The Enlargement of the Great Council of Venice, in Florilegium Historiale. Essays Presented to Wallace K Ferguson, a cura di John G. Rowe-W.H. Stockdale, Toronto 1971, pp. 237-274 (riedito in Id., Studies in Venetian Social and Economic Histomy, a cura di Benjamin G. Kohl - Reinhold C. Mueller, London 1987; trad. it. in "Ricerche Venete", 1, 1989 [Venezia tardomedievale. Istituzioni e società nella storiografia angloamericana, a cura di Michael Knapton>, pp. 21-58); Stanley Chojnacki, In Search of the Venetian Patriciate: Families and Factions in the Fourteenth Century, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973, pp. 47-90; Reinhold C. Mueller, Espressioni di ῾status' sociale a Venezia dopo la "serrata" del Maggior Consiglio, in AA.VV., Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 53-61. Per la fase precedente cf. ancora Gerhard Rösch, Der Venezianische Adel bis zur Schliessung der Grossen Rats. Zur Genese einer Führungsschicht, Sigmaringen 1989.
20. A Michael E. Mallett Si deve peraltro un quadro rapido ed efficace, posto a premessa della sua monografia L'organizzazione militare di Venezia nel '400, Roma 1989, pp. 17-32 (la ricerca risale al 1984). Per l'espressione la ῾generazione di Chioggia', citata sopra nel testo, cf. Id., La conquista della Terraferma, p. 184.
21. In particolare v. il contributo di Stanley Chojnacki, in questo volume.
22. Il giudizio è di Franco Gaeta, Storiografia, coscienza nazionale e politica culturale nella Venezia del Rinascimento, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/I, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, p. 16 (pp. 1-91).
23. Si cf. al riguardo le osservazioni svolte, in sede di premessa ad alcune annotazioni dedicate appunto ai rapporti fra Venezia e il ῾mondo' veneto-padano nel basso medioevo, da un attento studioso delle origini dello stato di Terraferma: John E. LAw, Rapporti di Venezia con le province di Terraferma, in Componenti storico-artistiche e culturali a Venezia nei secoli XIII e XIV, a cura di Michelangelo Muraro, Venezia 1981, pp. 78-79 (pp. 78-85).
24. Né va dimenticato che, sotto il profilo della struttura diplomatistico-formale, anche le dedizioni alla Repubblica veneta effettuate da tante comunità nel primo Quattrocento rientrano in certo senso in questa categoria: Gherardo Ortalli, "Patta veneta", in I patti con Brescia 1252-1339, a cura di Luca Sandini, Venezia 1991, pp. n.n.
25. Cf. senza pretese di esaustività: Gino Luzzatto, I più antichi trattati tra Venezia e le città marchigiane (1141-1345), "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 11, 1906, pp. 5-91; Vittorio Franchini, Patti commerciali di Venezia con Bologna e con alcune città della Romagna, "L'Archiginnasio", 27, 1932, pp. 269-290 e 29, 1934, pp. 295-324; Augusto Torre, I patti fra Venezia e Cervia, "Studi Romagnoli", 11, 1960, pp. 49-51 per il 1322 (pp. 21-61); Bernardino Ghetti, I patti tra Venezia e Ferrara dal 1191 al 1313 esaminati nel loro testo e nel loro contenuto storico, Roma 1906; Vittorio A. Marchesini, Commercio dei veneziani nel territorio di Verona ai primi tempi della dominazione scaligera (1260-1329). Studi e ricerche nell'archivio generale di S. Maria Gloriosa dei Frari in Venezia, Verona 1889; Egidio Rossini, La signoria scaligera dopo Cangrande, in Verona e il suo territorio, III, 1, Verona 1975, pp. 537-547 (pp. 451-725), per i patti fino al 1330 circa; Melchiorre Roberti, Studi e documenti di storia veneziana, II, I trattati fra Venezia e Padova anteriori al dominio ezzeliniano, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 16, 1908, pp. 23-61 (pp. 5-61); Roberto Cessi, Un patto fra Venezia e Padova e la ῾curia forinsecorum' al principio del sec. XIII, "Atti e Memorie dell'Accademia delle Scienze in Padova", n. ser., 30, 1913-1914, pp. 263-275; Marco Pozza, Un trattato fra Venezia e Padova ed i proprietari veneziani in Terraferma, "Studi Veneziani", n. ser., 7, 1983, pp. 15-29.
26. Così il Chronicon parmense ab anno MXXXVIII usque ad annum MCCCXXXVIII, a cura di Giuliano Bonazzi, in R.I.S.2, IX, 9, 1902-1904, p. 113.
27. Antonio Ivan Pini, L'economia "anomala" di Ravenna in un'età doppiamente di transizione (secc. XI-XIV), in Storia di Ravenna, II/2, Dal Mille alla fine della signoria polentana, a cura di Augusto Vasina, Ravenna-Venezia 1993, pp. 515-516 (pp. 509-554).
28. Andrea Castagnetti, Mercanti, società e politica nella Marca Veronese-Trevigiana, Verona 1990, p. 44.
29. Giorgio Zordan, I Visdomini di Venezia nel sec. XIII. Studi su un'antica magistratura finanziaria, Padova 1971.
30. Insiste su questi concetti, a proposito del caso di Ferrara, Trevor Dean, Venetian Economic Hegemony: the Case of Ferrara, 1220-1500, "Studi Veneziani", n. ser., 12, 1986, pp. 94-95 (pp. 45-98). Offriva spunti in questa direzione, parlando senz'altro di "economia coloniale", anche la monografia di Philip Jones, The Malatesta of Rimini and the Papal State. A Political History, Cambridge 1974, p. 13.
31. B. Ghetti, I patti tra Venezia e Ferrara dal 1191 al 1313, pp. 153-157; Laura Giannasi, Rapporti tra Venezia e Mantova nei secoli XIII e XIV, "Archivio Veneto", ser. V, 100, 1973, pp. 33-111, con rinvio alla bibliografia; per Milano e per Brescia cf. nn. 123 e 124 rispettivamente.
32. Sui rapporti commerciali e politici fra Milano e Venezia sino al 1317 (quando fu stipulato un nuovo patto) cf. Patrizia Mainoni, Milano di fronte a Venezia: un'interpretazione in chiave economica di un rapporto difficile, in AA.VV., Venezia Milano. Storia civiltà e cultura nel rapporto fra due capitali, Milano 1984, pp. 10-20 (pp. 9-24). Nel 1310 quidam mercatores mediolanenses residenti a Venezia, nell'intento di far revocare l'interdetto che danneggiava gravemente i traffici, si intromisero nelle vicende interne veneziane, tentando di mediare fra Baiamonte Tiepolo e il doge. Cf. anche Pietro Vaccari, Uno sguardo ai nuovi rapporti di scambi commerciali fra Lombardia e Venezia nei secoli XIV e XV, in Studi in onore di Amintore Fanfani, III, Milano 1962, pp. 559-575.
33. M. Pozza, Penetrazione fondiaria e relazioni commerciali, pp. 315-316 (anche per i precedenti).
34. Jean-Claude Hocquet, Il sale e l'espansione veneziana nel Trevigiano (secoli XIII-XIV), in Istituzioni, società e potere nella Marca trevigiana e veronese (secc. XIII-XIV ). Sulle tracce di G.B. Verci, Atti del convegno, Treviso 25-27 settembre 1986, a cura di Gherardo Ortalli - Michael Knapton, Roma 1988, pp. 271-290 (e bibliografia ivi citata). Anche nel patto con Venezia del 1265 Treviso mantenne un dazio sul legname fluitato sul Piave atto alle costruzioni navali, sui remi e sulla pece (M. Pozza, Penetrazione fondiaria e relazioni commerciali, p. 308).
35. Per Milano cf. la discussione della ricerca fondamentale di J.-C. Hocquet fatta da Patrizia Mainoni, Venezia, il sale e Milano. A proposito di un'opera recente, "Nuova Rivista Storica", 65, 1981, pp. 430-436. Quanto a Brescia, già nel 1287 un accordo fra il comune cittadino e Venezia consente il passaggio delle merci veneziane per la strata francisca (verso la Valtellina attraverso i passi prealpini) in cambio del divieto ai Veneti di portare sale in Valcamonica (con conseguente monopolio urbano del datium salis).
36. Insiste sul forte condizionamento esercitato da Venezia sull'economia ravennate, non solo sotto questo profilo, A.I. Pini, L'economia "anomala" di Ravenna, pp. 515-516, 520.
37. Oltre agli studi di Ling e Pozza citati sopra, n. 17, cf. Gian Maria Varanini, Proprietà fondiaria e agricoltura, in Storia di Venezia, V, Il Rinascimento. Società ed economia, a cura di Alberto Tenenti - Ugo Tucci, Roma 1996, pp. 807-879, con ulteriori riferimenti bibliografici.
38. Gerhard Rösch, La nobiltà veneziana nel Duecento: tra Venezia e la Marca, in Istituzioni, società e potere nella Marca trevigiana e veronese (secc. XIII-XIV). Sulle tracce di G.B. Verci, Atti del convegno, Treviso 25-27 settembre 1986, a cura di Gherardo Ortalli - Michael Knapton, Roma 1988, pp. 269-270 (pp. 263-270).
39. Giovanni Battista Picotti, I Caminesi e la loro signoria in Treviso dal 1283 al 1312. Appunti storici, Livorno 1905 (riprod. anast. con aggiornamento bibliografico a cura di Giovanni Netto, Roma 1975), pp. 260-262; M. Pozza, Penetrazione fondiaria e relazioni commerciali, p. 313.
40. Ha richiamato l'attenzione su questo rilevante dato J.-C. Hocquet, Il sale e l'espansione veneziana, pp. 275-276.
41. Per uno sguardo d'insieme cf. Gino Luzzatto, L'economia, in AA.VV., La civiltà veneziana del Trecento, Firenze 1956, pp. 85-109; Id., Storia economica di Venezia dall'XI al XVI secolo, Venezia 1961, pp. 116-145, 146 ss.; Frederic C. Lane, Storia di Venezia, Torino 1978, pp. 68-101, 205-242.
42. Per Padova e Treviso cf. ancora le ricerche citate alla n. 17, cui è da aggiungere su un aspetto particolare Gian Maria Varanini, Aspetti della produzione e del commercio del vino nel Veneto alla fine del Medioevo, in Il vino nell'economia e nella società italiana medioevale e moderna. Atti del Convegno di Greve in Chianti, Firenze 1988, pp. 61-89; per Ravenna A.I. Pini, L'economia "anomala" di Ravenna, pp. 515-516.
43. Notizie in Silvana Collodo, Il sistema annonario delle città venete: da pubblica utilità a servizio sociale (secoli XIII-XVI), in Città e servizi sociali nell'Italia dei secoli XII-XV, Pistoia 1990, pp. 405 ss. (pp. 383-415).
44. Su questi temi mi sia concesso rinviare alla parte iniziale del mio contributo per il V volume di questa Storia di Venezia.
45. A.I. Pini, L'economia "anomala" di Ravenna.
46. Donata Degrassi, L'economia del tardo medioevo, in Il medioevo, a cura di Paolo Cammarosano, Tavagnacco 1988, pp. 307 Ss., 331.
47. Reinhold C. Mueller, Peste e demografa. Medioevo e Rinascimento, in AA.VV., Venezia e la peste 1348/1797, Venezia 1979, pp. 93-96.
48. Cf. Luca Molà-Reinhold C. Mueller, Essere straniero a Venezia nel tardo medioevo: accoglienza e rifiuto nei privilegi di cittadinanza e nelle sentenze criminali, in Le migrazioni in Europa (sec. XIII-XVIII), Firenze 1994 (Atti delle "Settimane di studi" dell'Istituto Internazionale di Storia Economica "F. Datini" di Prato, 25), pp. 839-851, con bibliografia.
49. Luca Molà, La comunità dei Lucchesi a Venezia. Immigrazione e industria della seta nel tardo Medioevo, Venezia 1994.
50. Nella Fano, Ricerche sull'arte della lana a Venezia nel XIII e XIV secolo, "Archivio Veneto", ser. V, 18, 1936, specie pp. 86, 87, 103 (pp. 73-213). Cf. anche Roberto Cessi, L'officium de navigantibus" e i sistemi della politica commerciale veneziana nel sec. XIV, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 32, 1916, p. 127 (pp. 106-146). Sotto il profilo sociale, cf. Richard Mackenney, Tradesmen and Traders. The World of the Guilds in Venice and Europe, c. 1250 - c. 1650, London 1987, pp. 3-28, peraltro centrato soprattutto sul Duecento.
51. N. Fano, Ricerche sull'arte della lana a Venezia, p. 97 n. 3.
52. Silvana Collodo, Signorie e mercanti: storia di un'alleanza, in Ead., Una società in trasformazione: Padova tra XI e XV secolo, Padova 1990, pp. 329-403 (il saggio risale al 1987).
53. Per il quadro d'insieme, cf. Frederic C. Lane - Reinhold C. Mueller, Money and Banking in Medieval and Renaissance Venice, I, Coins and Moneys of Account, Baltimore-London 1985, pp. 380 ss., con rinvio alla precedente bibliografia. In specifico, riguardo ai rapporti fra la politica monetaria veneziana e la politica delle signorie dell'entroterra Andrea Saccocci, La moneta nel Veneto medioevale (secoli X-XIV), in Il Veneto nel medioevo. Dai comuni cittadini al predominio scaligero nella Marca, a cura di Andrea Castagnetti - Gian Maria Varanini, Verona 1991, pp. 252-262; Id., Produzione e circolazione di moneta nel Veneto (1332-1405), in Il Veneto nel medioevo. Le signorie trecentesche, a cura di Andrea Castagnetti - Gian Maria Varanini, Verona 1995, pp. 249-269 (le citazioni nel testo sono a p. 269); Id., Circolazione di moneta veronese nell'età scaligera, in Gli Scaligeri 1277-1387. Saggi e schede raccolti in occasione della mostra storico-documentaria, a cura di Gian Maria Varanini, Verona 1988, pp. 351-364.
54. L'episodio è ricordato da Gian Maria Varanini, Istituzioni, società e politica nel Veneto dal comune alla signoria (sec. XIII-1329), in Il Veneto nel medioevo. Dai comuni cittadini al predominio scaligero nella Marca, a cura di Andrea Castagnetti - Gian Maria Varanini, Verona 1991, p. 408 (pp. 263-442), con rinvio alle fonti.
55. Di cui è interessante ricordare l'attività di ingaggio in partibus Verone di stipendiarii veneti, destinati all'Istria (1309): Documenta ad Forumjulii, Patriarchatum aquileiensem, Tergestum, Istriam, Goritiam spectantia, a cura di Antonio-Stefano Minotto, Venetiis 1870, p. 68.
56. Reinhold C. Mueller, La Camera del Frumento: un "banco pubblico" veneziano e i gruzzoli dei signori di Terraferma, in Istituzioni, società e potere nella Marca trevigiana e veronese (secc. XIII-XIV). Sulle tracce di G.B. Verci, Atti del convegno, Treviso 25-27 settembre 1986, a cura di Gherardo Ortalli - Michael Knapton, Roma 1988, pp. 321-360 (tabelle riassuntive a pp. 357-360); ibid. altra bibliografia (in particolare ovviamente cf. Gino Luzzatto, Il debito pubblico della Repubblica di Venezia. Dagli ultimi decenni del XII secolo alla fine del XV, Milano - Varese 1963). Da ultimo, v., dello stesso Reinhold C. Mueller, Foreign Investment in Venetian Government Bonds and the Case of Paolo Guinigi, Lord of Lucca, Early 15th Century, in Cities of Finance, a cura di Herman Diederiks - David Reeder, Amsterdam-Oxford-New York-Tokyo 1996, pp. 72-74 (tab. relativa agli anni 1340-1451) (pp. 69-90).
57. Basti qui rinviare al dibattito riassunto da Mario Mirri, Formazione di una regione economica. Ipotesi sulla Toscana, sul Veneto, sulla Lombardia, "Studi Veneziani", n. ser., 11, 1986, pp. 47-59; per un confronto Paolo Malanima, La formazione di una regione economica: la Toscana nei secoli XIII-XIV, "Società e Storia", 6, 1983, pp. 229-269. In specifico per le città venete, Michael Knapton, City Wealth and State Wealth in the Northeast Italy, 14-17th Centuries, in La ville, la bourgeoisie et la genèse de l'état moderne (XII-XVIII siècles). Actes du colloque de Bielefeld, a cura di Neithard Bulst - Jean Philippe Genet, Paris 1988, pp. 183-209.
58. Per ulteriori considerazioni su questo punto, cf. qui oltre, testo corrispondente alle nn. 160-162, con riferimento a Treviso.
59. John Kenneth Hyde, Padova nell'età di Dante. Storia sociale di una città-stato italiana, Trieste 19852- [1966>, pp. 197-221.
60. Documenta ad Forumjulii, Patriarchatum aquileiensem, pp. 184-185; Niccolò Rodolico, Di alcuni trattati di arbitraggio nelle questioni commerciali tra Venezia e Padova (secolo XIII), in Raccolta di scritti storici in onore del prof. Giacinto Romano nel suo XXV anno d'insegnamento, Pavia 1907, p. 140 (pp. 117-140).
61. Nelle deliberazioni del senato, le prime avvisaglie delle iniziative padovane sono del luglio 1303: Le deliberazioni del Consiglio dei Rogati (Senato). Serie "Mixtorum", I, libri I-XIV, a cura di Roberto Cessi - Paolo Sambin, Venezia 1960, p. 103.
62. Ibid., p. 238; P. Sambin, Le relazioni tra Venezia, Padova e Verona, pp. 205-215. Su questo episodio cf. anche Enrico Besta, Riccardo Malombra, professore nello Studio di Padova, consultore di stato in Venezia, Venezia 1894.
63. Le opere di Ferreto de' Ferreti vicentino, a cura di Carlo Cipolla, II, Roma 1907, p. 230.
64. Il che procurò a Rizzardo da Camino la cittadinanza veneziana: G.B. Picotti, I Caminesi e la loro signoria, p. 137.
65. Ibid., pp. 136-137 e 278 (doc. XXVI, relativo all'accettazione da parte di Venezia della mediazione di Gherardo da Camino).
66. P. Sambin, Le relazioni tra Venezia, Padova e Verona, p. 209.
67. J. K. Hyde, Padova nell'età di Dante, pp. 219-220.
68. M.E. Mallett, La conquista della Terraferma, p. 182.
69. T. Dean, Venetian Economie Hegemony, pp. 45-98; Id., Gli Estensi e Venezia come poli di attrazione nella Marca fra Due e Trecento, in Istituzioni, società e potere nella Marca trevigiana e veronese (secc. XIII-XIV). Sulle tracce di G.B. Verci, Atti del convegno, Treviso 25-27 settembre 1986, a cura di Gherardo Ortalli - Michael Knapton, Roma 1988, pp. 374-375 (pp. 369-376).
70. T. Dean, Venetian Economie Hegemony, pp. 49 e n. 13 (con rinvio a Ghetti, Bellini, Cessi), 50 ("closer inspection of the evidence reveals that the coup de grâce of 1240 was not as decisive as the treaties suggest"). È da aggiungere il recente contributo di Roberto Greci, Le associazioni di mestiere, il commercio e la navigazione padana nel Ferrarese dal XII al XIV secolo, in Storia di Ferrara, V, Il basso medioevo, XII-XIV sec., a cura di Augusto Vasina, Ferrara 1987, pp. 292-293 (pp. 276-305).
71. T. Dean, Venetian Economic Hegemony, p. 68. Le ricerche recenti su Ravenna tendono pure a spostare al Trecento l'accentuazione della `dittatura' economica veneziana (c£ il già citato A.I. Pini, L'economia "anomala" di Ravenna, passim).
72. T. Dean, Venetian Economic Hegemony, pp. 59 ss.
73. Id., Gli Estensi e Venezia come poli, pp. 371 ss.
74. Anna Laura Trombetti Budriesi, La signoria estense dalle origini ai primi del Trecento: forme di potere e strutture economico-sociali, in Storia di Ferrara, V, Il basso medioevo, XII-XIV sec., a cura di Augusto Vasina, Ferrara 1987, pp. 180-181 (pp. 160-184).
75. Ne sono tratti salienti la concessione della cittadinanza (1304), secondo una prassi diffusa con i potentes ῾stranieri', gli onorifici arbitrati richiestigli e soprattutto il sostegno offerto in occasione della lega padana contro Ferrara (1306) che gli sottrasse Modena e Reggio, quando fu consentito ad Azzo VIII anche di armare sudditi veneti per la difesa di Ferrara e Rovigo.
76. Giovanni Soranzo, La guerra fra Venezia e la Santa Sede per il dominio di Ferrara (1308-1313), Città di Castello 1905, poi brevemente ripreso in Id., L'antico navigabile Po di Primaro nella vita economica e politica del delta padano, Milano 1964, pp. 56-67; cf. anche in breve Luciano Chiappini, La vicenda estense a Ferrara nel Trecento. La vita cittadina, l'ambiente di corte, la cultura, in Storia di Ferrara, V, Il basso medioevo, XII-XIV sec., a cura di Augusto Vasina, Ferrara 1987, pp. 200-201 e bibliografia a p. 225 (pp. 200-231). Fra i contributi significativi su aspetti particolari della guerra, cf. Maria Teresa Ferrer I Mallol, Mercenaris catalans a Ferrara (1308-1314), "Anuario de Estudios Medievales", 2, 1965, pp. 155-227.
77. Ne fa fede il fatto che all'inizio delle ostilità si mettano nero su bianco, in un documento ufficiale, gli iura et iurisdictiones che la curia romana vantava nei confronti di Ferrara, dei quali si ha a Venezia piena cognizione: il diritto a percepire un denaro per capofamiglia come riconoscimento di soggezione, il censo per Massafiscaglia (peraltro infeudata al comune), metà del ripatico di Ferrara, "reddere ius III dies [...> annuatim". Cf. G. Soranzo, La guerra fra Venezia e la Santa Sede, p. 56.
78. Fresco era padre di Folco, designato erede da Azzo VIII.
79. L. Chiappini, La vicenda estense, p. 201.
80. Gerhard Rösch, I rapporti tra Venezia e Verona per un canale tra Adige e Po nel 1310 nell'ambito della politica del traffico veneziano, Venezia 1979.
81. G. Soranzo, La guerra fra Venezia e la Santa Sede, p. 183; G.B. Picotti, I Caminesi e la loro signoria, pp. 183-184.
82. Rapida ricostruzione, con bibliografia ulteriore, in G. Cracco, Venezia nel medioevo, pp. 116-120.
83. È noto l'esempio dei Badoer, legati da parentele con famiglie padovane autorevoli come i da Lendinara e i da Peraga, titolari di quote di giurisdizione a Lendinara nel Polesine, e a Peraga e Mirano nel territorio padovano, pronti ad adottare nella lotta politica interna strumenti schiettamente signorili, estranei alla tradizione veneziana: nel 1311 Filippo da Peraga, nipote di Badoero Badoer, può promettere di riunire in breve tempo ottocento uomini per condurli a Venezia allo scopo di impedire l'esecuzione di Baiamonte Tiepolo, e di "fare un macello" - facere bechariam - dei propri nemici. Cf. J.K. Hyde, Padova nell'età di Dante, pp. 223-224 (fonte già citata dal Picotti); Marco Pozza, I Badoer. Una famiglia veneziana dal X al XIII secolo, Abano Terme 1982, pp. 66 ss.; G. M. Varanini, Istituzioni, società e politica nel Veneto, p. 404.
84. Edizione in Hans Spangenberg, Gangrande I della Scala, Verona 1992 [Berlin 1892-1895>, pp. 345-348.
85. Resta fondamentale la ricerca di Luigi Simeoni, Le origini del conflitto veneto-fiorentino-scaligero (1336-1339) e note sulla condotta della guerra (con appendice di documenti), in Id., Studi su Verona nel medioevo, III, a cura di Vittorio Cavallari, Verona 1962 ("Studi Storici Veronesi", 11, 1961), pp. 63-156 (la ricerca risale al 1930). Cf. anche E. Rossini, La signoria scaligera dopo Cangrande, pp. 547-626 (per le premesse della guerra e l'intero suo svolgimento); rapida sintesi e bibliografia recente in Gian Maria Varanini, Istituzioni, politica e società (1329-1403), in Il Veneto nel medioevo. Le signorie trecentesche, a cura di Andrea Castagnetti - Gian Maria Varanini, Verona 1995, pp. 21-24 (pp. 1-124).
86. Per un quadro d'insieme sui rapporti commerciali fra Venezia e l'area tedesca, cf. Philippe Braunstein, Venezia e la Germania nel Medioevo, in Venezia e la Germania, Milano 1986, pp. 35-49; cf. anche Karl-Ernst Lupprian, Il fondaco dei Tedeschi e la sua funzione di controllo del commercio tedesco a Venezia, Venezia 1978, con gli ovvi rinvii bibliografici (Simonsfeld, ecc.). Ricorda alcuni episodi relativi al transito di merci veneziane in Tirolo Jean-Claude Hoc-Quet, in questo volume.
87. L'osservazione è di Josef Riedmann, La Marca e Venezia nella politica dei conti di Gorizia e dei conti del Tirolo (secoli XIII-XIV), in Istituzioni, società e potere nella Marca trevigiana e veronese (secc. XIII-XIV). Sulle tracce di G.B. Verci, Atti del convegno, Treviso 25-27 settembre 1986, a cura di Gherardo Ortalli - Michael Knapton, Roma 1988, p. 366, che dà nel breve contributo (pp. 361-367) un sintetico quadro d'insieme dei rapporti fra la dinastia alpina e l'Italia nord-orientale rinviando per il primo terzo del secolo alla documentatissima monografia dello stesso autore (Die Beziehungen der Grafen und Landesfiirsten von Tirol zu Italien bis zum Jahre 1335, Wien 1977; cf. anche Id., Venedig und das Römisch-Deutsche Königtum um 1300, in Domus Austriae. Eine Festgabe Hermann Wiesflecker zum 70. Geburtstag, a cura di Walter Höflechner - Helmut J. Mezler-Andelberg - Othmar Pickl, Graz 1983, pp. 352-362). Per questa congiuntura politico-diplomatica, cf. inoltre il validissimo lavoro di Giovanni Tabacco, La politica italiana di Federico il Bello re dei Romani, "Archivio Storico Italiano", 75, 1950, pp. 3-77.
88. Per la fase cronologicamente precedente si cf., anche per l'aggiornata bibliografia, Reinhard Härtel, Il commercio veneziano con il Friuli e con il retroterra austriaco attorno al 1200, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 154, 1995-1996, pp. 579-609; ma cf. poi il quadro d'insieme dato da D. Degrassi, L'economia, pp. 318-31 9, bibliografia a p. 329 (cf. tra l'altro: Pio Paschini, Le vie commerciali alpine del Friuli nel medioevo, "Memorie Storiche Forogiuliesi", 20, 1924, pp. 123-135; Karl Schalk, Rapporti commerciali fra Venezia e Vienna, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 23, 1912, pp. 73-88 [pt. I, pp. 52-95>; Ugo Tucci, La strada alpina del Predil e Venezia, in AA.VV., Erzeugung, Verkehr und Handel in der Geschichte der Alpenliinder. Herbert-Hassinger Festschrift, Innsbruck 1977, pp. 352-354 [pp. 351-371>; Philippe Braunstein, Guerre, vivres et transports dans le Haut Frioul en 1381, ibid., pp. 85-106). Su Latisana in particolare, cf. Carlo Guido Mor, Portus Latisanae, Udine 1978. Cf. comunque per un ampio quadro il capitolo steso, in questo volume, da J.-C. Hocquet.
89. Già nel 1330 vi furono controversie per i castelli caminesi di Motta di Livenza e Camino; nello stesso anno Mastino II ed Alberto II, in applicazione di un diploma che Ludovico il Bavaro aveva concesso a Cangrande I, tentarono di imporre un pedaggio sul Po, ad Ostiglia, ma il legato veronese Bailardino Nogarola mantenne con Venezia un atteggiamento conciliante. Qualche altra punzecchiatura non mancò nel 1332 (con questioni relative all'esazione di decime a Piove di Sacco, nel Padovano) e nel biennio successivo, sino al 1334 quando il governo veneto ordinò l'embargo su tessuti, ferro e legname provenienti da Verona e destinati a Rialto ed inviò inutilmente agli Scaligeri una ulteriore ambasciata.
90. Gian Maria Varanim, Pietro Dal Verme podestà scaligero di Treviso (1329-1336), in Istituzioni, società e potere nella Marca trevigiana e veronese (secc. XIII-XIV). Sulle tracce di G. B. Verci, Atti del convegno, Treviso 25-27 settembre 1986, a cura di Gherardo Ortalli - Michael Knapton, Roma 1988, pp. 72-73 (pp. 65-81); Id., Dal Verme, Pietro, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXII, Roma 1986, pp. 279-281.
91. Mette conto trascrivere l'intero passo, assai espressivo degli umori filoveneziani del Cessi: "Venezia risolutamente trascinava la diplomazia italiana a deliberare la distruzione di quella signoria ingombrante il libero sviluppo dei commerci dell'alta e media Italia e che toccava l'armonia politica degli stati italiani col suo soverchio ingrandimento, sì da spostarne l'equilibrio. Non riuscì difficile ai Veneziani ad aver buon gioco, e trionfare su questa fatua potenza corrosa da sentimenti ed interessi antitetici" (Roberto Cessi, Un trattato fra Venezia e Ludovico di Savoia nel 1338, in Id., Politica ed economia di Venezia nel Trecento, Saggi, Roma 1952, p. 67 [pp. 63-70>; la ricerca risale al 191 1911-1912). Cf. anche Arturo Segre, Delle relazioni tra i Savoia e Venezia da Amedeo VI a Carlo Emanuele, "Atti dell'Accademia delle Scienze di Torino", ser. II, 49, 1899.
92. L. Simeoni, Le origini del conflitto veneto-fiorentino-scaligero, p. 81.
93. È la formulazione di M.E. Mallett, La conquista della Terraferma, p. 182.
94. Circostanza assai dubbia, perché una delle due rive del fiume apparteneva a Mantova (Jacopo Piacentino, Cronaca della guerra veneto-scaligera, con introduzione e note di Luigi Simeoni, Venezia 1931 [Miscellanea di Storia Veneta edita per cura della R. Deputazione di Storia Patria per le Venezie, V>, p. 33 n. 1).
95. L. Simeoni, Le signorie, I, p. 125.
96. È quella mirabilmente descritta da Anonimo Romano, Cronica, a cura di Giuseppe Porta, Milano 19812: cf. qui sotto, n. 311 e testo corrispondente.
97. Come è stato opportunamente osservato, "nessuno in Italia che avesse presente gli ultimi avvenimenti poteva credere che Mastino cercasse briga con Venezia e volesse impacciarsi a fabbricare sul serio il sale [...> tutto indicava che egli e i suoi alleati, spartitesi le città dell'alta Italia tolte a Giovanni di Boemia, stavano per rivolgersi contro Bologna e la Toscana" (L. Simeoni, Le origini del conflitto veneto-fiorentino-scaligero, p. 102).
98. V. l'esatta cronologia in J. Piacentino, Cronaca, p. 42 n. 2.
99. L. Simeoni, Le origini del conflitto veneto-fiorentino-scaligero, pp. 104-105.
100. Ibid., pp. 63-156, specie pp. 108 ss. La sostanza del giudizio del Simeoni sulle fasi iniziali della guerra era già anticipata in un articolo del 1926 (Luigi Sinieoni, La crisi decisiva della signoria scaligera, in Id., Studi su Verona nel medioevo, III, a cura di Vittorio Cavallari, Verona 1962 ["Studi Storici Veronesi", 11, 1961>, pp. 157-182, specie p. 160 e n. 4), ed è ribadita in sintesi in Id., Le signorie, I, pp. 125-126.
101. J. Piacentino, Cronaca. Il Piacentino fu poco dopo (1340) processato proprio per il suo comportamento durante le trattative che avevano portato alla pace di Venezia del gennaio 1339, avendo ricevuto danaro dai da Camino, dal vicentino Iacopino da Arzignano, da Ubertino da Carrara e da Mastino II.
102. Nell'ambito della quale va anche ricordata la solida ricerca di Vittorio Lazzarini, Storia di un trattato tra Venezia, Firenze. e i Carraresi (1337-1399), "Nuovo Archivio Veneto", 18, 1899, pp. 243-282.
103. Si cf. ad esempio il passo citato qui sopra, n. 91.
104. Cesare Paoli, Un debito di guerra della Repubblica Fiorentina, "La Rassegna Settimanale di Politica, Scienze, Lettere ed Arti", 20 luglio 1879, nr. 81, p. 53 (pp. 53-55).
105. Sul punto specifico, il Piacentino sostiene che gli stessi commissari fiorentini - desiderosi di por fine alla guerra dispendiosissima - avevano accettato la prospettiva di acquisire soltanto i castelli della Valdinievole, e che solo dopo queste dichiarazioni il doge aveva trattato con Mastino II; inoltre, che non era Mastino II ad avere la piena disponibilità di Lucca, quanto piuttosto i suoi potenti sostenitori ghibellini (Spinetta Malaspina in primis), e infine che la mancata presa di Lucca era da addebitare alle signorie lombarde piuttosto che a Venezia.
106. Proprio negli stessi mesi, il governo veneto si affretta a ripristinare con Verona lo statu quo di pacifiche relazioni che era perdurato - con le modeste in crespature che si sono viste - sino al 1329 e che era destinato a perpetuarsi, nella sostanza, per tutta la seconda metà del Trecento: ne è prova la concessione nel giugno 1339 della cittadinanza veneziana ad Alberto II e a Mastino II.
107. Si pensi per esempio alla ricostruzione che ne fa, una ventina d'anni più tardi, l'Anonimo Romano (Cronica, pp. 24-33), che sulla interpretazione vulgata che si dava della guerra costruisce l'intero capitolo dedicato alla "abassazione di missore Mastino".
108. V. l'analisi del documento in V. Lazzarini, Storia di un trattato.
109. L. Simeoni, Le origini del conflitto veneto-fiorentino-scaligero, pp. 122-123.
110. Adolfo Vital, La dedizione di Conegliano a Venezia (1337). Contributo all'acquisto della Terraferma, "Archivio Veneto Tridentino", 8, 1925, pp. 100-143.
111. Cf. il contributo di Michael Knapton, in questo volume.
112. Le operazioni militari in sé - caratterizzate da sistematici saccheggi del territorio, atti a mettere in ginocchio un sistema politico come quello scaligero che si basava pur sempre sulle fiscalità urbane e sugli apparati di governo dei comuni cittadini - ebbero infatti caratteristiche in certa misura nuove rispetto al passato, ma soprattutto si assistette alla formazione delle prime compagnie di ventura stabili, largamente composte da stranieri, destinate a dare le prime prove, reduci dal Veneto, nella battaglia di Parabiago fra Lodrisio ed Azzone Visconti (21 febbraio 1339), e all'adozione di comportamenti destinati a divenire usuali nella pratica bellica (il ricatto praticato dai conestabili, gli esborsi agli eserciti avversari). Si rinvia per alcuni di questi problemi al capitolo steso, in questo volume, da Hannelore Zug Tucci.
113. Le riporta per questa loro valenza anche J. Piacentino, Cronaca, p. 69.
114. Giovanni Tabacco, Programmi di politica italiana in età avignonese, in AA.VV., Aspetti culturali della società italiana nel periodo del papato avignonese, Todi 1981, pp. 68-69 (pp. 49-75). L'affermazione e la citazione sono riprese in Giovanni Tabacco, Regimi politici e dinamiche sociali, in Le Italie del tardo medioevo, a cura di Sergio Gensini, Pisa 1990, pp. 30-31 (pp. 2 7-49).
115. P. Paschini, Storia del Friuli, III, p. 24.
116. Roberto Cessi, Le relazioni commerciali tra Venezia e le Fiandre nel secolo XIV, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 27, 1914, pp. 5-116.
117. P. Mainoni, Milano di fronte a Venezia, p. 15.
118. Ibid., p. 19; per le vendite di grano dei Visconti cf. ad esempio Vittorio Lazzarini, Introduzione, in Dispacci di Pietro Cornaro ambasciatore a Milano durante la guerra di Chioggia, a cura di Id., Venezia 1939, pp. 35 (doc. 34), 50-54 (docc. 44-45: oltre 17.000 moggia), ecc.
119. Patrizia Mainoni, Le man fatture lombarde, in La Lombardia delle signorie, Milano 1986, p. 88 (pp. 77-96); Ead., I mercanti milanesi in Europa, ibid., p. 97 (pp. 97-99).
120. Ludovico Gonzaga nel 1382 protestò vivacemente contro la riduzione dei tassi di interesse: G. Luzzatto, Il debito pubblico, pp. 154-157.
121. L. Giannasi, Rapporti tra Venezia e Mantova, pp. 33-111.
122. Giovanni Battista Borgogno, I documenti in volgare del Trecento dell'archivio Gonzaga di Mantova, "Accademia Nazionale Virgiliana di Mantova. Atti e Memorie", n. ser., 53, 1985, p. 64; Id., Studi linguistici su documenti trecenteschi dell'Archivio Gonzaga di Mantova, ibid., n. ser., 40, 1972, pp. 27 ss. (pp. 27-112).
123. P. Mainoni, Milano di fronte a Venezia, pp. 9-24; in particolare per Como Alberto Rusconi, Un trattato di commercio fra Como e Venezia nel secolo decimo quarto, "Periodico della Società Storica per la Provincia e Antica Diocesi di Como", 2, 1880, pp. 60-75.
124. I patti con Brescia 1252-1339, a cura di Luca Sandini, Venezia 1991; Salvo Roniolo Putelli, Relazioni commerciali tra Venezia ed il bresciano nei secoli XIII e XIV, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 30, 1915, pp. 297-318: il rappresentante del comune bresciano, Gerardo da Clusone (probabilmente un mercante), discute nel 1339 i capitoli di fronte al vicario visconteo e li approva. Cf. anche Giulio Cesare Zimolo, Brescia e Bergamo nella storia della navigazione interna, "Archivio Storico Lombardo", 93, 1966, pp. 362-389.
125. Sui rapporti commerciali fra Venezia e Lodi nel Trecento cf. anche Gerolamo Biscaro, Un documento veneziano del Trecento intorno alla navigazione padana, "Archivio Storico Lombardo", 33, 1906, pp. 575-576.
126. Tutti questi accordi, sostanzialmente omogenei per caratteristiche formali e per sostanza, risalgono all'aprile 1339 (la pace di Venezia risaliva al gennaio) e sono approvati con ducali del 19-20 maggio.
127. Bortolo Belotti, Storia di Bergamo e dei bergamaschi, I, Bergamo 1940, p. 622. Ivi altri dati sui commerci trecenteschi fra Bergamo e Venezia (formaggio, ferro).
128. Basterà qui un rinvio una tantum a Origini dello Stato. Processi di formazione statale in Italia fra medioevo ed età moderna, a cura di Giorgio Chittolini-Anthony Molho-Pierangelo Schiera, Bologna 1994.
129. G.B. Borgogno, I documenti, p. 86 (riferimenti a lettere del console in Verona Bartolomeo Ridolfi); J.E. Law, Rapporti di Venezia con le province, p. 84 n. 40.
130. Cf. la scheda sull'atto del 1367 di Gian Maria Varanini, Alle origini del patriziato: il consiglio maggiore di Verona al tempo di Cansignorio nel 1367, in Gli Scaligeri 1277-1387. Saggi e schede raccolti in occasione della mostra storico-documentaria, a cura di Id., Verona 1988, pp. 109-110.
131. P. Sambin, La guerra del 1372-73, pp. 16-20; Gian Maria Varanini, Della Scala, Cansignorio, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXXVII, Roma 1989, pp. 411-416.
132. J. Piacentino, Cronaca, p. 96.
133. S.R. Putelli, Relazioni commerciali tra Venezia ed il bresciano nei secoli XIII e XIV, p. 307 (da Riva "versus Veronam per lacum Garde").
134. Andrea Castagnetti, Le comunità della regione gardense fra potere centrale, governi cittadini e autonomie nel medioevo (secoli VIII-XIV), in Un lago, una civiltà: il Garda, a cura di Giorgio Borelli, I, Verona 1983, p. 97 (pp. 31-114), con rinvio alla bibliografia precedente (Bettoni).
135. L'espressione è ibid., p. 97.
136. Michael Knapton, Per la storia del dominio veneziano nel Trentino durante il '400: l'annessione e l'inquadramento politico-istituzionale, in Dentro lo ῾stado italico': Venezia e la Terraferma fra Quattro e Seicento, a cura di Giorgio Cracco - Michael Knapton, Trento 1984, pp. 187-188 (pp. 183-209).
137. "Venezia, più che mai abile, si cacciò nella politica italiana non per amore di conquista, bensì per assicurarsi una assoluta libertà di azione con una complessa rete di trattati, stipulati appunto in questi anni, che aprivano alla sua influenza più che per l'innanzi vie di comunicazione dell'alta Italia, verso la Francia, la Germania e le Fiandre" (R. Cessi, Un trattato fra Venezia e Ludovico di Savoia, p. 67, anche per la citazione nel testo). Già il 20 novembre 1337 il senato dava mandato al doge e a cinque savi all'uopo eletti di provvedere "de aptatione stratarum Lombardie et Francie et Alamannie in mittendo nuncium et litteras et expendendo et comittendo etc. pro bono mercato-rum et mercationum".
138. Per i rapporti fra Tirolo e Venezia nei primi decenni del Trecento, cf. J. Riedmann, Die Beziehungen der Grafen und Landesfiirsten, specie pp. 253-275; in breve cf. anche Id., La Marca e Venezia, pp. 366-367. Altri dati utili in Id., Tiroler in Venedig während des späten Mittelalters und in der frühen Zeit, in Historische Blickpunkte. Festschrift fzir Johann Rainer zum 65. Geburtstag dargebracht von Freunden, Kollegen und Schiilern, a cura di Ulrike Kemmerling-Unterthurner - Hermann J.W. Kuprian - Sabine Weiss, Innsbruck 1988, pp. 557-567.
139. Cf. qui sotto, n. 210 e testo corrispondente.
140. Riprendo queste osservazioni da T. Dean, Venetian Economie Hegemony, pp. 66-68.
141. Ibid., pp. 69, 72-73.
142. Corregge su questo punto il Lazzarini T. Dean, ibid., p. 85.
143. Ibid., p. 82.
144. A. Vasina, Ravenna e Venezia nel processo di penetrazione, pp. 14-15.
145. Emblematica, al riguardo, la riconcessione del vicariato apostolico agli Estensi nel 1344 (L. Chiappini, La vicenda estense a Ferrara, p. 205).
146. Si sofferma sinteticamente su questi aspetti A. Vasina, Dai Traversari ai da Polenta, pp. 586-587; cf. anche G. Soranzo, L'antico navigabile Po di Primaro, p. 88.
147. A. Vasina, Ravenna e Venezia nel processo di penetrazione, pp. 26-27 e n. 52. Nel 1322, ad esempio, Venezia si mostra interessata ad appoggiare alcune famiglie faentine, ribelli alla curia, ma ne è distolta da Giovanni XXII.
148. Andrea Padovani, Ludovico Alidosi e la politica italiana nel Tre-Quattrocento, in I patti con Imola 1099-1422, a cura di Id., Venezia 1995, pp. 28-29 (pp. 27-44).
149. Augusto Vasina, Il dominio degli Ordelaffi, in Storia di Forlì, II, Il medioevo, a cura di Id., Forlì 1990, pp. 160-161 (pp. 155-183).
150. Id., Dai Traversari ai da Polenta, pp. 590-591; e cf. in generale pp. 582-587.
151. Ibid., p. 595, con rinvio alle fonti (Fantuzzi) e alla bibliografia precedente (Pasolini, Corbelli); cf. anche Marino Berengo, Il governo veneziano a Ravenna, in Ravenna in età veneziana, a cura di Dante Bolognesi, Ravenna 1986, p. 32 (pp. 31-67).
152. Benjamin G. Kohl, Fedeltà e tradimento nello stato carrarese, in Istituzioni, società e potere nella Marca trevigiana e veronese (secc. XIII-XIV). Sulle tracce di G.B. Verci, Atti del convegno, Treviso 25-27 settembre 1986, a cura di Gherardo Ortalli - Michael Knapton, Roma 1988, pp. 43-44 (pp. 41-61).
153. V. Lazzarini, Storia di un trattato, pp. 259-260.
154. Ibid.
155. Id., I Foscari conti e signori feudali, Padova 1895 (Nozze Foscari-Meloncini).
156. Id., Storie vecchie e nuove intorno a Francesco il Vecchio da Carrara, "Nuovo Archivio Veneto", 10, 1895, pp. 325-363.
157. Silvana Collodo, Introduzione. Identità e coscienza politica di una società urbana, in Ead., Una società in trasformazione: Padova tra XI e XV secolo, Padova 1990, p. LXVIII (pp. XLV-LXXXVIII).
158. M. Knapton, Venezia e Treviso nel Trecento, pp. 41-78. Di questo saggio le annotazioni che seguono sono largamente debitrici. Nella produzione successiva, cf. in particolare Giuseppe Del Torre, Il Trevigiano nei secoli XV e XVI. L'assetto amministrativo e il sistema fiscale, Venezia 1990, pp. 9-11; Bianca Betto, I collegi dei notai, dei giudici e dei nobili di Treviso (secc. XIII-XVI), Venezia 1981, oltre ai saggi citati qui sotto, nn. 162 e 164.
159. G. Del Torre, Il Trevigiano nei secoli XV e XVI, pp. 50-61.
16o. Ciò è ora meglio noto, rispetto a qualche decennio fa; cf. in breve M. Pozza, Penetrazione fondiaria e relazioni commerciali, pp. 312-316, e mi sia consentito rinviare anche al saggio da me compilato su questo tema, edito nel volume V di questa Storia di Venezia.
161. G.M. Varanini, Aspetti della produzione e del commercio del vino nel Veneto, pp. 85-89.
162. Mauro Pitteri, Segar le acque. Quinto e Santa Cristina al Tiveron, storia e cultura di due villaggi ai bordi del Sile, Quinto di Treviso 1984; Id., Mestrina. Proprietà, conduzione, colture nella prima metà del secolo XVI, Treviso 1994; Michele Fassina, Le chase sparpanade. Marcon, secoli XVI-XVIII, Marcon (Treviso) 1985.
163. Per un cenno d'insieme, con rinvio ad altri studi, cf. Gian Maria Varanini, Istituzioni e società a Treviso tra comune, signoria e poteri regionali (1259-1339), in Storia di Treviso, II, Il medioevo, a cura di Daniela Rando - Gian Maria Varanini, Venezia 1991, pp. 193-197, partic. pp. 196-197 (pp. 135-211).
164. Basti qui richiamare alle sintesi (di Sante Bortolami, Giampaolo Cagnin, Daniela Rando) raccolte in Città murate del Veneto, a cura di Sante Bortolami, Milano 1988; cf. inoltre per Conegliano il cenno di Anna Pizzati, Conegliano. Una "quasi città" e il suo territorio nel secolo XVI, Treviso 1994, pp. 19-20.
165. Gerolaivio Biscaro, Una congiura a Treviso contro la signoria di Venezia nel 1356, "Archivio Veneto", ser.
V, 16, 1934, pp. 131-134 e n. 1 di p. 134 (pp. 123-147).
166. Andrea Redusio da Quero, Chronicon Tarvisinum, in R.I.S., XIX, 1731, co1. 776, corsivo mio (coll. 741-866). Cf. anche Daniele Di Chinazzo, Cronica de la guerra da Veniciani a Zenovesi, a cura di Vittorio Lazzarini, Venezia 1958, p. 197 ("tute bone uxançe vechie, le qual per altro tempo el comun de Trevixo aveva habudo in lor reandosse a puovolo"), che usa analoghe espressioni (" [...> commençò a reçer la terra tra lor segondo le uxange antige che i aveva avanti che Veniciani segnoriase"), nella stessa circostanza, per il comune di Serravalle.
167. Nel 1407 furono aboliti formalmente consiglio maggiore, consiglio dei quaranta e anziani; rimasero soltanto i sei provveditori, estratti in una lista compilata dal rettore veneziano: cf. G. Del Torre, Il Trevigiano nei secoli XV e XVI, pp. 12-13; M. Knapton, Venezia e Treviso nel Trecento, p. 47.
168. P. Paschini, Storia del Friuli, II, p. 253.
169. G. Del Torre, Il Trevigiano nei secoli XV e XVI, pp. 35-41; Gian Maria Varanini, L'organizzazione del distretto cittadino nell'Italia padana nei secoli XIII-XIV. Marca Trevigiana, Lombardia, Emilia, in L'organizzazione del territorio in Italia e in Germania nel basso medioevo, a cura di Giorgio Chittolini - Dieter Willoweit, Bologna 1994, pp. 183-189 (pp. 133-233).
170. La disponibilità di cariche pubbliche (civili e militari) numerose, relativamente poco rischiose e qualche volta abbastanza remunerative da affidare a patrizi (spesso a patrizi poveri) rappresenta come è noto un risvolto importante della costituzione del dominio veneziano in Terraferma: sarebbe da fare una ricerca che incroci le liste dei podestà veneziani nei castelli trevigiani del Trecento con le prosopografie delle famiglie patrizie (cf. per qualche cenno il testo corrispondente alle nn. 299-308). Tale ricerca dovrebbe ovviamente comprendere anche le cariche militari; per non fare che un esempio, a coprire l'ingrata carica di capitano della chiusa di Quero (ai confini col territorio di Feltre: una posizione dunque delicata) nel corso del Trecento sono inviati sì esponenti di stirpi poco note (Boffo, Zancan), ma anche un Navagero, due Dolfin, un Dandolo, un Loredan, un Gradenigo (Bona Beda Pazé, Quero dalle origini al XVIII secolo, I, Quero [Treviso> 1990, pp. 69-70; cf. anche pp. 33-34 per le competenze del capitano).
171. Per la politica statutaria veneziana in Treviso, cf. Gian Maria Varanini, Gli statuti nelle città della Terraferma veneta nel Quattrocento, in Gli statuti delle città italiane e delle Reichstàdte tedesche. Atti della XXXI Settimana di studi dell'Istituto Storico Italo-Germanico, a cura di Giorgio Chittolini - Dieter Willoweit, Bologna 1991, pp. 256 Ss. (pp. 247-317), ove Si enunciano in breve i temi qui sviluppati; per un cenno rapido cf. anche Id., Gli statuti e l'evoluzione politico-istituzionale nel Veneto tra governi cittadini e dominazione veneziana (secoli XIV-XV), in La libertà di decidere. Realtà e parvenze di autonomia nella normativa locale del medioevo, Atti del convegno nazionale di studi, Cento 6-7 maggio 1993, a cura di Rolando Dondarini, Cento (Ferrara) 1995, specie p. 340 (pp. 321-358). Punto di riferimento fondamentale per gli studi sugli statuti veneti resta il saggio di Gaetano Cozzi, La politica del diritto nella Repubblica di Venezia, in Stato società e giustizia nella Repubblica veneta. Secoli XV-XVIII, a cura di Id., I, Roma 1980, pp. 79 ss. (pp. 15-152), poi riedito in Id., Repubblica di Venezia e stati italiani, Torino 1982.
172. Mario Brunetti, Contributo alla storia delle relazioni veneto genovesi dal 1348 al 1350, "Miscellanea di Storia Veneta edita per cura della R. Deputazione di Storia Patria per le Venezie", ser. III, 9, 1916, pt. II, pp. 97-98 (pp. 1-160).
173. Si cf. il capitolo steso in questo volume da M. Knapton.
174. Treviso, Archivio di Stato, Comune, b. 1121, 4 ottobre 1361 (Provisio Dandulz).
175. M. Knapton, Venezia e Treviso nel Trecento, p. 53.
176. Pier Angelo Passolunchi, Nella decadenza del Trecento follinate: vicende e stato patrimoniale di un monastero cistercense veneto, "Benedictina", 31, 1984, p. 67 (pp. 47-78); Antonio Samaritani, Presenza monastica ed ecclesiale di Pomposa nell'Italia centrosettentrionale. Secoli X-XIV, Ferrara 1996, pp. 218-219.
177. La sola proba che riguardi quest'area durante il periodo della prima dominazione veneziana è relativa all'episcopato di Cèneda (1378): Cesare Cenci o.f.m., Senato veneto. "Probae" ai benefizi ecclesiastici, in Celestino Piana - Cesare Cenci o.f.m., Promozioni agli ordini sacri a Bologna e alle dignità ecclesiastiche nel Veneto nei secoli XIV-XV, ad Claras Aquas (Florentiae) 1968, p. 332 (pp. 313-432).
178. Cf. il paragrafo conclusivo di questo capitolo.
179. Fu il biografo del beato trevigiano Enrico da Bolzano.
180. Su Pietro da Baone cf. Giuseppe Liberali, La dominazione carrarese in Treviso, Padova 1935, pp. 137-141; Daniela Rando, Le elezioni vescovili nei secoli XII-XIV. Uomini, poteri, procedure, in Storia di Treviso, II, Il medioevo, a cura di Ead. - Gian Maria Varanini, Venezia 1991, p. 386 (pp. 375-397); G.M. Varanini, Istituzioni e società a Treviso, p. 184, per la citazione nel testo.
181. Anna Bellavitis, Noale. Struttura sociale e regime fondiario di una podesteria della prima metà del secolo XVI, Treviso 1994, pp. 9-10.
182. A. Redusio da Quero, Chronicon Tarvisinum, col. 745.
183. M. Knapton, Venezia e Treviso nel Trecento, p. 68 n. 58.
184. B. Beda Pazé, Quero dalle origini al XVIII secolo, p. 36.
185. Pier Angelo Passolunghi, I Collalto. Linee, documenti, genealogie per una storia del casato, Treviso 1987.
186. A. Redusio da Quero, Chronicon Tarvisinum, col. 752.
187. L'anno precedente, era stata proprio la scelta politica di Gherardo e Rizzardo da Camino ῾di sotto'di accostarsi a Venezia, e la conseguente reazione degli Scaligeri che avevano reclamato a nome del comune di Treviso i castelli di Motta di Livenza, Portobuffolè e Camino, a provocare l'attacco dei Caminesi contro Oderzo e l'inizio della guerra veneto-scaligera. Per tutto ciò cf. Gerolamo Biscaro, I falsi documenti del vescovo di Cèneda Francesco Ramponi, "Bullettino dell'Istituto Storico Italiano per il Medioevo", 43, 1925, pp. 93-178; ampia documentazione è edita da Nilo Faldon, L'῾allegatio' dei conti da Camino contro il vescovo di Cèneda Francesco Ramponi. La relativa ῾tabula' e il così detto ῾registro', in Il dominio dei Caminesi tra Piave e Livenza, Vittorio Veneto 1988, pp. 146-250. In breve cf. anche G.M. Varanini, Istituzioni, politica e società (1329-1403), pp. 92-93.
188. Danilo Gasparini, Signori e contadini nella contea di Valmareno. Secoli XVI-XVII, in Stato società e giustizia nella Repubblica veneta. Secoli XV-XVIII, a cura di Gaetano Cozzi, II, Roma 1985, pp. 133-190.
189. Consiglio dei Dieci. Deliberazioni Miste. Registro V (1348-1363), a cura di Ferruccio Zago, Venezia 1993, nr. 348, pp. 134-136 (1355).
190. Federico Stefani, Cordignano e i suoi signori, Venezia 1884, pp. 13-39; G. Del Torre, Il Trevigiano nei secoli XV e XVI, p. 37.
191. Amico nel 1376, ostile nel 1378.
192. Punto di riferimento complessivo per la storia friulana restano per il periodo citato le opere già menzionate del Paschini e del Cusin. Altre ricerche particolari saranno citate a suo luogo.
193. Concetti e citazioni sono ricavati da Paolo Camiviarosano, L'organizzazione dei poteri territoriali nell'arco alpino, in L'organizzazione del territorio in Italia e in Germania nel basso medioevo, a cura di Giorgio Chittolini - Dieter Willoweit, Bologna 1994, pp. 76-77 (pp. 71-80), e da Id., L'alto medioevo: verso la formazione regionale, in Il medioevo, a cura di Id., Tavagnacco 1988, pp. 141-154 (pp. 9-155) per il rapporto fra aristocrazia e principe territoriale. Sullo stato aquileiese nei secoli centrali del medioevo cf. anche Heinrich Schmidinger, Il patriarcato di Aquileia, in I poteri temporali dei vescovi in Italia e in Germania nel medioevo, a cura di Carlo Guido Mor - Heinrich Schmidinger, Bologna 1979, pp. 141-175, con rinvio a Id., Patriarch und Landesherr. Die weltliche Herrschaft der Patriarchen von Aquileja bis zum Ende der Staufer, Köln-Graz 1954.
194. P. Paschini, Storia del Friuli, II.
195. Nicolò di Lussemburgo è fratello dell'imperatore Carlo IV (per la cui politica in Italia cf. Ellen Widder, Itinerar und Politik. Studien zur Reiseherrschafl Karls IV. südlich der Alpen, Köln-Weimar-Wien 1993, con ampia bibliografia; e in particolare sui rapporti con Venezia a proposito della Dalmazia Heinz Stoob, Kaiser Karl IV. und seine Zeit, Graz-Wien-Köln 1990, pp. 313-316) e ne segue e ne appoggia in linea di massima la politica; in occasione della guerra mossale da Ludovico re d'Ungheria (1356-1358), è ostile alla Repubblica. Ludovico della Torre è costretto dalla forza a piegarsi a Rodolfo IV d'Asburgo, e si accosta a Francesco da Carrara; il Paschini lo considera, nella sua prospettiva ῾nazionale', attento a procurare "i veri interessi del Friuli", cioè un minimo di autonomia (P. Paschini, Storia del Friuli, II, p. 371). Il suo successore Marquardo di Randeck assume un atteggiamento francamente ostile a Venezia, motivato dalla crescente pressione veneta su Portogruaro, Marano, Muggia (dopo la conquista veneziana di Trieste, 1369); egli partecipa alla lega del 1376 con Francesco il Vecchio da Carrara e il regno d'Ungheria, che è la premessa alla guerra di Chioggia. I patriarcati di Filippo d'Alençon (filopadovano) e di Giovanni di Moravia, infine, sono più di tutti segnati dal condizionamento politico.
196. Si tratta di Petrocino arcivescovo di Ravenna (P. Paschini, Storia del Friuli, II, p. 339).
197. Citata da C.G. Mor, recensendo F. Seneca, L'intervento veneto-carrarese, p. 269. Cf. sul punto anche i brevi cenni di Tito Miotti, Udinesi e friulani ribelli: dal patriarcato d'Alenfon alle lotte fra Zambarlani e Strumieri, in Udin: mil agn tal cîar da Friûl, a cura di Giancarlo Menis, Udine 1983, pp. 119-128.
198. R. Cessi, Venezia neutrale nella seconda lega, p. 298 n. 2 (1396).
199. Per un quadro d'insieme cf. Le campagne friulane nel tardo medioevo. Un'analisi dei registri di censi dei grandi proprietari fondiari, a cura di Paolo Cammarosano, Udine 1985.
200. P. Paschini, Storia del Friuli, II, pp. 314, 325, 360.
201. Ibid., III, pp. 27 e 49 (n. 94); Fulvio Bonati Savorgnan D'Osoppo, Le ducali con bolla d'oro ai Savorgnan, "Atti dell'Accademia di Scienze, Lettere ed Arti di Udine", ser. VII, 6, 1963-1966, pp. 29-63.
202. D. Degrassi, L'economia, pp. 362-366 (Udine), 373 ss.; bibliografia a pp. 387-388. La documentazione udinese del Trecento è di notevole interesse anche nell'ottica dei rapporti con Venezia; cf. Raffaele Gianesini, I quaderni dei camerari del comune di Udine: prestiti e finanze comunali, "Metodi e Ricerche", n. ser., 10, 1991, pp. 63-80.
203. Su Trieste nel Trecento, cf. fra i contributi recenti Michele Zacchigna et al., Le magistrature cittadine di Trieste nel secolo XV. Guida e inventario delle fonti, Presentazione di Paolo Cammarosano, Roma 1982. Cf. anche Giovanni Cesca, Le relazioni tra Trieste e Venezia sino al 1381, Verona-Padova 1881, pp. 49-78.
204. P. Paschini, Storia del Friuli, II, p. 236. Su Portogruaro cf. Ernesto Degani, Il comune di Portogruaro. Sua diocesi e sue vicende (1140-1420), Pordenone 19792.
205. Ancora nel 1344 il conte Alberto III di Gorizia, erede dei domini istriani e vendici (mentre quelli friulani, pusteresi e carinziani spettarono nella divisione ad Enrico III e Mainardo VI), combatteva con Venezia in Istria, ma fu sconfitto. Per un quadro d'insieme sulla storia della famiglia, con bibliografia aggiornata, cf. Peter Štih, Studien zur Geschichte der Grafen von Görz. Die Ministerialen und Milites' der Grafen von Görz in Istrien und Krain, Wien-München 1996, pp. 11-39 (pp. 36-39 per il Trecento).
206. D'ora in poi essi non sono più un elemento attivo, ma "strumenti politici mossi dagli Absburgo": F. Cusin, Il confine orientale, p. 1.
207. Ibid., p. 44; ricorda la circostanza anche G. Cervani, La storia d'Italia e il concetto del confine orientale, p. XLII.
208. Fabio Cusin, Le aspirazioni austriache sulla contea di Gorizia e una pratica ignota del Consiglio dei X, "Memorie Storiche Forogiuliesi", 33-34, 1937-1938, pp. 82-85 (pp. 81-119).
209. P. Braunstein, Venezia e la Germania, p. 45.
210. P. Paschini, Storia del Friuli, Il, pp. 323-324.
211. Ibid.
212. F. Cusin, Il confine orientale, p. 67. Un cenno in Sante Bortolami, Una chiesa, una città: le origini del Duomo di Pordenone tra spirito civico e sentimento religioso, in San Marco di Pordenone, a cura di Paolo Goi, Pordenone 1993, p. 27 n. 28 (pp. 5-29); (si trattò peraltro di un passaggio di mano che si inserisce in una rapida sequenza di cessioni a famiglie friulane come i da Porcia, gli Spilimbergo, i Savorgnan, ai dazieri e milites veronesi - d'origine fiorentina - da Lisca a Bernabò Visconti). Cf. anche Andrea Benedetti, Origine del ῾corpus separatum' portonaonense, Pordenone 1973; Id., Storia di Pordenone, Pordenone 1964.
213. Sulla politica asburgica nel Trecento, cf. la sintesi di Günther Hödl, Habsburg und Österreich 1273-1493. Gestalten und Gestalt des Osterreichischen Spätmittelalter, Wien-Köln-Graz 1988, specie pp. 131-140; inoltre Alphons Lhotsky, Geschichte Osterreichs 1281-1358, Köln-Graz 1967.
214. Così a Parenzo, Umago, Cittanova, Capodistria, Pola (l'ultima ad essere assoggettata a Venezia, nel 1331), mentre solo Trieste con la vicina Muggia resisteva in una precaria libertà, pur confermando la sua fidelitas verso Venezia.
215. Un quadro brevissimo in G. Volpe, L'Italia e Venezia, pp. 45-46.
216. F. Cusin, Il confine orientale, p. 55
217. Per un quadro d'insieme cf. P. Braunstein, Venezia e la Germania, pp. 51 ss. (con cartina a p. 54). e in questo volume una cartina dei principali itinerari a corredo del capitolo steso da J.-C. Hocquet.
218. La più nota è forse la figura di Michele Rabatta, appartenente peraltro alla generazione successiva; Federico Seneca, Un diplomatico goriziano a cavaliere dei secoli XIV e Xv: Michele da Rabatta, "Memorie Storiche Forogiuliesi", 40, 1952-1953, pp. 138-174; Pio Paschini, Notizie friulane del 1408, ibid., pp. 2 19 ss. (pp. 219-226).
219. P. Paschini, Storia del Friuli, II, pp. 298, 310.
220. D. Degrassi, L'economia (cf. qui sopra, n. 46).
221. Nominativi numerosissimi si ricavano dalle ricerche erudite; ad esempio, nell'arco degli anni 1380-1385 il Paschini e il Cessi ricordano Francesco Zane, Marino Malipiero, Nicolò Valaresso, Pietro Morosini, Francesco Zorzi, Gabriele Emo, Giacomo Gradenigo, Daniele Corner, Pietro Querini, Giovanni Gradenigo, Leonardo Dandolo, Marco Rosso.
222. Sulla quale basti qui rinviare a Giorgio Ravegnani, Falier, Marino, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLIV, Roma 1994, pp. 429-4.38, con rinvio alla bibliografia (nella quale oltre ai classici lavori del Lazzarini e a quelli di F.C. Lane e di G. Cracco, cf. per un punto di vista un po' diverso dal consueto Giovanni Pillinini, Marino Falier e la crisi economica e politica della metà del '300 a Venezia, "Archivio Veneto", ser. V, 84, 1968, pp. 45-71).
223. Ricorda questo episodio L. Simeoni, Le signorie, I, p. 178.
224. Si v. al riguardo gli studi raccolti da S. Collodo, Una società in trasformazione, in partic. Signorie e mercanti: storia di un'alleanza, pp. 329-403.
225. Sante Bortolami, Frontiere politiche e frontiere religiose nell'Italia comunale: il caso delle Venezie, in Castrum 4. Frontiere et peuplement dans le monde méditerranéen au Moyen Äge, Rome-Madrid 1992, p. 225 (pp. 211-238).
226. Per tutto ciò cf. il preciso contributo di P. Sambin, La guerra del 1372-73, pp. 1-76, basato quasi esclusivamente sulle documentatissime cronache padovane (Nicoletto d'Alessio e Gatari), cui si accenna anche nel testo. Cf. anche Id., Schede per Nicoletto d'Alessio, "Archivio Veneto", ser. V, 48-49, 1951, pp. 1-3.
227. Sul testo di Nicoletto cf. Girolaimo Arnaldi - Lidia Capo, I cronisti di Venezia e della Marca Trevigiana, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 2, Il Trecento, Vicenza 1976, pp. 323-329, e pp. 311-337 per l'insieme della cronistica signorile padovana (pp. 272-337).
228. L. Simeoni, Le signorie, I, p. 179.
229. Per quanto segue cf. Gaetano Cogo, Il Patriarcato di Aquileia e le aspirazioni de' Carraresi al possesso del Friuli (1381-1389) con documenti inediti, "Nuovo Archivio Veneto", 16, 1898, pp. 229 ss. (pp. 223-320); R. Cessi, Venezia e la preparazione della guerra, pp. 414-478; F. Seneca, L'intervento veneto-carrarese, pp. 3 ss. (e la citata recensione di C.G. Mor a questa ricerca).
230. L. Simeoni, Le signorie, I, pp. 179-180.
231. Pier Liberale Rambaldi, Appunti friulani per la storia della guerra di Chioggia, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 15, 1908, pp. 191-209.
232. Nella sua Cronica de la guerra da Veniciani a Zenovesi, Daniele di Chinazzo dà ampie anche se intermittenti notizie delle vicende belliche che interessano l'entroterra veneziano fra il 1378 e il 1381, ma le tiene sempre distinte dalla trattazione, altrettanto e più ampia, della guerra marittima; anche il cronista-cancelliere Andrea Redusio assume, all'incirca, lo stesso atteggiamento. La limitata prospettiva non consente ai due cronisti di cogliere appieno la dipendenza dei fatti dei quali essi sono testimoni da quanto accade sul grande scenario adriatico: certo essi non sono favorevoli a Venezia, neppure dopo la riscossa che portò, nell'estate 1380, alla riconquista di Chioggia.
233. Dispacci di Pietro Cornaro, p. 99.
234. Una vecchia ricerca specifica sul tema è Giovanni Scaramella, I Visconti nella guerra di Chioggia, Catania 1898; ma cf. la puntualissima esposizione di Francesco Cognasso, L'uni zcazione della Lombardia sotto Milano, in Storia di Milano, V, La signoria dei Visconti (1310-1392), Milano 1955, pp. 502-510 (pp. 1-567), e inoltre Dispacci di Pietro Comaro, pp. 146 ss. (Appendice, testo della lega antigenovese del 14 novembre 1377), p. 4 (doc. 4) e passim. Per le forniture di grano e di armi che Pietro Corner tratta in questa occasione, cf. qui sopra, n. 118 e testo corrispondente.
235. Come già accennato (sopra, testo corrispondente a n. 21), si è parlato di ῾generazione di Chioggia' con allusione ai giovani patrizi che si formarono in quegli anni (M.E. Mallett, La conquista della Terraferma, p. 184).
236. Cf. AA.VV., 1382. Appunti sulla dedizione di Trieste al duca d'Austria, Trieste 1982, pp. 1-25.
237. Cf. ad esempio, in breve, Angelo Ventura, Il dominio di Venezia nel Quattrocento, in Florence and Venice: Comparisons and Relations. Acts of Two Confirences al Villa I Tatti in 1976-1977, a cura di Sergio Bertelli - Nicolai Rubinstein - Craigh H. Smyth, Firenze 1979, pp. 171-172, con rinvio agli studi del Thiriet (pp. 167-190), e in questo volume, il capitolo steso da Michel Balard.
238. M. Knapton, La finanza pubblica, in questo volume.
239. R. Cessi, Venezia e la preparazione della guerra, p. 5.
240. Sul quale, oltre alle ricerche di F. Seneca e R. Cessi citate alle nn. 5 e 9, cf. Vincenzo Marchesi, Filippo d'Alengon, patriarca d'Aquileia (1381-1387), "Annali del Regio Istituto Tecnico Antonio Zanon in Udine", ser. II, 9, 1891, pp. 1-20.
241. Francesco Novello vi rinunziò nel 1398, sì che ne furono reinvestiti Enrico e Giovanni Maina.rdo di Gorizia (Pio Paschini, Il patriarca Antonio Caetani [1395-1402>, "Memorie Storiche Forogiuliesi", 27-29, 1931-1933, pp. 159-160 [pp. 73-205>).
242. R. Cessi, Venezia e la preparazione della guerra, p. 32.
243. Per quanto segue cf., oltre all'esposizione sintetica ma come sempre limpida di L. Simeoni, Le signorie, I, pp. 198-200: G. Collino, La preparazione della guerra veneto - viscontea contro i Carraresi, pp. 209-289; Id., La guerra viscontea contro gli Scaligeri, pp. 135-159, passim; John E. Law, La caduta degli Scaligeri, in Istituzioni, società e potere nella Marca trevigiana e veronese (secc. XIII-XIV). Sulle tracce di G.B. Verci, Atti del convegno, Treviso 25-27 settembre 1986, a cura di Gherardo Ortalli - Michael Knapton, Roma 1988, pp. 83-98; R. Cessi, Venezia e la prima caduta dei Carraresi, pp. 17 1-190.
244. R. Cessi, Venezia e la prima caduta dei Carraresi, p. 189.
245. Id., Venezia e la preparazione della guerra, p. 9.
246. La volontà popolare ebbe dunque un certo peso; anche L. Simeoni, Le signorie, I, p. 200, afferma che "Treviso volle ritornare a Venezia", e non a caso alla ῾dedizione' trevigiana dedicava un cenno anche Francesco Ercole, Dal comune al principato. Saggi sulla storia del diritto pubblico del rinascimento italiano, Firenze 1929, p. 99 (il saggio Comuni e signori nel Veneto [Scaligeri Caminesi Carraresi> risale al 1912).
247. Su questi avvenimenti, l'informata e critica (e trascurata) monografia di G. Liberali, La dominazione carrarese in Treviso, pp. 25-51 (a p. 50 la citazione puntuale nel testo) e p. 195 (doc. XXXVI), supera la ricerca (risalente al 1908) del suo maestro Roberto Cessi, Il tumulto di Treviso (1388), in Id., Padova medioevale. Studi e documenti, raccolti e riediti da Donato Gallo, I, Padova 1985, pp. 198-199 (pp. 191-214).
248. R. Cessi, Venezia e la preparazione della guerra, p. 28.
249. Ester Pastorello, Nuove ricerche sulla storia di Padova e dei principi da Carrara al tempo di Gian Galeazzo Visconti, Padova 1908.
250. Per quanto segue, cf. R. Cessi, La politica veneziana di terraferma dalla caduta dei Carraresi; F. Cusin, Il confine orientale, pp. 127-141; Federico Seneca, Il conflitto fra Giovanni di Moravia e gli Udinesi (1389-1394), "Archivio Veneto", ser. V, 46-47, 1950, pp. 45-68; Pier Silverio Leicht, L'esilio di Tristano di Savorgnano, "Memorie Storiche Forogiuliesi", 35-36, 1939-1940, pp. 37-68; 37, 1941, pp. 1-49, poi in Id., Studi di storia friulana, Udine 1955; Liliana Cargnelutti, Tristano Savorgnan (1337-1440) nella crisi del Patriarcato, in AA.VV., I Savorgnan e la Patria del Friuli dal XIII al XVIII secolo, Udine 1984, pp. 113- 117.
251. R. Casi, La politica veneziana di terraferma dalla caduta dei Carraresi, p. I. Su questi concetti ritorna insistentemente il Cessi, nei suoi numerosi lavori; cf. ad esempio Venezia e la prima caduta dei Carraresi, p. 175 ("il governo veneto considerava la questione del Friuli come quella di capitale importanza") e n. 17 (in polemica con uno storico ῾visconteo', come Giacinto Romano, e con la Pastorello).
252. Id., Venezia neutrale nella seconda lega, pp. 246-249. L'eventualità dell'acquisto di Sacile si ripresentò nel 1409-1 410, ma neppure allora fu colta.
253. P. Paschini, Il patriarca Antonio Caetani, pp. 160- 163.
254. Voluto per vendetta da Tristano Savorgnan, figlio di Federico.
255. Nella sedevacanza, il capitolo aquileiese aveva eletto vicedomino il plenipotenziario carrarese Michele Rabatta; la nobiltà friulana inoltre aveva appoggiato, nel 1390, la restaurazione carrarese.
256. Cf. qui sotto, n. 305 e testo corrispondente. Le motivazioni addotte per sostenerlo, presso il comune di Bologna (che si mobilita, e mobilita i propri alleati: l'elezione è un fatto che interessa ormai tutta la politica italiana), sono la salus patriarchatus ma anche il collegatorum robur, la forza della lega antiviscontea, della quale Venezia si era disinteressata ma che qui strumentalmente tira in ballo.
257. Pier Silverio Leicht, Trattative diplomatiche veneziane per l'elezione patriarcale del 1394, "Memorie Storiche Forogiuliesi", 19, 1923, pp. 203-211; P. Paschini, Il patriarca Antonio Caetani, pp. 73 ss.; Id., L'Istria patriarcale durante il governo del patriarca A. Caetani, Parenzo 1930. E interessante osservare che pochissimi anni più tardi (1396) il senato ritiene inopportuno che un patrizio veneto assuma la carica di visdomino del Friuli, offerta dal nuovo patriarca (R. Cessi, Venezia neutrale nella seconda lega, p. 298).
258. Castrocaro fu affidata in custodia a Francesco Novello, signore di Padova, che la controllava ancora nel 1402; cf. Il copialettere marciano della cancelleria carrarese (gennaio 1402-gennaio 1403), a cura di Ester Pastorello, Venezia 1915, pp. 1-2, docc. 1-2; G. Bolognini, Le relazioni, pp. 81 ss.
259. A. Padovani, Ludovico Alidosi e la politica italiana, pp. 31-32.
260. R. Cessi, Venezia neutrale nella seconda lega, pp. 279-280.
261. Benvenuto Cessi, Venezia, Padova e il Polesine di Rovigo, Città di Castello 1904, p. 67.
262. R. Cessi, La politica veneziana di terraferma dalla caduta dei Carraresi, pp. 26 (" [...> disinteresse che potrebbe esser giudicato anche negligente"), I ("linea di condotta che si può, se non giustificare, certo spiegare").
263. R. Cessi, Venezia neutrale nella seconda lega, p. 293 (anche per la citazione) e n. 2.
264. La pace fu formalizzata solo nella primavera del 1400.
265. P. Paschini, Il patriarca Antonio Gaetani, pp. 73 ss.; Id., Storia del Friuli, III, pp. 87 ss.; R. Cessi, Venezia neutrale nella seconda lega, pp. 300-307.
266. Di eventi "tanto improvvisi quanto inevitabili" parla anche M.E. Mallett, La conquista della Terraferma, al quale si rinvia per ulteriori particolari (pp. 181-192).
267. L. Simeoni, Le signorie, I, p. 213.
268. G. Romano, La pace tra Milano e i Carraresi, pp. 841-857; Italo Raulich, La caduta dei Carraresi signori di Padova, con documenti, Padova 1890; Gigliola Soldi Rondinini, La dominazione viscontea a Verona (1387-1404), in AA.VV., Verona e il suo territorio, IV, Verona 1983 [ma 1978>, pp. 222-229 (pp. 3-241).
269. M.E. Mallett, la conquista della Terraferma, p. 185.
270. Seguiamo da vicino l'esposizione dei fatti in L. Simeoni, Le signorie, I, pp. 416-417 (che giustamente ne fa un esame assai minuto, apparentemente sproporzionato alle esigenze di un'opera di sintesi, ma molto attento alla cronologia, che è un fattore essenziale). Una delle basi documentarie del Simeoni è Italo Raulich, Per un error di cronisti. L'acquisto di Vicenza pei Veneziani, "Nuovo Archivio Veneto", 5, 1893, p. 387 (pp. 383-395); e cf. ora soprattutto Antonio Menniti Ippolito, La " fedeltà" vicentina e Venezia. La dedizione del 1404, in Storia di Vicenza, III, 1, L'età della Repubblica veneta (1404-1797), a cura di Franco Barbieri - Paolo Preto, Vicenza 1989, pp. 31 ss., e 33 per la citazione nel testo (pp. 29-43).
271. Secondo una tarda cronaca (citata da A. Menniti Ippolito, La "fedeltà" vicentina e Venezia, p. 33 n. 23) i Vicentini avrebbero discusso del "far principe" il loro cittadino più eminente, il miles Giampietro Proti. La percezione che Vicenza fosse "sponte soto l'imperio venitiano venuta" è ancora, nel 1483, del Sanudo (Marjn Sanudo, Itinerario per la Terraferma veneziana compiuto l'anno MCCCCLXXXIII, a cura di Rawdon Brown, Padova 1847, p. 108).
272. A. Menniti Ippolito, " La fedeltà" vicentina e Venezia, p. 32 n. 14.
273. M.E. Mallett, La conquista della Terraferma, p. 184.
274. Ne è ben consapevole A. Menniti Ippolito, La "fedeltà" vicentina e Venezia, pp. 32-33.
275. Per una esposizione analitica delle vicende militari, cf. M.E. Mallett, La conquista della Terraferma, pp. 185-188.
276. M. Knapton, Per la storia del dominio veneziano nel Trentino, pp. 187-190; John E. Law, A New Frontier: Venice and the Trentino in the Early Fifteenth Centuzy, in Il Trentino in età veneziana, Rovereto 1989 ("Atti dell'Accademia Roveretana degli Agiati", ser. VI, 28, 1988), pp. 159-181.
277. Ricostruzione puntuale in Luigi Messedaglia, La dedizione di Verona a Venezia e una bolla d'oro di Michele Steno, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 95, 1935-1936, pp. 75-103; cf. anche Carlo Cipolla, Compendio della storia politica di Verona, Mantova 19763, pp. 165-167 (la ricerca risale al 1899).
278. M.E. Mallett, la conquista della Terraferma, p. 188. L'osservazione è motivata dalla spietata esecuzione di Francesco Novello e dei suoi due figli.
279. Ibid., p. 186.
280. Cf. già L. Simeoni, Le signorie, I, pp. 419-420. Va rimarcato al riguardo che l'orientamento favorevole alla pace è mantenuto anche successivamente all'emergere dei contrasti fra Tamerlano e i Turchi.
281. G. Soldi Rondinini, La dominazione viscontea, p. 229. E una mera coincidenza, ma lacopo dal Verme gestì nel 1388, da comandante dei viscontei, anche la seconda dedizione di Treviso a Venezia (R. Cessi, Il tumulto di Treviso, p. 199).
282. M.E. Mallett, La conquista della Terraferma, p. 185.
283. Per l'importanza per molti aspetti decisiva della dominazione viscontea su Verona e Vicenza, cf. G.M. Varanini, Istituzioni, politica e società (1329-1403), pp. 105-111, con riferimento a precedenti studi.
284. John E. Law, L'autorità veneziana nella Patria del Friuli agli inizi del XV secolo: problemi di giustificazione, in AA.VV., Il Quattrocento nel Friuli occidentale, I, La vicenda storica. Spunti di storiografia musicale. Libri, scuole e cultura, Pordenone 1996, p. 35 (pp. 35-51).
285. Per i suoi rapporti con Venezia, dati e bibliografia in Marija Wakounig, Dalmatien und Friaul. Die Auseinandersetzungen zwischen Sigismund von Luxemburg und der Republik Venedig um die Vorherrschaft im adriatischen Raum, Wien 1990; della vecchia produzione erudita mi sembra ancora utile Hermann Herre, Die Beziehungen Kdnig Sigmunds zu Italien vom Herbst 1412 bis zum Herbst 1414, "Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken", 4, 1902, pp. 1-62, e tra le ricerche italiane cf. F. Cusin, Il confine orientale. In breve cf. anche Sabine Wefers, Das politische System Kaiser Sigmunds, Stuttgart 1989, pp. 36 ss.; Wilhelm Baum, Kaiser Sigmund, Graz-Wien-Köln 1993, pp. 83-99.
286. L. Simeoni, Le signorie, I, p. 437.
287. Gaetano Colo, Brunoro Dalla Scala e l'invasione degli Ungari del 1411, "Nuovo Archivio Veneto", 5, 1893, pp. 302 ss. (pp. 295-332); John E. Law, Venice, Verona and the Della Scala after 1405, "Atti e Memorie dell'Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere di Verona", ser. VI, 29, 1977-1978, pp. 157-185; Roberto Cessi, Congiure e congiurati scaligeri e carraresi, in Id., Padova medioevale. Studi e documenti, raccolti e riediti da Donato Gallo, I, Padova 1985, pp. 247-267 (la ricerca risale al 1909).
288. Sul quale cf. D. Girgensohn, Kirche, Politile und Adelige Regierung, I, pp. 272-306.
289. Pier Silverio Leicht, Il tramonto dello stato patriarcale e la lotta delle parti in Friuli durante le tregue del 1413-1418, in Miscellanea Pio Paschini, II, Roma 1949, pp. 83-108, con rinvio ad altre numerose ricerche dello stesso autore.
290. Gherardo Ortalli, Le modalità di un passaggio: il Friuli occidentale e il dominio veneziano, in AA.VV., Il Quattrocento nel Friuli occidentale, I, La vicenda storica. Spunti di storiografia musicale. Libri, scuole e cultura, Pordenone 1996, pp. 15-19 (pp. 13-33). All'apparato bibliografico di questo saggio si rinvia comunque anche per quanto esposto di seguito.
291 I. Hermann Heimpel, Zur Handelspolitik Kaiser Sigmunds, Vierteljahrschrift fün Sozial- und Wirtschaftsgeschichte", 23, 1930, pp. 145-156; Peter Klein, Kaiser Sigismunds Handelssperre gegen Venedig, in AA.VV., Aus Verfassungsgeschichte und Landesgeschichte. Festschrift Th. Mayer, II, Konstanz 1954, pp. 321-328; Georg Székely, Les facteurs économiques et politiques dans les rapports de la Hongrie et de Venise à l''oque de Sigismond, in Venezia e Ungheria nel Rinascimento, a cura di Vittore Branca, Firenze 1973, pp. 37-51.
292. G. Ortalli, Le modalità di un passaggio: il Friuli occidentale, pp. 19-28, con la limitazione geografica di cui nel titolo; a p. 13 precisi riferimenti cronologici agli avvenimenti del maggio-luglio 1420.
293. Pio Paschini, Ludovico cardinale camerlengo e i suoi maneggi sino alla morte di Eugenio IV (1447), "Memorie Storiche Forogiuliesi", 26, 1930, pp. 50-61 (pp. 27-74); J. E. Law, L'autorità veneziana nella Patria, pp. 43-44,
294 Oltre ai saggi citati nelle due nn. precedenti, su questi problemi cf. John E. Law, Venice and the Problem of Sovereignty in the Patria del Friuli, 1421, in Florence and Italy: Renaissance Studies in Honour of Nicolai Rubinstein, a cura di Peter Denley - Caroline Elam, London 1988, pp. 135-147; Dieter Girgensohn, La crisi del patriarcato di Aquileia. Verso l'avvento della Repubblica di Venezia, in AA.VV., Il Quattrocento nel Friuli occidentale, I, La vicenda storica. Spunti di storiografia musicale. Libri, scuole e cultura, Pordenone 1996, pp. 53-68; Sergio Zaiviperetti, I piccoli principi. Signorie, feudi e comunità soggette nello stato regionale veneto dall'espansione territoriale ai primi decenni del '600, Venezia 1991, pp. 192 ss. Nella bibliografia precedente cf. Gaetano Cogo, La sottomissione del Friuli al dominio della Repubblica veneta, "Atti dell'Accademia di Udine", ser. II, 3, 1886, pp. 1-54; P. Paschini, Storia del Friuli, III, pp. 125-153, 155-173; F. Cusin, Il confine orientale, pp. 220-227.
295. Cf. qui sopra, nn. 1 e 150 e testo corrispondente.
295. In una bibliografia recente che è amplissima, l'esempio migliore resta a mio avviso la monografia di James S. Grubb, Firstborn of Venice. Vicenza in the Early Renaissance State, Baltimore-London 1988; qualche accenno in questa direzione anche in Gian Maria Varanini, Comuni cittadini e stato regionale. Ricerche sulla Terraferma veneta nel Quattrocento, Verona 1992. Cf. comunque M.E. Mallett, La conquista della Terraferma, e in generale John E. Law, The Venetian Mainland State in the Fftteenth Century, "Transactions of the Royal Historical Society", ser. VI, 2, 1992, pp. 153-174. Come termine di confronto complessivo basti qui rinviare a Origini dello Stato, ove non mancano contributi specificamente dedicati allo stato veneto.
297. G. Ortalli, Le modalità di un passaggio: il Friuli occidentale, p. 27.
298. Ibid., p. 28, ove pure si parla di "modello di statualità peculiare, fondato su un policentrismo con forte grado di coesione".
299. Per i dati che seguono cf. Giovanni Netto, I podestà di Treviso medievale 1176-1388, "Atti e Memorie dell'Ateneo di Treviso", n. ser., 10, 1992-1993, pp. 29-30, 51 ss. (pp. 7-62); Vittorio Fainelli, Podestà e ufficiali di Verona dal 1305 (sec. sem.) al 1405 (prim. sem.), "Atti e Memorie dell'Accademia di Agricoltura, Scienze e Lettere di Verona", ser. IV, 9, 1908, pp. 155-256; Domenico Bortolan, Podestà e giudici di Vicenza dal 1311 al 1404, Vicenza 1887; Dei podestà che furono in Padova durante la dominazione carrarese. Serie cronologica provata co' documenti da Andrea dott. Gloria, Padova 1859.
299. Marco Pozza, Podestà e funzionari veneziani a Treviso e nella Marca in età comunale, in Istituzioni, società e potere nella Marca trevigiana e veronese (secc. XIII-XIV). Sulle tracce di G.B. Verci, Atti del convegno, Treviso 25-27 settembre 1886, a cura di Gherardo Ortalli - Michael Knapton, Roma 1988, pp. 301-302 (pp. 291-303), e n. 51 per dati d'insieme sulle magistrature ricoperte da Veneziani dal 1266 agli inizi del Quattrocento. Nel 1318 si era stabilito per esempio che "nullus Venetus possit ire aliquo modo in potestatem Tarvisii usque ad X annos" (Id., Penetrazione fondiaria e relazioni commerciali, p. 315). Un cenno d'insieme anche in Alfredo Viggiano, Aspetti politici e giurisdizionali dell'attività dei rettori veneziani nello ῾Stato da Terra' del Quattrocento, "Società e Storia", 17, 1994, pp. 473-474 (pp. 473-505).
301. Due tra i podestà padovani di fine Trecento, Iacopo Gradenigo e Antonio Bembo (cf. qui sotto, n. 304), sono attivi anche a Firenze, ove patrizi veneziani figurano per sei volte, fra il 1378 e il 1394, come capitani del popolo e come podestà. Fra gli altri nomi, Fantino Zorzi e Gabriele Emo; in totale cinque capitaniati e un podestariato (G. Bolognini, Le relazioni, p. 5). Sul punto cf. anche Reinhold C. Mueller, Mercanti e imprenditori fiorentini a Venezia nel tardo Medioevo, "Società e Storia", 15, 1992, p. 42 n. 27 (pp. 29-60).
302. Orso Giustinian (1339-1340), Marco Dandolo (1345-1346), Luca Leon detto Trapola (1351 e 1362), Marco Soranzo e Nicolò Giustinian (1354-1355), Giovanni Contarini (13 70-1371).
303. Tappa del cursus honorum per uomini di governo e d'armi come i dogi Falier e Celsi che vanno anche in Adriatico, in Grecia, nel Levante. Fra gli anni '20 e '40, anche la carriera di un Pietro Canal si svolge fra un capitaniato del Golfo, le podesterie a Serravalle e Treviso, l'assedio di Zara (Laura Giannasi, Canal, Pietro, in Dizionario Biografico degli Italiani, XVII, Roma 1974, pp. 673-676).
304. Si tratta di Iacopo Gradenigo (1392 e 1399), Maffeo Memmo (1393-1394), Pietro Pisani (dal 1395 al 1398), Francesco Bembo (1400), Antonio Bembo (1402). Ovviamente, per questi podestà padovani non si può escludere l'eventualità di un interesse economico-patrimoniale personale, che si intrecci con la funzione pubblica.
305. Percy Gothein, Zaccaria Trevisan il Vecchio. La vita e l'ambiente, Venezia 1942.
306. La sua carriera è ricostruita da Giuseppe Gullino, Emo, Pietro, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLII, Roma 1993, pp. 653-655.
307. R. Cessi, La politica veneziana di Terraferma, p. 27.
308. Giuseppe Gullino, Emo, Gabriele, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLII, Roma 1993, pp. 625-628; J. E. Law, Rapporti di Venezia con le province, p. 83; Id., La caduta degli Scaligeri, pp. 85-86.
309. Donald E. Queller, Early Venetian Legislation on Ambassadors, Genève 1966, specie pp. 14-20; M. Knapton, in questo volume.
310. Arturo Segre, Carmi latini inediti del secolo XIV intorno alla guerra di Ferrara del 1309, "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 15, 1908, p. 339 (pp. 322-359).
311. La delegazione era composta, si è detto, di "dodici maiurienti de Venezia, grannissimi mercatanti e ricchissime perzone, savii e descreti, tutti vestiti de una robba, panni devisati de scarlatti e de velluti verdi, e aitri lavorieri forrati de vari, moito assettati"; i ricchi copricapi erano "appistigliati de pistiglioni de ariento 'naorati", le cinture (correie) "smaltate". Gli ambasciatori "con donzelli assai e aitra famiglia passano lo mare, e in terra ferma montano in lor piccoli palafrenotti e vengone a Verona: venivano trottanno l'uno dereito a l'aitro como fussino miedici". L'apparato fece colpo sulla popolazione veronese: "moita iente loro trasse a vedere, granne maraviglia se fao orno de così nova devisanza. Parevate vedere lo ioco de Testaccia de Roma [...> così li guardava orno fitto como fussino lopi, e questo perché l'abito loro era moito devisato dallo abito degli cortisciani", vestiti in modo assai più ricercato con cotte alla catalana, "forrate de frigolane endisine de sopra", oppure con "cappe alamanne forrate de vari", cappucci con fregi d'oro, calze, ecc. Anche durante il lussuosissimo banchetto, apparecchiato per oltre ottocento persone, "non se despogliaro loro larghi tabarretti, anche con essi se misero a tavola. Granne era lo ridere che orno faceva de essi. Così stavano assemmoti como fussino Patarini ovvero scommunicati. Tutta la iente li resguardava como alocchi". Cf. Anonimo Romano, Cronica, pp. 28-29.
312. Rispettivamente, Zaccaria Trevisan e Giovanni Contarini. Si sofferma brevemente su costoro, e in generale sul problema degli studi universitari dei Veneziani agli inizi del Quattrocento, Giuseppina De Sandre, Dottori, Università, comune a Padova nel Quattrocento, "Quaderni per la Storia dell'Università di Padova", 1, 1968, pp. 15-16 e n. 2 di p. 16 (pp. 15-47); ai nomi ivi citati si aggiungano quelli di Niccolò Leonardi (che studia anche a Bologna), Pietro Tomasi (Margaret L. King, Venetian Humanism in an Age of Patrician Dominante, Princeton [N. J.> 1986, pp. 387-389, 434-436). Un breve cenno sul problema dà anche Franois Dupuigrenet Desroussilles, L'Università di Padova dal 1405 al concilio di Trento, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 3/II, Dal primo Quattrocento al Concilio di Trento, Vicenza 1980, pp. 607-610 (pp. 607-647).
313. Monumenti dell'Università di Padova dal 1318 al 1405, a cura di Andrea Gloria, Padova 1888. Nelle nn. seguenti il primo numero indica il documento, il secondo l'anno. Si sono omesse per brevità le referenze per l'ultimo periodo considerato. Il Gloria rese noto pure (pp. 69-75) il dato relativo alla matricola del 1382, citato nel testo.
314. Senza distinzione fra studenti e docenti.
315. Fra i quali Lorenzo Badoer e Paolo Foscari (327, 1370), Francesco Lando dottore in utroque (501, 1375), Antonio Dolfin scolaro in diritto civile (560, 1376).
316. Fra i quali Andrea Michiel (572, 1382) e Benedetto Bon lector gramatice (1048, 1386).
317. Monumenti dell'Università di Padova, pp. 357-358, 397-398, 370-372.
318. Rinvio per questo al paragrafo iniziale del capitolo da me steso per il vol. V di questa Storia di Venezia, con riferimenti bibliografici e discussione.
319. Giuseppe Del Torre, Stato regionale e benefici ecclesiastici: vescovi e canonicati nella Terraferma veneziana all'inizio dell'età moderna, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti", 151, 1992-1993, pp. 1173-1236; D. Girgensohn, Kirche, Politile und Adelige Regierung, I, pp. 103-114. Pone esplicitamente il problema della continuità tra la politica ecclesiastica veneziana e quella dei precedenti regimi anche Giuseppina De Sandre Gasparini, Chiese venete e signorie cittadine: vescovi e capitoli fra pressione politica e autonomia istituzionale, in Il Veneto nel medioevo. Le signorie trecentesche, a cura di Andrea Castagnetti - Gian Maria Varanini, Verona 1995, pp. 350-351 (pp. 311-356).
320. Pietro Domenico Pasolini, Francesco Michiel vescovo di Ravenna nel secolo XIV, Ravenna 1876. Anche nella prima metà del Quattrocento, prima della conquista di Ravenna, il clero locale appare aperto all'influenza veneziana: Giovanni Montanari, Istituzioni religiose e vita religiosa a Ravenna in età veneziana, in Ravenna in età veneziana, a cura di Dante Bolognesi, Ravenna 1986, pp. 69-70 (pp. 69-88).
321. Cf. qui sopra, nn. 179-180 e testo corrispondente.
322. G. Liberali, La dominazione carrarese, pp. 137-148 (citazione a p. 147).
323. Luigi Pesce, La chiesa di Treviso nel primo Quattrocento, I, Roma 1987, pp. 176-177.
324. C. Cenci, Senato veneto. "Probae", pp. 332-333.
325. P.A. Passolunghi, Nella decadenza del Trecento follinate, pp. 52 Ss.
326. Cf., per le istituzioni sopra citate, L. Pesce, La chiesa di Treviso, pp. 554 Ss., 569 ss., 573 ss.
327. C. Cenci, Senato veneto. "Probae", pp. 342, 345.
328. Pio Paschini, Un secolo di storia rosacense. Note e documenti sull'abbazia di Rosazzo nel secolo XV, "Memorie Storiche Forogiuliesi", 21, 1925, pp. 110, 115 (pp. 109-136).