Venezia e la politica italiana: 1454-1530
I negoziati per la pace, e per un concordato che risolvesse i contenziosi che dividevano gli Stati italiani, si aprirono a Roma nel 1453 sotto gli auspici di papa Niccolò V. Ma non sarebbe stata l'autorità, o la disinteressata opera diplomatica, del papa, e nemmeno la nuova minaccia turca dopo la caduta di Costantinopoli, a porre fine al lungo stato di guerra. Dopo l'interruzione delle trattative a Roma, furono invece le conseguenze concrete dello stallo militare e della consunzione finanziaria a provocare l'incontro dei delegati milanesi e veneziani, a Lodi nell'aprile 1454, per un negoziato bilaterale segreto. Una volta concordate le condizioni di pace tra i due contendenti principali, ai loro alleati non restò che accordarsi. La pace di Lodi sancì, in buona sostanza, lo status quo in Lombardia: Venezia si rassegnava a cedere il Polesine a Ferrara, e riceveva Crema da Milano in cambio del riconoscimento della legittimità del titolo ducale di Francesco Sforza. Ma fu un compromesso insoddisfacente per entrambe le parti: gli Sforza non avrebbero mai accettato le perdite territoriali nel cuore della Lombardia subite negli ultimi trent'anni, e Venezia non era riuscita a garantirsi una solida frontiera sul Po e sull'Adda (1).
Comunque fosse, era pace, e il passo successivo fu la costituzione di un'alleanza che ne potesse assicurare la stabilità. Firenze fu convinta a aderirvi nell'agosto 1454, e nel corso dell'inverno sia Niccolò V che Alfonso d'Aragona accettarono di entrare in una coalizione generale. Il 25 marzo 1455 la Lega italica fu proclamata in tutte le maggiori città della penisola.
Da più di settant'anni la Lega italica è un tema chiave nel dibattito storico. Per alcuni fu un punto di partenza costruttivo e innovativo, non soltanto nella direzione di un lungo periodo di coesistenza relativamente pacifica in Italia, ma anche di una nuova era nelle relazioni internazionali in Europa. Altri l'hanno considerata una vuota impostura, il frutto di effimere convenienze, una cinica copertura delle fratture che si spalancavano in un mondo di rapporti interstatali dominato dall'egoismo, dal sospetto e dalla paura. È quest'ultima interpretazione la più diffusa nella storiografia recente, ma rimane il fatto che il periodo inaugurato dalla pace di Lodi e bruscamente concluso dall'invasione di Carlo VIII nel 1494 presenta una certa coerenza, e si distingue in modo assai netto dai turbolenti anni della prima metà del secolo (2).
I firmatari della Lega italica si impegnavano a un'alleanza difensiva per venticinque anni; ogni singolo Stato accettava di mantenere una forza militare permanente proporzionale alle sue risorse e alle sue dimensioni; si identificavano le zone di influenza riconoscendo a ciascuno dei cinque Stati maggiori i suoi satelliti nelle zone confinanti, che venivano integrati nell'assetto difensivo; le grandi potenze straniere venivano escluse dalla partecipazione alla Lega. I risultati furono il riconoscimento dello status quo in Italia, la rinuncia, per il momento, ad ogni aspirazione egemonica, e un minimo di ostilità comune nei confronti di qualsiasi interferenza straniera negli affari italiani. Non vi fu alcun appello specifico alla crociata, come avrebbe invece voluto il papa, perché Venezia aveva recentemente concluso una tregua con i Turchi. Firenze esitò ad accettare l'esclusione della Francia, con la quale intratteneva relazioni commerciali sempre più estese, ma gli interessi antiangioini e antiorleanisti di Napoli e Milano ebbero il sopravvento. Vi furono rilevanti eccezioni al principio delle zone di influenza protette di fronte all'insistenza con cui Alfonso d'Aragona poneva come condizione della sua adesione alla Lega una conferma delle antiche pretese napoletane su Genova e su Rimini. Si accettarono limitati sacrifici e consistenti compromessi nell'interesse della pace e della ripresa dell'attività economica; ma proprio quell'attività avrebbe generato nuove rivalità. Il controllo della spesa militare produsse l'idea dell'equilibrio di potere, ma creò anche i problemi di una smobilitazione su vasta scala, con grande insoddisfazione dei condottieri. Il negoziato e la diplomazia ebbero la meglio sul ricorso alla forza, ma al prezzo di un nuovo clima di sospetto, di sotterfugio, di doppiezza.
In un'era dominata da nuovi principi e oligarchie ristrette, le crisi di successione divennero i punti caldi della tensione internazionale; soffocate le ambizioni territoriali, le armi della rivalità tra gli Stati erano ormai la sovversione interna, le pressioni economiche, gli accordi segreti e le cospirazioni.
Tutto questo sta a indicare un'atmosfera inquieta, che ha ben poco a che fare con l'idilliaca visione guicciardiniana dell'Italia prima del 1494. Come osserva Corrado Vivanti, "in effetti la ῾bilancia' d'Italia non è tanto il frutto di una sagace e sottile elaborazione politica, quanto il risultato di una somma di debolezze" (3). La Lega generale d'Italia divenne ben presto una giustapposizione di leghe contrapposte; la retorica dell'"equilibrio" e della "libertà d'Italia" divenne appannaggio degli Stati più deboli, come Firenze; e gli appelli all'intervento e al sostegno straniero non tardarono a riaffermarsi come aspetto permanente della politica italiana.
La presenza di Venezia in questo complesso mondo politico va inquadrata essenzialmente nella logica dell'isolamento e del distacco. La paura della Repubblica e della sua potenza finanziaria e militare fu un fattore saliente delle posizioni politiche dell'epoca, e uno dei motivi del suo relativo isolamento. Ma era una paura nata dall'invidia e dal risentimento, piuttosto che da una valutazione realistica delle sue ambizioni e intenzioni politiche. Sul finire degli anni Quaranta gli agenti di Francesco Sforza lanciarono una campagna di propaganda diplomatica per screditare e isolare Venezia, subito raccolta da Firenze, che rinnegò l'alleanza legando le sue sorti a quelle della Milano sforzesca. Nella seconda metà del secolo l'idea che la Repubblica aspirasse all'"imperio d'Italia" divenne un luogo comune della retorica diplomatica: a dimostrarne la verità si adducevano le prese di posizione diplomatiche e militari della Serenissima nel periodo della Repubblica Ambrosiana, ma scopo principale della propaganda era l'isolamento di Venezia negli anni di guerra tra il 1451 e il 1454. Nicodemo Tranchedini, inviato di Francesco Sforza a Roma nel 1451, diceva a Niccolò V che i Veneziani "sono homini diabolici et che non hano honore, conscientia, né Dio inanti agli ochii, che cercano di conquistare Italia" (4).
Il tema retorico sarebbe persistito per molti anni dopo la fine delle guerre nel 1454, soprattutto nel linguaggio della diplomazia fiorentina. I cancellieri umanisti avrebbero reiterato quell'invettiva per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta, e nel ventennio successivo l'avrebbe ripresa lo stesso Lorenzo de' Medici (5). Nel 1467 Zuane Gonela, un segretario veneziano di passaggio per Milano, fu accolto dal duca Galeazzo Maria Sforza con questa invettiva: "Sete soli, et havete tutto'1 mondo contra: se sapesti la male volontà che tutti hanno contra di voi, vi se rizzeriano i capelli, et lasceresti viver ogn'uno nel suo stato" (6).
Tanta animosità aveva ottimi motivi pratici. La perdita del Bresciano e del Bergamasco rimaneva questione scottante nei rapporti con il regime sforzesco, e per tutto il periodo fino al 1494. produsse sporadiche esplosioni di aggressività. In genere Venezia reagiva a queste minacce di contrattacco con iniziative diplomatiche in Monferrato, in Savoia e persino in Francia per spostare l'attenzione di Milano sul suo fronte occidentale. Per Firenze le questioni principali erano di carattere commerciale, in quanto voleva espandere la sua rete di scambi diretti nel Mediterraneo orientale, spezzando i monopoli veneziani e approfittando dello scontro tra la Repubblica e i Turchi. La ricerca di nuove rotte portò i mercanti fiorentini a utilizzare in modo sempre più massiccio i porti adriatici degli Stati pontifici, in particolare Ancona, il che a sua volta generò una crescente ostilità per l'influenza veneziana in Romagna e nelle Marche, un'area che Firenze aveva sempre guardato con attivo interesse. La Romagna, specie dopo l'occupazione di Ravenna nel 1441 e l'acquisto di Cervia nel 1463, era una fonte di attriti anche con l'amministrazione pontificia. La rivendicazione delle teorie sulla supremazia temporale del papa da parte di Pio II avviò una serie di interventi, portati avanti anche dai suoi successori, tesi a rafforzare l'autorità pontificia in quell'area. A questo si aggiungeva il tradizionale conflitto intorno all'autorità ecclesiastica e alla distribuzione dei benefici e delle cariche religiose nel Veneto, sicché le alleanze diplomatiche tra Venezia e il papato per controbilanciare l'asse Milano-Firenze-Napoli ne risultavano alquanto indebolite, se non del tutto inefficaci.
E veniamo a Napoli: in questo periodo fu appunto la paura della crescente potenza napoletana e delle ambizioni della dinastia aragonese a riavvicinare Venezia e il papato. La rapida espansione della marineria e degli interessi commerciali di Napoli cozzava contro l'antico predominio navale ed economico della Repubblica di San Marco nei mercati dell'Italia meridionale. Ne furono compromessi i rifornimenti cerealicoli dalle Puglie, e gli interessi dei mercanti veneziani a Napoli (7).
Questi i fatti dietro alle tensioni politiche del periodo successivo al 1454. Ben poco sta ad indicare un sistematico interesse veneziano ad espandere in modo decisivo l'autorità politica della Repubblica in Italia, o un'aspirazione all'"imperio d'Italia"; si trattò piuttosto della concentrazione su Venezia di una serie di rivalità individuali, non troppo diverse da quelle che rendevano difficili i rapporti tra gli avversari stessi della Repubblica. Il regime sforzesco era consapevole come Venezia della nuova minaccia napoletana, ma per motivi diversi: ad allarmarlo era l'interesse della dinastia aragonese per Genova e la Toscana meridionale, esplicitamente affermato nei capitoli della Lega italica. La latente ostilità tra i due Stati principeschi, appianata solo in superficie dalle alleanze matrimoniali e dagli scambi diplomatici, a lungo andare si sarebbe rivelata più importante della comune diffidenza verso Venezia, e del comune timore di un intervento francese. Fu questa ostilità, ben più delle presunte aspirazioni egemoniche di San Marco, a recare tanto danno al fragile equilibrio politico italiano.
La posizione veneziana nei confronti degli altri Stati italiani nel periodo successivo a Lodi fu condizionata in modo determinante da tre fattori: principalmente, la minaccia dell'espansione turca; in secondo luogo, e a questa collegata, la preoccupazione per la situazione in Adriatico; in terzo, un serratissimo dibattito interno che incideva in modo sempre più marcato sulle decisioni politiche. La comparsa della potenza navale ottomana, prima conseguenza immediata della caduta di Costantinopoli, costituiva un pericolo gravissimo per gli interessi commerciali e per la sicurezza dell'impero di Venezia nel Mediterraneo orientale, e produsse una radicale riorganizzazione delle priorità e della spesa militare. Le flotte di galere in servizio permanente furono rinforzate, così come le guarnigioni nello Stato da Mar, e furono avviate nuove opere di fortificazione; l'esercito permanente, nell'entità sanzionata dalla Lega italica, fu impiegato contro i Turchi in Morea e in Friuli. Per diciassette anni, dal 1463 al 1479, fu guerra aperta col Turco (8).
Oltre allo scontato dirottamento di uomini e risorse indispensabile per far fronte alla nuova minaccia ottomana, la particolare attenzione dedicata al Mediterraneo orientale e allo Stato da Mar ebbe altri due effetti di rilievo. Il controllo di Venezia sull'Adriatico, rifugio sicuro per il suo naviglio e rotta privilegiata dei rifornimenti alimentari, era minacciato dalla presenza di squadre turche in agguato nel mar Ionio e dalla perdita delle basi sulla costa dalmata attaccate dai Turchi dalla parte di terra. I governanti veneziani ne furono indotti a considerare con maggiore impegno anche le rive occidentali dell'Adriatico, e la necessità di conservare la loro influenza, o persino di garantirsi delle basi, in Romagna, nelle Marche e in Puglia, proprio nel momento in cui si intensificavano, in quelle stesse zone, le suscettibilità napoletane e pontificie. L'altro effetto indiretto del confronto in Levante fu una serrata dei ranghi negli schieramenti interni alla nobiltà veneziana. La potente fazione che aveva guidato l'espansione in Terraferma nella prima metà del secolo raggiunse l'apogeo dell'influenza negli anni Cinquanta con l'elezione a doge di Pasquale Malipiero, nel 1457 (9). Dopo di che le nuove istanze della politica in Levante rafforzarono la posizione dei più anziani uomini politici conservatori; per il resto del secolo i dogi uscirono tutti dal mondo del commercio e dell'attività navale, e anche la maggioranza dei loro consiglieri avevano le medesime inclinazioni, e preferivano voltare le spalle ai problemi d'Italia. I politici più giovani, peraltro, spesso in conflitto con i più anziani, e più di loro propensi a una politica energica o persino aggressiva, spingevano perché si approfittasse della temporanea posizione di vantaggio in Italia per compensare qui le perdite subite in Levante. L'opportunismo spasmodico e talvolta aggressivo della politica italiana di Venezia nella seconda metà del Quattrocento trova quindi parziale spiegazione nelle divisioni interne al ceto politico. Non si trattava di un insieme coerente di progetti imperialistici perseguiti con implacabile unità di intenti ogniqualvolta la pressione turca lo permetteva, bensì di una serie di avventure opportunistiche avviate in coincidenza con il mutare delle circostanze sia in Levante che in Italia.
Per tutto il periodo 1454-1494 il fattore principale fu comunque l'intervento costante e invadente degli Stati europei occidentali negli affari italiani. Flotte spagnole e portoghesi appoggiavano le iniziative napoletane, mentre principi e eserciti angioini tramavano e combattevano per sconfiggere i rivali aragonesi; i prelati spagnoli, francesi e tedeschi acquisivano influenza sempre maggiore nei consigli vaticani; le ambasciate francesi e spagnole si proponevano, a volte anche con prepotenza, come mediatrici negli affari della penisola. Ognuno degli Stati italiani si considerava capace di manipolare a proprio vantaggio le potenze straniere, e forse Venezia si avvicinò più degli altri a questo obiettivo, ma tutti tendevano ad esagerare la propria libertà di azione (10).
Negli anni immediatamente successivi alla creazione della Lega italica vi furono indubbi segnali di un effettivo desiderio di pace tra gli Stati italiani, e di un impegno concertato contro l'intervento straniero. Francesco Sforza deciso a dare solide fondamenta al nuovo regime milanese, Cosimo de' Medici e l'élite fiorentina preoccupati soprattutto di favorire la ripresa dell'economia commerciale, e Pio II portatore di una visione veramente europea per la rinascita dell'autorità papale e la riorganizzazione degli Stati pontifici: c'erano tutti i presupposti per una fase costruttiva nell'esercizio del potere. La maggiore minaccia esterna era costituita dalla Francia, emersa trionfatrice dalla guerra dei Cent'anni, e ora in grado di rivolgere la sua attenzione al Mediterraneo; una minaccia che fu arginata stipulando accordi con la Borgogna e col Delfino, da tempo contrario alla politica del padre, e ora favorevole alle avventure iberiche piuttosto che a quelle italiane. Paradossalmente, però, la manifestazione più evidente della minaccia francese fu l'aggressione angioina contro la dinastia aragonese a Napoli, nel 1459, in un momento in cui quella dinastia si stava rivelando come il maggiore fattore disgregante in Italia. La tentazione di permettere un'occupazione angioina per risolvere il problema dell'aggressività aragonese fu sicuramente forte, ma Francesco Sforza e gli altri governi furono abbastanza lungi-miranti - o alternativamente, ancora non erano abbastanza cinici - da non lasciare che accadesse. Re Ferrante poté consolidare la propria eredità con l'aiuto di Milano e del papato.
Venezia ebbe ben poca parte in questi eventi. Nel 1454 nessuno Stato italiano aveva più bisogno di lei di un pacifico periodo di ripresa, e a questo obiettivo la politica veneziana si sarebbe decisamente dedicata. Dopo una smobilitazione su vasta scala, ai contingenti rimasti in servizio fu imposto un regime di bassi costi. Di profilo altrettanto basso fu in quel periodo l'atteggiamento prevalente negli affari esteri, tanto che la Repubblica fu accusata, dai contemporanei come dagli storici successivi, di aver deliberatamente distolto gli occhi dai problemi d'Italia e dalla Lega. Congedato da Venezia nel 1455, l'irrequieto condottiere Jacopo Piccinino era passato a far danno in Italia centrale, minacciando Siena e finendo poi per porre il suo braccio a disposizione dell'aggressività napoletana: colpa della Serenissima, che aveva cinicamente messo da parte lo spirito della Lega italica (11). E invece il congedo di Piccinino era assolutamente giustificato; era stata la Lega stessa a proporre una riduzione della forza militare veneziana a ottomila uomini, con un taglio di due terzi circa rispetto agli effettivi in tempo di guerra, e il ritorno di Bartolomeo Colleoni al servizio di Venezia non lasciava spazio per un altro comandante superiore. Tanto più che la compagnia di Piccinino era nota per la sua pessima disciplina; come osservava il cronista Cristoforo da Soldo, "e questo fecero [i Veneziani] per rubamenti, tristezze e ribalterie che facevano i suoi nel territorio Bresciano, ed egli [Piccinino] li sopportava. Et etiam egli proprio faceva svergognare donzelle, e molti altri mali" (12). Dopo il congedo di Piccinino, uno dei provveditori patrizi più esperti, Francesco Contarini, fu inviato a Siena per aiutare quello Stato a opporsi alla minaccia del rampante condottiere (13).
Negli anni successivi il rifiuto veneziano di lasciarsi invischiare in Romagna mandando aiuti a Sigismondo Malatesta, minacciato nel 1457 da Alfonso d'Aragona, o di sostenere l'attacco angioino contro il successore di Alfonso, non fu in disaccordo con i termini del trattato della Lega, e fu per di più in netto contrasto con la politica della Repubblica negli anni a venire.
L'episodio senese dimostrò comunque che Venezia teneva ancora d'occhio gli affari italiani, nonostante l'evidente esitazione a lasciarsene coinvolgere troppo, e altri segnali lo confermavano. L'aver installato Colleoni, capitano generale permanente, nella base a Malpaga, presso la frontiera milanese dell'Adda, con le truppe tenute sempre in relativo stato di allerta, era quantomeno indice di consapevolezza della potenziale minaccia costituita da Milano. Nell'orazione funebre del doge Foscari, la cui abdicazione forzata era stata considerata come una sorta di svolta nelle ambizioni territoriali di Venezia, Bernardo Giustinian parlava con orgoglio dell'espansione dello Stato, e con grande determinazione della necessità di conservare e difendere quelle conquiste (14). Quando poi Domenico Malatesta offrì di vendere Cervia alla Repubblica, nel 1463, la proposta fu subito accettata, e il dominio veneziano penetrò più a fondo in Romagna. Non va peraltro dimenticato, nel valutare le motivazioni di Venezia, che Cervia era più importante per le saline che per la sua posizione strategica.
La decisione di entrare in guerra coi Turchi nel 1463 fu invece assai più sofferta e aspramente dibattuta. In questo il fatto che Pio II da anni ormai chiamasse alla crociata contò meno della sensazione sempre più diffusa, a Venezia, che la Serenissima stesse perdendo terreno in Levante, e che a quel punto occorresse prendere posizione. I Turchi avevano occupato la Morea nei primi anni Sessanta, e ora avanzavano in Bosnia; stavano costruendo una flotta da guerra, e tutte le basi veneziane ne sarebbero state minacciate. Il nuovo doge Cristoforo Moro era un ardente sostenitore della guerra, e quando questa fu decisa, fu portata avanti con enorme determinazione ed energia. Ma la decisione presa nel 1463 non comportò tanto un temporaneo spostamento dell'attenzione veneziana da Occidente a Oriente, quanto la riluttante uscita di Venezia da un periodo di ripiegamento e di politiche di basso profilo per rientrare in un mondo bellicosamente competitivo.
È significativo che l'intensità del cambiamento e della crisi politica in Italia aumentasse proprio mentre lo Stato marciano entrava in guerra in Levante. La storia dei sedici anni che seguirono non è dunque quella di una Venezia capace di agire in modo incisivo in Italia solo durante gli intervalli della pressione turca; le pressioni su entrambi i fianchi erano spesso coincidenti, e la loro interazione era tale che Venezia si trovò fortemente impegnata su due fronti.
La guerra intrapresa dalla Repubblica di San Marco nel 1463 fu inizialmente offensiva, per la riconquista della Morea e la sicurezza delle rotte intorno alla Grecia meridionale. Per la prima volta un consistente esercito fu inviato nei Balcani, al comando prima di Bertoldo d'Este, poi, nel 1464, di Sigismondo Malatesta (15). Si parlò di mandare Colleoni in persona, e si diceva che il capitano generale fosse ansioso di partire, per guadagnarsi nuove benemerenze in un momento in cui Pio II chiamava tutte le province d'Europa alla crociata. È però assai probabile che la riluttanza veneziana a vedere Colleoni coinvolto in Levante derivasse dal timore di un contrattacco milanese quando la frontiera occidentale fosse stata privata del suo maggiore difensore. Le campagne di Morea, nonostante i successi iniziali, non poterono essere portate a fondo; la morte di Pio II nel 1464 cancellò ogni possibilità di una crociata generale in aiuto dei Veneziani e contribuì, insieme con la morte di Cosimo de' Medici in quello stesso anno, alla destabilizzazione del sistema italiano. Paolo II (Barbo), il successore veneziano di papa Piccolomini, pensava più a restaurare la sua autorità negli Stati pontifici che ad aiutare Venezia, mentre l'indebolirsi del regime mediceo a Firenze lasciava Francesco Sforza in una posizione esposta.
Fu comunque la morte di Sforza, 1'8 marzo 1466, a scoprire tutte le crepe nel sistema politico italiano. Fu subito chiaro che Bartolomeo Colleoni tramava da anni in attesa di questo evento. A dispetto di tutti gli sforzi di Francesco, il regime milanese era intrinsecamente instabile; il mancato riconoscimento imperiale del titolo e una sorda opposizione all'interno dell'élite milanese lasciavano sperare che una mossa decisiva da parte di Colleoni potesse scalzare il successore di Francesco Sforza, Galeazzo Maria, portando il capitano generale veneziano a prendere possesso del Ducato. Fu questa ambizione personale, che Venezia esitava a imbrigliare, più che non un qualche progetto egemonico a lungo termine della Repubblica stessa, a far precipitare la crisi del 1467. Le ambizioni di Colleoni erano alimentate da Borso d'Este e dagli esuli fiorentini, che nella morte di Sforza vedevano anche un'occasione per far cadere il regime mediceo. Venezia, che aveva seccamente rifiutato di inviare un'ambasciata per le condoglianze e le congratulazioni a Galeazzo Maria Sforza, probabilmente per non offendere Colleoni, concesse al condottiere una deroga al suo contratto di ingaggio permanente per preparare un'offensiva generale contro l'alleanza milanese-fiorentina (16). Napoli e Paolo Il si armarono in difesa dello status quo e Venezia, che pure non si era del tutto sbilanciata, si trovò isolata come responsabile ultima della crisi. Crisi che si risolse con l'incerta ma sanguinosa battaglia di Molinella, il 25 luglio 1467. Se Colleoni e Borso d'Este fossero riusciti a sconfiggere l'esercito della Lega comandato da Federico da Montefeltro, i regimi di Milano e Firenze si sarebbero trovati in gravissime difficoltà, e senza dubbio Venezia ne avrebbe tratto beneficio. Di fatto, invece, la Repubblica cominciò a prendere le distanze dall'impresa, e accettò le proposte di pace di Paolo II e il suo richiamo a un rinnovato impegno comune per la crociata. Tra gli esiti della vicenda favorevoli a San Marco vi fu la disponibilità delle potenze italiane ad accettare l'inserimento della Savoia nell'assetto difensivo ereditato dalla Lega italica. Venezia l'aveva chiesto con insistenza, e utilizzava l'alleanza savoiarda come un freno diplomatico contro la potenziale aggressività di Galeazzo Maria Sforza (17).
Le ferite del 1467, sul piano di una maggiore ostilità milanese e fiorentina nei confronti dello Stato veneziano, tardarono a rimarginarsi, rendendo di fatto inaccettabili le proposte di riconciliazione e ripresa della Lega generale avanzate da Paolo II. La morte di Sigismondo Malatesta nell'ottobre 1468 aprì un nuovo problema di successione che tutti gli Stati italiani brigarono per risolvere a proprio vantaggio. Venezia si oppose al tentativo di Paolo II di reimporre il dominio pontificio su Rimini manovrando il figlio illegittimo di Sigismondo, Roberto. Quando però Roberto, insediatosi a Rimini, rinnegò gli accordi con il papa cercando la protezione di Milano, Napoli e Firenze, San Marco e il papato fecero fronte comune per impedire un'interferenza tanto macroscopica negli affari interni dello Stato pontificio. In questa fase Venezia si proponeva di tutelare la relativa indipendenza di Rimini sia dall'autorità papale che dal controllo di un'altra potenza italiana; fallito il tentativo di cacciare Roberto Malatesta per sostituirlo con il fratellastro Sallustio, la Repubblica parve rassegnata ad accettare come migliore soluzione possibile la sopravvivenza di Roberto.
Era evidente che la Lega era irrimediabilmente divisa, e ognuno voleva fare di Roberto un proprio satellite, il che senza dubbio contribuì a ridimensionare i timori di Venezia; ma la Serenissima era impegnata da un problema ben più immediato: l'imminente attacco turco a Negroponte. L'effetto di questa minaccia non fu una frettolosa rinuncia ad ogni interesse per gli affari italiani, bensì un periodo di inconsueta attività per la diplomazia veneziana. Si inviarono ambasciatori per cercare di ricomporre il dissidio tra il papa e re Ferrante, e per sondare la possibilità di un accordo tra Venezia e Napoli. Ma i diplomatici veneziani, e in particolare Paolo Correr, distaccato a Napoli, scoprirono ben presto che i due obiettivi erano incompatibili. Correr si trovò a dover accettare un accordo che conteneva le clausole antipapali sulle quali Ferrante insisteva tanto; ma per la Repubblica veneta, in quel momento di grave minaccia turca, conservare l'appoggio del papa era essenziale. L'accordo fu quindi respinto dal senato, e Correr fu sostituito da Bernardo Giustinian, che aveva la precisa istruzione di insistere, in qualsiasi trattativa con Napoli, sulla creazione di un asse antimilanese, non antipapale (18). L'iniziativa sarebbe comunque fallita: nel 1470 i Napoletani preferirono confermare l'antica Lega con Milano e Firenze in luogo di un nuovo schieramento al fianco di Venezia e del papa, che avrebbe avuto forti implicazioni antiturche. Il 22 luglio 1470 Negroponte cadde in mano ai Turchi, e la strapotenza navale dell'Infedele divenne evidente per tutti. I tentativi veneziani di trovare alleati in Italia erano stati confusi e inefficaci, ma a frustrarli aveva contribuito anche la generale situazione di tensione e sospetto.
Per certi versi, la caduta di Negroponte ebbe sugli Stati italiani un effetto maggiore che non quella di Costantinopoli. La minaccia posta all'Italia stessa dalla potenza navale turca era ormai manifesta, tanto che sia Paolo II che re Ferrante offrirono il loro aiuto ai Veneziani. Per parte sua, Galeazzo Maria Sforza vide l'occasione per scatenare il tanto atteso contrattacco contro Venezia, e Firenze si accordò con una certa esitazione a questa politica. La speranza di una conferma effettiva della Lega italica cozzò contro la determinazione milanese a non lasciarsi sfuggire quest'occasione, e gli anni tra il 1471 e il 1474 videro un graduale riassetto delle alleanze. I rapporti tra Napoli e Milano erano sempre più tesi, mentre il nuovo papa Sisto IV (1471-1484) si mostrò inizialmente interessato assai più alla Romagna e al confine settentrionale degli Stati pontifici che non a quello meridionale. Ne derivò un'intesa sempre più stretta tra Sisto e Ferrante, mentre peggioravano i rapporti tra il papa e gli Stati dell'Italia settentrionale, in particolare con Firenze: se la ribellione di Volterra a Firenze nel 1472 aveva portato alla città toscana assediata l'aiuto di Veneziani e Napoletani, mentre truppe milanesi e pontificie davano man forte ai Fiorentini, nel 1474 Firenze e Milano si opposero energicamente all'attacco pontificio contro città di Castello, sostenuto invece da Napoli (19).
Questo graduale voltafaccia, e la temporanea interruzione dell'intesa tra Milano, Firenze e Napoli - una costante fin dagli anni Cinquanta - posero Venezia di fronte a un difficile dilemma. L'alleanza con Napoli e il papa era l'opzione "crociata" più ovvia, e fu questa la reazione iniziale; ma dal 1472 la minaccia turca si manifestava anche con scorrerie di vasta scala in Friuli, oltre che con la pressione sulle basi veneziane nell'Egeo e in Dalmazia, e questa sfida sulla porta di casa veniva in un momento in cui la preparazione militare di Venezia era al livello minimo degli ultimi anni. Bartolomeo Colleoni era indiscutibilmente invecchiato e diventava sempre più imprevedibile, e il timore che un trasferimento di grossi contingenti di truppe sulla frontiera orientale aprisse la strada a un attacco milanese da occidente si fece reale ben prima della morte di Colleoni nel 1475. Venezia quindi cominciò a saggiare il terreno a Milano e Firenze. Nel frattempo anche Galeazzo Maria Sforza, allarmato nel 1473 dalla voce secondo cui i Veneziani, a seguito di una nuova intesa con la Borgogna, incoraggiavano Carlo il Temerario a candidarsi per l'investitura imperiale del Ducato di Milano, si vide nella necessità di ammorbidire, per il momento, la sua animosità verso la Repubblica. Da queste vicende sortì nel 1474 la Lega degli Stati settentrionali, Milano, Venezia e Firenze, come contraltare all'intesa tra Sisto IV e Napoli. Lorenzo de' Medici e i Fiorentini erano particolarmente risentiti per l'insistente aggressività delle politiche di Sisto IV e di suo nipote Girolamo Riario, e fu la diplomazia fiorentina, guidata da Giovanni Lanfredini, responsabile della filiale veneziana del Banco Medici, a dare il contributo decisivo al nuovo equilibrio (20).
Si parlò persino, in quelle circostanze, di un patto commerciale tra Firenze e Venezia in base al quale Firenze avrebbe rinunciato ad armare flotte di galere da mercato per Costantinopoli in cambio di concessioni per il trasferimento di 12.000 panni fiorentini ai mercati orientali attraverso Venezia; si sarebbe così rimossa la causa principale della rivalità tra le due Repubbliche, allentando significativamente le tensioni politiche in Italia. Ma la proposta non fu raccolta: le galere fiorentine continuarono a navigare verso il Mediterraneo orientale, e i mercanti che imbarcavano continuarono a incoraggiare i Turchi. Né Milano né Firenze erano d'altra parte disposte a dare troppo aiuto alla Repubblica contro i Turchi. La morte di Colleoni nel 1475 e l'assassinio di Galeazzo Maria Sforza nel 1476 favorirono la sopravvivenza di quell'alleanza alquanto scomoda. Venezia fece ben poco per rimpiazzare Colleoni con un altro potente capitano generale da mettere di guardia sulla frontiera occidentale, e a Milano il regime della reggente, la duchessa Bona di Savoia, non manifestava grande interesse per la vecchia ostilità con San Marco. Dopo la morte di Carlo il Temerario nel gennaio 1477, Venezia seguì l'esempio degli alleati, tentando di neutralizzare il pericolo di una ripresa dell'interesse francese per l'Italia attraverso legami diplomatici più stretti con Luigi XI. Il trattato di Tours nel 1478 completò lo schieramento degli Stati dell'Italia settentrionale al fianco della Francia, e contribuì a focalizzare l'attenzione francese in Italia su Napoli e l'eredità angioina. Nel 1477 alcuni reparti milanesi furono inviati in Friuli di rinforzo alla difesa dagli attacchi turchi, ripresi in quell'anno.
L'alleanza degli Stati settentrionali rimaneva comunque piuttosto incerta. Scoppiata la guerra tra l'intesa pontificio-napoletana e Firenze, dopo la congiura dei Pazzi nel 1478, sia Milano che Venezia mandarono truppe in aiuto di Firenze, ma la Repubblica ebbe qualche esitazione dato il persistere della minaccia turca, e il commissario veneziano Giovanni Emo non contribuì certo a rabbonire i Fiorentini, risentiti per la lentezza con cui arrivavano i rinforzi, denunciando senza mezzi termini la fiacchezza e l'inadeguatezza dei loro preparativi militari (21). Le truppe veneziane svolsero un ruolo di rilievo nelle fasi successive della guerra, ma non riuscirono ad impedire l'avanzata pontificio-napoletana e la caduta di Colle Valdelsa nell'autunno 1479. A questo punto, nonostante la decisa opposizione di Venezia a negoziati che avrebbero nuociuto alla reputazione dell'alleanza incoraggiando l'aggressività pontificia e napoletana, Milano e Firenze si determinarono a cercare la pace. La reintegrazione nel regime milanese di Ludovico Sforza e Roberto da Sanseverino, dalle propensioni fortemente filonapoletane, rientrò nelle manovre preparatorie. Ludovico Sforza si considerava degno erede della politica di suo padre Francesco, rafforzando progressivamente la sua presa sul regime milanese e mettendo da parte la duchessa Bona, e così riaffiorarono le antiche istanze antiveneziane. Il regime mediceo a Firenze non poteva non schierarsi con Milano, piuttosto che con Venezia, e avendo sostenuto la parte più pesante delle perdite della guerra cercava la pace ad ogni costo. I1 famoso viaggio di Lorenzo de' Medici a Napoli, preparato dalla diplomazia milanese e francese, fu tenuto nascosto a Venezia il più a lungo possibile, e se pure le fu lasciata la possibilità di firmare la pace e di aderire al sistema di alleanze che ne sarebbe sortito, non vi fu alcuna consultazione preliminare. Nel febbraio 1480 si ricreò così il vecchio asse Milano-Firenze-Napoli; sia la Repubblica veneta che Sisto IV furono tagliati fuori, e re Ferrante colse l'occasione per rafforzare l'influenza napoletana nell'Italia centrale e settentrionale (22).
La riluttanza di Venezia ad accettare negoziati prematuri, e la crescente determinazione con cui si teneva fuori dalle manovre milanesi e fiorentine, furono condizionate non poco dal successo dei negoziati di pace con i Turchi. Nel 1479 fu stipulata una tregua che consentì a Venezia di non basare più la sua politica italiana sulla ricerca di alleati contro l'Infedele. La preoccupazione per l'evidente espansione della potenza e dell'aggressività della dinastia aragonese a Napoli, e per gli equilibri dell'autorità e dell'influenza politica in Romagna, ritornò al primo posto nell'ordine del giorno veneziano. La Lega con Sisto IV stipulata nell'aprile 1480 attraverso l'opera diplomatica personale del cardinale Pietro Foscari fu la risposta a quei problemi. L'alleanza avrebbe consentito un controllo discreto sulle ambizioni di Girolamo Riario, appuntate su Pesaro e Faenza, e il papa era l'alleato naturale per porre freno alle pretese di re Ferrante. In questa fase però nulla sta a indicare che Venezia progettasse una qualche iniziativa attiva in Italia. La tregua con i Turchi offriva l'agognata occasione di un consolidamento finanziario e di una ripresa del commercio: non era cosa da gettar via a cuor leggero.
La minaccia turca continuava ad occupare un ruolo di primo piano nella politica italiana: alla fine del luglio 1480 una numerosa flotta turca piombò sulla città di Otranto in Puglia, la occupò e la mise al sacco. Le truppe napoletane furono frettolosamente richiamate dalla Toscana, si chiesero rinforzi agli alleati, e Venezia fu accusata, prima di aver incoraggiato i Turchi, poi di aver rifiutato di aderire a un'alleanza contro di loro. Senza dubbio l'attacco turco fu un grave colpo per le ambizioni di Ferrante, e costrinse Napoli a ingenti spese che avrebbero avuto conseguenze nel lungo periodo. Tutto questo andava a vantaggio di Venezia, ma nulla sta a indicare che la Serenissima avesse attivamente incoraggiato i Turchi, né che avesse approfittato immediatamente della situazione. Il suo rifiuto, a questo punto, di aderire a una crociata è comprensibile, essendo Venezia appena riuscita a ottenere la pace. E la Serenissima fu sempre attenta a non lasciarsi mettere in prima linea contro i Turchi come una sorta di baluardo della Cristianità, per poi rimanere da sola a sopportarne le conseguenze. Fu ben presto evidente, comunque, che alla presa di Otranto non sarebbe seguita una spedizione su vasta scala, e la morte del sultano Maometto II, nel giugno 1481, affrettò il disimpegno turco (23).
Nel settembre 1481, quando Otranto fu ripresa, si era già aperta una nuova tornata di tensioni sulla scena politica italiana. L'attacco a Ferrara iniziato il 1° maggio 1482 viene in genere considerato come la manifestazione più evidente dell'imperialismo veneziano in quel periodo, e un lampante esempio dell'egoismo degli Stati italiani, decisi ad approfittare di qualsiasi temporanea debolezza dei vicini. I fatti però, pur indicando chiaramente una situazione di generale malessere, non giustificano certo una condanna incondizionata di Venezia. Una misura di predominio economico su Ferrara, sulle rotte del Po e sulle saline di Comacchio era senza dubbio un obiettivo permanente della politica veneziana. I patti con gli Estensi che definivano i termini di quel predominio risalivano al secolo XIII, e a rivendicarli provvedeva la presenza di un "visdomino" veneziano a Ferrara (24). Quest'ombra di asservimento, quest'invadenza, avevano sempre irritato gli Estensi, ma ora il duca Ercole d'Este, genero di re Ferrante e figura di spicco nella Lega del 1480 tra Napoli, Milano e Firenze, si sentiva in grado di opporvisi. I suoi funzionari cominciarono ad angariare i mercanti veneziani e ad incoraggiare i contrabbandieri di sale; e una serie di incidenti di poco conto, culminati nella scomunica del "visdomino" da parte del vicario del vescovo di Ferrara per aver percosso un prete, cominciarono ad allarmare l'opinione pubblica veneziana. Sul finire dell'autunno 1481 un gruppetto di giovani uomini politici guidato dal focoso Francesco Michiel, a suo tempo provveditore presso l'esercito sia in Friuli che in Toscana, chiedeva ormai a gran voce un'azione severa contro il duca di Ferrara. I più anziani consiglieri del doge esitavano a mettersi contro la Lega, che avrebbe inevitabilmente appoggiato gli Estensi, ma Girolamo Riario e Sisto IV, vedendo l'opportunità di danneggiare Napoli e persino di rovesciare la dinastia aragonese, incoraggiavano a Venezia il partito della guerra. Alla fine dell'anno la bilancia dell'opinione politica pendeva ormai decisamente dalla parte della guerra, e fu avviata la mobilitazione (25). Una violenta disputa tra Ludovico Sforza e Roberto da Sanseverino, conclusasi con la fuga di quest'ultimo da Milano, indebolì il potenziale militare milanese offrendo contemporaneamente a Venezia l'ambizioso capitano ideale per l'impresa. Il 1° maggio 1482 si scatenò su Ferrara l'attacco concertato di due armate convergenti dal Veronese e da Ravenna, e di una forte flotta fluviale che risaliva combattendo il corso del Po (26).
In questa guerra l'aggressore fu sicuramente la Repubblica veneta - che pure fu pesantemente provocata - ma i suoi obiettivi erano limitati: la riconquista del Polesine, veneziano per un lungo tratto della prima parte del secolo, e la reimposizione del predominio economico veneziano. Per alcuni l'unico modo per conseguirli stava nell'impossessarsi di Ferrara, ma la maggioranza del governo veneziano esitava ad arrivare a questo per non suscitare le ire dell'alleato pontificio: Ferrara era parte degli Stati del papa; il Polesine era proprietà dominicale degli Estensi. Nonostante quindi il vigore della fase iniziale della campagna, vi fu una certa riluttanza a portarla alla sua più ovvia conclusione. La Lega mosse con lentezza in difesa di Ferrara, ma Venezia fu comunque costretta a distaccare Roberto Malatesta per aiutare le truppe pontificie impegnate contro Napoli. La vittoria di Malatesta e Riario su Alfonso di Calabria a Campomorto fu la battaglia più violenta combattuta in Italia in quel periodo, ma segnò anche la fine di ogni reale intesa tra Venezia e il papa: Sisto guardava con preoccupazione ai successi veneziani e alla propria dipendenza da Venezia, e nel frattempo subiva crescenti pressioni dalla Lega e dagli inviati dei re cattolici. Si arrivò così a una pace separata tra il papa e la Lega, il 12 dicembre 1482, e Venezia si trovò in guerra isolata (27).
Inutile dire che in questa situazione toccò nuovi vertici la campagna di propaganda contro la Repubblica di San Marco come disturbatrice imperialistica della pace in Italia. A Venezia il consenso pubblico per la guerra cominciò a scemare di fronte ai costi spaventosi e all'interdetto fulminato dal papa nel maggio 1483. Con l'estendersi della guerra all'intera Lombardia, le forze in campo erano più equilibrate, ma diversi tentativi di concludere una pace si scontrarono con la determinazione veneziana a conservare il Polesine di Rovigo, occupato fin dal primo assalto, e a confermare i patti tradizionali. Alla fine, nell'estate 1484, i comandanti sul campo Roberto da Sanseverino e Gian Jacopo Trivulzio si stancarono di combattere e dichiararono accettabili le condizioni veneziane. Ludovico Sforza, preoccupato per il costo della guerra, per le minacce francesi e per l'instabilità del suo regime, costrinse gli alleati a ratificarle, e la pace fu firmata a Bagnolo il 7 agosto 1484 (28).
La guerra di Ferrara aveva portato allo scoperto le tensioni che laceravano l'Italia, anche tra presunti alleati. Il successo veneziano a fronte di una coalizione di tutte le altre potenze italiane fu più un sintomo di questo clima di diffidenza e egoismo che non della forza di Venezia. I costi della guerra avevano costretto tutti gli Stati a incrementare l'onere fiscale, creando così nuovi problemi ai rispettivi regimi: l'aumento delle pretese fiscali di re Ferrante fu tra i fattori determinanti della crisi che seguì nel 1485, quando una parte del baronato napoletano si ribellò e chiese l'aiuto del papa - Innocenzo VIII - e di Venezia per rovesciare la dinastia aragonese. Innocenzo VIII, incoraggiato dal cardinale Giuliano della Rovere, non tardò a raccogliere la politica antinapoletana del suo predecessore, ma Venezia, nonostante i baroni napoletani le avessero offerto i porti pugliesi, esitava a lasciarsi coinvolgere. Dopo la morte di Renato d'Angiò nel 1481, le pretese angioine al trono di Napoli erano passate alla corona di Francia, e il rischio di un intervento francese era immanente: non solo per Venezia, che quindi scelse di mantenersi neutrale per isolare i ribelli, ma anche per Firenze e Milano, che avevano inviato rinforzi all'alleato. L'esercito della Lega sconfisse le forze pontificio-baronali a Montorio nel 1486, e la crisi fu superata; ma a questo esito il fatto che il giovane re francese Carlo VIII fosse occupato da altri problemi contribuì almeno tanto quanto l'azione dei diversi Stati italiani (29).
L'imprevedibilità della politica pontificia in Italia era stata un fattore decisivo di quasi tutte le crisi che tormentarono la penisola dopo il 1454. Per questo motivo Venezia, ormai seriamente preoccupata dalla possibilità di un intervento esterno in Italia (francese, spagnolo, turco o - specie in quel momento - austriaco che fosse), cercò l'alleanza con Innocenzo VIII per poterlo meglio controllare: "deambulare cum lo piede de piombo", fu detto durante il dibattito in senato (30). Venezia affrontava allora una contesa con il conte del Tirolo e il duca Massimiliano d'Austria sui diritti minerari e commerciali in Trentino; nella guerra che seguì perdette temporaneamente Rovereto, ma alla fine riuscì a resistere alla pressione tedesca, risolvendo per conto proprio quella particolare minaccia esterna.
In questa fase però anche Lorenzo de' Medici cercava di manovrare la politica pontificia, non soltanto per tenere sotto controllo l'ostilità del papa per Napoli, ma anche per rafforzare la propria posizione di mediatore tra Napoli e Milano. Il matrimonio della figlia di Lorenzo, Maddalena, con il figlio di Innocenzo VIII, Franceschetto Cibo, e l'elevazione al sacro collegio di Giovanni de' Medici, siglarono una nuova intesa tra il papato e Firenze che per un breve periodo avrebbe messo Lorenzo nella posizione di "ago della bilancia" - non gli sarebbe mai bastato, per questo, il solo dominio di Firenze.
Non si trattò, ovviamente, di un'iniziativa disinteressata: a Lorenzo de' Medici i vantaggi che derivavano dal nuovo schieramento per il Banco Medici a Roma, per la sua attività di mecenate e per tutta la famiglia Medici premevano tanto quanto la ricomposizione degli affari italiani. Per qualche tempo, comunque, quegli affari furono ricomposti, e solo la morte in rapida successione di Lorenzo de' Medici e di Innocenzo VIII, nel 1492, fece riaffiorare le lacerazioni del sistema italiano.
Poiché il cardinale Ascanio Sforza era stato determinante nell'elezione al soglio di Rodrigo Borgia, ora papa Alessandro VI, pareva che fosse ormai Milano a controllare il papato.
L'effetto fu un riavvicinamento tra Napoli e Firenze nell'evidente tentativo di demolire l'influenza milanese a Roma, e un aggravamento della rottura tra Milano e Napoli, la cui causa principale era la scoperta intenzione di Ludovico Sforza di rendere definitivo il suo controllo sul Ducato di Milano strappandolo al nipote Gian Galeazzo e alla sua sposa napoletana. L'isolamento indusse Ludovico Sforza a volgersi verso la Francia, e, per evitarlo, Venezia manovrò per creare uno schieramento antinapoletano, la Lega di San Marco, che comprendeva Milano ed era intesa a dare maggiore sicurezza ad Alessandro VI. Ma ormai Carlo VIII non aveva più bisogno degli ansiosi appelli degli Stati italiani per mettere in moto la sua grande "impresa": i piani e i preparativi per lanciare la Francia in un'avventura italiana, e forse crociata, rivendicando con la forza le antiche pretese angioine su Napoli nel quadro di un più vasto confronto con la potenza spagnola, erano già in pieno corso. Si stavano prendendo le misure diplomatiche necessarie per non guastare i rapporti con l'imperatore, l'Inghilterra e i re cattolici; nell'estate del 1493 i preparativi militari erano già in fase avanzata (31).
Nel giugno 1493 l'ambasciatore di Ludovico Sforza a Venezia avvertì il senato che l'invasione francese era imminente e inevitabile; la risposta fu un invito per Ludovico a muoversi con prudenza, e soprattutto a fare tutto il possibile per tenere unita l'Italia.
Ma l'Italia non era unita, ed era troppo tardi perché lo diventasse. Ludovico fu quindi costretto ad accettare l'inevitabile, offrendo ai Francesi un aiuto condizionato, mentre Venezia, pur sentendosi abbastanza forte da poter rifiutare il suo appoggio, in questa fase non vide alcun buon motivo per opporre resistenza.
La seconda metà del Quattrocento, con le sue sporadiche crisi politiche e la crescente preoccupazione per l'aumento dei costi in tutti i settori dell'amministrazione, portò sostanziali modifiche nella struttura già consolidata dell'esercito permanente veneziano. Le sue dimensioni furono di regola inferiori rispetto al periodo delle guerre di Lombardia, e diminuirono la presenza permanente della fanteria addestrata e la capillarità della burocrazia militare. La lunga guerra coi Turchi (1463-1479) non incise in modo significativo su questa tendenza, perché soltanto nel 1463-1464 grossi contingenti dell'esercito di Terraferma furono impiegati nei Balcani; più avanti si sarebbero ancora utilizzate contro i Turchi alcune compagnie di fanteria, ma ci si affidava in misura sempre maggiore alle truppe arruolate sul posto.
Uno dei fattori determinanti che avevano portato alla pace del 1454 e alla ricerca di un meccanismo che le avrebbe consentito di durare fu l'estremo esaurimento economico di entrambe le parti. Gli effettivi delle forze permanenti fissati dalla Lega italica per Venezia e Milano prevedevano seimila cavalli e duemila fanti; nelle fasi successive delle guerre i due eserciti superarono in misura consistente i ventimila effettivi. Si poteva smobilitare, quindi, e in modo drastico, e la Serenissima si accinse al compito con la massima determinazione (32). Ma il sistema dei contratti a lunga scadenza, di regola rinnovabili, istituito dalla Repubblica con i suoi comandanti di cavalleria ostacolava il processo di smobilitazione. I contratti infatti prevedevano solo una riduzione delle compagnie in tempo di pace, e dunque, se si voleva mantenere la parola data ai capitani, ai collaterali rimaneva ben poco spazio di manovra. Alla scadenza dei contratti Venezia poteva rifiutare di rinnovarli, ma anche in questo caso avrebbe rinnegato i termini di un'intesa ormai consolidata. Negli anni dopo Lodi è indubbio che parecchi condottieri lasciassero il servizio veneziano per mutuo consenso; del caso di Jacopo Piccinino, al quale fu rifiutato il rinnovo del contratto, abbiamo già parlato. D'altra parte, però, la nomina di Bartolomeo Colleoni a capitano generale, con una condotta di cinquecento lance, copriva da sola un terzo del contingente di cavalleria fissato dalla Lega. In modo molto graduale, quindi, la forza della cavalleria fu ridimensionata, e furono presi provvedimenti a lungo termine per gli acquartieramenti. Colleoni di stanza a Malpaga, a ridosso della frontiera occidentale, Carlo Fortebraccio, figlio di Braccio da Montone, di guarnigione a Brescia con duecento lance, Bertoldo d'Este e Antonio da Marsciano con i Gatteschi, rispettivamente a Padova e a Verona: in quegli anni gli effettivi di cavalleria mantenuti in servizio furono sempre tra i sei e gli ottomila (33). La smobilitazione della fanteria era più facile, sia sul piano contrattuale che su quello dell'operatività militare: l'addestramento della fanteria richiedeva meno tempo e l'arruolamento era molto più rapido; e con la maggior parte dei suoi connestabili Venezia non aveva assunto impegni paragonabili a quelli che la legavano ai capitani di cavalleria. Matteo Griffoni da Sant'Angelo era divenuto capitano della fanteria nel 1453, e occupò l'incarico fino alla sua morte nel 1473; di norma la sua compagnia era di stanza a Ravenna - Matteo fu uno dei pochi connestabili di fanteria mantenuti in servizio con l'intera compagnia. Ad altri furono assegnate "provisioni" e quartieri, e furono tenuti a mezza paga in attesa di un'eventuale emergenza. Così facendo fu possibile ridurre rapidamente la fanteria da diecimila a duemilacinquecento effettivi (34).
Nei quarant'anni successivi le modifiche apportate a questo assetto furono eccezionalmente scarse. La morte di Colleoni nel 1475 lasciò un vuoto difficile da colmare; la carica di capitano generale sarebbe stata assegnata ad intervalli, ma buona parte delle lance di Colleoni fu mantenuta in servizio con nuovi accordi. Morto Carlo Fortebraccio nel 1479, la compagnia passò a suo figlio Bernardino, che si sarebbe distinto tra i comandanti veneziani nella battaglia di Fornovo nel 1495. Bertoldo d'Este cadde in Morea nel 1463, e Antonio da Marsciano, genero di Gattamelata, fu preso dai Milanesi nel 1482 e finì per passare al servizio di Firenze. Andava gradualmente affermandosi una nuova generazione di capitani, molti dei quali nobili di Terraferma, con compagnie più piccole e pretese meno esorbitanti che in passato.
Questo quadro piuttosto statico fu turbato in modo particolare da due episodi. Il primo fu la serie di incursioni lanciate dai Turchi in Friuli negli anni Settanta: nel 1472 minacciarono Udine, e l'anno dopo la cavalleria turca arrivò fino al Tagliamento, a cinquanta chilometri da Venezia. Ancora, nel 1477 un'invasione su vasta scala portò a una grave sconfitta dell'esercito veneziano, e alla perdita sul campo di numerosi tra i capitani più in vista. La Repubblica aveva fatto ben poco, nell'organizzazione sul lungo periodo delle sue truppe, per la difesa della frontiera orientale; a est di Venezia non era stato insediato nessun condottiere di rango, e con l'inizio della minaccia turca nel 1471 si fu costretti a trasferire in gran fretta le truppe dai loro normali quartieri. Nella fase iniziale le truppe e il denaro stanziati per far fronte al pericolo non bastavano mai: l'urgenza della difesa di quella regione era poco sentita, e i capitani avevano scarsa esperienza per affrontare la rapida mobilità della cavalleria leggera turca. Nel 1473 Carlo Fortebraccio prese il comando della difesa, ma la cavalleria soprattutto pesante delle compagnie tradizionali si trovò svantaggiata. Anche quando furono attirati in battaglia, come nell'ottobre 1477, i Turchi diedero prova di una combattività senza riscontro da parte veneziana. Ormai però sulla frontiera orientale era stato ammassato un forte contingente permanente, e a rafforzare la difesa fu ingaggiata la prestigiosa compagnia di Cola da Monforte, conte di Campobasso, appena uscita dal servizio borgognone; nel 1478 più di seimilacinquecento uomini furono schierati contro l'ultimo attacco turco prima dei negoziati di pace, l'anno successivo (35).
L'emergenza friulana ebbe di fatto importanti conseguenze sul pensiero militare veneziano. Ne risultarono evidenziati la necessità, per una più efficace mobilitazione rapida del piccolo esercito permanente, dell'appoggio di una milizia non professionale, nonché il valore di una buona cavalleria leggera; infine, gli attacchi turchi furono convincente dimostrazione dell'esigenza di riattare le fortificazioni a difesa delle frontiere. In tutti questi settori si ebbe modo di verificare le carenze dell'organizzazione e della pianificazione militare veneziana, e furono presi provvedimenti per emendarle.
L'altro episodio, che portò Venezia a preparativi militari ancor più determinati di quelli per l'emergenza friulana, fu la guerra di Ferrara, una guerra assai simile - per il numero di soldati impiegati, più di ventimila per parte, e per la natura delle operazioni nelle aperte pianure della Lombardia centrale - alle guerre di Lombardia della prima metà del secolo (36). Ma anche per questa forma tradizionale di combattimento l'organizzazione e le risorse si dimostrarono inadeguate, e la guerra di Ferrara può essere considerata come il punto di svolta nella politica militare veneziana dell'epoca.
Non si modificò, nei quarant'anni tra Lodi e l'invasione francese del 1494, la dipendenza di Venezia dalle lance delle compagnie di cavalleria pesante, l'arma principale dell'esercito. Lo stesso valeva, ovviamente, per gli eserciti di Francia e di Borgogna, e per quelli degli altri Stati italiani. Nell'organizzazione veneziana, come nelle altre, l'entità della lancia tendeva ad aumentare rispetto ai tre uomini del primo Quattrocento; andava affermandosi un'unità composta da quattro uomini, definita spesso "corazza" o "elmetto", la cui forza crebbe fino a cinque o sei uomini sul finire del secolo. In parte fu una conseguenza della maggiore complessità del "servizio" a un uomo d'arme dotato di tutto l'occorrente, in parte fu il riconoscimento del valore dei cavalieri armati più alla leggera, come i balestrieri a cavallo, che entravano a far parte della formazione di lancia. Fu comunque un processo graduale, condizionato dal prestigio dei singoli capitani, e da quanto ciascuno di essi aveva a cuore la propria compagnia (37).
Un'altra evoluzione della cavalleria pesante in cui Venezia non costituì certo un'eccezione, ma alla quale il governo dedicò un interesse particolare, fu la comparsa, e poi l'apparente declino, del fenomeno delle "lanze spezzate". La costituzione di compagnie di "lanze spezzate" con quanto rimaneva delle compagnie di condotta che avevano perduto il loro capo era una pratica ben consolidata anche prima del 1454, che consentiva allo Stato di mantenere al proprio servizio truppe già esperte sottoponendole a un controllo più diretto: le "danze spezzate" venivano pagate direttamente dallo Stato, che sceglieva i loro capitani (38).
Nel 1454 Venezia disponeva ormai di parecchie compagnie di "lanze spezzate": i "Roberteschi", i sopravvissuti della grande compagnia di Roberto da Montalboddo, caduto nel 1448; i "Gatteschi", i resti delle compagnie di Gattamelata rimasti senza guida dopo la morte di Gentile da Leonessa, nipote acquisito di Gattamelata, e dopo che le ferite riportate resero inabile al comando Gianantonio di Gattamelata, nei primi anni Cinquanta. Nel 1456, morto Gianantonio, le tradizioni particolari dei Gatteschi furono riconosciute attribuendo loro il nome di Società di San Marco e nominando al loro comando Antonio da Marsciano, genero di Gattamelata. Rimanevano comunque "lanze spezzate"; Antonio da Marsciano ne aveva ottenuto il comando da Venezia, non erano le "sue" truppe (39). In questo senso erano simili alle compagnies de l'ordonnance francesi. Negli anni dopo Lodi la Serenissima ebbe l'occasione di rinforzare le sue "lanze spezzate" con altre compagnie rimaste senza condottiere, ma questa pratica non era comunque priva di problemi: in assenza di un'attiva politica di reclutamento, e in un periodo di pace prolungata in cui era meno probabile che le compagnie perdessero il loro condottiere, le "danze spezzate" tendevano a trasformarsi in veterani nel senso peggiorativo del termine. Per tutti gli anni Settanta e Ottanta il problema dei soldati troppo anziani in queste compagnie assillò l'amministrazione militare veneziana. Nel 1475, quando Bartolomeo Colleoni morì senza lasciare eredi maschi diretti, fu discussa l'opportunità di integrare tutte le sue truppe nelle "lanze spezzate"; alla fine pare venisse decisa la formazione di una compagnia di "Colleoneschi", che negli anni Ottanta avrebbe creato i suoi problemi per la troppa anzianità dei veterani, ma il grosso delle truppe fu suddiviso in compagnie più piccole affidate in condotta ai Martinengo, generi di Colleoni.
Venezia aveva finito per adottare la scelta conservatrice di attenersi al sistema delle condotte, lasciando cadere la tendenza più progressiva verso l'istituzione delle "lanze spezzate", direttamente dipendenti dallo Stato (40).
I Veneziani furono assai meno conservatori quando si trattò di introdurre nella guerra italiana e europea la cavalleria leggera stradiota. Avevano apprezzato il potenziale di queste feroci e tenaci truppe albanesi e greche durante le campagne contro i Turchi nei Balcani, e negli anni Settanta compagnie di stradioti furono trasferite in Friuli per far fronte alle scorrerie turche. E si dimostrarono tanto efficaci, e tanto meno costosi rispetto alle lance italiane, che altre compagnie furono distaccate per la guerra di Ferrara. Da questo momento in poi gli stradioti divennero un elemento permanente in ogni esercito veneziano, e il loro impiego si sarebbe diffuso negli eserciti spagnoli e francesi nel corso del Cinquecento (41). La comparsa di una cavalleria leggera a sé stante, con un ruolo diverso da quello delle lance tradizionali, fu una delle tendenze più importanti nell'evoluzione militare del tardo Quattrocento. I Veneziani, specialisti della guerra anfibia, la trovavano particolarmente efficace nelle operazioni congiunte con le flotte: gli stradioti potevano sbarcare dalle navi per mettere a ferro e fuoco l'entroterra, o per creare una cortina difensiva intorno a una testa di ponte. Gli stradioti avevano capitani propri ingaggiati a condotta e responsabili delle singole compagnie, ma il comando generale di qualsiasi corpo consistente di questo tipo di cavalleria veniva sempre affidato a un provveditore veneziano. In questo settore, quindi, i funzionari veneziani assumevano il comando diretto delle truppe: anche questa, di per sé, un'ulteriore innovazione.
La comparsa degli stradioti fu un risultato dell'emergenza friulana degli anni Settanta, ma lo fu anche la creazione di un sistema selettivo di milizia territoriale. Le milizie erano state ereditate dagli antichi regimi signorili in tutta la Terraferma, ma ben di rado esisteva un sistema di addestramento prolungato. Venivano usate soprattutto, nella prima metà del secolo, come genieri, senza pretendere che prendessero parte attiva nei combattimenti; ma dopo la sconfitta in Friuli per mano dei Turchi nel 1477 l'urgente necessità di rinforzare gli effettivi indusse a frettolosi provvedimenti per arruolare e addestrare una milizia scelta. Nulla induce a ritenere che Venezia avesse di fronte agli occhi l'esempio specifico dei francs archers francesi, ma l'idea non era molto diversa. Tutti i rettori di Terraferma ebbero l'ordine di costituire comitati locali di cittadini per arruolare gli uomini abili e sovrintendere al loro addestramento; i connestabili di fanteria mantenuti in servizio a "provisione" proprio in vista di questo genere di emergenza vennero quindi impiegati per addestrare e comandare i nuovi "provisionati di San Marco". In un primo momento si pensava di arruolare quindici-ventimila uomini da tenere sempre pronti imponendo sistematiche sedute di addestramento nelle comunità locali, ma queste aspettative furono ben presto ridimensionate: nel 1478 alle maggiori città soggette fu chiesto di destinare alla difesa delle frontiere orientali contingenti di cinquecento uomini ciascuna (42).
Non parrebbe che la nuova iniziativa venisse perseguita in modo coerente per tutti gli anni Ottanta, e anzi nella guerra di Ferrara non risulta l'impiego di una milizia anche solo parzialmente addestrata. È possibile che l'esenzione fiscale individuale, che rientrava nel progetto originario, agisse come deterrente alla sua applicazione sistematica. Nondimeno, negli ultimi anni del secolo si tennero addestramenti regolari a livello locale, e nel 1490 otto maestri schioppettieri furono inviati nelle zone rurali per insegnare agli uomini l'uso delle armi da fuoco. Nel 1493 al luogotenente generale del Friuli fu chiesto di arruolare una truppa scelta di quattromila miliziani, di cui mille schioppettieri, e il luogotenente riferì poi che gli uomini erano pronti, e sottoposti a regolare addestramento. Anche negli anni precedenti la ricostituzione dei "provisionati di San Marco", nel 1507, si provvedeva dunque alla creazione e al mantenimento di una riserva locale di competenza militare (43).
Anche per quanto riguarda lo sviluppo dell'artiglieria Venezia occupava una posizione quasi unica, poiché l'armamento delle galere richiedeva un gran numero di cannoni. L'arrivo nel 1452 del maestro Ferlino, strappato ai Milanesi nella battaglia di Cavenago, diede nuovo impulso alle fonderie veneziane. Ferlino, famoso per le grandi bombarde, le "Ferline", che aveva prodotto per i duchi di Savoia e per i Visconti, ottenne spazi in Arsenale e alla Giudecca per le sue officine (44). L'interesse crescente del governo sia per la fusione dei cannoni che per l'addestramento degli artiglieri è abbondantemente attestato nei documenti del senato e del consiglio dei dieci per tutti gli anni Sessanta e Settanta. Nel 1463 Bartolomeo da Cremona, famoso fonditore e bombardiere, fu convinto a passare al servizio della Repubblica durante l'assedio di Trieste. Nel 1464 fu nominato "maestro delle bombarde" in Arsenale, e nel 1471 avviò un progetto che consentiva di addestrare gli artiglieri in gruppi di venti. Venezia favorì anche lo sviluppo delle fonderie bresciane, che affidò nel 1458 alla direzione del maestro Almerico de' Nobili; più avanti nel secolo fu aperta una fabbrica di polveri a Vicenza, e un centro di addestramento per artiglieri a Verona. Tutto questo precede ovviamente la costituzione formale della Scuola dei bombardieri a Venezia ad opera di Paolo da Canal, nel 1500 (45).
I fonditori e i bombardieri veneziani erano particolarmente famosi per i loro esperimenti con le armi da fuoco, e ricevevano per questo tutto il necessario incoraggiamento. Negli anni Ottanta furono sperimentati sia i proiettili metallici carichi di gas venefici che i proiettili dirompenti, e nei primi anni Novanta gli studi sugli affusti per aumentare la mobilità dei cannoni per l'esercito di terra erano ormai in fase avanzata (46). Nel 1495 l'arrivo di Basilio della Scola, ex comandante dell'artiglieria francese, diede nuovo impulso alla ricerca, portando alla produzione di un'intera gamma di pezzi mobili da sei-dodici libbre (47).
Le uniche occasioni di questo periodo in cui i cannoni veneziani furono impiegati su vasta scala furono gli assedi di Trieste nel 1463 e di Ficarolo nel 1482. In funzione difensiva, però, legata al graduale affermarsi dell'importanza della fortificazione e delle sue nuove tecniche, i cannoni ebbero un ruolo di primo piano. Nella prima metà del secolo Venezia aveva mostrato scarso interesse per l'ammodernamento delle fortificazioni nello Stato di Terraferma; le città erano tutto sommato ben protette dalle mura medievali, e il mantenimento di grossi contingenti di truppe permanenti era considerato sufficiente per la difesa delle nuove frontiere dello Stato.
Dopo il 1454 la staticità della nuova situazione militare, e la minaccia turca sulla frontiera orientale, insieme con la rapida evoluzione delle tecniche fortificative, suscitarono tuttavia a Venezia una crescente preoccupazione per la fortificazione dello Stato. Va detto comunque che la Repubblica non fu certo in prima linea quanto ai nuovi sviluppi di quelle tecniche, così evidenti invece in alcune zone degli Stati pontifici e in Toscana (48). A parte la nuova fortezza a Ravenna, la Rocca di Brancaleone cominciata nel 1456 (49), e le grandi opere intraprese a Gradisca negli anni Ottanta (50), gli interventi veneziani di quel periodo assunsero la forma di superficiali modifiche alle difese esistenti. Il rinforzo e la scarpatura di una muraglia, l'edificazione di qualche rivellino, lo spianamento dei campi di tiro: queste le concessioni al nuovo ruolo dell'artiglieria, sia nell'attacco alle fortificazioni che nella loro difesa, decise dalle autorità veneziane. Per la realizzazione di queste opere andò gradualmente affermandosi una sorta di comando del genio, affidato successivamente, in modo informale, negli ultimi anni del secolo a Dionisio da Viterbo, Giovanni Ludovico da Imola - a suo tempo impiegato da Federico da Montefeltro - e da Giacomo Contrin. Ma l'interesse per le fortificazioni è questione di mentalità, e fatta eccezione per la frontiera orientale in quel periodo Venezia non si sentiva affatto sulla difensiva (51).
Dopo il 1454 nell'amministrazione e organizzazione dell'esercito vi furono costanti fluttuazioni tra tentativi di controllo centralizzato e concessioni alla necessità del decentramento e della responsabilizzazione di funzionari e iniziative locali. La reazione immediata alla nuova era di pace fu la determinazione a risparmiare denaro, creando un sistema per gestire l'esercito nelle nuove circostanze. La morte di Belpetro Manelmi nel 1455 lasciò spazio a questa riorganizzazione, che coincise a Venezia con la diffusa sensazione che gli organi centrali del governo avessero un controllo insufficiente sul nuovo Stato di Terraferma, e con l'interesse a creare nuovi incarichi per i patrizi più poveri. Per l'incarico di collaterale fu deciso di sostituire i professionisti con patrizi veneti nominati per tre anni, nei cinque centri di Bergamo, Brescia, Verona, Padova e Treviso; i collaterali dovevano collaborare con i rettori locali, rispondendo a Venezia ai provveditori sopra le camere (52).
L'amministrazione di un esercito in tempo di pace era indubbiamente un compito ben diverso da come l'avevano conosciuto Manelmi e i suoi colleghi prima del 1454. Ma in fondo non era poi tanto diverso: la continuità dell'esperienza e una certa dimestichezza con i soldati e il loro modo di pensare contavano ancora tanto quanto i rapporti di rispetto e familiarità con l'apparato amministrativo veneziano. I giovani patrizi di fresca nomina non disponevano necessariamente del secondo requisito, e sicuramente mancavano del primo. L'incarico era poco ambito, di scarso interesse, e parrebbe che i compiti che ne derivavano venissero svolti con scarso entusiasmo: se anche si riusciva a convincere il nuovo titolare ad assumere l'incarico a Brescia o Treviso, era alquanto improbabile che passasse poi il suo tempo cavalcando da un accampamento all'altro. Dopo il 1463, quantomeno, fu necessario affiancare ai collaterali patrizi dei vicecollaterali non veneziani, che svolgevano buona parte del lavoro senza però godere, ovviamente, della stessa autorità e autonomia dei loro predecessori.
Chierighino Chiericati, l'antico braccio destro di Manelmi chiamato a Roma da Paolo II per assumere la supervisione dell'esercito pontificio, scriveva sarcasticamente del nuovo sistema nel suo Trattatello della milizia: "Lo exemplo se vede per li zentil omeni venetiani facti de tri anni in tri anni, como hanno bene reducto quelle zentedarme de la illustrissima Signoria è uno proverbio vulgare, che non se faci becharo chi non sa scarticare" (53). Il dileggio di Chiericati era prevedibile, date le circostanze particolari, ma sottolineava nel contempo anche una reale situazione di incuria e cattiva amministrazione. Una parte della colpa ricadeva su Venezia stessa, dove i savi della Terraferma non parevano più tanto importanti com'erano stati negli anni di guerra. L'attenzione si era spostata verso Oriente, e le manifestazioni di un reale interesse per gli affari di Terraferma tra i più energici quadri politici andavano attenuandosi. Mentre nella prima metà del secolo non erano rari i casi di patrizi che accettassero la carica di savio della Terraferma per sette, otto o persino nove volte nel corso della loro carriera politica, dopo il 1460 diventa difficile trovare qualcuno che lo facesse per più di tre volte. Anche in questo contesto particolare la tendenza, e l'attenzione, alla continuità si andavano esaurendo. Com'è ovvio, ne conseguirono un rilassamento dei controlli di Venezia sull'esercito, e una disattenzione per i suoi problemi (54).
Nel 1471 furono finalmente presi provvedimenti in merito alle sempre più frequenti informazioni sul pessimo stato dell'esercito. Tre patrizi furono inviati in Terraferma per svolgere una meticolosa ispezione, accompagnati da Evangelista Manelmi, già ricomparso nel ruolo di collaterale a Ravenna. La loro relazione del 1472 è un quadro desolante di caos amministrativo, conti mal tenuti, ispezioni non effettuate e regolamenti non rispettati. Stando a quanto sostiene la relazione, ora tutto era stato sistemato grazie all'impegno di Evangelista Manelmi, uno dei vicecollaterali di Belpetro Manelmi prima del 1454; a collaterali e rettori ora il compito di mantenere stretti i controlli (55). La sentenza contro i collaterali patrizi fu rinviata fino al 1476, quando una nuova ispezione, accompagnata questa volta da Giovanni Niccolò Manzini da Vicenza, revisore generale dell'esercito pontificio prima di Chiericati e quasi sicuramente cresciuto anch'egli con Manelmi, presentò un'altra relazione negativa. Il senato rispose con energia: "Perché l'è tanto deteriorado l'ordene et qualità de le nostre zentedarme con nostro gravissimo danno da quello che le ierano in tempo di Belpetro, che se questo non è proveduto l'è da tener che occorendo alcuna novità el stado nostro non patisca sinistro [...]", si decideva di nominare un provveditore come responsabile diretto, affiancandogli un collaterale generale non veneziano (56). Il provveditore scelto nel 1477 fu Lorenzo Loredan, e il nuovo collaterale generale fu Manzini (57).
Da questo momento il collaterale generale e i vicecollaterali che inizialmente a lui rispondevano, tutti non veneziani, riassunsero una presenza attiva nell'esercito; ma ora il loro lavoro era controllato dal provveditore generale, un patrizio veneziano di grande prestigio, e da una serie di provveditori di rango inferiore nominati di volta in volta per coordinare aspetti specifici dell'amministrazione dell'esercito. Si istituì così una rete operativa ragionevolmente efficiente, capace di garantire una certa misura di controllo centrale tutelando però la continuità e l'esperienza a livello locale. Molti dei vicecollaterali di nuova nomina avevano fatto esperienza nell'ufficio di Manelmi, e sia pure per gradi questa continuità divenne evidente. Ludovico Chiericati divenne collaterale generale per la guerra di Ferrara, e quando cadde in combattimento l'incarico passò a Mariotto da Monte, a suo tempo cancelliere di Gattamelata e tesoriere della gattesca Società di San Marco. Da Monte fu collaterale generale fino alla sua morte nel 1493, e l'elezione in collegio del suo successore portò alla luce una riserva di candidati di talento tanto numerosa che la decisione non fu presa: negli anni che seguirono la responsabilità fu condivisa da Hieronimo di Mariotto da Monte e Gianfilippo Aureliano, il cui padre aveva servito sotto Manelmi, e che era stato lui stesso cancelliere con Colleoni (58).
Un fattore che favorì il nuovo processo di ripartizione delle responsabilità tra il centro e la periferia fu la crescente ingerenza del consiglio dei dieci negli affari dell'amministrazione militare. Dal momento dei negoziati segreti che avevano riportato Bartolomeo Colleoni al servizio di San Marco, e che erano stati coordinati dai dieci, il consiglio pretese di conservare la competenza sulla più importante condotta militare di Venezia, e interveniva anche con insistenza nella gestione delle maggiori fortezze e degli sviluppi dell'artiglieria. Erano questioni considerate sempre più attinenti all'ambito della sicurezza, e l'intervento dei dieci negli affari militari - sebbene non ancora supportato da una formale estensione di competenze - fu una componente decisiva di quel nuovo prestigio del consiglio che i politici conservatori tanto deploravano. Questa ingerenza, comunque, creò una nuova fonte di supervisione centrale che colmò il vuoto lasciato dalla declinante autorità dei savi della Terraferma (59).
Non v'è dubbio che a seguito di queste riforme l'onda delle proteste recedesse; l'esercito si comportò abbastanza bene nella guerra di Ferrara e negli scontri con gli Austriaci, e in diverse occasioni fu fatto rimarcare che nel corso della guerra di Ferrara i Veneziani erano riusciti ogni anno a metterlo in campo più rapidamente della Lega. Era inevitabile che il rigoroso controllo imposto dallo stato di guerra tendesse a rilassarsi, com'era inevitabile che le truppe acquartierate per lunghi periodi nel medesimo posto tendessero a crearvi dei legami, intraprendendo a volte occupazioni da civili e inserendosi nella comunità locale. È però documentato fino agli anni Ottanta lo svolgimento di ispezioni regolari, almeno quattro all'anno, che spesso assumevano la forma di grandi parate delle truppe di stanza in una regione piuttosto estesa. In tempo di pace si tendeva ad evitare che queste ispezioni coincidessero troppo puntualmente con il versamento del soldo, preferendo consegnare le somme assegnate alle compagnie ai loro capitani, che provvedevano poi a distribuirle (60). Molti dei problemi di quel periodo furono dovuti all'incertezza e alle ristrettezze finanziarie; negli ultimi anni delle guerre di Lombardia i costi dell'esercito erano cresciuti tanto da superare di molto le capacità di copertura delle tesorerie locali. I fondi dovevano uscire in misura sempre crescente dalle casse centrali, ma non si arrivò alla soluzione di un sistema centralizzato di erogazione del soldo. Gli anni immediatamente successivi al 1454 rimossero temporaneamente il problema, riducendo i costi e ridando fiato alle economie locali, ma le difficoltà create dal trasferimento in Morea o in Friuli di truppe normalmente acquartierate in Terraferma e le enormi spese per la guerra di Ferrara riaprirono il dibattito. Di tanto in tanto si chiedeva alle tesorerie locali di convogliare i fondi destinati a pagare le truppe su una riserva centrale, accentrandone l'erogazione, ma questo fu sempre considerato un provvedimento di emergenza. Si sapeva che le compagnie stesse avevano maggiori possibilità di ottenere denaro dalle tesorerie locali che non le autorità centrali, e l'idea di chiedere alla periferia di inviare le eccedenze a un fondo centrale per l'esercito non funzionava bene nella pratica. Nel settembre 1490 il contributo delle tesorerie locali per il soldo dell'esercito fu fissato in 167.400 ducati all'anno, che non coprivano del tutto i costi in tempo di pace, più di 200.000 ducati, ma erano pur sempre il mezzo più pratico di copertura delle spese (61).
In quegli anni della seconda metà del secolo XV Venezia si andava assuefacendo all'idea di mantenere una forza armata permanente per lunghi periodi di pace. Uno degli inevitabili risultati fu una certa misura di inefficienza e cattiva supervisione; un altro fu quel certo conservatorismo che caratterizzava tutte le istituzioni veneziane. Ma servì anche per porre in evidenza l'impiego militare dei sudditi veneziani, consentendo ai capitani veterani di reclutare la popolazione locale, o attraverso l'organizzazione della milizia. Alla fine del secolo era ancora ben lontano dall'essere un esercito nazionale, ma certo non era nemmeno un'accozzaglia di compagnie di condotta. E soprattutto, è chiaro che da molte parti Venezia veniva considerata la maggiore potenza militare d'Italia, non solo per le sue flotte ma anche per il suo esercito di terra.
Compiuto il tentativo, con la Lega di San Marco nel 1493, di allentare le tensioni politiche in Italia, Venezia scelse di rimanere neutrale al momento dell'invasione di Carlo VIII, nel 1494. Molti storici le rimproverano questa decisione, ed è indubbiamente vero che se la Repubblica avesse aderito all'alleanza con Napoli, il papa e Firenze contro i Francesi, dedicandosi anima e corpo alla difesa d'Italia, l'esito iniziale della vicenda avrebbe potuto essere assai diverso. È comunque probabile che a perderci sarebbe stata Milano, e che una maggiore determinazione nella resistenza ai Francesi avrebbe portato al crollo del regime sforzesco e all'occupazione di Milano da parte di Carlo VIII, in temporanea alternativa all'avventura napoletana. In questa fase i Veneziani ritenevano più vantaggioso tenere buoni rapporti con la Francia, soprattutto a causa dell'aggravarsi della minaccia turca, e della necessità dell'aiuto francese per farvi fronte. Philippe de Commynes, ambasciatore di Carlo VIII a Venezia, nutriva speranze in questa collaborazione, e i tradizionali pregiudizi antinapoletani rendevano improbabile una disponibilità veneziana a correre dei rischi per la causa di re Ferrante (62).
Carlo VIII varcò le Alpi il 2 settembre 1494, e nonostante i ritardi nell'avvio della "impresa", la malattia che lo bloccò ad Asti e le febbrili contromosse di Napoli, fece notevoli progressi. L'esercito napoletano in Romagna era rimasto con un fianco scoperto dopo il crollo del regime mediceo a Firenze, e Alessandro VI, abbandonato dai Colonna, non oppose alcuna resistenza all'avanzata francese verso sud. A Natale Carlo VIII era a Roma, e il 2 febbraio 1495 entrava a Napoli (63).
Carlo contava ancora con fiducia sulla collaborazione veneziana a una crociata contro i Turchi, ma a Venezia le posizioni erano notevolmente cambiate. Oltre al consueto sospetto di poter essere lasciata sola a sostenere l'onere della guerra coi Turchi, e alla naturale riluttanza a fare da spalla alle ambizioni di Carlo, la Serenissima era ora gravemente allarmata per la facilità della marcia francese attraverso l'Italia. Le fasi iniziali dell'invasione non avevano provocato in Venezia reazioni militari percettibili, ma agli inizi del dicembre 1494, quando l'esercito francese entrò negli Stati pontifici, la Repubblica decise la mobilitazione (64). Nel febbraio 1495 erano ormai in pieno svolgimento i negoziati per la creazione di un'alleanza antifrancese, che doveva comprendere la Spagna e l'Impero. La Lega Santa fu siglata a Venezia il 31 marzo 1495, e il mese dopo il senato discuteva i piani per l'allestimento di un esercito di quindicimila cavalli e ventiquattromila fanti (65). Di fronte a questa minaccia, e ormai certo che in quelle circostanze il sogno di una crociata era irrealizzabile, Carlo ritornò verso la Francia con una parte del suo esercito. Il 6 luglio, mentre scendeva a valle dagli Appennini, trovò ad attenderlo a Fornovo l'esercito della Lega, in buona parte costituito da truppe veneziane e comandato da Francesco Gonzaga, governatore generale della Repubblica. A Venezia premeva più di affrettare il cammino di Carlo, scoraggiandolo da ogni ulteriore tentativo di interferire negli affari italiani, che non di distruggerlo con il suo esercito: le istruzioni a Gonzaga esprimono cautela e ambizioni limitate. La battaglia fu comunque dura, e dimostrò che la differenza tra il potenziale militare francese e quello italiano, soprattutto veneziano, non era poi molta (66). Carlo poté proseguire la sua marcia verso nord, ma ora Milano era decisamente contro di lui, dopo i tentativi di Luigi d'Orléans di volgere l'impresa a vantaggio delle sue rivendicazioni sul Ducato, e non gli rimaneva più un posto per ritemprarsi a sud delle Alpi. Gli ultimi resti dell'esercito francese in Italia settentrionale consegnarono Novara nell'ottobre 1495, dopo un accordo segreto tra la Francia e Milano che ebbe ripercussioni sulla recente unità della Lega Santa.
Nel frattempo Napoli era ancora occupata da un grosso esercito francese comandato dal duca di Montpensier, e Spagna e Venezia si dedicavano al problema della sua eliminazione. Gonsalvo de Cordoba sbarcò con un corpo di spedizione in Calabria, mentre una squadra veneziana occupava i porti pugliesi; a Venezia fu persino fatto capire a Philippe de Commynes che la Repubblica avrebbe potuto accettare che il Regno di Napoli rimanesse ai Francesi, e che si sarebbe unita a loro in una crociata, se avesse potuto conservare quei porti (67). La possibilità che la dinastia aragonese riprendesse Napoli con l'aiuto degli Spagnoli fece però della cacciata dei Francesi la soluzione più ovvia, e all'inizio del 1496 Francesco Gonzaga, ora capitano generale di Venezia, partì verso sud al comando di un esercito di cinquemila uomini (68). Le forze veneziane e spagnole non tardarono ad avere la meglio sulle piazzeforti francesi nel Regno, e un prestito di 20.000 ducati a re Ferrantino garantì alla Repubblica veneta il controllo di Trani, Brindisi, Gallipoli e Otranto fino all'estinzione del debito. È indubbio che in questa fase le intenzioni veneziane fossero concentrate sui porti che controllavano l'accesso all'Adriatico, e che avrebbe conservato fino al 1509.
Meno esplicitamente interessato, ma comunque oggetto di sospetti presso alcuni governi italiani, fu l'intervento di Venezia nell'altra questione lasciata aperta dall'invasione francese, l'indipendenza di Pisa da Firenze. Pisa era stata liberata da Carlo VIII nel 1494, durante la sua marcia verso sud, e nonostante le promesse francesi non era stata restituita a Firenze. Ora, nel 1496, i Pisani difendevano strenuamente la ritrovata indipendenza, e la Lega Santa considerava l'invio di aiuti militari a Pisa come uno strumento per esercitare pressioni su Firenze perché troncasse i suoi legami con la Francia. Sia Milano che Venezia inviarono truppe, inizialmente incoraggiate anche da Alessandro VI, e per gli stessi motivi la Lega appoggiò i tentativi dei Medici di rientrare a Firenze. Ma dopo il 1496 la Lega antifrancese andò gradualmente disintegrandosi, e riemerse soprattutto l'antica inimicizia tra la Serenissima e Milano: anche l'unità d'intenti nella questione pisana si spezzò. All'inizio del 1497 Venezia era ancora disposta a inviare truppe per la difesa di Milano dalla minaccia di una seconda invasione francese, e i due Stati continuavano a collaborare alla difesa di Pisa, ma nel corso dell'anno Ludovico Sforza, sempre più allarmato dal nuovo pericolo francese, preferì propiziarsi la Francia e dare il suo appoggio a Firenze piuttosto che continuare a far conto sugli alleati della Lega Santa. Le truppe milanesi furono ritirate, e fu imposto l'embargo alle truppe e ai materiali bellici veneziani che arrivavano a Pisa attraverso la Lombardia e la Lunigiana. Si parlava sempre più spesso di una prossima guerra tra la Repubblica veneta e Milano. Per spezzare la stretta fiorentina su Pisa Venezia lanciò un attacco diversivo nel Casentino, ma ormai, sul finire del 1498, le motivazioni della Repubblica suscitavano diffusi sospetti. La sua evidente determinazione a proseguire da sola nella difesa di Pisa veniva interpretata come un tentativo di assumere il dominio della città per conquistare una testa di ponte nel Mediterraneo occidentale. I propagandisti, soprattutto fiorentini, non tardarono a sfruttare questo argomento, e sicuramente c'era qualcuno a Venezia che nutriva quel genere di ambizioni. Parrebbe però che l'obiettivo principale continuasse ad essere quello originario: eliminare i pretesti e i consensi possibili per un ritorno dei Francesi nella penisola. Ha forse un suo significato il fatto che le truppe inviate a Pisa non appartenessero mai alle compagnie più temprate dell'esercito veneziano. In genere si trattava di fanteria arruolata sul posto, o di compagnie di cavalleria ingaggiate di fresco; ci fu sempre la sensazione che questo fosse un impegno periferico, che non doveva porre a repentaglio la difesa dello Stato (69). Si ha l'impressione che in questa fase Venezia fosse ben consapevole del nuovo peso dell'intervento delle potenze europee sulla scena politica italiana, e della scarsa affidabilità dei sistemi di alleanze in Italia: in quelle circostanze tutto stava a indicare che gli interessi individuali avrebbero avuto il sopravvento in qualsiasi decisione politica. Comunque fosse, dopo il 1494 l'egemonia veneziana in Italia divenne un'ambizione ancor meno realistica di quanto non fosse stata per tutto il corso del secolo.
La morte di Carlo VIII il 7 aprile 1498 e la successione di suo cugino Luigi d'Orléans, col nome di Luigi XII, impressero agli eventi una piega affatto nuova. Se già nel 1497 Ludovico Sforza aveva temuto una potenziale minaccia francese al suo Ducato, tanto più doveva allarmarsi di fronte alla prospettiva di vedere sul trono di Francia il promotore delle pretese orleaniste su Milano. Luigi XII non faceva certo mistero della sua intenzione di rivendicarle, e già cercava il consenso di Venezia e di Alessandro VI (70). Per Venezia fu una decisione difficile, ma era alquanto improbabile che la Repubblica potesse accantonare le antiche e recenti dispute con Milano per aderire alla difesa del Ducato dai Francesi. Era più praticabile l'alternativa della neutralità, come nel 1494, ma ora la situazione era ben diversa: lo Stato minacciato non era la lontana Napoli, ma la vicina Milano, e il probabile effetto di un'invasione sarebbe stata la presenza permanente di truppe francesi sulla frontiera dell'Adda. Alla decisione di schierarsi con i Francesi, garantendosi in cambio il rafforzamento della frontiera con la cessione di Cremona e della Ghiara d'Adda, contribuirono anche le nuove minacce turche, e la delusione della guerra con Firenze, alleata della Francia. Di fatto, tutto puntava nella direzione di un'intesa con i Francesi; tutto, tranne l'impegno alla difesa della "libertà d'Italia". Venezia fu accusata da alcuni commentatori contemporanei, e da molti storici successivi, diaver tradito quell'idea spalancando le porte all'invasore. Si ipotizzava - e Guicciardini tra questi - che la Repubblica avesse avuto l'intenzione di muoversi più rapidamente dei Francesi, occupando l'intero Stato di Milano, ma gli eventi del 1499 avrebbero dimostrato che i Francesi avevano ben poco bisogno dell'aiuto veneziano, e che non c'era alcuna possibilità di prenderli in contropiede; e il governo veneziano percepì la realtà della situazione meglio che non i suoi critici. Al trattato di Blois (9 febbraio 1499) seguì la fine della guerra con Firenze, ricomposta dall'impopolare lodo del duca di Ferrara, e Venezia si preparò a dare il suo appoggio all'invasione di Milano (71).
La Serenissima aveva allora al suo servizio due capitani di primo piano: Niccolò Orsini conte di Pitigliano, da tempo considerato tra i comandanti militari più competenti, era entrato al servizio della Repubblica nel 1495, dopo essere fuggito dalla prigionia francese; Bartolomeo d'Alviano era passato dal campo mediceo a quello veneziano per la campagna del Casentino nel 1498. L'esercito di dodicimila uomini radunato nel Bresciano al comando dei due capitani era formidabile: Venezia era determinata a non perdere quest'occasione, anche se significava privare di truppe la frontiera orientale. Non soltanto era importante che Cremona e il territorio circostante venissero occupati dalle truppe veneziane, ma la nuova politica imponeva anche di impressionare i Francesi con la potenza militare della Repubblica e la sua capacità di difesa.
Fu una campagna facile, in cui né i Francesi né i Veneziani incontrarono molta resistenza, e il dominio francese su Milano fu consolidato nonostante il breve ritorno di Ludovico Sforza nel 1500. A oriente, però, per Venezia le cose andavano meno bene. Scorrerie turche nel cuore del Friuli, Lepanto assediata, la battaglia navale dello Zonchio, in cui una flotta veneziana più numerosa del consueto non riuscì a impedire alla flotta turca di entrare nel golfo di Patrasso, dando il colpo di grazia alla guarnigione di Lepanto: tutto questo intaccò gravemente la reputazione e il morale di Venezia (72). E fu un'alleanza con l'Ungheria e il papa, ben più che quella con la Francia, a procurare alla Repubblica gli aiuti necessari a far fronte a queste minacce; ma la dipendenza dai sussidi e dai rinforzi pontifici significava anche, in una qualche misura, aver le mani legate in Italia. La perdita di Modone e Corone nelle ultime fasi della guerra non fece che enfatizzare le difficoltà in cui versava Venezia nella sua tradizionale area di influenza, difficoltà aggravate dalla notizia del ritorno delle flotte portoghesi cariche di spezie da Calicut, e della crisi del mercato di Alessandria. Solo nel 1503 la pace con i Turchi avrebbe consentito alla Serenissima di rivolgere ancora una volta tutta la sua attenzione agli affari d'Italia.
È interessante notare che nel 1500 Venezia poté contare in Levante più sull'aiuto spagnolo che su quello francese. Il contributo di una flotta comandata da Gonsalvo de Cordoba all'assedio e poi alla presa di Cefalonia, l'unica vittoria ottenuta dai Veneziani nella guerra, fu di tutto rilievo. Ma l'obiettivo prioritario di quella flotta era di prender parte, quando fosse giunto il momento, ai nuovi sviluppi in Italia meridionale, dove da anni ormai si andava delineando la prospettiva di una ripartizione del Regno di Napoli tra Francia e Spagna. Con il riavvicinamento tra Alessandro VI e Luigi XII, e con Milano occupata dai Francesi, una nuova "impresa" napoletana diveniva più probabile, e tanto il papa che Venezia favorivano l'idea della partizione, un'alternativa preferibile al predominio di uno dei due Stati. Con il trattato di Granada, siglato 1' 11 novembre 1500 ma reso pubblico soltanto nella primavera successiva, la città di Napoli e la parte settentrionale del Regno andavano alla Francia, mentre a Ferdinando e Isabella venivano assegnate la Puglia e la Calabria; il destino di una vasta area centrale, comprendente la Basilicata e la Capitanata, rimase indefinito, e fu oggetto di rivalità non appena gli eserciti di Francia e Spagna ebbero occupate le rispettive posizioni.
La posizione di Venezia nel nuovo contesto era alquanto delicata. Legata alla Francia dall'alleanza, e ben consapevole della potenza francese in Lombardia, la Repubblica sapeva anche che la migliore possibilità di ricevere aiuti contro i Turchi, e di continuare a occupare i porti pugliesi, stava tutta nel mantenere buoni rapporti con la Spagna. Fin tanto che le due potenze avessero evitato lo scontro frontale, Venezia poteva tenersi in disparte, evitando anche una risposta impegnativa agli appelli di Alessandro VI per un'intesa italiana contro le potenze straniere (73). Anche prima che iniziassero le ostilità in meridione, alla fine del 1502, Venezia fremeva comunque sotto il morso imposto dall'alleanza francese alla sua naturale ostilità per le campagne di Cesare Borgia in Romagna. I Francesi appoggiavano Borgia sia sul piano diplomatico che su quello militare, e la Repubblica fu quindi costretta ad accettare il rafforzamento dell'autorità papale in Romagna nonostante le richieste di aiuto che le giungevano dai vicari pontifici spodestati. All'inizio del 1503 l'imminente pace con i Turchi le diede maggiore libertà di azione, e cominciò a manifestarsi una nuova determinazione ad opporsi ai progetti di Borgia anche se la Francia li favoriva (74).
Sia per Alessandro VI che per Venezia il punto di svolta venne con la stupefacente vittoria di Gonsalvo de Cordoba sui Francesi a Cerignola, nell'aprile del 1503 (75), che sembrò rovesciare gli equilibri di potere nel Sud, aprendo la strada all'occupazione spagnola della stessa Napoli. Alessandro non fece mistero di una netta propensione per l'alleanza spagnola nelle ultime settimane prima della sua morte improvvisa, in agosto; alla fine dell'anno Venezia autorizzò, sia pure con riluttanza, Bartolomeo d'Alviano a unirsi all'esercito spagnolo per l'ultimo e decisivo confronto sul Garigliano. Luigi XII avrebbe rinfacciato alla Repubblica il presunto tradimento che gli era costato la perdita di Napoli; comincia qui la strada che porterà alla Lega di Cambrai, e al campo di Agnadello (76).
Se Venezia aveva lasciato cadere quell'occasione di intesa con il papato che Alessandro VI aveva cercato con tanta passione negli ultimi anni del suo pontificato, l'opportunità di approfittare del vuoto creato in Romagna dalla morte di Alessandro e dall'eclissi di Cesare Borgia si dimostrò una tentazione troppo forte per il partito dei "giovani", guidato da Giorgio Emo e Lorenzo Giustinian. Dopo aspri dibattiti in senato, fu deciso di accettare le offerte di resa di Faenza, Rimini e Fano, e truppe veneziane mossero da Ravenna per occupare le città pontificie. Giulio II, succeduto nell'arco di poche settimane al troppo vecchio successore di Alessandro, Pio III, non era certo papa da accettare supinamente questa situazione. Le vigorose proteste pontificie e la minaccia di un interdetto indussero Venezia a rinunciare a Fano, e l'appoggio del papa al trattato franco-imperiale di Blois del 1504, in funzione antiveneziana, provocò ulteriori concessioni di minor conto e un temporaneo allentamento delle tensioni (77). Ma l'intesa di Blois non durò a lungo, e Giulio II cominciò a impegnarsi in campagne per reimporre l'autorità pontificia a Perugia e Bologna. Data la situazione, la Serenissima si riteneva più sicura: all'interno del ceto politico veneziano si faceva strada l'incrollabile fiducia che l'intesa con la Francia, risalente al 1499, sarebbe servita da scudo contro le ire del papa e i fulmini di Massimiliano, e che Venezia avesse un ruolo da svolgere sulla nuova scena internazionale (78). E questa sicurezza sarebbe incommensurabilmente aumentata con la vittoria nella guerra contro l'imperatore nel 1508.
Il conflitto tra Massimiliano e San Marco risaliva alle istanze di sovranità imperiale in Lombardia e nel Veneto suscitate dall'espansione veneziana in Terraferma, e alla rivalità con la Casa d'Austria per il controllo di Gorizia, Trieste e della costa dell'A-driatico settentrionale. La prima vertenza fu esacerbata dall'esplicita indifferenza di Venezia per i diritti imperiali al momento dell'acquisizione di Cremona nel 1499, mentre la seconda fu riaperta dalla morte dell'ultimo conte di Gorizia, nel 1500. All'epoca la nobiltà goriziana aveva scelto Massimiliano, e la Serenissima, presa dalla guerra con i Turchi, non aveva potuto reagire (79). Ma la ferita bruciava, e quando nel 1507 Massimiliano offrì un'alleanza contro i Francesi, e chiese di poter attraversare il territorio veneziano nel suo viaggio verso Roma per l'incoronazione imperiale, la Repubblica respinse con alterigia entrambe le richieste. La sconfitta a Pieve di Cadore, nel 1508, della disorganizzata invasione imperiale per mano di Bartolomeo d'Alviano aprì la strada a una rapida campagna contro le dipendenze austriache in Friuli e in Istria: Pordenone, Gorizia, Trieste e Fiume si arresero all'artiglieria e alle truppe di d'Alviano. L'imperatore era umiliato; Luigi XII compiaciuto, ma guardingo. Nel giugno 1508 fu conclusa una tregua tra Massimiliano e Venezia (80).
Tempo sei mesi da quegli eventi, fu stipulata la Lega di Cambrai, che sanciva una grande coalizione antiveneziana (10 dicembre 1508). Momento centrale dell'accordo di Cambrai fu la riconciliazione tra la Francia e l'Impero, che coinvolgeva anche la Spagna. Uno degli obiettivi dichiarati era l'allestimento di una crociata contro i Turchi, crociata che però avrebbe escluso Venezia, la sua flotta e le sue basi: la Repubblica veniva deliberatamente messa da parte perché, a fianco dell'accordo principale, era stata concordata separatamente una spartizione dello Stato di Venezia tra coloro che ne erano stati offesi. Francia e Impero avevano trovato un terreno comune nella retorica della crociata, ma ancor più nell'idea di spartirsi le spoglie dell'arrogante Repubblica. A Luigi XII sarebbero spettate le città perdute da Milano nella Lombardia centrale: Bergamo, Brescia, Cremona e Crema. Massimiliano reclamava i territori a est del Mincio in quanto feudi imperiali: Verona, Vicenza, Padova, Treviso e il Friuli. I Gonzaga avrebbero recuperato il corridoio di collegamento con il Garda con Asola e Peschiera, mentre agli Estensi sarebbero ritornati Rovigo e il Polesine. Re Ferdinando, padrone del Meridione, avrebbe potuto riprendere i porti pugliesi, mentre Giulio II sarebbe tornato in possesso delle città di Romagna, Ravenna e Cervia comprese (81). Per la prima volta il nuovo fenomeno del concerto delle grandi potenze si rivolgeva contro un unico Stato, ma il precedente di quel grandioso progetto era tutto italiano: la dieta di Cremona del 1483 aveva proposto proprio quella spartizione dello Stato veneziano tra tutte le potenze italiane sue avversarie (82). I principali architetti di Cambrai, si diceva, erano stati i diplomatici mantovani al servizio di Francesco Gonzaga, mosso da un profondo odio per Venezia che l'aveva congedato dalla carica di capitano generale nel 1497, e da un disperato bisogno del favore dell'imperatore, per ottenerne il titolo ducale (83). Le rivendicazioni di Francia e Spagna sullo Stato veneziano corrispondevano a quelle degli Stati di Milano e di Napoli da esse rispettivamente occupati. Sullo sfondo stava Giulio II, che da un lato chiedeva a gran voce l'espulsione dei "barbari" dall'Italia, e dall'altro pareva rendersi complice dello smembramento del più forte Stato italiano.
La Lega contro Venezia assunse di fatto l'apparenza di una crociata. Claude de Seyssel avrebbe poi detto che nella guerra con San Marco era stato in gioco il "bien public de toute la Chrestienté", evidenziando la sfida alla "liberté ecclesiastique" posta dalle pretese veneziane in materia di benefici. Già prima dell'invasione, comunque, Luigi da Porto scriveva di "questa tanta crudeltà [...] usata ai veneziani, di far loro contro una crociata, quasi fossero Infedeli a cui tutto il resto de' Cristiani avesse quista querela" (84). L'ira di Giulio II dava fiato retorico alla Lega, ma fino all'ultimo momento il papa rimase in forse sull'opportunità di impugnare l'arma che lui stesso pareva aver forgiato. Il suo risentimento per la Repubblica era dovuto a ben altro che alle città romagnole occupate dalle truppe veneziane: c'era la denuncia dei limiti che Venezia poneva tradizionalmente all'autorità spirituale del papa all'interno del suo Stato, e c'era la contrapposizione alla pretesa della Serenissima Repubblica al dominio dell'Adriatico, che teneva in scacco le aspirazioni dei mercanti di Ancona e degli altri porti pontifici. L'acquisizione veneziana di Cremona portò nel 1505 a una disputa intorno alla nomina del nuovo vescovo, e con il 1508 la vacanza delle sedi di Padova e Vicenza alimentò l'incendio; pare però che fino al marzo 1509 Giulio II sperasse in un cedimento di Venezia, che la Repubblica scendesse a patti con lui prima che la Lega entrasse in azione (85). Il caso, e l'esitazione, avevano fatto sì che non ci fossero rappresentanti di Giulio a Cambrai nel corso dei fatali negoziati, e ora, all'inizio del 1509, mentre l'esercito francese si preparava, egli temeva le macchinazioni del consigliere più ascoltato di Luigi XII, il cardinale di Rouen, di cui era nota l'ambizione di divenire papa. Il 23 marzo Giulio firmò comunque la bolla che rendeva pubblica la sua adesione alla Lega, insistendo soltanto che fossero le truppe pontificie a rioccupare le città romagnole, e non truppe francesi pagate dal papa (86).
La guerra della Lega di Cambrai, e la temporanea perdita di buona parte della Terraferma che ne conseguì, fu uno dei momenti più drammatici nella storia di Venezia. Dal tempo della guerra di Chioggia la metropoli stessa non era mai stata minacciata così da vicino, e questo lasciò un'impronta persistente su ogni aspetto della vita e della mentalità veneziana. L'aggressione delle grandi potenze era però mal coordinata, e sul piano dei danni materiali fu assai meno pesante di quanto avrebbe potuto essere. Fu in questi otto anni di guerra, comunque, che Venezia imparò a convivere col nuovo equilibrio del potere in Italia.
L'esercito francese che varcò l'Adda alla metà dell'aprile 1509 contava quasi quarantamila uomini. Era più numeroso, ma non troppo diverso quanto a composizione, rispetto a quello guidato da Carlo VIII nel 1494. Duemilatrecento lance di cavalleria pesante, ottomila Svizzeri e un ottimo treno d'artiglieria erano i suoi elementi portanti. L'esercito veneziano comandato da Niccolò Orsini conte di Pitigliano e da Bartolomeo d'Alviano che li attendeva sulla linea dell'Oglio era di poco inferiore, ma mancava di una fanteria ben addestrata all'uso della picca, e il corpo di cavalleria pesante era più piccolo e meno coeso. Nel 1507-1508 Venezia aveva ricostituito la milizia scelta, i cui uomini erano ora presenti in grosse compagnie all'interno dell'esercito. Pitigliano aveva deciso, probabilmente a ragione, di giocare sull'attesa, cercando di indurre i Francesi a un attacco alle sue posizioni consolidate, ma vide crollare il suo piano prima per opera di d'Alviano, che chiedeva furiosamente di attaccare i Francesi mentre passavano l'Adda, poi per l'ordine giunto da Venezia di spostare l'esercito più vicino all'Adda in modo da coprire Cremona. La manovra fu effettuata con troppa esitazione, e i Francesi raggiunsero la retroguardia di d'Alviano durante il trasferimento. D'Alviano preferì l'attacco alla ritirata strategica, e Pitigliano non rispose alle richieste d'aiuto del suo subordinato. La battaglia di Agnadello (14 maggio 1509) fu un disastro per Venezia: metà dell'esercito distrutto, e d'Alviano caduto in mano al nemico con tutta l'artiglieria (87). Pitigliano ripiegò rapidamente col resto delle sue truppe; i consigli di Brescia, Verona e Vicenza rifiutarono l'accesso ai resti sbandati dell'esercito, per timore di un saccheggio e delle rappresaglie dei Francesi, ai quali si preparavano ad aprire le porte. Occupata Brescia e la parte occidentale dello Stato, l'avanzata francese si arrestò sul Mincio, per consentire alle truppe imperiali di occupare a loro volta i territori assegnati dalla Lega a Massimiliano. Leonardo Trissino, nobile vicentino in esilio presso la corte imperiale, precedette l'arrivo del grosso delle truppe ricevendo la resa di Verona e Vicenza in nome dell'imperatore, e il 6 giugno entrò in Padova senza incontrare resistenza. Pitigliano riorganizzava il suo esercito a Mestre, e Venezia era in tumulto: sui consigli governanti piovevano le recriminazioni, i profughi affluivano in città, si tentava disperatamente di raccogliere denaro, e per le calli la musica taceva (88).
Nei sette anni e mezzo che seguirono Venezia sarebbe stata in preda a un'alternanza di disperazione e euforia. Euforia che non tardò a riaccendersi quando, il 17 luglio, un corpo costituito in buona parte di volontari, e comandato da patrizi veneziani, riuscì a riprendere Padova. E che si consolidò all'inizio di ottobre, quando fu tolto il troppo ritardato assedio imperiale alla città, e Vicenza fu strappata ai Tedeschi in ritirata. Ma in dicembre riecco la disperazione, quando la flotta veneziana del Po, che tentava di costringere Ferrara a uscire dalla Lega, fu distrutta dall'artiglieria ferrarese nella battaglia di Polesella (89). Ormai, però, l'isolamento della Repubblica era finito; la rapida cessione dei porti pugliesi alla Spagna e delle disputate città romagnole al papa cambiò il volto della Lega. Nei lunghi negoziati con Giulio II si parlò anche della vessata questione della libera navigazione in Adriatico, e il naviglio dei porti pontifici fu esentato dall'obbligo di passare attraverso Venezia e le sue dogane. La Serenissima acconsentì anche a ritirare il suo visdomino da Ferrara, ad accettare le nomine papali per i benefici veneziani e a rinunciare alle imposte sul clero. Molte di queste concessioni furono segretamente ripudiate dal senato, ma si era fatto abbastanza per accattivarsi Giulio, che nel febbraio 1510 revocò l'interdetto (90).
Senza dubbio, in quel momento, alla Repubblica conveniva avere il papa dalla sua parte, ma la cosa presentava anche qualche svantaggio. Mentre Francesi e Imperiali riprendevano a premere, riconquistando Vicenza, Bassano e Rovigo, Giulio chiese a Venezia di cedere formalmente le città di Terraferma all'imperatore per creare un cuscinetto tra lui stesso e i Francesi; e volle anche un attacco congiunto su Ferrara per costringere il duca Alfonso d'Este a uscire dalla Lega, e insieme per imporre un monopolio pontificio del sale, reso ora possibile dalla rioccupazione di Cervia. La campagna di Ferrara andò male, e inghiottì enormi risorse, anche perché i Francesi erano determinati a difendere il loro alleato. Di fronte ai costi spaventosi della propria difesa, e alla perdita di buona parte delle entrate della Terraferma, Venezia faticava a mantenere l'impegno di non tassare il clero. Nel 1511 la situazione peggiorò ancora e i Francesi tornarono all'offensiva, cacciando Giulio da Bologna e convocando il concilio di Pisa per farlo deporre. Le finanze pontificie intervennero comunque per dare un po' di respiro alla Repubblica, sotto forma di un prestito del banchiere senese Agostino Chigi, e in ottobre la costituzione della Lega Santa portò la Spagna saldamente al fianco del papa e della Repubblica (91).
Incoraggiate dalla nuova alleanza, le truppe veneziane al comando di Andrea Gritti (il conte di Pitigliano era morto nel 1510 e d'Alviano era ancora prigioniero dei Francesi) ripresero Brescia nel febbraio 1512. Ma anche i Francesi lanciarono una nuova offensiva, guidata da Gaston de Foix, che rioccupò rapidamente la città e la mise al sacco, avanzando poi in Romagna per minacciare Ravenna. L'esercito veneziano era impegnato in Lombardia quando le forze della Lega Santa incontrarono i Francesi sul campo di Ravenna, nell'aprile 1512, e dunque gli furono risparmiati gli effetti immediati di quello scontro sanguinoso. Nonostante la vittoria sull'esercito spagnolo e pontificio, i Francesi si videro comunque costretti alla ritirata attraverso la Lombardia, incalzati dagli Svizzeri e dalle truppe veneziane della Lega Santa, e a Venezia si ricominciò a sperare. Giulio però continuava a temere i Francesi, che pure avevano abbandonato Milano, e nelle ultime settimane della sua vita cercò un riavvicinamento bilaterale con Massimiliano per meglio isolare Luigi XII. La nuova svolta implicava un attacco congiunto contro Venezia per garantire la definitiva cessione all'imperatore di Verona, Vicenza e Padova; di fronte a questa minaccia la Repubblica aprì i negoziati con Luigi XII, e nel marzo 1513, poche settimane dopo la morte di Giulio, fu siglato un nuovo trattato di Blois. La Francia avrebbe ceduto le città di Terraferma, esclusa Cremona, e Venezia l'avrebbe aiutata a riprendere Milano; l'accordo prevedeva tra l'altro la liberazione di Bartolomeo d'Alviano e il suo ritorno al comando dell'esercito veneziano (92). Quando però l'esercito francese si trovò di fronte agli Svizzeri che difendevano Massimiliano Sforza, l'esercito spagnolo si attardava ancora sulla riva meridionale del Po, e Venezia era impegnata a sorvegliarlo per impedire che accorresse in aiuto di Milano. Gli Svizzeri non avevano alcun bisogno di aiuto: a Novara, in giugno, tre grandi quadrati di picche, che manovravano al modo tradizionale degli Svizzeri, sbaragliarono l'esercito francese e posero fine alla speranza veneziana di una rapida ricostituzione dello Stato di Terraferma con l'aiuto della Francia (93). Ancora una volta, anzi, degli eserciti invasori puntavano su Padova, ma questa volta si trattava di truppe imperiali, spagnole e pontificie. D'Alviano, il suo esercito ancora intatto, riuscì a condurre un'abile operazione difensiva. In settembre i cannoni spagnoli furono schierati sulle rive della laguna per bombardare Venezia, ma la resistenza di Padova e Treviso e la presenza delle consistenti forze di d'Alviano li costrinsero a ripiegare su Verona. Di nuovo però il comandante veneziano si lasciò prendere la mano dall'impazienza, e in ottobre subì un grave smacco, sprecando risorse preziose, quando cercò di provocare l'esercito alleato a battaglia alla Motta, presso Vicenza (94). Un piano tattico troppo complicato, come a Fornovo, e l'assenza di una fanteria davvero addestrata alla guerra con la picca, come ad Agnadello, furono le cause dell sconfitta veneziana, che comportò un altro anno di stallo nella situazione della Terraferma. D'Alviano riuscì a respingere un'invasione imperiale in Friuli nel 1514, ma gli Spagnoli incombevano ancora su Padova, rendendo impossibile qualsiasi apertura sul fronte occidentale.
La consacrazione di Francesco I al trono francese nei primi giorni del 1515 accese nuove speranze a Venezia. Francesco era deciso a riprendere Milano e ansioso, appunto per questo, di conservare e consolidare l'amicizia della Serenissima. In quest'occasione l'invasione del Ducato milanese fu meglio coordinata che nel 1513; d'Alviano si teneva pronto a intervenire con dodicimila soldati, mentre un gigantesco esercito francese con più di quarantottomila uomini valicava le Alpi piombando su Massimiliano Sforza. Ancora una volta le truppe ispano-pontificie si ritrassero dallo scontro decisivo a Marignano in settembre, ma d'Alviano non ebbe esitazioni e arrivò sul campo in tempo per raccogliere il plauso - di alcuni dei commentatori, quantomeno - per aver volto il corso della battaglia in favore dei Francesi (95).
L'appoggio francese divenne ora decisivo per una definitiva riconquista del corpo principale dello Stato di Terraferma. Le truppe francesi e veneziane incalzavano, prima Brescia poi Verona, un contrattacco imperiale fu vittoriosamente respinto, e con l'autunno del 1516 la diplomazia era già all'opera per demolire la Lega antifrancese. La pace di Noyon, nell'agosto 1516, sistemò temporaneamente le vertenze aperte tra Francesco I e Carlo di Borgogna, erede ai titoli asburgici, e con il concordato di Bologna Leone X rinunciò alla sua posizione antifrancese. Il 17 gennaio 1517 le truppe veneziane entravano in Verona, e una tregua con Massimiliano restituì a questi quanto aveva conquistato nel 1508, e qualche altro territorio periferico, riuscendo però a distogliere l'attenzione dell'imperatore dalle principali città della Terraferma. Venezia aveva recuperato buona parte del suo Stato italiano; si trattava ora di stabilire se sarebbe stato possibile conservarlo nel nuovo clima politico, e in quale modo ricostituirne la lealtà alla Repubblica.
"Si visse nella città di Treviso fin l'anno MDIX sanza guerra di fuori, et dentro non vi erano inimicitie, non odii occolti [...]; ogn'uno posto da canto il particolare attendeva al pubblico [...]; le gravegge erano poche et per ciò le richezze grandi et li scrigni di oro ripieni, né minor commodo si ritrovava nei contadini, di maniera che se poteva dire alla nostra città esser ritornata la età del oro". Così Bartolomeo Zuccato, cronista trevigiano, descriveva gli anni prima della guerra della Lega di Cambrai (96). Hanno forse qualche nesso, le sue parole, con uno degli aspetti più significativi degli eventi del 1509: la lealtà di Treviso a Venezia mentre tutte le altre città di Terraferma spalancavano senza esitazioni le porte agli invasori? O sono soltanto la tipica evocazione di un'idilliaca età dell'oro che avrebbe preceduto un grande disastro? Un altro contemporaneo i cui commenti sulle vicende del 1509 influirono su tutte le interpretazioni successive fu Niccolò Machiavelli, emissario fiorentino presso l'imperatore, che nel novembre di quell'anno fu a Verona, sulla via del ritorno. "Le cose di questa città si truovono in questo essere. E' gentili uomini, parendo loro forse essere in colpa, non sono Marcheschi: e' populari e la infima plebe è tutta viniziana" (97). Un commento che ci aiuta a rivolgere l'attenzione non soltanto agli eventi del 1509, ma ai motivi per cui si verificarono in quel dato modo, e alle vicende dei cinquant'anni precedenti nei rapporti tra Venezia e il suo Stato di Terraferma che influirono in modo più o meno diretto sulla drammatica resa dei conti di quell'anno.
Sul generale miglioramento delle condizioni economiche nella Terraferma veneziana, come d'altra parte in molte altre regioni europee nel tardo Quattrocento, il consenso è unanime: è chiaramente attestato a Brescia, a Verona, a Vicenza, così come nella succitata Treviso di Zuccato. La popolazione cresceva rapidamente, aumentavano la produzione industriale e la domanda di prodotti agricoli, e il commercio interno prosperava. Il Friuli, minacciato negli anni Settanta dai Turchi, e alcune estese zone della Lombardia occidentale, soggette alle devastazioni degli eserciti nella guerra di Ferrara (1482-1484), furono brevi eccezioni. I primi anni delle guerre d'Italia ebbero scarsi effetti sull'economia di questa parte della penisola (98).
In questa diffusa prosperità c'era però anche qualche aspetto inquietante. I tentativi della Repubblica di convogliare i flussi del commercio di Terraferma verso Venezia e le sue dogane si intensificarono sul finire del secolo, e così i bandi all'esportazione dallo Stato di alcuni prodotti chiave. Aumentava anche l'ingerenza dei Veneziani nelle attività economiche di Terraferma, provocando rivalità e conflitti a livello locale. Più significativo ancora fu il fatto che lo sviluppo economico tendeva a favorire soprattutto i ceti urbani più abbienti, accentuando la divisione tra ricchi e poveri nelle città, e favorendo l'estensione della proprietà e dell'influenza urbana nelle campagne. La modernizzazione dei metodi della produzione agricola e la modifica dei rapporti contrattuali nelle campagne creavano nuove aree di conflitto tra i proprietari urbani e i ceti contadini rurali (99).
Altrettanto importante, nel quadro delle implicazioni dello sviluppo economico, è la questione della pressione fiscale. Tutto considerato - come già abbiamo detto - nel Quattrocento Venezia non sfruttò in modo sistematico la ricchezza della Terraferma. Le imposte dirette erano poche, e la capacità delle città di trasferire buona parte dell'onere fiscale sulle campagne veniva riconosciuta come dato di fatto. Ma sul finire del secolo XV, e sicuramente nei primi anni del XVI, la pressione fiscale prese ad aumentare, in parte come esito naturale dello sviluppo delle opportunità economiche, ma anche in relazione con l'aumento dei costi della difesa e del contributo alla loro copertura che Venezia pretendeva dalla Terraferma. La guerra turca del 1499-1503 provocò una pressione gravosa, con l'introduzione del campatico, un'imposta diretta sulla terra che andò a colpire soprattutto i ceti terrieri urbani in espansione. Nell'intera Terraferma abbondano le testimonianze del rabbioso sgomento diffuso dalle nuove imposizioni del 1501 e del 1502 (100); il messaggio fu anzi tanto esplicito che quando Venezia si preparò a nuovi conflitti nel 1507-1508 - prima coi Tedeschi, poi con la Lega di Cambrai - nessuna nuova tassa fu imposta alla Terraferma per far fronte ai costi.
L'aumento delle entrate era legato al graduale irrigidimento del controllo veneziano sullo Stato di Terraferma nella seconda metà del Quattrocento. Fu un processo discontinuo, e in un certo senso inevitabile, in parte dovuto all'estensione dell'autorità del consiglio dei dieci, ricavata a spese di altri organismi veneziani come gli avogadori di comun, o per colmare i vuoti di potere che potevano aprirsi nei rapporti tra la capitale e le città soggette. Oltre alle competenze assunte nel campo della difesa, delle forniture militari, dei contratti militari più importanti e delle guarnigioni, alle quali abbiamo già accennato, il consiglio dei dieci interveniva ora a regolamentare le forniture di legname all'Arsenale e tutte le questioni attinenti i diritti minerari in Terraferma (101). Il consiglio avocò a sé il problema degli obblighi di fedeltà dei feudatari, come il caso dei signori di Collalto nel 1481, che rivendicavano una posizione semindipendente in quanto feudatari imperiali, o quello del vescovo di Ceneda nel 1474, che pur essendo un patrizio veneziano si comportava come un vescovo-principe dell'Impero (102). I dieci si arrogavano sempre più di frequente il diritto di giudicare certe cause d'appello, e controllavano anche la condotta dei funzionari veneziani in Terraferma. Va detto peraltro che in molti di questi interventi il consiglio si mostrò particolarmente attento a tutelare i diritti locali minacciati dall'azione di altri organismi o rettori veneziani. In un modo o nell'altro, comunque, i metodi inesorabili e spesso autocratici dei dieci si andavano imponendo sempre più diffusamente in Terraferma, come nella stessa Venezia.
Un campo in cui l'intervento del consiglio dei dieci fu più evidente e giustificato fu la tutela dell'ordine pubblico in Terraferma. Nel 1468 furono proibiti gli assembramenti in pubblico di più di quattro persone senza l'autorizzazione del locale rettore, o del vicario che lo rappresentava: una risposta al percepito aumento delle occasioni di tumulto, dalle guerre tra fazioni e le dimostrazioni contro i funzionari veneziani, alla criminalità di gruppo e al banditismo. Sull'intensificarsi dei conflitti all'interno delle società locali ritorneremo tra breve; qui basterà evidenziare la funzione del consiglio dei dieci e il modo in cui la preoccupazione per l'ordine pubblico lo condusse verso nuove aree di competenza (103).
L'irrigidirsi del controllo veneziano è testimoniato anche dal numero crescente dei funzionari inviati in Terraferma. Nel 1495 risultavano essere centotrenta, cui se ne aggiunsero altri venti prima del 1509, con l'occupazione di Cremona, delle città romagnole e con le nuove acquisizioni in Friuli e in Istria (104). Si ha l'impressione che nella seconda metà del secolo XV la qualità di questi funzionari lasciasse più a desiderare; molti dei posti venivano occupati da uomini con ambizioni politiche relativamente modeste, che di rado arrivavano alle cariche superiori, e diventavano più frequenti le proteste per l'incompetenza e la corruzione dei funzionari veneziani (105). È difficile stabilire in quale misura il problema possa essere messo in relazione con la presunta caccia agli incarichi remunerativi da parte del patriziato impoverito, perché la sussistenza stessa di quel fenomeno nel secolo XV rimane ancora da dimostrare. Non possiamo dunque sostenere con sicurezza che aumentasse il numero dei funzionari veneziani che accettavano il posto solo per il guadagno, e quindi erano più suscettibili alla corruzione, ma la diminuzione del prestigio di molte cariche di Terraferma, e dunque del rispetto che ne derivava, risulta indubitabile.
I cambiamenti maggiori nella società di Terraferma non erano comunque quelli imposti, per caso o intenzione, da Venezia, bensì quelli che avvenivano all'interno stesso di quelle società. Il processo dell'aristocraticizzazione e del consolidamento delle élites locali era già ben avviato prima che l'autorità veneziana si estendesse sulla Terraferma, nei primi anni del Quattrocento. Venezia è stata accusata di averlo incoraggiato, e per certi versi così fu, anche se abbondano le testimonianze di interventi veneziani diretti a rallentarlo o a mediarne gli effetti. Nel 1446 un decreto del senato tentò di allargare la partecipazione politica a Padova portando a cento i membri del consiglio e insistendo sulla norma della "contumacia" (106), e anche a Verona nel 1462 si cercò di por fine ai brogli elettorali e di allargare la partecipazione: la proposta di affidare ai rettori la nomina di venti consiglieri su cinquanta mirava più a cooptare un numero maggiore di uomini estranei alle famiglie dell'élite che non a potenziare l'autorità dei rettori stessi (107). Ma i tentativi di limitare il processo di consolidamento delle oligarchie politiche chiuse ebbero scarso successo. Nel 1488 il consiglio generale di Brescia subì una serrata formale, che limitava l'appartenenza al consiglio e l'accesso alle cariche pubbliche ad un gruppo chiuso di famiglie che già ne avevano goduto in passato, e che potevano presentare inappuntabili credenziali di antica residenza e censo fiscale (108); nelle altre grandi città il processo fu meno strutturato, ma altrettanto efficace. La nobiltà era data dal sanguee dalla ricchezza di antica data, e nel tardo Quattrocento chi la possedeva si considerava non soltanto un detentore naturale del potere nella propria città, ma anche un rivale dell'autorità veneziana. Per quanto Venezia si fosse sempre curata di lasciare spazio alle élites locali, imponendo il minimo possibile di cambiamenti istituzionali, la presenza dei rettori e l'autorità e l'attivismo crescenti dei consigli veneziani, e soprattutto dei dieci, erano dati di fatto cui le élites faticavano a rassegnarsi. Il loro consolidamento servì solo ad aumentare la frustrazione, e in questo sta il paradosso delle oligarchie di Terraferma, apparentemente tenute in palmo di mano da Venezia, che nel 1509 si rivoltarono contro la Repubblica.
L'onda montante di tensioni e conflitti che caratterizzò la società di Terraferma nei decenni prima di Agnadello non fu limitata agli scontri con l'autorità veneziana; e anzi, si manifestò meno in quei confronti che non nella contrapposizione tra le élites e il resto della popolazione urbana, e tra quest'ultima e la popolazione rurale. Uno dei motivi di frustrazione per le élites stava nella frequenza con cui i funzionari e i tribunali d'appello veneziani cercavano di tutelare le comunità rurali e le giurisdizioni locali dall'estensione del potere urbano. Faceva eccezione il Friuli, dove il ceto terriero era prevalentemente rurale e feudale, e i conflitti erano tra contadini e feudatari: qui, nei primi anni del secolo XVI, balenava la minaccia di una vera e propria rivolta contadina (109).
Una delle fonti più rivelatrici sull'interazione tra la Dominante e la Terraferma soggetta sta nelle visite di ispezione cui erano tenuti gli auditori nuovi, che alla scadenza dell'incarico viaggiavano per lo Stato raccogliendo le suppliche e gli appelli che i meno abbienti non avevano potuto o voluto portare a Venezia. Marin Sanudo riferisce in modo piuttosto dettagliato di una di queste visite nel 1483, e anche su altre disponiamo di qualche testimonianza (110). Il resoconto giovanile e un po' ingenuo di Sanudo insiste sullo stato tranquillo e ordinato della Terraferma, sul clima generale di benessere economico, sul rispetto in cui erano tenuti i rettori veneziani che aveva incontrato. Altre informazioni sull'opera degli auditori inducono però a individuare un declino della loro influenza nel tardo Quattrocento. Le visite periodiche di questi funzionari stavano rivelandosi inadeguate a far fronte all'aumento delle suppliche e degli appelli, e peraltro pare che la loro posizione politica e sociale fosse relativamente modesta: Alfredo Viggiano ha dimostrato che meno di uno su sette degli auditori in carica nel periodo compreso tra il 1466 e il 1502 entrarono poi a far parte dei consigli superiori del governo (111). Col primo Cinquecento la funzione degli auditori risulta ridimensionata, in coincidenza con lo spostamento dell'interesse di Venezia dalla tutela delle comunità locali al corteggiamento delle élites urbane.
L'impressione principale che rimane del rapporto tra Venezia e il suo Stato di Terraferma alla vigilia della più drammatica verifica della sua solidità è un senso di grande diversificazione. I1 grado di coesione sociale all'interno delle élites locali variava molto da una realtà all'altra, influenzando la rispettiva posizione nei confronti di Venezia, ed era inevitabilmente diversa anche l'esperienza nel rapporto con i funzionari veneziani: ormai erano numerosi gli esponenti della nobiltà di Terraferma che avevano ottenuto dalla Repubblica una condotta militare, ed è indubbio che nel patriziato veneziano l'esperienza e la comprensione degli affari di Terraferma erano più profonde di quanto alcuni non ritengano. Si ha nondimeno l'impressione che negli ultimi anni del Quattrocento questa comprensione andasse scemando. Indubbiamente le possibilità di conflitto tra interessi locali e spinte accentratrici erano aumentate, ma anche in questo risultano evidentissime le differenze tra la situazione di Padova e Treviso, vicine a Venezia, e quella di Brescia o di Bergamo. È comunque certo che in nessun luogo dello Stato di Terraferma, eccettuato il Friuli, esistevano nel 1509 le condizioni di una rivolta contadina o di un'insurrezione urbana contro il dominio veneziano: la sconfitta e l'occupazione militare innescarono antagonismi latenti, e alimentarono ambizioni segrete, creando una temporanea rottura nella continuità. Ma il fatto stesso che nel 1517 quella continuità venisse ripristinata ci dice molto circa la natura dell'intera vicenda.
Il rapido collasso della resistenza veneziana nel maggio 1509, e la perdita nell'arco di pochi giorni dell'intera Terraferma, o quasi, indussero Machiavelli a individuare la principale lezione di quegli eventi nell'incapacità difensiva di Venezia. Come osservava in una famosa lettera a Francesco Vettori del 26 agosto 1513, "molti amici mia [...] sanno come io stimavo poco i Vinitiani, etiam nella maggior grandezza loro, perché a me pareva sempre molto maggior miracolo che eglino havessino acquistato quello imperio et che lo tenessino, che se lo perdessino. Ma la rovina loro fu troppo honorevole, perché quello che fece un re di Francia harebbe fatto un duca Valentino, o qualunque capitano existimato, che fusse surto in Italia, et havesse comandato a 15 mila persone. Quel che mi moveva era il modo del proceder loro senza capitani o soldati proprii" (112). Va detto che nel 1501 il duca Valentino, Cesare Borgia, aveva terrorizzato i Fiorentini con ben meno di quindicimila uomini, e che la forte pregiudiziale antiveneziana del fiorentino Machiavelli era ispirata dagli eventi del 1509 e dalla sua scarsa comprensione della natura della potenza militare di Venezia. Comunque fosse, alla rapida ritirata da Agnadello, come all'abbandono del Friuli alle scorrerie turche negli anni Settanta del Quattrocento, contribuì anche una certa propensione a privilegiare la difesa di Venezia stessa rispetto a quella dello Stato nel suo insieme. Nel Quattrocento la politica militare veneziana si era basata sulla rapidità di reazione alle opportunità o alle minacce, su una difesa mobile fornita da grossi contingenti di truppe permanenti trasferiti rapidamente nei punti minacciati. Alle fortificazioni e alle difese permanenti in Terraferma erano stati dedicati ben pochi progetti, e ancor meno risorse: nessuna nuova fortezza sbarrava la strada all'avanzata francese, e le città presentavano cerchie di mura primitive, non modificate per far fronte ai cannoni francesi. Era quindi possibile che le popolazioni di quelle città e delle campagne circostanti si sentissero tradite e abbandonate da un governo apparentemente incapace di difenderle, come era avvenuto centocinquant'anni prima ai contadini francesi protagonisti della jacquerie.
Ma in realtà la situazione non era così semplice; le città di Terraferma si arresero senza permettere all'esercito veneziano, ancora abbastanza in forze, di difenderle. Una volta partiti i rettori, le loro porte si chiusero in faccia alle truppe di Venezia per ordine dei consigli comunali. Pare che qualche rettore avesse consigliato questa linea di condotta per evitare danni inutili, ma è probabile che anche questo consiglio fosse superfluo; la Terraferma si trovava di fronte a un pericolo fin troppo evidente, e su tre fronti. In primo luogo c'era il rischio che l'esercito veneziano sconfitto sfuggisse al controllo del comando per darsi al saccheggio, come era avvenuto nel 1448 dopo la sconfitta di Caravaggio. In secondo luogo, c'era il pericolo di un sacco francese in caso di resistenza. In terzo luogo, e forse al primo posto nella mente delle élites urbane, c'era il timore che se le truppe francesi o imperiali avessero tardato a prendere il controllo della situazione gli atti di violenza sarebbero venuti dai ceti inferiori di città e campagne, ansiosi di vendicarsi su coloro che li avevano sfruttati e dominati. Erano i timori più comuni in quel genere di situazione militare, ed è probabile che inizialmente contassero ben più del desiderio di propiziarsi i conquistatori, o delle recriminazioni contro i Veneziani.
Le circostanze variavano da una città all'altra; a Vicenza c'era un'antica consuetudine a ricercare il favore imperiale, sebbene l'élite vicentina fosse nota per aver assunto lo stile esteriore dei Veneziani, e per le sue frequenti dichiarazioni di lealtà alla Repubblica (113). A Padova invece si raccolgono le più esplicite manifestazioni di risentimento verso "i 3000 tyranni veneti, i qualli, per la vicinità, continue ogni suo infortunio e danno, rodando le nostre povere viscere, si ha reffato et consumatone talmente, che de homeni rationali, quodammodo siamo umbre e simulacri pervenuti" (114): insomma il patriziato veneziano nel suo complesso, che controllava la Repubblica attraverso l'appartenenza al maggior consiglio, e imponeva ai suoi sudditi un'interminabile tirannia. Risultò comunque chiaro dal modo in cui il consiglio padovano si mosse subito dopo la partenza dei rettori veneziani il 6 giugno che la massima priorità veniva attribuita alla confisca delle proprietà veneziane nelle campagne circostanti (115). In Friuli la minaccia dell'occupazione straniera si materializzò meno repentinamente, e solo nel febbraio 1511, di fronte all'avanzata di un esercito imperiale, il partito popolare guidato da Antonio Savorgnan insorse contro l'aristocrazia, incendiando palazzi a Udine e massacrando alcuni dei suoi avversari. I Savorgnan avevano goduto del favore del governo per tutto il periodo del dominio veneziano, anche se i loro alleati nel popolo udinese e nei ranghi della milizia rurale erano guardati con sospetto; la successiva defezione di Antonio Savorgnan, passato dalla parte dell'imperatore, fu dunque un colpo particolarmente duro per Venezia, e portò alla temporanea perdita del Friuli (116). E infine a Treviso il tentativo della nobiltà di arrendersi all'inviato dell'imperatore, Leonardo Trissino, fu frustrato da un'insurrezione popolare, e la città fu l'unico centro importante che rimase sotto il controllo veneziano per tutta la durata della crisi (117).
Il fatto che i ceti popolari, e soprattutto i contadini, paressero più propensi a rimanere fedeli a Venezia che non le élites urbane ha suscitato non poche discussioni tra gli storici, oltre che tra i commentatori contemporanei. A quanto risulta la reazione fu immediata, come indica il caso di Treviso, il che induce a ritenere che gli interessi degli artigiani urbani e dei produttori agricoli nel mercato veneziano, o il ricordo di come i funzionari e le corti di appello di Venezia avessero fatto qualche tentativo per tutelare i loro diritti, contassero meno come motivazioni immediate della loro azione rispetto al risentimento nei confronti delle élites che si preparavano ad abbandonare la Repubblica. La paura e l'interesse imposero la scelta tra la fedeltà o l'infedeltà alla Serenissima almeno quanto i fattori sociopolitici di lungo periodo; sostenere che gli eventi del 1509 furono causati dall'incapacità di Venezia di creare una classe dominante unitaria e uno Stato integrato nel corso del suo primo secolo di dominio in Terraferma significa perdere di vista la situazione immediata per cadere nell'astrazione (118).
Negli otto anni successivi altri fattori entrarono in gioco ad influenzare le scelte dei gruppi sociali in Terraferma. Il risentimento verso i conquistatori, arroganti e avidi di bottino, rese incerta nei nobili la nuova lealtà, e confermò nei contadini l'attaccamento a Venezia. Le difficoltà economiche provocate dall'andirivieni degli eserciti attraverso la Lombardia logoravano il consenso verso gli invasori. Il dilemma della lealtà era peraltro complicato dalle elargizioni francesi e imperiali di terre e favori alle famiglie nobiliari. E soprattutto, il flusso e riflusso delle campagne militari, il rientro di Venezia in alcune città per poi perderle un'altra volta, rendono difficile qualsiasi generalizzazione circa la lealtà o il tradimento di un gruppo particolare in un'area particolare. Venezia fece seguire alla riconquista la proscrizione dei suoi nemici più scoperti, come a Padova nel luglio-agosto 1509, e il temporaneo avallo dei consigli allargati costituiti in modo contingente sulla base delle nuove alleanze sociali nate dalla resistenza alle potenze della Lega, come a Belluno nel 1512 e a Bergamo nel 1515 (119). Nel lungo periodo, però, l'esito del 1517 fu un ritorno alla dipendenza dalle élites dominanti e, com'era inevitabile, all'indifferenza per gli interessi dei ceti popolari. Un esito imposto dal naturale conservatorismo di Venezia, dalle realtà sociopolitiche dello Stato di Terraferma e dagli sviluppi della situazione internazionale che la Repubblica si trovò ad affrontare negli anni Venti.
Con il rientro a Verona delle truppe veneziane il 18 gennaio 1517 si concluse la rioccupazione della parte principale della Terraferma. Alle sue fasi finali avevano contribuito in modo decisivo l'alleanza con i Francesi e il loro riuscito reinsediamento a Milano; ma non sarebbe bastato il temporaneo predominio francese a rendere possibile questa rivendicazione dell'autorità veneziana, senza la concomitanza di una fase di stallo nel conflitto internazionale. In un primo momento Massimiliano cercò di bloccare il processo, ma alla fine, nel novembre 1516, a Bruxelles, i suoi rappresentanti accettarono che Verona venisse trasferita al nuovo re di Spagna Carlo, nipote di Massimiliano, e da questi alla Francia, in modo che la restaurazione avvenisse per via indiretta, senza macchiare l'onore dell'Impero (120). I destini d'Italia venivano decisi sempre più spesso in incontri che avvenivano all'altro capo d'Europa, e questo valeva per Venezia come per gli altri Stati della penisola.
La pausa nel conflitto internazionale durò fino al 1521. Francesco I, legato a papa Leone X dal concordato di Bologna, e a Firenze dalle intese tradizionali e dal rinato predominio mediceo, era padrone del Nord, e Venezia rimaneva in quell'orbita, avendo ancora come riferimento per la sua diplomazia il trattato di Blois. Carlo, già in procinto di unire la Spagna e i Paesi Bassi, e con gli occhi fissi sull'Impero in attesa della morte del nonno, controllava Napoli e prendeva tempo. Le galere veneziane che ripresero i loro viaggi commerciali verso ponente nel 1516 navigavano nel bel mezzo di questo mondo asburgico sempre più integrato, e dipendevano dal suo benvolere.
Com'era inevitabile, la morte di Massimiliano nel 1519 e la successiva elezione imperiale rovesciarono quell'instabile equilibrio. La sfida lanciata da Francesco I alle aspirazioni imperiali di Carlo esacerbò la rivalità personale tra i due uomini, e la vittoria di Carlo, eletto imperatore, gli diede nuove risorse e nuove ambizioni. Persino il Portogallo fu attirato nell'orbita asburgica quando Carlo sposò Isabella, e nel maggio 1521 Leone X, che si era opposto all'elezione di Carlo, accettò di allearsi con lui per far fronte alla minaccia luterana. Francesco I, deciso a spezzare l'accerchiamento asburgico e convinto che i problemi di Carlo con i comuneros, coi luterani e coi Turchi gli offrissero una buona occasione, cominciò a preparare nel 1521 una nuova spedizione per la conquista di Napoli.
A Venezia il dibattito sulla politica estera divenne prioritario, e tale sarebbe rimasto per qualche anno a venire. Andrea Gritti, l'eroe della riconquista della Terraferma che presto sarebbe diventato doge, rimaneva fermamente filofrancese, ma una fazione papalina sempre più potente, guidata dalle famiglie Grimani e Corner, chiedeva a gran voce che Venezia seguisse il papa a qualsiasi costo, e nel 1521 ciò significava guardare dalla parte dell'imperatore. Carlo in persona rinfacciò ai Veneziani, per mezzo dell'ambasciatore alla sua corte, Gasparo Contarini, la loro posizione tenacemente filofrancese: "Vui sete non fransesi ma fransesissimi", avrebbe gridato alla metà del 1522 (121). Ormai le speranze dei Francesi erano state infrante dal successo dell'invasione imperiale di Milano e dalla sconfitta della Bicocca, il 27 aprile 1522, quando i quadrati di picche svizzeri furono sbaragliati dagli archibugieri spagnoli, e la cavalleria franco-veneziana non riuscì a rovesciare la situazione (122). I Francesi avevano perduto Milano, ma Carlo, in parte per tener conto dei timori di Venezia, evitò di prenderne possesso diretto, insediando come duca Francesco II Sforza. In tutti quegli anni difficili Carlo parve ansioso di non arrivare a un confronto diretto con Venezia, probabilmente più nell'ambito di una generale tendenza alla cautela e alla moderazione della politica imperiale che non per paura delle armi veneziane, ma senza dubbio la cosa aiutò la Repubblica in più di un'occasione, e nel 1522 salvò lo Stato veneziano dalle conseguenze immediate della sconfitta francese.
Alla metà del 1523 Venezia aderì a una Lega internazionale costruita dalla diplomazia imperiale per parare l'inevitabile contrattacco francese. Era stato Adriano VI, succeduto a Leone X alla fine del 1521 e continuatore della politica di riavvicinamento con l'Impero, a spingere la Repubblica in quella direzione. Pareva che questa accettazione dell'ascendente asburgico dovesse compromettere il futuro di Venezia in quanto Stato indipendente, e il disagio veneziano di fronte a questa situazione era condiviso da Clemente VII, succeduto ad Adriano nel settembre 1523, e da Firenze. In senato il partito filofrancese era forte, e il doge era Andrea Gritti; al primo segno di ripresa del contrattacco francese gli ingranaggi della diplomazia si sarebbero rimessi in movimento (123).
Sul finire del 1524 i preparativi per quel contrattacco erano in pieno svolgimento, e in Italia si riaccendevano le speranze. Clemente VII allettò Venezia promettendo una rinuncia alla rigorosa rivendicazione dei diritti pontifici fissati nel 1510 in merito alle nomine per vescovadi e benefici, nonché la tassabilità del clero veneto: la Bolla clementina, annunciata in pectore nel febbraio 1525, ripristinava i diritti di nomina locali per le parrocchie della città di Venezia (124). Ma fu piuttosto la logica dell'equilibrio di potere che indusse gli Stati italiani a stipulare un accordo segreto con Francesco I il 12 dicembre 1524 (125). L'invasione francese di Milano ebbe immediato successo; la città stessa passò di mano per l'ennesima volta, una parte dell'esercito imperiale era assediata a Pavia, e Francesco si sentì abbastanza sicuro da distaccare seimila uomini per un attacco su Napoli. Tanta fiducia si dimostrò mal riposta: le truppe spagnole e imperiali si raccolsero rapidamente dietro le insegne del marchese di Pescara, e attaccarono il grande campo francese di fronte a Pavia. La sconfitta schiacciante di Pavia, il 24 febbraio 1525, con la morte di molti nobili francesi e la cattura del re, riportò saldamente l'ago della bilancia dalla parte di Carlo V (126). L'errore di calcolo degli Stati italiani non fu tanto, come molti sostengono, una percezione della potenza militare francese superata dai tempi, bensì l'aver colto solo in modo incompleto la nuova misura del potere dell'imperatore in Germania, e la sua capacità di mettere in campo un esercito possente, il cui nerbo era costituito dai temuti lanzichenecchi.
Ancora una volta, dopo Pavia, Carlo si mostrò riluttante ad approfittare a fondo della posizione di vantaggio. Il trattato di Madrid con Francesco I fu il tentativo di un'intesa onorevole, non umiliante come sarebbe invece stato consentito dalla situazione: Francesco riotteneva la libertà in cambio dell'impegno a restituire il Ducato di Borgogna e rinunciare a ogni pretesa in Italia. Anche in Italia Carlo si astenne dalla rappresaglia immediata contro gli Stati che si erano schierati contro di lui, e questo fatto, insieme con la notizia che Francesco aveva ripudiato il trattato di Madrid non appena rientrato in Francia, all'inizio del 1526, ed era evidentemente determinato a ritornare in Italia alla prima occasione, diede nuova fiducia agli alleati italiani del re francese. Le persistenti difficoltà in cui si dibatteva Carlo, le divisioni interne alla Germania manifestatesi alla dieta di Spira, e la nuova avanzata dei Turchi che sarebbe culminata nella schiacciante sconfitta degli Ungheresi a Mohács, in agosto, erano tutti elementi a favore dell'alleanza antiasburgica. Il 24 maggio 1526 l'alleanza fu formalizzata dalla Lega Santa di Cognac, in cui Clemente VII e la Repubblica veneziana, e poco tempo dopo Firenze e Francesco Sforza, si dichiaravano decisamente per la Francia. Sforza era stato cacciato da Milano dalle truppe spagnole, e ora Venezia si mobilitava per preparare l'invasione congiunta del Ducato milanese (127).
Gli eventi dei tre anni che seguirono parvero indicare che, nonostante i traumi di Cambrai e Agnadello, e nonostante i nuovi minacciosi schieramenti politici in Italia, Venezia era ancora abbastanza sicura di sé da saper approfittare delle occasioni di espansione territoriale. Gli indirizzi più difensivi che dovevano pervadere la politica della Repubblica per buona parte del Cinquecento si sarebbero affermati a Venezia con una certa lentezza. Nel giugno del 1526 il capitano generale Francesco della Rovere ebbe l'ordine di avanzare su Cremona e Lodi; l'esercito veneziano schierava sedicimila armati, e fino all'arrivo della spedizione francese di Lautrec nel 1527 costituì il grosso delle forze della Lega in campo. Della Rovere si limitò a tenere a bada a distanza l'esercito imperiale del duca di Borbone che nella primavera del 1527 scendeva verso sud per minacciare Firenze e mettere al sacco Roma. Nonostante questi rovesci per la Lega, Venezia tenne duro; la resistenza e l'autorità del papa erano state annullate, Ravenna e Cervia chiedevano la protezione della Repubblica, e le truppe veneziane entrarono in Romagna per riprendere quanto era stato ceduto a Giulio II nel 1509. I Veneziani sostennero l'avanzata di Lautrec, e quando questi attaccò Napoli una loro flotta rioccupò i porti pugliesi di Trani, Bari e Brindisi. Per un momento parve che il corso degli eventi si fosse davvero invertito, e che Venezia stesse muovendosi per trarre il massimo vantaggio dalla situazione. Fu a questo punto che la Serenissima offrì di acquistare dal Portogallo tutte le spezie importate dall'Oriente, per affamare il mercato di Anversa, e seppe anche approfittare della debolezza del papa per imporre al clero veneziano un prestito forzoso di 100.000 ducati (128).
Ma le sorti della spedizione napoletana di Lautrec dipendevano dall'appoggio di Andrea Doria e della flotta genovese; la relativa debolezza dell'armata navale francese fu un fattore chiave in queste guerre, e Venezia esitava a inviare una grossa squadra nel Mediterraneo occidentale. La defezione di Andrea Doria nel luglio 1528, seguita dalla morte di Lautrec e dalla decimazione per malattia del suo esercito all'assedio di Napoli, pose fine all'ultimo tentativo francese di rivendicare l'eredità angioina. Venezia si trovò pericolosamente isolata in Italia; una nuova invasione francese di Milano fallì nel 1529, e Clemente VII si avvicinava rapidamente a un'intesa con l'imperatore. L'intesa fu formalizzata dal trattato di Barcellona (29 giugno 1529), che aprì la strada all'incoronazione imperiale in Italia e alla restaurazione dei Medici a Firenze, come satelliti degli Asburgo. La "pace delle Dame" stipulata a Cambrai il 3 agosto 1529 completò la formalizzazione del predominio asburgico in Italia.
Da entrambi i trattati firmati nell'estate del 1529 risultava evidente che Venezia sarebbe rimasta isolata se non avesse restituito le città romagnole e pugliesi recentemente occupate, e se non fosse scesa a patti con l'imperatore. Francesco I aveva promesso di ritirarsi dall'Italia, e il papa stava saldamente al fianco dell'imperatore: i diplomatici italiani ebbero ben poco da fare, a Cambrai. Sebastiano Giustinian, che rappresentava Venezia, aveva l'ordine di assicurarsi che il trattato non comprendesse clausole antiturche, e così fu; ma questo premeva senza dubbio anche ai Francesi, che avevano recentemente concordato un'intesa con gli Ottomani, e non sarebbe certo stato logico escludere con certe clausole la Francia dall'Italia, per poi invitarla in altre a prender parte a una crociata nel Mediterraneo. Francesco Sforza fu restaurato ancora una volta a Milano, forse in omaggio ai timori veneziani, ma né gli inviati fiorentini, né quelli veneziani, firmarono il trattato, e anzi, partirono da Cambrai il giorno prima della cerimonia della firma (129).
C'era ancora a Venezia chi chiedeva la continuazione della guerra, ma erano voci sempre meno influenti. Nel gennaio 1530 Carlo V fu incoronato a Bologna, a conferma dell'influenza imperiale sugli affari d'Italia, e Venezia accettò l'investitura delle città di Terraferma, rinunciando a quelle romagnole e ai porti pugliesi. Dal papa non giunsero nuove concessioni in materia di giurisdizioni ecclesiastiche, ma fu formalmente pubblicata la Bolla clementina del 1525 (130). Nonostante un decennio di intensissima attività militare e di virtuosismi diplomatici, Venezia non era di fatto riuscita a conservare una posizione di influenza nel nuovo mondo della politica europea. D'altro canto, però, aveva evitato l'isolamento e il disastro, conservando una notevole libertà di azione. Le sue frontiere erano ancora quelle riconquistate nel 1517, e tali sarebbero rimaste per tutto il Cinquecento.
La determinazione a non perdere lo Stato di Terraferma, riconquistato con tanta fatica e non poco onore nel 1517, fu un fattore importante nel clima politico di quegli anni. Nella terza decade del secolo è indubbio che a Venezia si respirasse una nuova aria di fiducia e dedizione, legata anche ad alcuni grandi progetti e programmi culturali pubblici (131). Ma le crisi che parevano superate erano di natura economica e sociale, oltre che politica, e i loro effetti si protrassero dalla fine del secolo XV agli ultimi anni Venti del XVI. Nemmeno nella sfera politica ci si concentrava sulla mera conservazione della Terraferma bensì, come abbiamo visto, su una visione più ampia degli affari esteri. Ancora negli anni Venti del Cinquecento la preoccupazione per la difesa della Terraferma era temperata dall'attenzione per le occasioni di limitata espansione.
Un atteggiamento più difensivo è tra le caratteristiche salienti del dopo Cambrai, e John Hale ha dimostrato che dopo il 1509 Venezia cominciò finalmente a investire risorse consistenti nelle fortificazioni (132). Padova e Treviso furono rimunite per prime, essendo sempre rimaste in mano ai Veneziani, ma negli anni Venti Crema, Bergamo e infine Vicenza seguirono a ruota. Si provvedeva soprattutto a fortificare i grossi centri abitati, specie nella parte occidentale dello Stato, mirando da un lato a proteggerne la popolazione e ad evitare il ripetersi degli eventi del 1509, dall'altro a uno spostamento delle priorità e delle risorse da un'impostazione difensiva-controffensiva basata sulla presenza di grosse compagnie permanenti stanziate in tutta la Terraferma a una più statica difesa in profondità, creando piazzeforti che nessun esercito invasore poteva aggirare impunemente. A questa strategia Venezia fu indotta dalla più generale trasformazione della natura della guerra, e non soltanto dalle minacce immediate alla sua Terraferma: la fanteria stava rapidamente soppiantando la cavalleria come componente principale degli eserciti, e ai grandi numeri delle compagnie di cavalleria, abbastanza ben addestrate e dotate di grande prestigio, andavano sostituendosi i contingenti più ridotti della fanteria professionale specializzata, sostenuti nei momenti di emergenza dal rapido arruolamento di un gran numero di mercenari o coscritti. La forza permanente di cavalleria a ranghi ridotti e le compagnie di fanteria permanente venivano acquartierate nelle città di recente fortificate, non più nelle campagne come nel Quattrocento.
Poiché l'esercito veneziano rimase in stato di piena mobilitazione per buona parte degli anni Venti, i cambiamenti di lungo periodo legati alla costruzione delle fortificazioni e al passaggio dalla cavalleria alla fanteria risultarono meno immediatamente evidenti di quanto non avrebbero potuto essere. Ma erano ben percepibili i segnali della progressiva scomparsa degli acquartieramenti nelle campagne e dei contributi forzosi per il soldo militare, mentre aumentava la richiesta di manodopera e risorse per la costruzione delle fortificazioni. Negli anni Venti ricadeva sulla popolazione rurale l'ulteriore onere di un sistema di coscrizione per i rematori nelle galere, necessario per alimentare la grande espansione della flotta militare: nel 1522 fu costituita una riserva di seimila uomini, e il loro numero sarebbe costantemente aumentato (133).
L'impatto di queste nuove pressioni sul piano fiscale va valutato alla luce della situazione economica della Terraferma dopo le guerre. Uno dei primi provvedimenti presi dal governo veneziano dopo il 1517 fu una revisione degli estimi nelle diverse provincie dello Stato (134). La popolazione era drammaticamente calata, soprattutto nelle città, durante gli otto anni di guerra e di occupazione straniera; la terra, teatro dei combattimenti, era rimasta spesso abbandonata; la produzione manifatturiera era stata particolarmente danneggiata. Sul lungo periodo, in realtà, gli effetti delle devastazioni furono assai meno significativi di quanto non si creda, ma a breve termine fu necessario ridimensionare gli oneri fiscali e far fronte ai problemi della povertà estrema.
La depressa situazione economica e sociale della Terraferma contribuì indubbiamente alla restaurazione dell'autorità veneziana. Una restaurazione profondamente conservatrice: il ripristino di un'amministrazione fondata su un numero relativamente esiguo di funzionari veneziani, sulla cooperazione delle élites locali nonostante le malversazioni e i tradimenti perpetrati durante le guerre, sulla ratifica dei costumi e delle tradizioni locali. Il conservatorismo di questa impostazione la rendeva più facile da accettare per il grosso delle popolazioni locali. Le élites urbane, ridotte nei ranghi e nelle sostanze dalla devastazione dei campi e dal declino delle rendite, accolsero con gratitudine il ritorno della pace e del controllo veneziano nelle campagne, e la conferma del loro ruolo predominante a livello locale. I contadini, la cui fedeltà alla Serenissima durante la crisi non poté certo dirsi premiata, furono comunque lieti della pace, e di quel po' di protezione che ottenevano dall'autorità veneziana contro i proprietari e gli amministratori urbani. Molti profughi della Terraferma erano andati a cercare rifugio e sostentamento a Venezia, stimolando la domanda del mercato veneziano e la sua dipendenza dai prodotti della Terraferma, e creando tutta una serie di nuovi nessi sociali tra la Dominante e il suo riconquistato Dominio, mentre riprendeva impulso l'acquisizione veneziana di proprietà in Terraferma. In questo campo, come nel più ampio contesto dell'aumento degli interessi e del potere di Venezia in Terraferma, non è possibile tracciare una linea di demarcazione nel 1530: i cambiamenti reali, sul piano dello sfruttamento economico, della comparsa di nuove cariche e categorie di funzionari, e dei programmi - pubblici e privati - di ricostruzione, vennero in genere in un momento successivo (135). Ma la scena era stata allestita negli anni immediatamente successivi al 1517, quando la minaccia di un'ulteriore aggressione straniera contro lo Stato era più che concreta, quando l'occasione di un approccio radicalmente nuovo alla sua amministrazione non veniva nemmeno percepita (di afferrarla non si parlava nemmeno); e fu allora che avvenne il maggiore cambiamento nella mentalità veneziana: accettare quello che si teneva in pugno, senza andare alla ricerca di qualcosa di più. Fu questo l'apporto principale degli anni Venti del Cinquecento.
Traduzione di Enrico Basaglia
1. Per un esame dettagliato del negoziato che condusse alla pace di Lodi si vedano Federico Antonini, La pace di Lodi e i segreti maneggi che la prepararono, "Archivio Storico Lombardo", 57, 1930. pp. 233-296, e Felice Fossati, Francesco Sforza e la pace di Lodi, "Archivio Veneto", ser. V, 60-61, 1957, pp. 15-34. Ben delineata la scena politica italiana negli anni 1454-1494 in Giovanni Pillinini, Il sistema degli stati italiani, 1454-94, Venezia 1970. Cf anche Franco Catalano, Il problema dell'equilibrio e la crisi della libertà italiana, in AA.VV., Nuove Questioni di Storia Medioevale, Milano 1964, pp. 357-398. Sul ruolo veneziano in questi eventi, Nino Valeri, Venezia nella crisi italiana del Rinascimento, in AA.VV., La civiltà veneziana nel Quattrocento, Firenze 1957, pp. 35-47, e Federico Seneca, Venezia, l'equilibrio politico e la crisi della libertà d'Italia, "Critica Storica", 6, 1967, pp. 453-469.
2. Testo classico sulla Lega italica è Giovanni Soranzo, La lega italica (1454-55), Milano 1924, ma per una rassegna esaustiva della vasta produzione storiografica sull'argomento si veda G. Pillinini, Il sistema degli stati italiani, pp. 38-59.
3. Francesco Guicciardini, Storia d'Italia, I, 1; Corrado Vivanti, La storia politica e sociale, in AA.VV., Storia d'Italia, II/1, Dalla caduta dell'Impero romano al secolo XVIII, Torino 1974, p. 334 (pp. 277-427).
4. Nicolai Rubinstein, Italian Reactions to Terraferma Expansion in the Fifteenth Century, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973, p. 206 (pp. 197-217). Per un'analisi più recente del ruolo giocato da Venezia negli affari italiani del periodo, Gaetano Cozzi, Politica, società, istituzioni, in Id. - Michael Knapton, La Repubblica di Venezia nell'età moderna. Dalla guerra di Chioggia al 1517, Torino 1986 (Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, XII/1), pp. 49-71 (pp. 3-271).
5. L'edizione delle Lettere di Lorenzo de' Medici è attualmente in corso (sono stati finora pubblicati i volumi I-VI, a cura di Riccardo Fubini-Nicolai Rubinstein-Michael E. Mallett, Firenze 1977-1990, mentre si attende il volume VII, a cura di Michael E. Mallett); coprono nel modo più completo gli avvenimenti politici italiani dagli anni Sessanta fino al 1492. Nella selva di riferimenti all'atteggiamento fiorentino, e soprattutto del Magnifico, nei confronti di Venezia, vale da sommario Michael E. Mallett, Lorenzo and Venice, in Lorenzo il Magnifico e il suo mondo, a cura di Gian Carlo Garfagnini, Firenze 1994, pp. 109-121.
6. G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, pp. 56, 65.
7. Una bibliografia dettagliata sulle relazioni tra gli Stati italiani in questo periodo sta in G. Pillinini, Il sistema degli stati italiani, pp. 150-162.
8. Roberto S. Lopez, Il principio della guerra venetoturca nel 1463, "Archivio Veneto", ser. V, 15, 1934, pp. 45-131
9. Si v. l'altro mio contributo a questo volume, nel luogo corrispondente alla n. 50.
10. Le ingerenze oltremontane costituiscono un tema specifico nell'analisi di G. Pillinini, Il sistema degli stati italiani, pp. 83-96, 105-123.
11. Luciano Banchi, Il Piccinino nello stato di Siena e la lega italica (1455-56), "Archivio Storico Italiano", ser. IV, 4, 1879, pp. 44-58, 225-245.
12. Cristoforo da Soldo, Cronaca, a cura di Giuseppe Brizzolara, in R.I.S.2, XXI, 3, 1938-1942, p. 132.
13. Samuele Romanin, Storia documentata della Repubblica di Venezia, I-X, Venezia 1853-1861: IV, p. 306.
14. Patricia H. Labalme, Bernardo Giustinian: a Venetian of the Quattrocento, Rome 1969, pp. 114 ss.
15. R.S. Lopez, Il principio della guerra veneto-turca, e Giovanni Soranzo, Sigismondo Pandolfo Malatesta in Morea e le vicende del suo dominio, "Atti e Memorie della Regia Deputazione di Storia Patria per le Provincie di Romagna", ser. IV, 8, 1918, pp. 211-280.
16. Franco Catalano, Il ducato di Milano nella politica dell'equilibrio, in AA.VV., Storia di Milano, VII, Milano 1956, pp. 224-231 (pp. 224-310).
17. Sulla crisi del 1467 si vedano G. Pillinini, Il sistema degli stati italiani, pp. 73-78, e Bortolo Bellotti, Vita di Bartolomeo Colleoni, Bergamo 1923, pp. 374-409.
18. Lettere di Lorenzo de' Medici, I, pp. 9-172.
19. Ibid., excursus II, pp. 547-553, nonché ibid., II, excursus I, pp. 475-484.
20. Ibid., I1, pp. 12-19 e ibid., I, excursus II, pp. 485-490.
21. Ibid., III, pp. 133-136.
22. Un'immensa bibliografia vantano la fine della guerra dei Pazzi e la celebre visita di Lorenzo de' Medici a Napoli: la fonte più autorevole, anche riguardo alla parte giocata da Venezia, è ibid., IV, pp. 249 ss.
23. Sul ruolo veneziano negli eventi di Otranto, Alessio Bombaci, Venezia e l'impresa turca di Otranto, "Rivista Storica Italiana", 66, 1954, pp. 159-203. Una larga bibliografia in G. Pillinini, Il sistema degli stati italiani, p. 159, mentre per il dibattito recente si vedano le Lettere di Lorenzo de' Medici, V, pp. 50-71.
24. Di particolare valore, a illuminare la discussione sulle dispute e i confronti che portarono alla guerra di Ferrara, sono Edoardo Piva, La guerra di Ferrara, I, Padova 1893, pp. 5 ss.; Trevor Dea Venetian Economic Hegemony: the Case of Ferrara, 1220-1500, "Studi Veneziani", n. ser., 12, 1986, pp. 45-98, e le Lettere di Lorenzo de' Medici, VI, excursus, pp. 345-361.
25. Lettere di Lorenzo de' Medici, VI, pp. 347-361.
26. Ibid., VII, passim; sul periodo della guerra di Ferrara, Marin Sanudo il Giovane, Le vite dei dogi (1474-94), a cura di Angela Caracciolo Aricò, Padova 1989, che comprende un'edizione emendata dei Commentarii del Sanudo alle pp. 232 ss. Si vedano inoltre G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, pp. 65-70, e Michael E. Mallett, Venice and the War of Ferrara, in War, Culture and Society in Renaissance Venice: Essays in Honour of John Hale, a cura di David S. Chambers-Cecil H. Clough-Michael E. Mallett, London 1993, pp. 57-72.
27. Lettere di Lorenzo de' Medici, VII, excursus II.
28. Sulla pace di Bagnolo si vedano Roberto Cessi, La pace di Bagnolo dell'agosto 1484, "Annali Triestini di Diritto, Economia, Politica", 13, 1941, pp. 277-356; Fanny Bennato, Note per la storia della pace di Bagnolo, "Archivio Veneto", ser. V, 64, 1959, pp. 1-12, e Lettere di Lorenzo de' Medici, VII.
29. G. Pillinini, Il sistema degli stati italiani, pp. 129-135; eccellente bibliografia sulla guerra dei baroni alle pp. 60-161. Un'analisi del ruolo svolto da Venezia in questa crisi in Ernesto Pontieri, L'atteggiamento di Venezia nel conflitto tra papa Innocenzo VIII e Ferrante I d'Aragona (1485-92), "Archivio Storico per le Provincie Napoletane", 81, 1963, pp. 197-324.
30. G. Pillinini, Il sistema degli stati italiani, p. 135.
31. L'interesse per i motivi dell'invasione francese dell'Italia nel 1494 è stato intensissimo fin dal dettagliato, e tuttora insostituibile, resoconto di Guicciardini nella sua Storia d'Italia, libro I. G. Pillinini, Il sistema degli stati italiani, pp. 161-162 prende in esame una parte della bibliografia, mentre si rivela estremamente utile una recente analisi di Yvonne Labande-Mailfert, Charles VIII et son milieu (1470-98), Paris 1975.
32. G. Soranzo, La lega italica, pp. 192-193.
33. Michael E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, Roma 1989, pp. 69-70.
34. Ibid., p. 103.
35. Francesco Musoni, Sulle incursioni dei Turchi in Friuli, Udine 1890-1892, è un testo classico, ma v. anche Paolo Preto, Venezia e i Turchi, Firenze 1975, pp. 32-33, e M.E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, pp. 69, 97.
36. Cf. supra.
37. Michael E. Mallett, Signori e mercenari: la guerra nell'Italia del Rinascimento, Bologna 1983, passim.
38. Ibid., pp. 117-119.
39. Id., Some Notes on a Fifteenth-Century Condottiero and His Library: Count Antonio da Marsciano, in Cultural Aspects of the Renaissance: Essays in Honour of P.O. Kristeller, a cura di Cecil H. Clough, Manchester 1976, pp. 204-206.
40. Informazioni ulteriori e discussione delle fonti intorno alle "lanze spezzate" in M.E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, pp. 90 ss.
41. Ibid. Si veda anche Marin Sanudo, La spedizione di Carlo VIII in Italia, a cura di Rinaldo Fulin, Venezia 1883, pp. 313-314, per una descrizione contemporanea degli stradioti.
42. M.E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, pp. 105-106; Domenico Malipiero, Annali veneti dall'anno 1477 al 1500, a cura di Tommaso Gar-Agostino Sagredo, "Archivio Storico Italiano", ser. I, 7, 1843, p. 116.
43. Un'analisi della ricomparsa dei "provisionati di San Marco" nel primo Cinquecento è in Marino Sanuto, I diarii, a cura di Federico Stefani et al., I-LVIII, Venezia 1879-1903: VII, col. 111; Claudio Pasero, Aspetti dell'ordinamento militare del territorio bresciano durante il dominio veneto, "Commentarii dell'Ateneo di Brescia", 136, 1937, p. 34 e Luigi Celli, Le ordinanze militari della repubblica veneta nel secolo XVI, "Nuova Antologia", ser. II, 53, 1894, p. 99.
44. Marco Morin, Le bombarde del maestro Ferlino, "Diana Armi", 9, nr. 6, 1975, pp. 59-63.
45. M.E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, pp. 111 ss.
46. Ibid., p. 113.
47. M. Sanuto, I diarii, I, col. 146.
48. John R. Hale, The Early Development of the Bastion: an Italian Chronology, c. 1450-c. 1534, in Europe in the Late Middle Ages, a cura di John R. Hale et al., London 1965, pp. 466-494 e ristampato in Id., Renaissance War Studies, London 1983, pp. 1-30.
49. Lodovico Marinelli, La rocca di Ravenna, Bologna 1906; Corrado Ricci, Per la storia della rocca di Ravenna, "Felix Ravenna", I, 1911, pp. 1-7.
50. Alfonso Mosetti, La rocca di Gradisca, "Studi Goriziani", 9, 1933, pp. 133-137; Marin Sanudo, Itinerario per la Terraferma veneziana l'anno MCCCCLXXXXIII, a cura di Rawdon Brown, Padova 1847, p. 183.
51. Per una discussione di maggior portata intorno alla politica veneziana delle fortificazioni si veda M.E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, pp. 116 ss.
52. Ibid., pp. 140-141.
53. Giangiorgio Zorzi, Un vicentino alla corte di Paolo II: Chierighino Chiericati e il suo "Trattatello della milizia", "Nuovo Archivio Veneto", n. ser., 30, 1915, p. 428 (pp. 369-434).
54. M.E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, pp. 208-209.
55. A.S.V., Senato, Terra, reg. 6, c. 171 (27 luglio 1472).
56. Ivi, Senato, Secreta, reg. 28, c. 10 (26 maggio 1477).
57. E conservato presso l'Archivio di Stato veneziano un copialettere delle missive scritte da Lorenzo Loredan durante il periodo in cui egli ricoprì l'incarico di provveditore generale: Senato, Provveditori da terra e da mar, 24. Se ne parla diffusamente in M.E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, pp. 189 Ss.
58. Ibid., pp. 143 ss.
59. Ibid., pp. 212-215. Si v. anche Michael Knapton, Il Consiglio dei Dieci nel governo della Terraferma: un'ipotesi interpretativa per il secondo '400, in Venezia e la Terraferma attraverso le relazioni dei rettori (Atti del convegno), Milano 1981, passim (pp. 41-71).
60. M.E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, pp. 152 ss.
61. Ibid., pp. 130 s.; Michael Knapton, Guerra e finanza (1381-1508), in Gaetano Cozzi - Michael Knapton, La Repubblica di Venezia nell'età moderna. Dalla guerra di Chioggia al 1517, Torino 1986 (Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, XII/1), pp. 301-310 (pp. 273-353).
62. Philippe de Commynes, Memorie, a cura di Maria Clotilde Daviso, Torino 1960.
63. Gli eventi dell'invasione di Carlo VIII nel 1498 sono egregiamente descritti in Piero Pieri, Il Rinascimento e la crisi militare italiana, Torino 1952, pp. 320-341, ma si veda inoltre, nonostante l'età, l'esauriente contributo di Francois Delaborde, L'expédition de Charles VIII en Italie, Paris 1888.
64. M.E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, p. 75.
65. Ibid., p. 76. Approfondiscono questi avvenimenti Arturo Segre, Ludovico Sforza detto il Moro e la Repubblica di Venezia dall'autunno 1494 alla primavera 1495, "Archivio Storico Lombardo", ser. III, 29-30, 1902-1903, pp. 249-317 e 33-109, 368-443, e Id., I prodromi della ritirata di Carlo VIII da Napoli, "Archivio Storico Italiano", ser. V, 33-34 1904, pp. 332-339, 350-405.
66. Un testimone oculare della battaglia di Fornovo ci ha lasciato il suo racconto: "Diaria de bello Carotino" di Alessandro Benedetti, a cura di Dorothy M. Sohullian, New York 1967, pp. 83-107. I migliori resoconti indiretti sono in P. Pieri, Il Rinascimento e la crisi militare italiana, pp. 341-354, e in Frederick L. Taylor, The Art of War in Italy, 1494-1529, Cambridge 1921 (ristampa Westport 1973), pp. 114-116.
67. G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, pp. 78-79.
68. Giuseppe Coniglio, Francesco Gonzaga e la guerra contro i Francesi nel Regno di Napoli, "Samnium", 24, 1961, pp. 192-209.
69. Per un'analisi di maggiore portata, con bibliografia, M.E. Mallett, L'organizzazione militare di Venezia nel '400, pp. 79 ss., e G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, pp. 80-82. Un esempio dei gravi sospetti nei confronti di Venezia in questo episodio è la lettera del re Federico di Napoli a Gonsalvo de Cordoba pubblicata da Giovanni Canestrini, Documenti per servire alla storia della milizia italiana, "Archivio Storico Italiano", 15, 1851, pp. 231-238.
70. Léon Gaston Pelissier, Louis XII et Ludovic Sforza, I-III, Paris 1896, fornisce il racconto più completo dei retroscena e degli avvenimenti relativi all'impresa.
71. Augusto Lizier, Il cambiamento di fronte della politica veneziana alla morte di Carlo VIII (Trattato di Blois, 9 febbraio 1499), "Ateneo Veneto", 120, 1936; Federico Chabod, Venezia nella politica italiana ed europea del Cinquecento, in AA.VV., La civiltà Veneziana del Rinascimento, Firenze 1958, pp. 29 ss. (pp. 27-55).
72. Frederic C. Lane, Le operazioni navali e l'organizzazione della flotta, 1499-1502, in Id., Le navi di Venezia, Torino 1983, pp. 250-283.
73. Un'approfondita analisi dei rapporti di Alessandro VI con Venezia nell'autunno del 1502, visti attraverso gli occhi di Antonio Giustinian, ambasciatore veneziano a Roma, è in Innocenzo Cervelli, Machiavelli e la crisi dello stato veneziano, Napoli 1974, pp. 101-102.
74. Ibid., pp. 119 ss.
75. Sulla battaglia di Cerignola P. Pieri, Il Rinascimento e la crisi militare italiana, pp. 408-416.
76. F. Chabod, Venezia nella politica italiana ed europea, pp. 32 ss.; Piero Pieri, Intorno alla politica estera di Venezia al principio del Cinquecento, Napoli 1934, pp. 24 ss.
77. Federico Seneca, Venezia e il papa Giulio II, Padova 1962, pp. 17-42; Giovanni Soranzo, Il clima storico della politica veneziana in Romagna e nelle Marche nel 1503, "Studi Romagnoli", 5, 1954, pp. 513-545.
78. F. Seneca, Venezia e il papa Giulio II, pp. 42-77.
79. Fabio Cusin, Il confine orientale d'Italia nella politica europea del XIV e XV secolo, II, Milano 1937, pp. 294-296; Sergio Zamperetti, I piccoli principi. Signorie locali, feudi e comunità soggette nello stato regionale veneto dall'espansione territoriale ai primi decenni del '600, Venezia 1991, p. 218.
80. P. Pieri, Il Rinascimento e la crisi militare italiana, pp. 448-455
81. G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, pp. 91-92; I. Cervelli, Machiavelli e la crisi dello stato veneziano, pp. 149-163
82. Lettere di Lorenzo de' Medici, VII, excursus III.
83. F. Seneca, Venezia e il papa Giulio II, pp. 104-105.
84. I. Cervelli, Machiavelli e la crisi dello stato veneziano, pp. 160-163; Luigi Da Porto, Lettere storiche, a cura di Bartolomeo Bressan, Firenze 1857, pp. 28-29.
85. F. Seneca, Venezia e il papa Giulio II, pp. 105-118.
86. Ibid., pp. 118-122.
87. P. Pieri, Il Rinascimento e la crisi militare italiana, pp. 455-469, offre la più autorevole descrizione della battaglia di Agnadello, ed è lui stesso a richiamare l'attenzione sui contrasti tra la sua interpretazione e quella di storici precedenti, come von Pastor (Storia dei papi, III, Roma 1925, p. 612).
88. Per le reazioni suscitate a Venezia dal disastro di Agnadello si vedano I. Cervelli, Machiavelli e la crisi dello stato veneziano, pp. 27-59, e Felix Gilbert, Venice in the Crisis of the League of Cambrai, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973, pp. 274-292.
89. Robert Finlay, Venice, the Po Expedition and the End of the League of Cambrai, 1509-1510, "Studies in Modern European History and Culture", 2, 1976, pp. 37-72.
90. F. Seneca, Venezia e il papa Giulio II, pp. 138-147.
91. Felix Gilbert, The Pope, His Banker and Venice, Cambridge, Mass. 1980, passim.
92. F. Seneca, Venezia e il papa Giulio Il, pp. 166-169.
93. P. Pieri, Il Rinascimento e la crisi militare italiana, pp. 500-502.
94. Ibid., pp. 505-511.
95. Ibid., pp. 514-525
96. Giuseppe del Torre, Il Trevigiano nei secoli XV e XVI. L'assetto amministrativo e il sistema fiscale, Venezia 1990, p. 97.
97. Niccolò Machiavelli, Legazioni e commissarie, a cura di Sergio Bertelli, III, Milano 1964, p. 1188: dispaccio del 22 novembre 1509.
98. David Herlihy, The Population of Verona in the First Century of Venetian Rule, in Renaissance Venice, a cura di John R. Hale, London 1973, pp. 91-120; Carlo Pasero, Il dominio veneto fino all'incendio della Loggia (1426-1575), in AA.VV., Storia di Brescia, II, La dominazione veneta (1426-1575), Brescia 1964, pp. 192 ss. (pp. 1-396); G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, pp. 161-176. Tutti confermano l'impressione di una crescita economica nell'ultimo scorcio del secolo XV.
99. Gian Maria Varanini, Il distretto veronese nel Quattrocento: vicariati del comune di Verona e vicariati privati, Verona 1980, pp. 134 ss.
100. I. Cervelli, Machiavelli e la crisi dello stato veneziano, pp. 51-59; M. Knapton, Guerra e finanza, p. 321; Id., I rapporti fiscali tra Venezia e la Terraferma: il caso padovano nel secondo '400, "Archivio Veneto ", ser. V, 107, 1981, pp. 5-10 (pp. 5-65).
101. In generale sul ruolo del consiglio dei dieci in Terraferma nella seconda metà del Quattrocento si vedano Alfredo Viggiano, Governanti e governati: legittimità del potere ed esercizio dell'autorità sovrana nello Stato veneto della prima età moderna, Treviso 1993, pp. 179-274, e M. Knapton, Il Consiglio dei Dieci nel governo della Terraferma, pp. 237-260.
102. S. Zamperetti, I piccoli principi, pp. 57-58, 66-67.
103. A. Viggiano, Governanti e governati, pp. 231 ss.
104. G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, p. 211.
105. Ibid., pp. 210-221; James S. Grubb, Firstborn of Venice. Vicenza in the Early Renaissance State, Baltimore 1988, pp. 153-156.
106. Angelo Ventura, Nobiltà e popolo nella società veneta del '400 e '500, Bari 1964, pp. 80-82.
107. John E. Law, Venice and the "Closing" of the Veronese Constitution in 1405, "Studi Veneziani", n. ser., I, 1977, pp. 99-101; A. Viggiano, Governanti e governati, p. 190.
108. A. Ventura, Nobiltà e popolo, pp. 109-111.
109. Ibid., pp. 147-153; Edward Muir, Mad Blood Stirring: Vendetta and Factions in Friuli During the Renaissance, Baltimore 1993, pp. 77-107.
110. M. Sanudo, Itinerario, passim. Per un esame più approfondito dell'attività degli auditori nuovi A. Viggiano, Governanti e governati, pp. 147-178.
111. Ibid., p. 168.
112. Niccolò Machiavelli, Lettere, a cura di Franco Gaeta, Milano 1961, p. 294.
113. J.S. Grubb, Firstborn of Venice, p. XIX.
114. M. Sanuto, I diarii, VIII, coll. 386-387, cita un'orazione indirizzata da una delegazione padovana all'imperatore Massimiliano.
115. I. Cervelli, Machiavelli e la crisi dello stato veneziano, pp. 47-51.
116. A. Ventura, Nobiltà e popolo, pp. 187-214.
117. Ibid., p. 180; Mario Brunetti, Treviso fedele a Venezia nei giorni di Cambrai, "Archivio Veneto", ser. V, 23, 1938, pp. 56-82.
118. A. Ventura, Nobiltà e popolo, specialmente pp. 167-186. Si veda pure; sulla più vasta questione della perdita e della riconquista della Terraferma, Giuseppe Del Torre, Venezia e la Terraferma dopo la guerra di Cambrai: fiscalità e amministrazione (1515-30), Milano 1986.
119. A. Ventura, Nobiltà e popolo, specialmente pp.
244-273; S. Zamperetti, I piccoli principi, pp. 225
ss.; A. Viggiano, Governanti e governati, pp. 275 ss.
120. G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, p. 8. 121. Ibid., p. 10.
122. P. Pieri, Il Rinascimento e la crisi militare italiana, pp. 538-546; John R. Hale, L'organizzazione militare di Venezia nel '500, Roma 1990, p. 27.
123. Felix Gilbert, Venetian Diplomacy Before Pavia: from Reality to Myth, in The Diversity of History: Essays in Honour of Herbert Butterfield, London 1970, pp. 79-116; Kenneth M. Setton, The Papacy and the Levant, III, Philadelphia 1984, p. 219.
124. G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, p.II.
125. F. Gilbert, Venetian Diplomacy, pp. 90 ss.; K.M. Setton, The Papacy and the Levant, III, p. 226.
126. Ancora una volta facciamo affidamento su P. Pieri, Il Rinascimento e la crisi militare italiana, pp. 554-566, per la più autorevole narrazione di questa battaglia; si veda anche Robert J. Knecht, Francis I, Cambridge 1982, pp. 160-175.
127. K.M. Setton, The Papacy and the Levant, III, pp. 241-242; Giovannangelo Di Meglio, Carlo V e Clemente VII dal carteggio diplomatico, Milano 1970.
128. G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, pp. 12-14.
129. Sulla pace di Cambrai si vedano Joyceline G. Russell, Diplomats at Work, Stroud 1992, pp. 94-152, in particolare le pp. 122-129; K.M. Setton, The Papacy and the Levant, III, pp. 322-323. Le lettere di Sebastiano Giustinian da Cambrai sono ampiamente riportate in M. Sanuto, I diarii, L, coll. 248-413.
130. G. Cozzi, Politica, società, istituzioni, p. 16.
13l. Si vedano in particolare Venezia e il Rinascimento: religione, scienza e architettura, a cura di Manfredo Tafuri, Torino 1985, e Manfredo Tafuri, "Renovatio urbis". Venezia nell'età di Andrea Gritti (1523-38), Roma 1984.
132. John R. Hale, Terraferma Fortifications in the Cinquecento, in Florence and Venice: Comparisons and Relations, a cura di Sergio Bertelli et al., II, Firenze 1980, pp. 169-188; Id., L'organizzazione militare di Venezia nel '500, pp. 262 ss.; M. Knapton, Guerra e finanza, pp. 397 ss.
133. Frederic C. Lane, Storia di Venezia, Torino 1978, pp. 424-425.
134. M. Knapton, Guerra e finanza, pp. 508-509.
135. G. Del Torre, Venezia e la Terraferma, passim; A. Ventura, Nobiltà e popolo, pp. 275 ss.