Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Alla sempre più aspra concorrenza fra le città marinare si intersecano processi di trasformazione degli assetti interni che rivelano le interrelazioni fra lo scenario complessivo del Mediterraneo e gli equilibri politici e sociali dei centri principali. Mentre prosegue il declino delle città costiere meridionali, decentrate rispetto ai sistemi politici in cui vengono inserite, sono ancora attivissime Pisa, Genova e Venezia. Fra Due e Trecento, tuttavia, maturano le premesse che vedranno solo la Serenissima porre le condizioni di una piena autonomia politica, di una lunga continuità istituzionale e di una durevole solidità economica.
La fortuna delle città costiere meridionali, che erano riuscite a ritagliarsi un ruolo negli scambi tra entroterra italiano, mondo arabo e Impero bizantino, è già in pieno declino nel corso del XII secolo. Molti i fattori alle origini della flessione: la marginalità rispetto ai porti dell’Europa continentale (in fase di vigorosa ripresa economica), la limitata attenzione al commercio dei ceti dirigenti locali, la perdita dell’autonomia politica dopo la conquista normanna, la concorrenza delle città costiere del Tirreno, Pisa e Genova, e – soprattutto, ma non solo, per i centri adriatici – della Repubblica di Venezia.
Sta di fatto che, al principio del XIII secolo, le attività commerciali delle città meridionali sono ormai di respiro limitato; le posizioni in Oriente sono perdute e le vicende interne si inscrivono entro dinamiche connesse prima alla formazione del regno normanno-svevo e poi al delinearsi dei progetti angioini e aragonesi, articolati su insiemi territoriali e ambizioni di espansione nel Mediterraneo che valicano ampiamente i confini della penisola e all’interno dei quali nessun ruolo di rilievo è attribuito alle antiche città marinare.
Pisa organizza nel XII secolo in modo compiuto i propri ordinamenti giudiziari e amministrativi (già legittimati alla fine del secolo precedente), oltre che il riassetto del contado e il sistema portuale. Verso la fine del secolo si profilano le tensioni che caratterizzeranno tutto il Duecento: il ceto dirigente urbano si divide, schierandosi con l’una o l’altra delle maggiori famiglie, mentre i gruppi mercantili e artigiani emergenti premono per avere accesso all’esercizio del potere. Ne risulta una fase di alternanza fra gestione consolare e gestione podestarile, ancora attraversata dalla rivalità fra le casate principali, che si chiude nel 1254 con una rivolta che conduce alla rappresentanza istituzionale del popolo (Anziani del Popolo, Consigli del Popolo, Capitano del Popolo).
I rivolgimenti interni trovano ampi addentellati nella turbolenta situazione della penisola, attraversata dai conflitti fra guelfi e ghibellini: Pisa mantiene una quasi ininterrotta fedeltà imperiale, fortemente radicata soprattutto nell’età di Federico II; alla morte del sovrano si avvia anche il declino politico ed economico della città toscana. Il suo ruolo nell’Adriatico è già stato arginato dai Veneziani; Firenze ne erode con successo crescente le posizioni commerciali in Toscana; Genovesi e Aragonesi si rafforzano in aree mediterranee di tradizionale interesse pisano; lo scontro diretto con i Genovesi conduce, nel 1284, alla disfatta della Meloria; nel 1289, dopo la sconfitta dell’alleata Arezzo nella battaglia di Campaldino, Pisa si trova a dover affrontare da sola la lega guelfa toscana (Fiorentini e Lucchesi), per terra, e ancora i Genovesi (ai quali cederà la Corsica), sul mare; nel 1324-1326 gli Aragonesi tolgono ai Pisani anche la Sardegna, riducendoli al rango di potenza tirrenica e aggravando la rivalità con i Fiorentini.
Le ripercussioni interne non mancano: dall’ultimo ventennio del XIII secolo, i Pisani tentano esperimenti di governo signorile affidandosi a personaggi esterni, come i Montefeltroo Uguccione della Faggiola, ma anche a cittadini come i conti di Donoratico, i Dell’Agnello o i Gambacorta. Il passaggio alla signoria, però, non è sufficiente a frenare il declino pisano, in un contesto nel quale sono ormai in via di affermazione stati di respiro più che regionale: poco dopo Perugia, Siena e Assisi, anche Pisa nel 1399 si sottomette all’espansionismo trionfante di Gian Galeazzo Visconti, legittimato dal titolo imperiale di duca di Milano. Sarà proprio il duca a cedere la città ai Fiorentini, cui i Pisani si arrenderanno dopo un lungo assedio, nel 1406.
Le trasformazioni istituzionali pisane nel Trecento, tuttavia, non costituiscono unicamente una “risposta alla crisi”, ma rappresentano anche una prova – non dissimile da quella che stanno dando o daranno città destinate a più lunga fortuna – della capacità di reagire con duttilità alle istanze della trasformazione sociale, realizzando un particolarissimo equilibrio fra magistrature popolari e forme di potere di tipo signorile e garantendo potere e rappresentanza anche agli esponenti di alcune famiglie di recente ascesa economica, come gli Agliata e i Bonconti, a capo di forti compagnie commerciali e finanziarie.
Anche l’avversaria vittoriosa di Pisa, Genova, non è esente da travagliati rivolgimenti interni a opera delle fazioni cittadine. Qui come altrove, l’evoluzione istituzionale del Comune attraversa la fase consolare e quella podestarile, senza riuscire a stemperare le rivalità fra le maggiori famiglie e complicandosi con il coinvolgimento della città negli scontri fra guelfi e ghibellini.
Nel 1257, a seguito di una rivolta popolare, il capitano del popolo Guglielmo Boccanegra (?-ante 1274) ottiene pieni poteri, ma viene ben presto rovesciato da una congiura nobiliare; dal 1270 le famiglie degli Spinola e dei Doria, di orientamento ghibellino, si dividono la guida della città, in seguito sostituite dai guelfi Fieschi e Grimaldi. Una nuova iniziativa popolare, nel 1339, porta al potere Simone Boccanegra, che istituisce la carica di doge perpetuo.
Ma le contese interne non si placano, e soprattutto non restano circoscritte in ambito locale: mentre anche la tradizionale rivalità con Venezia si complica per la capacità di quest’ultima di stabilire alleanze con gli Aragonesi e per un rinnovato vigore che sfocia nelle sconfitte genovesi della guerra di Chioggia (1378-1381), a contendersi il potere in città non sono solo le famiglie genovesi, ma anche i Visconti di Milano, che nel 1353 giungono alla signoria, con Giovanni Visconti.
Genova è ormai inserita in un gioco di forze che valicano lo stesso territorio italiano: nel 1396-1409 la città è occupata dai Francesi, quindi l’espansionismo turco la priva di gran parte dei domini orientali; nella seconda metà del XV secolo Genova è di nuovo in mano ai duchi di Milano e poi dei Francesi. Solo nel 1528 l’ammiraglio Andrea Doria, con una politica spregiudicata di cambiamenti di alleanze fra Spagna e Francia, giunge a instaurare una repubblica oligarchica, guidata da dogi con mandato biennale, che assicurano l’indipendenza alla città per tutta l’età moderna.
Al principio del Duecento, in occasione della quarta crociata, i Veneziani consolidano le proprie posizioni nel Mediterraneo orientale, che diventa più che mai area di scontro con i Genovesi. Contrasti diplomatici ed episodi di guerra si moltiplicano, fino alla sconfitta del 1298, presso l’isola di Curzola, nelle acque dalmate.
Per quanto gli equilibri orientali non ne risentano in profondità, Curzola rivela e acuisce una stagione di difficoltà per la Serenissima, che si sta riorganizzando anche sul piano degli assetti istituzionali interni.
Fino alla seconda metà del Duecento, la città lagunare era rimasta immune dall’instabilità che aveva caratterizzato altri Comuni, soprattutto per la mancanza di forti consorterie nobiliari e per la relativa disponibilità delle classi dirigenti ad accogliere anche le componenti popolari nelle strutture di governo: la Curia ducis, costituita dal doge e dai suoi iudices, già dalla metà del XII secolo aveva accolto un Concilium sapientium di derivazione popolare; si erano poi costituiti il Maggiore e il Minor Consiglio, e in generale nuove e vecchie istituzioni avevano trovato un equilibrio codificato, all’inizio del Duecento, in forma scritta. Questa relativa armonia, dovuta principalmente alla condivisione della base economica fra le famiglie più antiche e quelle emergenti, viene incrinata dalle difficoltà di fine secolo, e i conflitti interni che ne seguono conducono Venezia a una fase di chiusura oligarchica, non dissimile da quella mediante la quale anche altre città italiane centro-settentrionali, fra Due e Trecento, tentano di far fronte a problemi di varia natura e di diversa origine, compresi quelli derivanti dalla crescente complessità richiesta alle strutture di governo.
Nel caso di Venezia, questa tendenza dà luogo alla serrata del Maggior Consiglio del 1297: alcune famiglie di origine popolare vengono ammesse nell’organismo che detiene i principali poteri pubblici, ma contemporaneamente si definiscono procedure elettorali che escludono di fatto, per il futuro, la possibilità di accesso per nuovi gruppi familiari. La debolezza della componente propriamente popolare determina il fallimento di un tentativo di rovesciare l’ordinamento oligarchico, nel 1299, e la chiusura è anzi accentuata nel 1323, quando ai ceti privilegiati viene riservato l’accesso non solo al Maggior Consiglio, ma anche agli altri organi di governo.
Così rafforzata, Venezia è in grado di riprendere una politica di espansione, che però deve mutare il proprio segno. Alla concorrenza genovese (che con la guerra di Chioggia del 1378-1381 giunge a mettere in pericolo la stessa Venezia) si affianca quella aragonese; l’Ungheria si impadronisce della Dalmazia; la peste comincia a far sentire i propri effetti; si intensificano le pressioni esercitate dalle altre signorie venete e da quella milanese dei Visconti; l’instabilità del Mediterraneo orientale è acuita dall’espansionismo ottomano: un complesso di circostanze critiche alle quali la città risponde volgendosi risolutamente verso l’entroterra.
Treviso e il territorio circostante sono assoggettati già alla fine del Trecento (1389); poco dopo, in meno di 25 anni (1405-1428), il Veneto, il Friuli, Bergamo e Brescia costituiscono un complesso territoriale saldamente controllato dalla Serenissima, che per tutto il XV secolo rappresenta, con Bruges, il principale centro del commercio mondiale e che si candida dopo la pace di Lodi (1454) al ruolo di potenza regionale. Se è vero che i protagonisti della storia politica europea, in età moderna, andranno cercati al di fuori della penisola italiana, è vero pure che all’interno di essa la Repubblica di Venezia resta uno stato di primo piano, di cui solo le guerre napoleoniche potranno decretare la fine.