Venezia nell’Ottocento
Caricato di colpe e responsabilità, detestato e disprezzato, rimosso: quasi fosse animato di una propria vita malvagia e meschina, quasi dovesse sopportare il peso di una maledizione operante al di là e contro le volontà degli uomini: l’Ottocento veneziano si è troppo spesso e anche di recente sdipanato tra le spire di una storiografia ideologica e censoria; ha conosciuto più l’invettiva che l’indagine, si è nutrito più di lacrime che di letture.
Che l’Ottocento seguisse nell’immediatezza di pochi mesi, nel volgere istantaneo di qualche pagina di diario, in attimi brevi e fulminanti di memoria individuale e collettiva una fine; che marcasse con l’avvicendamento di appena qualche cifra nei calendari e nei lunari la morte di un mondo, quello settecentesco, per lasciare il posto all’inimmaginabile vuoto di una storia da costruire, di un contenitore da riempire con i detriti del passato piuttosto che con i segni ancora incerti forse di un nuovo che s’affacciava inquietante all’orizzonte dei destini: anche questo ha contribuito a dipingere il XIX secolo veneziano di livide luminescenze fantasmatiche: una città deserta e desolata, rapine e distruzioni, incomprensione e disprezzo del passato; morte dei linguaggi e dell’arte, afasia, ottusità, tradimenti.
Di fronte a uno scempio che appariva inedito e insopportabile, in faccia a un destino reputato troppo repentino e crudele, troppo indecifrabile e misterioso nella ineluttabile radicalità delle sue manifestazioni, è stata ricorrente la tentazione almeno di interpretare come premesse e anticipazioni di quel che avverrà dopo ogni gesto e ogni segno distribuiti sullo scenario della storia: Venezia, la sua agonia, la sua fine. Ma questa morte (vera o presunta) s’era davvero annunciata? Se molte tracce ci farebbero propendere verso una risposta affermativa, non meno numerosi sono i segnali che, al contrario, suggerirebbero una maggiore prudenza. E, per il dopo, tra le rovine e i disastri di un indubbio e drammatico scacco non emergono forse, e prepotentemente, i segnali di una modernità che allinea i destini di una realtà da tempo emarginata e periferica sugli eventi e gli orizzonti giocati a scala continentale?
Modi e forme di un trapasso indubbiamente traumatico e inglorioso; la coincidenza della fine del secolo e della fine controversa, inattesa e dissimulata dell’indipendenza e dell’autonomia politica della Repubblica; la perdita di parametri e riferimenti-guida nel difficile e instabile panorama dell’Europa agli esordi del secolo nuovo; il venir meno di certezze e aspettative in quella stessa consolidata e plurisecolare ragnatela diplomatica che aveva sorretto, anche nei momenti di debolezza e di crisi politica, presenza e ruolo internazionale di uno Stato in bilico tra voglia di protagonismo e insostenibili equilibri tra potenze nazionali e imperiali.
Quel ch’è certo è che la cultura veneziana calcava, tra fine Settecento ed esordio del secolo nuovo, da protagonista la scena internazionale: l’Europa intera veniva percorsa da letterati, pittori, avventurieri, architetti, animatori culturali, teorici d’arte, antiquari e mediatori; tutti costoro portavano per il mondo uno spirito e uno stile di vita, una memoria e dei linguaggi: sulla scia di Piranesi e Sebastiano Ricci, di Canaletto e Bellotto, di Rosalba e Pellegrini, di Casanova, Goldoni e Algarotti altri perpetuavano la grande peregrinazione, la diaspora di idee e di segni, di gusto e di grazia, di saperi, di arguzie ed espedienti: da Ponte, Quarenghi, Selva, Canova, Hayez, Jappelli continuavano l’edificazione di quella grande e dilatata Venezia fuori e oltre la Venezia fisica e geografica; nessuna discontinuità potremmo registrare tra il magistero dei primi e quello, non meno riconosciuto e ricercato, dei secondi.
Ma è certo innegabile che inquietudini e disagi traversassero con eloquente insistenza soprattutto coscienze e autocoscienze più avvertite e sensibili, che le preoccupazioni dei ceti acculturati cercassero risposte a domande fattesi, nei decenni, intriganti. Intellettuali e artisti distillavano in riflessioni e poetiche, in scarti linguistici e invenzioni formali l’esasperazione, la frammentarietà, lo spaesamento, la depressione: si pensi a Francesco Guardi e, poco più oltre, agli umbratili e acidi isolamenti di Giandomenico Tiepolo; si considerino slanci e sdegni di Ugo Foscolo davanti all’intricata ragnatela di tradimenti ed equivoci di mesi insieme forsennati e accidiosi; si guardi a Canova, alle sue ossessioni e fobie, alle sue melanconiche nevrosi. Ognuno, quindi, fornisce una propria e particolarissima lettura di una stagione che, comunque, potremmo definire di trapasso: guardando fuori da sé o rientrando in se stesso, ognuno risulta essere un sismografo irripetibile e sensibilissimo di quello che è apparso ai posteri un sisma epocale.
La città è, insieme, protagonista e palcoscenico di una rappresentazione straordinariamente fortunata; essa si sviluppa, come è noto, nei cent’anni che vanno dalla fine della Repubblica alla prima Biennale: 1797-1895 (e se il termine di partenza è sin troppo evidente, del secondo si darà ragione più oltre).
Un secolo di trasformazioni profonde: nel corso di esso, per l’osservatore distratto, nulla muta; potremmo invece tranquillamente affermare che il rivolgimento che Venezia conosce è radicale e irreversibile. Fortunata fu, questa rappresentazione, visto il gradimento che essa ebbe a riscuotere nella coscienza e nella cultura dell’intero continente. Si potrebbe addirittura dire che Venezia, quale «classica città dell’avventura», secondo la fortunata definizione di Georg Simmel; quale monito ed esempio della parabola delle grandi civiltà mercantili, secondo la visionaria elaborazione di Ruskin; quale immenso ricetto del gusto decadente e dell’atmosfera di morte, così come l’amarono in molti e come la detestarono i futuristi, in tutto ciò e altro ancora, infine, abbia costituito una delle forme — riconosciute e accolte — dell’intera cultura europea dell’Ottocento. Per decenni in essa si ritrovarono letterati e artisti: Grillparzer e Heine, lord Byron e Shelley e la schiera dei francesi che sarebbe troppo lungo elencare visto che al suo interno si accalcano tutte le maggiori presenze letterarie romantiche e oltre (onde sarebbe assai più semplice stilare l’elenco di personalità che non s’affacciarono sulle lagune); si potrà, procedendo, via via approdare a Nietzsche, Hofmannsthal, Mann, Rilke e Hesse passando, naturalmente, per Ruskin e riservandogli un posto privilegiato; e Wilde e Horatio Brown; vi è ben distinta la ricerca di sensazioni e memorie del giovane Proust e della sua cerchia ma vi si ritrova, in altro versante, James e, ancora altrove, Fortuny, il D’Annunzio de Il Fuoco e, poco appresso, quello del Notturno (a proiettare tra la grandezza rinascimentale e il gesto dell’epopea fiumana un ponte ideale di eroicità, fisicamente percepibile nel protendersi della storia e della forma di Venezia in un destino adriatico-imperiale).
È questa certamente una incarnazione nuova del grande mito di Venezia, insieme chimera e fenice, mostro partorito dalla vivida coscienza di una crisi e tuttavia subito rapito e nutrito da altri mostri, altre idre, tra coscienze obnubilate e lampi agghiaccianti di lucidità superumana(1).
Al di là di tutto questo e del molto altro che chiunque potrebbe aggiungere, rimane, per tornare alle note di partenza, la convinzione netta ed esperibile, ma non meno inquietante, che nel corso dell’Ottocento l’immagine e la forma di Venezia mutarono — oltre le apparenze — in termini tutt’altro che marginali: e ciò non solo per effetto di un grave processo di sottrazione, cioè di riduzione consistente del suo patrimonio monumentale e d’arte (quanta architettura e quante testimonianze culturali sfigurate, condotte a livelli di degrado prossimi alla sparizione totale!), bensì anche — e altrettanto consistentemente — per una continua volontà e attività progettuale e, quindi, per incrementi e arricchimenti progressivi di architettura, di infrastrutture, di funzioni, di servizi, di manufatti. Possediamo oggi oramai un quadro sufficientemente ricco e preciso di questo duplice e fondamentale processo di trasformazione, di evoluzione della realtà e dell’immagine riflessa della città lagunare.
Se per la pars destruens è possibile pensare a incuria, difficoltà economiche, ignoranza e appetiti bassamente speculativi come a fattori di incertezza, di destabilizzazione e, alla fine, cause di degrado e di morte, per la pars construens è invece opportuno e necessario pensare ad altre origini e moventi: soprattutto a una — o a più — volontà progettuali, a intenzionalità operative, a idee e ideologie dell’urbano, ad esempio(2). È pur vero che il quadro generale delle condizioni sociali, delle vicende urbanistiche, delle realtà economiche, dei movimenti e delle correnti culturali, delle evoluzioni e delle trasformazioni dei linguaggi è, nella Venezia ottocentesca, sommamente articolato e complesso; che questa città, infine, si trova, volente o nolente, al centro di tensioni, all’apice di idealità, al fondo di arrières-pensées che percorrono l’Europa intera mettendo brividi, movendo lacrime e provocando sorrisi; che essa poté apparire con tutti i suoi problemi, le sue tensioni e passioni, con il suo volto imbellettato o con le sue vesti lacere agli uni il paradiso perduto, ad altri la Babilonia infernale, ad altri ancora un volgare pasticcio all’italiana, a molti un’occasione da cogliere: tutto questo è, quindi, vero e sacrosanto (tanto più vero da quando letterati — poeti, prosatori, uomini di teatro, saggisti — si sono appropriati di ogni anfratto di venezianità); non meno vero è però l’altro dato: che la città — a dispetto o nonostante la letteratura — ha continuato a vivere, a progettare, a costruire. Senza attitudini millenaristiche e in qualche modo anche sbigottita che svariati osservatori, soprattutto da fuori d’Italia, ne avessero preconizzato o decretato addirittura la fine imminente.
Vi furono certamente ragioni storiche a determinare la nascita di questo convincimento diffuso (soprattutto lo shock per la fine antieroica della millenaria Repubblica perfetta); ma ve ne furono anche altre: politiche ed economiche da un lato; e, dall’altro lato, ancora e soprattutto d’ordine culturale: il pensiero della ineluttabilità dei destini, la fisiologica e irreversibile senescenza delle forme istituzionali; il gusto e il desiderio d’assistere a un trapasso memorabile, a una morte rappresentabile come un capolavoro melodrammatico, come una citazione di se stessa. Cosa che avvenne puntualmente e con piena soddisfazione di tutti: spettatori curiosi, medici impotenti, cassandre finalmente appagate.
Tale straordinario spettacolo di una morte annunciata e differita, però, di decennio in decennio ha costituito uno dei pilastri culturali e, insieme, una delle più pregnanti ragioni d’essere dell’Ottocento veneziano, vale a dire — né l’affermazione sembri a questo punto paradossale — di uno dei secoli più vitali, intensi, innovatori della storia recente della città. La contraddizione apparente che potrebbe esser vista in queste due anime della Venezia ottocentesca è, in realtà, il frutto di una condizione di difficile ritrovamento di sé, di una faticosa ricerca di senso da parte di una compagine sociale in bilico tra la gestione del proprio passato e la progettazione del proprio incerto futuro.
Questa specie di schizofrenia latente, di dissociazione in agguato è certo uno degli oggettivi dati di partenza per le costruzioni letterarie della Venezia moderna: è a dire che alla radice del sospiro di Byron non meno che delle suggestioni wagneriane, delle pagine ispirate e infuocate di Ruskin e dell’allegoria funebre di Mann, del piacere del racconto di James, dell’ideologismo dannunziano, di de Musset e Proust fino a Nietzsche e Simmel e a un’infinità di altri osservatori — fatte salve, naturalmente, le diversità qualitative e di genere che ciascuno dei mille venezianisti e venezianologi può vantare — alla radice, quindi, di tutto ciò vi è innegabilmente la condizione veneziana quale elemento scatenante della pioggia poetica, della valanga saggistica e della marea pubblicistica più in generale. Una condizione che ha in nuce tutta la serie di ragioni e provocazioni dalle quali prender le mosse per le elegie veneziane come per i carteggi, le odi e le orazioni funebri.
Napoleone e i suoi tecnici, negli anni del Regno d’Italia (1806-1814), affondano per primi gli strumenti nel corpo di questa grande malata, incidendone profondamente le carni.
Prima di quei fatti, due episodi preparano concretamente la strada a piani e programmi d’intervento: da un lato la serrata indagine critica compiuta dai municipalisti del ’97 (giacobini e massoni, enciclopedisti e philosophes, borghesi, ex abati e israeliti) sulla storia della città e delle sedimentazioni formali che da quella storia — fatta di ingiustizie e disordini — apparivano derivare e di cui riproponevano, scritta chiaramente sul territorio, l’essenza; dall’altro lato il diffuso e ‘moderno’ impegno di conoscenza su grossi complessi edilizi comunitari, su strutture architettoniche, su monumenti storici rilevati, misurati e riprodotti graficamente (a fini principalmente, ma non esclusivamente, militari e logistici) messo in atto a partire dagli otto anni della prima dominazione austriaca e alacremente continuato dai napoleonici.
I pochi mesi ‘democratici’ furono periodo troppo breve, convulso, spontaneista e generoso perché si sia potuto inscrivere, in concreto, nella forma della città: al di là di taluni segni e di altre non meno eloquenti e tuttavia precarie riappropriazioni di spazi pubblici per cerimonie o rappresentazioni di decisa qualificazione democratica e patriottica, assai poco è dato di rinvenire(3). Ma la portata morale e ideologica di quei principi proclamati nei campi e nelle calli dal ‘teatro patriottico’; la inquietante — liberatoria e minacciosa insieme — valenza degli scheletrici rami degli alberi della libertà ovunque rizzati a sancire la fine dei privilegi e l’esordio di una nuova stagione; l’affiorare prepotente di un desiderio di dibattito e di confronto in coincidenza con l’abolizione di ogni forma di censura; il gusto e il bisogno di partecipazione: tutto questo entra a far parte della cultura e della coscienza dei cittadini che si accalcano nei teatri o che assistono, tra grida, battimani e disapprovazioni, agli interminabili dibattiti dei vari comitati, eredità irrinunciabile di una stagione brevissima non meno che passaporto verso la modernità.
Nel segno di una difficile continuità con l’epoca veneta (a ignorare quasi, a rimuovere o esorcizzare la rivoluzione giacobina) sono, per la politica dell’urbano, gli anni del primo governo austriaco(4). Fatto nuovo appare l’inizio del processo di degrado e di precarietà che marca con qualche insistenza il periodo e, quasi di conseguenza, una prima presa di coscienza dei problemi posti concretamente da un organismo né elastico né, tutto sommato, in grado di adeguarsi ai bisogni e, in più, oramai immesso in una prassi allentata e burocratica gestita quasi per procura e con scarsa o nulla partecipazione.
Questo periodo austriaco, vissuto nell’impressione del ‘tradimento’ di Campoformido, termina con la pace franco-austriaca di Presburgo, conseguente ad Austerlitz, del 26 dicembre 1805. Venezia e il Veneto entrano dal 1° maggio del 1806 nel Regno italico: capitale è Milano, Napoleone cinge la corona ferrea di re d’Italia; viceré Eugenio di Beauharnais. Inizia una delle avventure storiche più controverse e radicali nella storia della città e della sua forma.
Due strumenti, uno legislativo e uno tecnico-disciplinare, sono approntati per rendere possibile la formulazione e la realizzazione di un progetto di ampio respiro: la costituzione della commissione all’ornato e la promulgazione, il 7 dicembre 1807, di un corpo di provvedimenti a beneficio della «nostra buona città di Venezia», secondo le parole stesse in premessa al decreto.
Se la nomina della commissione all’ornato allineava ogni città della ex Repubblica — e quindi, in primis, Venezia — alle norme e alla logica dell’urbanistica napoleonica, il decreto 7 dicembre 1807 forniva strumenti e risorse per l’avvio di una politica, per la compilazione, cioè, di un piano.
L’anno esatto che intercorre tra l’annessione al Regno d’Italia e la nomina della commissione all’ornato è cadenzato da rapporti sempre più allarmati circa la situazione economica e fisica della città, dall’invio di delegazioni a Milano e a Parigi, dalle ricognizioni compiute dai tecnici francesi per verificare direttamente e sotto diversi profili lo stato della città e delle sue finanze e, soprattutto, l’efficienza di quell’Arsenale la cui fama leggendaria solleticava sopra ogni altro argomento i desideri e i disegni dell’imperatore su Venezia.
Ma la nomina della commissione fu fondamentale: essa veniva incaricata dal sovrano della redazione del piano: «i doveri della Commissione all’Ornato [precisava il Ministero dell’Interno ad esplicita richiesta da Venezia] si riducono a far tracciare un piano della città […] descrivendo il tal piano le linee che debbono indicare i tagli da farsi a qualche contrada, e gli aumenti da aggiungere a tal altra […]; in seguito ai delineamenti che saranno proposti, e che potranno essere adottati dalla prelodata Altezza Imperiale i doveri della Commissione come tale cessano e cominciano quelli dell’Amministrazione Comunale». In sostanza, la commissione doveva esercitare funzione di controllo sulle trasformazioni di edifici con fronte pubblica; redigere una classificazione delle strade urbane e di accesso alla città; esprimere pareri e formulare progetti su immobili di ragione o destinazione pubblica; redigere una bozza di piano regolatore nell’applicazione dei principi informatori dell’urbanistica napoleonica; svolgere, data la particolare condizione della città, funzione di tutela e salvaguardia su edifici e complessi monumentali e storico-artistici.
La commissione all’ornato, tra alterne vicende, tenta di far fronte a un così pesante carico di responsabilità; soprattutto, però, e specie nella figura del suo leader, Giannantonio Selva, si sente attratta dal compito di redigere un piano di ampio respiro.
Le intenzioni della commissione (sia le velleità palingenetiche che le più serie applicazioni disciplinari) e le risorse mobilitate dal decreto 7 dicembre 1807 devono essere considerate contestualmente; in tale analisi entrano come elementi portanti ruolo, figura professionale, orizzonti culturali di Selva, da un lato; linee guida di un disegno urbanistico di straordinaria lucidità, dall’altro lato.
È da Giannantonio Selva quindi che occorre ripartire per comprendere, in parte almeno, il senso di marcia impresso alle trasformazioni della città dalla spinta napoleonica e, di seguito, per disporre dei codici secondo i quali tali trasformazioni si manifestano in opere e linguaggi. Se il Teatro la Fenice era stato, pur tra le critiche e le contestazioni, la sua prima importante affermazione e l’ultima grande realizzazione della Venezia ancien régime (1792), Selva trova nell’esperienza internazionale la chiave della sua architettura; sono, infatti, l’insegnamento francese e inglese a far lievitare le composite matrici della sua cultura figurativa e architettonica e a consentirgli di produrre lavori assai diversificati per scala, senso, funzioni e natura ma nei quali le incertezze linguistiche sono cadute e i mezzi progettuali si manifestano senza ambiguità o ripensamenti. La sua scrittura è rigorosa e geometrica; le distribuzioni interne privilegiano la razionalità dell’impianto e l’adeguamento alle rinnovate necessità della vita moderna nei confronti della rappresentatività o della deferenza alla tradizione. I rapporti tra le parti della fabbrica e l’insieme del lavoro sono chiari ed evidenti, comunque riconducibili a moduli geometrici semplici; l’apparato decorativo e d’ornato vien prosciugato fino a intaccare ed essenzializzare la stessa grammatica degli ordini.
L’importanza maggiore di Giannantonio Selva — e quanto gli consente di entrare nel novero dei maggiori architetti italiani d’epoca napoleonica — è nella sua qualità di operatore urbano, nella spiccata sensibilità verso un disegno di ammodernamento e funzionalizzazione della macchina cittadina, e più vitale risulta tra i due filoni di allievi che escono dal suo insegnamento quello dei gestori del rinnovo urbano piuttosto che quello degli architetti-ornatisti di stampo accademico. Proprio all’interno della rifondata (e napoleonica, naturalmente) Accademia di Belle Arti Selva appare in non casuale consonanza con il maggiore operatore culturale attivo in Venezia negli anni napoleonici, Leopoldo Cicognara, di cui s’avrà modo di riparlare. Soprattutto in forza della comune e genuina tensione civile, l’insegnamento accademico diviene assai di più che il semplice impartire le tecniche del mestiere o le norme perenni del costruire al modo degli antichi o, magari, il vuoto esercizio sul linguaggio dell’ovvio; Selva, che pur consiglia misura e moderazione nella stessa esteriore manifestazione delle pompe accademiche, ha però ben presente il senso e la dignità dell’istituzione e, più in generale, delle istituzioni uscite a dar corpo alla realtà del nuovo Stato napoleonico.
Il servizio all’istituzione, sentita come espressione unitaria della volontà politica dei vertici e delle istanze genuine della base, che si manifesta in un operare di grande contenutezza e di estremo equilibrio anche nei rapporti professionali e gerarchici e che mantiene attiva una faticosa mediazione tra ipotesi progettuali e realtà del contesto, è l’ambito entro il quale agisce la presenza veneziana di Selva: la sua azione a livello di dibattito non meno che di scelte architettoniche e urbanistiche — particolarmente attiva e dinamica nel settennio 1806-1812 di matrice spiccatamente napoleonica — taglia trasversalmente ambiti e sfere d’azione che vanno al di là della sua presenza accademica e degli stessi gravosi incarichi quale «direttore delle fabbriche municipali».
Innanzitutto Selva risulta membro fin dalla primitiva istituzione, nel 1806, della commissione all’ornato; nel suo seno egli è l’estensore del primo piano urbanistico per la città (recepito, come s’è visto, da Napoleone con il decreto 7 dicembre 1807); egli è inoltre presente in molte delle vicende che interessano episodi di considerevole interesse storico e artistico veneziani; ma non va dimenticata la sua azione nella commissione per la salvaguardia degli edifici prospettanti l’area marciana e le prestazioni in qualità di perito per numerose operazioni di stima e classificazione su edifici pubblici e privati (il caso più clamoroso e più noto fu quello relativo a villa Pisani a Strà, acquistata dalla Corona, stima condotta da Selva in tandem con Giannantonio Antolini).
Ampiezza di competenze della commissione all’ornato non significa, ovviamente, incisività d’azione: tutt’altro. È appunto quanto si verifica nella realtà veneziana: abusivismo edilizio (soprattutto demolitorio in questi anni), disattesa della normativa, prevalere di logiche diverse o contrarie rispetto agli ambiti e alle direttive espresse dall’organismo municipale. L’autorità ne prendeva atto tentando di opporsi, per altro con scarsi risultati; la modifica del trend avverrà, nel senso però di un rinunciatario adeguamento della norma alla prassi, negli anni austriaci: da un lato riducendo le restrizioni alla proprietà privata e alle sue possibilità di intervento; dall’altro facendo slittare le competenze della commissione sempre più verso i lidi della salvaguardia del singolo — e isolato — monumento, più che dell’integrità del contesto.
Lo scarto tra norma e operare concreto già indica l’esistenza di modalità e luoghi d’intervento che non rientrano all’interno di un processo di evoluzione della realtà urbana pienamente sotto controllo e testimonia altresì della distanza che intercorre tra il disegno economico elaborato dall’autorità di governo e quello perseguito dalla proprietà immobiliare veneziana (questa distanza sarà appunto presto colmata allorché si dovrà registrare la caduta delle tensioni civili di ascendenza riformatrice ancora avvertibili nel regime napoleonico in Italia e l’affermazione del disegno normalizzatore del successivo regime asburgico).
Il potere politico napoleonico risponde alle sollecitazioni espresse a questo livello anche attraverso alcuni provvedimenti relativi all’immissione sul mercato di considerevoli pacchetti di proprietà provenienti dai patrimoni degli enti religiosi soppressi, riformando, nel senso di una razionalizzazione, la normativa fiscale e, soprattutto e ancora una volta, attraverso lo strumento primo e di più precisa competenza statale, dando vita a un’altra istituzione, quella del catasto generale: decretato nel gennaio del 1807, messo in esecuzione nell’aprile e redatto, per Venezia, nel 1808-1810.
Che cosa si determina a seguito di tutto ciò? Per quanto concerne gli effetti generali, la risposta non può che riportare l’assimilazione avvenuta anche sul territorio veneziano dei processi già in atto nel resto del Regno e riconducibili, in soldoni, al moto di affermazione delle varie anime di quella borghesia imprenditoriale, professionale, commerciale e burocratica che non a caso si dice di matrice (e fortuna) napoleonica. In concreto e nei particolari, esistono indizi e testimonianze che ci consentono di scorgere una trama di operatori (e una massa di operazioni) a tutto ciò direttamente connessa: imprenditori edili, mediatori, finanzieri, immobiliaristi e così via dalle fortune improvvise e consistenti, onnipresenti, dinamici, assidui.
Rimane aperto, per noi, il problema della collocazione politica e funzionale della città nel sistema napoleonico (né le misure amministrative, né le istituzioni e gli strumenti operativi di nuova creazione potevano, in astratto, provvedervi; né, d’altro canto, il loro parziale fallimento può inficiarne la portata e il senso); e rimane, in sostanza, da rispondere alla domanda sul significato e sul futuro destino e utilizzo di Venezia allorché cadevano le ultime illusioni per una sempre più flebilmente promessa e però impossibile e oramai illogica restaurazione della sua indipendenza come Stato autonomo. Occorre, una volta ancora, tornare al decreto legge speciale per Venezia del 7 dicembre 1807.
Quali fossero le aspettative del mondo napoleonico nei confronti della città è già chiaramente espresso nella relazione che il commissario generale della marina francese a Venezia, Bertin, invia al viceré Eugenio fin dalla primavera del 1806: le valutazioni d’ordine generale che vi son contenute saranno fatte proprie dalla politica napoleonica negli anni successivi: «La position topographique de Venise, placée au fond du golphe Adriatique et les provinces qui l’entourent aussi populeuses que fertiles et particulièrement abondantes en munitions navales de tout genre doivent assurer au prince qui le possède l’empire de ce Golphe et celui de la Méditerranée. L’Arsenal de ce Port, l’un des plus complets qu’il y ait en Europe, offre toutes sortes de facilités pour construire à la fois un grand nombre de Bastimens»(5).
I dettagli tecnici per far sì che le prospettive enunciate dal commissario per la Marina divenissero operanti linee di politica amministrativa e concreti provvedimenti, vengono affrontati in successive missioni compiute sulle lagune e che precedono la grande trionfante teofania napoleonica del novembre-dicembre 1807. Oggetto di particolari attenzioni sono, come logico, l’Arsenale (vuoi in dimensione militare che come cantiere mercantile) e i canali di collegamento dello stesso alle bocche di porto di Lido e di Malamocco; quindi la capacità produttiva delle industrie cittadine: questi rapporti e queste valutazioni giungono al vertice assoluto dell’Impero. Agli operatori locali sono invece demandati il risvolto progettuale alla scala urbana e, di conseguenza, gli studi, la redazione di programmi e la loro concreta gestione.
Tutto questo serrato lavorìo che procede ‘dal basso’ e che s’incontra con quanto prodotto dai massimi vertici tecnici di Napoleone, ha i suoi momenti finali nella relazione che il ministro Aldini redige sulla base delle richieste portate a Parigi nel giugno del 1806 da una delegazione di rappresentanti dei territori ex veneziani e nel testo del decreto 7 dicembre 1807. La massa dei provvedimenti adottati è imponente: vi sono comprese misure concernenti il territorio e il suo assetto idrogeologico; redistribuzioni amministrative, provvedimenti di natura economica e fiscale; la ridefinizione di tutto l’apparato ecclesiastico. La città di Venezia è interessata direttamente per quanto concerne i confini del suo dipartimento, le sue fonti di rendita, il porto, il litorale, l’Arsenale; la realizzazione di alcune opere pubbliche: il cimitero generale, l’ospedale per gli infermi, i giardini pubblici a Castello, la prosecuzione della riva degli Schiavoni, la passeggiata con giardino alla Giudecca; la costituzione della congregazione di carità; l’istituzione del portofranco a S. Giorgio. Si aggiungano i rimaneggiamenti previsti o in corso sull’area marciana (Palazzo Reale, Palazzo Ducale, giardino per la corte, biblioteca di S. Marco, ecc.); la scelta dei locali per la Casa di forza e per quella d’industria e per la sede di numerose caserme e uffici pubblici; ancora: il finanziamento per la quotidiana opera di conservazione, adattamento, trasformazione di tutto l’organismo urbano di Venezia (scavo dei rii, ricostruzione di ponti e strade, salvaguardia di oggetti monumentali). È facile rendersi conto della dimensione e della complessità di un rapporto con la città che si configura come un pregnante e impegnativo dialogo con la storia materiale di un luogo e, insieme, l’instaurarsi di un contrastato intreccio ideologico con le sue proiezioni nella cultura popolare e dotta.
In particolare, l’istituzione del portofranco a S. Giorgio, la riattivazione dei cantieri dell’Arsenale, l’escavo dei grandi canali conducenti alle bocche di porto e la sistemazione delle stesse (fari, inizio di costruzione di grandi dighe, dragaggio dei passi e così via), la realizzazione di un imponente piano di lavori pubblici in affaccio sul porto-canale di S. Marco: tutto ciò significava, nel rilancio della portualità veneziana, come conseguenza immediata ridare spazio al bacino di S. Marco in un’articolata dimensione commerciale, militare, direzionale e rappresentativa. Dimensione e funzioni destinate tutte a infrangersi sulla ostinata chiusura del blocco navale cui la città è sottoposta e sul cambio di politica imposto alla città dal successivo regime asburgico.
Anche in tale processo di risemantizzazione del bacino di S. Marco, Giannantonio Selva ha avuto un ruolo di prim’ordine sia nel suggerire possibilità d’intervento e soluzioni progettuali, sia nel redigere i progetti adottati.
Altri architetti operano a contatto e nell’orbita tracciata da Selva o, addirittura, collaborano con lui (da Diedo a Mezzani, da Lazzari a Pigazzi a Salvadori).
Va, d’altra parte, riconosciuto che quello del linguaggio appare decisamente, in questo momento, tema di secondo piano rispetto ad altri ordini di problemi posti soprattutto dalle esigenze di carattere funzionale di cui s’è parlato e da quelle connesse alla creazione di una maglia di servizi ubicati entro — e spesso in contrasto — un tessuto storico compatto e difficile. Anche sotto questo profilo il salto compiuto ai primi dell’Ottocento rispetto al passato è legato alla quantità delle operazioni in programma e agli strumenti con i quali portarle a compimento. Citiamo tre esempi: il rilevamento e la rappresentazione cartografica della laguna che per la prima volta saranno effettuati secondo scienza, mediante «accurate osservazioni astronomiche, triangolazioni, rilievi topografici, scandagli, osservazioni mareometriche» sotto la direzione del capitano francese Denaix; il rilevamento catastale e la cartografia collegata, compiuti secondo precise istruzioni emanate in allegato alla legge applicativa del 13 aprile 1807; la catalogazione, il rilevamento e la rappresentazione del patrimonio immobiliare pubblico sottoposto a trasformazioni e adattamenti.
La massa degli elaborati è sorprendente — specie in relazione alla brevità del tempo utile impiegato —: la normalizzazione tecnica e linguistica è totale, segno evidente di una strumentazione mentale e tecnica perfettamente rodata e di assoluta applicabilità e affidabilità.
Anche in questo caso i rivolgimenti profondi attuati o, almeno, progettati furono retti dalla volontà politica del regime napoleonico per un periodo di tempo troppo breve e, soprattutto, troppo frammentato da vicende belliche e politiche per consentire un radicamento, una decantazione e una apprezzabile sistematizzazione con effetti non caduchi anche dopo i primi — e pur decisivi — cinque anni di Regno d’Italia. Tutta la vicenda napoleonica in Venezia risulta sfigurata dai mesi tragici del blocco navale e dalle sue conseguenze: fu anche troppo facile alla storiografia immediatamente successiva e a quella nostalgica di oggi attribuire a Napoleone anche ciò che fu diretta conseguenza del blocco navale e del più generale scenario politico continentale.
Gli anni napoleonici lasciarono in città segni durevoli, come si è detto (sia per sottrazione che per aggiunte). Tra tutti certamente il più controverso è costituito dall’edificio che tutti chiamano Ala Napoleonica, cioè il lato breve — di faccia alla Basilica — di piazza S. Marco. L’episodio è troppo noto perché metta conto ricostruirne ancora una volta le tappe: basti pensare che dall’iniziale struttura tripartita (i due risvolti delle Vecchie e Nuove Procuratie e, al centro, la piccola chiesa sansoviniana di S. Geminiano) si è pervenuti a un edificio continuo e unitario ripreso dai due primi ordini delle Procuratie Nuove sormontati da un attico con statue e rilievi. L’Ala Napoleonica (che non fu mai utilizzata da Napoleone le cui fortune politiche ebbero fine ben prima della conclusione dei lavori dell’edificio che prende il suo nome) doveva servire a contenere lo scalone d’onore e gli ambienti di rappresentanza della reggia napoleonica a Venezia: vestibolo, sala delle feste, loggia, ecc. Al di là della qualità del manufatto (che visse, come è noto, una fase di edificazione piuttosto tormentata per giungere all’attuale configurazione) rimane il fatto che Napoleone e la sua corte — e il viceré d’Italia, Eugenio di Beauharnais prima di tutti — volevano dare un inequivoco messaggio di discontinuità con il vecchio regime dogale e che solo tale messaggio doveva collocarsi là dove quel potere (quella storia e quella politica, quel regime e quelle istituzioni) più forte aveva marcato con le sue scelte formali un luogo e uno spazio, una struttura e un linguaggio.
Non si trattò, quindi, né di sfregio né di irriverenza o di sfida, bensì di vero e proprio stato di necessità: necessità di sostenere il confronto con il passato, di risemantizzare luoghi e funzioni, di offrire soluzioni concrete a un pressante problema logistico, di affermare inequivocabilmente la fine di un’epoca e l’avvio di un’epoca nuova che anche a livello di segni e di linguaggi intendeva porre tra sé e il passato un’esplicita operazione di rifondazione culturale.
La città risentì del blocco in termini disastrosi: fine del commercio e delle industrie, fine della cantieristica e della marineria, calo della popolazione, degrado edilizio, miseria. Su tutto questo si debbono aggiungere le manovre speculative e il gioco al ribasso della proprietà, l’occultamento e la fuga dei capitali: si vedano i documenti della commissione temporanea di finanza che decise l’emissione di una «moneta di blocco» e misure straordinarie per fronteggiare la situazione, ma senza esito. «Manca ogni dato per conoscere e determinare chi sia, o non sia capace dello sborso immediato di una determinata somma. La qualificazione di facoltoso desunta dallo stato di possidenza, o di traffico diventa erronea […]. È noto già al Governo in quale squilibrio economico si trovino i possidenti di Venezia […] non ignora ugualmente i grandiosi fallimenti cui andò soggetta questa piazza nella scorsa estate, ma esso non può sapere fino a qual punto si sia arrestata la circolazione del numerario. […] Non è [da credere] che tutto il denaro sia fuggito da Venezia, ma esso certamente si è ristagnato e nascosto in poche case; la pubblica voce ne nota sette od otto, alcune delle quali abbandonarono la città avanti il blocco, non lasciando che la casa e pochi mobili, come l’Erizzo, ed il Revedini: altre rimaste in Venezia furono già tassate di 130 o 140 mila Lire, come i Treves ed i Papadopoli»(6).
L’aspetto stesso della città si adegua in pieno a questa condizione: si registra la demolizione «di più di venti palazzi di primissimo ordine; e di oltre quattrocento case fabbricate ed ornate di marmi» oltre a un imprecisato numero di case più povere o misere; ma le ragioni, secondo il testimone, sono complesse e non sempre limpide: «La gravezza delle imposte, la difficoltà a rinvenire inquilini solventi; la carenza de’ materiali necessari ai riattamenti; la decadenza e corruzione nell’industria, e nella mano d’opera, e per conseguenza la maggiore spesa da impiegarsi in essa, son tutti motivi deplorabili, ma reali, e veri che aumentano ogni dì più e rendon quasi insuperabili le difficoltà alla conservazione della prodigiosa Venezia. Ma in mezzo tante notorie traversie, ed a que’ maggiori politici disastri, onde fu Venezia singolare bersaglio, puossi dimostrare a non rimanere in incertezza che di tre quarti delle fabbriche demolite furon precipui motivi (e il son tuttavia) la non curanza, e l’obblio dello spirito Patrio, e del nazionale decoro […] ed a questi inconvenienti tutti ed a questi motivi il più possente pure si aggiunga, e il più dominatore, quello cioè di ritrarre all’istante una somma di denaro dagli edifici, abbandonati alla demolizione […]. Noi saremmo al caso di comprovare Palazzo per Palazzo, casa per casa che nella recente ruina di sì gran parte di Venezia e nelle pubbliche fabbriche, e nelle private fu principal cagione il torpore e l’inedia dello spirito in generale dei suoi abitanti, la presunzione inetta, e la colposa venalità dei privati proprietari e degli stessi subalterni dei Regj Governi in quest’ultimi tempi»(7).
I grandi lavori napoleonici rimasti interrotti vengono faticosamente portati a compimento (come avviene per Palazzo Reale e per i giardini di Castello e per l’area marciana) o abbandonati (passeggiata alla Giudecca), ma è oramai acquisita la politica e, quasi, l’ideologia della città intesa come centro di servizi. Assistiamo allora alla ripresa di iniziative già prima avviate e addirittura al varo di altre: macello, scuole, tribunali, carceri, ospizi, teatri, manicomi, mentre fa il suo ingresso ufficiale il problema della creazione di una comunicazione stabile tra Venezia e la terraferma con la realizzazione di un ponte (1823), mentre viene concessa la condizione di portofranco a tutta l’area cittadina (1829-1830).
Nei lavori pubblici — e non solo per il programma dei grandi servizi cui s’è appena fatto cenno ma anche per gli interventi, pure assai ingenti, di ordinaria manutenzione — spesso l’amministrazione locale, titolare della gestione urbana, fa ricorso all’appalto al privato non solo per la realizzazione dell’opera ma anche per la successiva fase di gestione e conduzione della struttura, per cui si assiste a un certo processo di privatizzazione dei servizi: la città, il luogo comunitario del vivere civile, tende a divenire un’estensione verso l’esterno delle ragioni private, delle comodità borghesi, del servizio funzionale a queste nuove necessità di agio e sicurezza di vita, di decoro, infine.
L’aggiornamento linguistico architettonico che corrisponde a ciò ha il suo riscontro in una trasformazione del tessuto edilizio tradizionale, nella riorganizzazione degli interni, in un nuovo codice di vita e di rapporto con lo spazio abitato che significa rimaneggiamenti radicali o ricostruzioni: è il momento in cui le demolizioni degli anni precedenti si rivelano assai fruttuose. Ma vi corrisponde pure un’evoluzione del progettare astratto, accademico, e dell’intervento sul manufatto urbano; nell’un campo e nell’altro assistiamo alle ultime fortune del neoclassico: mausolei e padiglioni per giardino, oratori di campagna e palazzi per mercanti, chiese monumentali e ponti trionfali, piscine per nuoto e borse, dogane, accademie, musei, tutti legati da una comune improbabilità e astrattezza; dall’altro lato si viene definendo in concreti interventi il linguaggio della manutenzione, del rinnovo dell’arredo urbano in rapporto ai nuovi materiali e alle nuove tecniche: ghisa, asfalto, finto marmo; nel 1843 si sperimenta l’impianto di illuminazione pubblica a gas.
Per Venezia il problema maggiore è ancora quello del dialogo con la storia e del riuso dell’esistente (ancora ex conventi ed ex chiese da ristrutturare e reimpiegare, da adattare a caserme, scuole, ospizi, archivi, uffici): ma s’affaccia tuttavia un tema nuovo destinato a tenere a lungo la scena, quello del restauro, dei suoi principi e delle sue tecniche.
Potrebbe apparire paradossale che la storia moderna della musealità veneziana nasca con quel trattato di Milano che il 16 maggio 1797 metteva una pietra tombale sopra la millenaria storia della Repubblica. Esso prevedeva, tra l’altro, che la Repubblica consegnasse ai commissari incaricati «vingt tableaux et cinq cents manuscrits» (art. V): opere d’arte entravano ufficialmente nelle clausole di un trattato politico con una posizione esplicita e distinta. Ma la richiesta — cui si dovette alacremente provvedere, come è noto — attirava l’attenzione sul valore, immenso anche sotto il profilo dell’immagine, del patrimonio d’arte e sulla necessità di provvedere alla sua salvaguardia. Se l’articolo V del trattato di Milano ben s’iscrive nella vasta letteratura di quelli che impropriamente sono stati definiti i «furti d’arte» dei napoleonici, esso attivava, per converso, una più profonda riflessione sulla natura e il senso dell’universo che noi oggi chiamiamo dei beni culturali, sulla loro gestione e valorizzazione, cioè su una politica di tutela del patrimonio d’arte e di memorie di una comunità. Napoleone scontò pesantemente la disinvolta raccolta di opere d’arte dei paesi conquistati a favore del museo universale parigino (basti pensare alla violenta campagna d’opinione contraria a tale pratica, culminata nelle celebri Lettres à Miranda di Quatremère de Quincy), e più ne pagò la valutazione storica sul suo complessivo operato gravato da una fama di rapinatore da cui non potrà mai più liberarsi. A Venezia le clausole del trattato di Milano aprirono gli occhi agli operatori d’arte e, soprattutto, al conservatore e restauratore delle pubbliche pitture, Pietro Edwards, che davanti al comitato di salute pubblica della Municipalità propugnò con forza, anche se oramai fuori tempo massimo, la fondazione di un «Museo d’arte veneziana che sia gloria della città e insegnamento ai giovani e che riunisca questa mal custodita ricchezza togliendola dalle mani dell’ignoranza, dal buio di polverosi e non frequentati recinti, dal pericolo delle clandestine sostituzioni e dai disperati consigli della miseria»(8).
È con il ritorno di Napoleone e in forza soprattutto della sua politica di riforma del sistema ecclesiastico che prende concretamente avvio la costituzione del museo, quasi come ricaduta a margine della profonda riscrittura operata su quel sistema: la riduzione del numero delle parrocchie e la chiusura di molte chiese, la soppressione e la concentrazione degli ordini e la riduzione dei monasteri, la cancellazione delle scuole di devozione resero disponibile una enorme massa di opere d’arte, indemaniate e magazzinate in provvisori e spesso inadeguati centri di raccolta.
Ma è con la riforma dell’Accademia dei Pittori in Accademia di Belle Arti e la creazione delle annesse Gallerie che prende avvio concretamente il museo, il quale aprirà le sue sale al pubblico solo nel 1816, dopo un defatigante tentativo di contendere dipinti importanti e celebri soprattutto a Brera, che stava contemporaneamente organizzandosi come principale galleria del Regno d’Italia(9).
Il vero ordinatore delle Gallerie fu il presidente dell’Accademia veneziana, il conte Leopoldo Cicognara, figura di spicco assoluto nel panorama culturale italiano degli anni napoleonici e successivi, soprattutto artefice di una ambiziosa e geniale politica culturale e del bene culturale dentro e attraverso le grandi istituzioni accademiche volute dall’universo napoleonico.
Se gli anni marcati dalla presenza francese (mediata, nei pochi mesi della Municipalità, e diretta, negli otto anni del Regno d’Italia) son caratterizzati nell’immaginario collettivo dalla politica delle rapine e delle spoliazioni, quelli asburgici paiono qualificarsi quasi per quell’operazione di straordinaria efficacia propagandistica che ebbe a essere il ritorno da Parigi dei cavalli della Basilica e del leone della piazzetta di S. Marco. Non a caso proprio Leopoldo Cicognara stenderà nel 1815 un celebre saggio Dei quattro cavalli riposti sul pronao della Basilica di San Marco, avendo colto altresì che la reintegrazione di un patrimonio culturale fosse un atto dovuto per la corretta interpretazione di un contesto e della sua altrimenti minacciata capacità di ‘parlare’.
Leopoldo Cicognara, ferrarese di nascita, studente a Modena e a Roma ma veneziano d’adozione, presto in rapporti di amicizia e corrispondenza con l’intera intellettualità europea (da Madame de Staël a Goethe, da Vincenzo Monti a Giordani, da Quatremère a Gino Capponi e così via), si era inserito in termini null’affatto marginali nella vita politica della penisola, fino a essere deputato ai Comizi di Lione, consigliere di Stato nel Regno d’Italia, in rapporto diretto con Napoleone, che lo nomina nel 1808 presidente della riformata Accademia di Belle Arti di Venezia. Caduto Napoleone, egli viene confermato nella carica da Metternich che gli affiderà, anche dopo dissapori e infortuni con il governo e la corte, incarichi di fiducia(10).
Per altro anche il rapporto con Napoleone non era stato esente da alti e bassi: più volte in disgrazia e recuperato per intervento diretto di Bonaparte, Cicognara è spirito inquieto e di grandi ambizioni, uomo di potere ma insofferente di troppo rigide costrizioni e condizionamenti ambientali; paladino di cause perdute e temerario propugnatore di imprese apparentemente impossibili, egli risulta spesso sconfitto, ma mette a segno una serie di avventure che lo consacrano come uno dei più interessanti e poliedrici operatori culturali di una specie nuova, lontana anni luce dai modelli degli Algarotti o dei conoscitori eruditi di tipo letterario di fine Sette e primissimo Ottocento, ma lontana anche da Pietro Edwards, dallo stesso Giordani o da Foscolo. Cicognara appare infatti interamente e programmaticamente uomo delle istituzioni: esaltandone il ruolo ed esaltandosi in esse, egli ne subisce il fascino, ne segue in un certo senso il destino ma ne sa altresì vedere i limiti; è questo forse il motivo principale per cui appare per molti aspetti centrale ed emblematico di un mondo ma anche di una condizione di passaggio, colui che sperimenta e saggia la stessa elasticità di un sistema, fino a farsene in qualche modo travolgere.
L’istituzione alla quale Cicognara dedica con maggior entusiasmo le sue energie è certo l’Accademia di Belle Arti: scuola e museo, l’Accademia costituisce il termine di riferimento per l’intera politica di revisione del volto stesso della città. I grandi lavori, i progetti ufficiali, il parere sul lascito storico: tutto trova nell’Accademia l’arena più consona e più cosciente di sé per diventare scelta operativa, per farsi tecnica — seppur settoriale — di governo. Ora non c’è alcun dubbio che Cicognara si senta portatore del patrimonio culturale derivante dalla riforma napoleonica delle accademie: il confronto che egli traccia tra tali istituzioni e quelle esistenti nel mondo della lingua e cultura tedesche è addirittura sprezzante a scapito delle seconde. Ma, una volta di più, il tema delle Accademie di Belle Arti è utile anche al di là delle vicende frammentarie delle singole istituzioni e vale a comprendere il senso di direttrici culturali delle quali sarebbe indebito ignorare la portata.
Sullo sfondo di tali giudizi si trovano, in Cicognara, Parigi e la riforma delle accademie attuata da Napoleone, non meno che il modello delle Accademie di Belle Arti che il Regno d’Italia introdusse o rigenerò a Milano, Bologna e Venezia. Quelle accademie di cui Cicognara era stato uno degli ideologi e che, nella vita di queste città, ebbero ad assumere funzioni e rilievo ben al di là della semplice organizzazione didattica o di inerte raccolta museale. Anche la sede dell’Accademia veneziana fu oggetto di costanti attenzioni e di ingenti lavori di sistemazione e ristrutturazione sin da quando, nel 1808, per volontà napoleonica era stata scelta a questo scopo l’ex chiesa e convento della Carità. Un progressivo lavorio di adattamento iniziato da Giannantonio Selva e condotto poi dai professori accademici d’architettura (e soprattutto da Francesco Lazzari) giunse a conferire una certa organicità al complesso: in tal modo, quindi, non solo si dava sede degna all’Accademia di Belle Arti quale grande istituzione didattica ma, anche, si provvedeva a operare un giusto allineamento — nelle stesse scelte distributive e d’allestimento — della pinacoteca, sui livelli più alti della nascente moderna scienza museografica(11).
La personalità, il ruolo e l’efficacia stessa delle iniziative di Leopoldo Cicognara non sarebbero tuttavia comprensibili al di fuori del rapporto instauratosi tra lui e Antonio Canova. Del maggiore artista del tempo Cicognara fu infatti amico e corrispondente per decenni; all’opera di Canova egli dedica scritti e attenzione critica, a Canova fa approdare come a naturale conclusione l’intera storia della scultura; di Canova ricerca il consenso e l’appoggio in più occasioni; di Canova e del di lui culto in vita e, soprattutto, dopo la morte, egli diviene il custode e l’officiante.
Con lo scultore Cicognara si trova in perfetta sintonia anche sul piano delle scelte museali (non si dimentichi il ruolo assolto da Canova nell’ambito delle collezioni papali) e di tutela delle opere d’arte: gli interventi di Canova e di Quatremère contro la rimozione delle opere d’arte e a favore della salvaguardia del patrimonio storico sono anche per Cicognara un importante punto di riferimento. Vi è un altro aspetto del rapporto dei nostri due protagonisti che merita di essere sottolineato: Cicognara utilizza in termini accentuatamente politici autorevolezza e visibilità di Canova, comunque certo al di là delle stesse presumibili scelte dello scultore, forzandone in qualche modo le intenzioni. L’obiettivo è sempre quello di potenziare e valorizzare l’Accademia veneziana sia nella sua valenza didattica che in quella museale e conservativa.
Uno degli episodi in cui spicca in termini efficaci e originali il taglio politico e operativo di Cicognara è allorché egli ottiene che in occasione delle nozze tra l’imperatore Francesco I e Carolina Augusta (1817) le province venete possano sostituire il contributo in denaro con l’offerta di un ‘omaggio’ comprendente il marmo della musa Polimnia di Canova e una serie di dipinti di allievi dell’Accademia di Belle Arti; a parte la componente per così dire di spregiudicatezza dell’impresa, visto che la Polimnia era in origine il ritratto di Elisa Baciocchi Bonaparte in veste di Concordia, va apprezzato l’uso scopertamente e lucidamente politico del nome di Canova e dei suoi stessi prodotti artistici mirante a sollevare i veneti da un tributo e, al contempo, a portare all’attenzione internazionale — assieme e sulla scia di Canova — un manipolo di promettenti giovani artisti(12).
L’Austria ritorna a Venezia a sostituire Napoleone quasi cavalcando la quadriga bronzea recuperata a Parigi: è il primo sapientissimo segno del nuovo governo. Accettando la deposizione ai piedi della coppia imperiale — a Vienna — della Polimnia di Canova e il fiore della contemporanea produzione artistica veneta; consentendo l’erezione ai Frari del monumento di Canova; promuovendo e finanziando la realizzazione, sempre ai Frari, del cenotafio di Tiziano; incoraggiando, imponendo, non infrequentemente tollerando una politica del monumento in equilibrio tra recupero di glorie passate e loro inserimento in un discorso sul presente, Vienna intesse pazientemente e non sempre in piena coscienza di pur avvertiti operatori un’eloquente orazione in codice sul presente e sugli stessi destini della città; ridimensionata, contenuta o annullata la carica civile e laica, comunque di tesa valenza progettuale e senso riformatore, degli anni del Regno d’Italia, si propone un rapporto con la storia che è in parte figlio delle montanti fortune della cultura romantica in terra italiana e, per altra parte, si manifesta come volontà ferma di chiudere esperienze, sollecitazioni e suggestioni generate dall’humus ambiguo dei rimpianti per il passato della Repubblica di Venezia e di sperate riaffermazioni di potenza ancora coltivate negli anni napoleonici.
Se i ritorni politici erano quindi risultati impossibili, altri ritorni avevano in certo senso colmato l’ansia tra il nostalgico e il legittimista per ricomposizioni di più o meno credibili integrità originarie: il patrimonio culturale poteva risultare, tutto sommato, il terreno più consolante e meno pericoloso per cerimonie e riti che solo occhi poco accorti giudicavano marginali e innocui, in tutti i sensi.
Dal serbatoio della storia presto affioreranno omaggi meno compiacenti di quelli montati per le nozze imperiali, squarci di realtà s’affacciavano tra evocazioni letterarie e ricerca delle origini: la pittura di storia, l’attenzione al sociale, la riscoperta dei primitivi anche nelle arti figurative soppianteranno le tematiche allegoriche e i soggetti accademici contribuendo non poco alla stessa evoluzione dei linguaggi; le trasformazioni delle aree urbane e delle stesse strutture cittadine faranno cadere gran parte dei codici e delle forme che l’architettura neoclassica aveva faticosamente elaborato e ferreamente imposto alla forma e al volto delle città.
Anche in questi dibattiti (quelli sulla città e le sue trasformazioni) Cicognara, Canova, Selva, Diedo, Lazzari e gli altri operatori seppero tenere una linea sostanzialmente vigile e ragionevole, piegando le rigidità dei principi e delle dottrine al concreto di una sedimentazione storica di grande spessore, originalità e delicatezza come l’ambiente veneziano(13): così facendo non solo, come si potrebbe pensare, limitarono i possibili danni, ma impostarono — anche tra sperimentazioni coraggiose e battaglie non sempre agevoli — le possibilità di sopravvivenza a un corpo altrimenti esposto pericolosamente alla scomparsa parziale o totale: rispettando la storia ma senza mortificare il presente, in buona sostanza; adottando, infine, una sostenibile politica di tutela e di riforme.
Ai protagonisti di queste vicende va riconosciuto il merito di aver saputo traghettare verso la contemporaneità molti dei segni della storia: non sempre in termini lineari, non sempre in maniera del tutto consapevole; ma il loro operare nella dimensione e nella direzione dell’interesse collettivo, il loro sentire grande, le loro idealità di alto profilo li rendono, anche nei nostri confronti, particolarmente meritevoli.
Dopo la costituzione delle Gallerie dell’Accademia, un secondo e non meno importante polo museale prende avvio nei primi decenni del secolo: si tratta delle collezioni civiche che si costituiscono con la morte (1830) di Teodoro Correr e con il lascito delle sue collezioni alla città(14).
In questo caso si deve rilevare come l’itinerario di formazione dell’insieme della struttura abbia segnato un cammino per molti versi opposto al precedente: esso appare quasi formarsi dal basso, attorno a un ricordo e a un’idea di città e si colora non marginalmente, almeno all’inizio, di umori rivendicativi nei confronti dei nuovi assetti politici e che si stemperano a volte in affermate autonomie culturali o confluiscono per converso dentro ai filoni patriottico-risorgimentali del secondo Ottocento.
Il complesso dei musei civici è, allora, un insieme di cose, di oggetti, di testi che si aggregano in quanto esaltazione di una storia o in quanto prova dell’esistenza di una cultura locale legata a una realtà urbana specifica e storica di grande spessore (e poco importa, tutto sommato, se nel caso veneziano si vuole che la città s’identifichi in uno Stato e, addirittura, ambisca a un respiro imperiale: l’importante è che quel passato sia tutto riassunto e presentificato nella memoria del suo ombelico, della sua testa e del suo cuore, cioè nel passato e nei destini di Venezia, della capitale)(15).
La struttura civica museale veneziana prende origine quindi dal lascito di Teodoro Correr: egli «vista cadere la patria» volle raccogliere nella sua casa «molte onorate memorie» che lascerà, in morte, alla città. Successivamente questo nucleo s’arricchisce e si complessifica, s’espande e si specializza; ondeggia premuto dalle sollecitazioni culturali e dalle mode, dalla politica amministrativa del Municipio e dalle vocazioni che via via nel corso di un secolo e mezzo sembrano segnare i destini e le prospettive veneziane. Cioè, come direbbe Andrea Emiliani, anche nel caso veneziano la città indica nelle collezioni civiche «ciò che intende essere», oltre a come desidera essere interpretata storicamente e a come vuole che il passato si legga in controluce rispetto a un progetto futuro; ed è sin troppo ovvio rimarcare come tutto ciò conduca direttamente o indirettamente la conservazione della memoria dentro il dibattito politico e amministrativo, dentro le scelte di destino. Non solo: nel museo civico queste idee e queste volontà e velleità sedimentano in memorie e percorsi, diventano passato riflesso e interpretato, testimonianza irrinunciabile di avventure culturali non meno che economiche e sociali; si pensi, a questo proposito, a due fatti assai significativi: da un lato al senso e all’importanza del Museo del vetro di Murano (allora comune autonomo e successivamente confluito in Venezia) e alla valenza ideologica oltre che più latamente e spessamente culturale che esso ebbe a rivestire — grazie alle intuizioni e alle iniziative dell’abate Zanetti — in ordine alla rinascita dell’industria vetraria veneziana, ma soprattutto in ordine alle modalità secondo le quali tale industria s’inserì nel più vasto panorama della produzione d’arte industriale europea sin dalla metà dell’Ottocento. Il secondo esempio va invece collegato alle proposte degli anni Ottanta del secolo di trasformare le collezioni civiche (allora ancora nella primitiva sede di casa Correr) in un museo d’arti applicate sul modello del londinese Victoria and Albert Museum: anche in questo caso si confrontano diverse concezioni dell’industrializzazione di Venezia nel senso della produzione d’arte, ovvero in quello di insediamenti industriali ‘pesanti’; ed ecco che uno dei luoghi della verifica e della dialettica culturale e politica cittadina è costituito proprio dalle sale del museo, dal senso e dai modi secondo i quali nelle collezioni, nelle testimonianze, nei testi la storia parla, si fa parlare, si fa portatrice (vera o presunta, certo fortemente sollecitata e sicuramente non neutrale) di messaggi.
Il museo civico quindi come idea di città: idea aperta e mutevole, in continua evoluzione e tensione al futuro ma, altresì, non meno tenace aggancio ad esperienze e suggestioni della storia; complesso di saperi legato a complessi di cose, di oggetti, di frammenti volta a volta in apparente letargo o coinvolti in turbinose figure e forse ambigue orazioni ma, comunque, formidabile serbatoio d’idee.
La politica urbanistica veneziana dopo la morte di Selva (1819) e fino alla costruzione del ponte ferroviario (1842-1846), allorché tutto riceve una diversa dimensione, è legata al nome di Giuseppe Salvadori, ingegnere municipale e, poi, ingegnere capo del Comune.
Salvadori si pone per primo l’esigenza di programmare gli interventi del suo ufficio dentro un disegno generale di riconversione, adattamento e ridimensionamento di manufatti e strutture verso soluzioni di funzionalità rispondenti alle mutate esigenze dei tempi. Il suo operato è punteggiato di uno spesso lavorio di ricostruzione e costruzione ex novo di strade e ponti con interventi che mettono a segno piccole correzioni di tracciati sinuosi o addirittura arrivano a interrare completamente dei canali cittadini, ma anche a rifare incessantemente rive, fondamenta, impianti fognari e condutture sotterranee, a scavare rii e risanare aree di degrado. In tutto ciò Salvadori esplica una mediazione metodologica e politica che sa accogliere le spinte della proprietà immobiliare (bonifica, accessibilità, pedonalizzazione, decoro per settori residenziali della città) ma tenta, in contemporanea, la creazione di un linguaggio funzionale d’arredo non contraddittorio rispetto alla sintassi strumentale e semantica della città.
Negli stessi anni e oltre — fino a tutto il quarto decennio del secolo — Lorenzo Santi, senese ma ben attivo a Venezia, partecipa anch’egli di questo processo di aggiornamento linguistico. Approdato a Venezia in occasione della vicenda del Palazzo Reale (l’Ala Napoleonica, nella fattispecie), egli acquista una posizione di rilievo tanto da essere l’architetto ufficiale e di fiducia del regime, specie dopo la morte di Selva: sotto questo profilo la svolta in termini celebrativi e magniloquenti che egli imprime alla sua architettura dopo la caduta napoleonica gli fa occupare spazi culturali altrimenti scoperti. Inoltre la disponibilità eclettica gli consente di prolungare la durata delle sue fortune fino a toccare gli anni Quaranta del secolo(16).
A voler compilare una sorta di sommaria agenda delle maggiori realizzazioni dell’architettura veneziana dei primi decenni dell’Ottocento, troveremo le chiese di S. Maurizio e del Nome di Gesù (Selva), di S. Silvestro (Santi e, poi, Meduna), di S. Polo (David Rossi); il portofranco a S. Giorgio (Mezzani), il palazzo patriarcale a S. Marco (Santi), l’Accademia di Belle Arti (Selva e Lazzari), i corpi di guardia all’Ascensione (Santi e Pigazzi) e all’Arsenale (Casoni), il grande colonnato a S. Francesco della Vigna (Pigazzi), la fronte e la ristrutturazione del convento dei Frari per l’Archivio di Stato (Santi), la coffee house del Giardinetto reale a S. Marco (Santi), senza contare l’Ala Napoleonica e terminando con la tempestiva ricostruzione del glorioso Teatro la Fenice ad opera dei fratelli Giambattista e Tommaso Meduna, dopo il rovinoso incendio del 1836.
Dopo la grande crisi economica postnapoleonica degli anni Venti, dall’esordio degli anni Trenta Venezia conosce un miglioramento economico via via più consistente e le sue stesse vivibilità e fruibilità si adeguano alle mutate esigenze; la pietra miliare o, se si preferisce, il radicale giro di boa della sua storia è sicuramente la costruzione del ponte ferroviario translagunare, il manufatto, cioè, che, strappandola all’insularità, ne determina prepotentemente e modernamente tutto il destino futuro. Realizzato tra il 1842 e il 1846 su progetto di Tommaso Meduna e Giovanni Miani, il ponte muta ogni interno rapporto nella macchina urbana di Venezia: non solo, infatti, la città non è più un’isola, ma l’ingresso ‘di servizio’ diviene accesso principale e trionfale mentre l’economia cittadina passa oramai — e non solo metaforicamente, né potrebbe essere altrimenti — attraverso questo nuovo varco e questo nuovo collegamento stabile(17). Preparato da un paio di decenni di polemiche, nel giro di un lustro si mette a segno un evento capitale nella storia della città. La realtà veneziana postneoclassica può dirsi che inizi proprio da qui: s’affermano, insieme, le ragioni della tecnologia — delle macchine e del vapore — con quelle della cultura romantica; la fine di un isolamento antistorico con la fortuna degli storicismi; la diffusione di una coscienza risorgimentale nazionale e l’emergere prepotente degli interessi della borghesia imprenditoriale sia di radicamento locale che proveniente da altre piazze dell’immenso mondo imperiale. La rivoluzione del 1848-1849 agita e mescola tutti questi ingredienti mentre i proiettili lanciati dall’una e dall’altra parte (gli austriaci in terraferma e i ribelli a Venezia) aprivano profondi varchi nelle 262 arcate del ponte da poco inaugurato.
All’inizio non ne beneficiarono le attività commerciali all’ingrosso — almeno fino alla realizzazione dei primi impianti per una stazione marittima: docks, magazzini, uffici doganali, ecc. —, ma si registrò un buon traffico passeggeri; in compenso si mettevano le basi per quel rovesciamento verso terraferma che un poco tutta la struttura urbana ebbe poi a registrare, a scapito dell’orientamento a mare — cioè sul bacino di S. Marco e il porto — sino ad allora decisamente prevalente. Inutilmente a tal proposito nel 1850 Giuseppe Jappelli elaborava per incarico della Camera di commercio un grande progetto di magazzini e stazione commerciale (il celebre Entrepôt commercial, appunto) che si proponeva di riequilibrare entro una più ampia dimensione d’intervento tutto il sistema veneziano, facendo perno sul canale della Giudecca.
I viaggiatori che scendevano alla provvisoria stazione ferroviaria di S. Lucia — ma presto la costruzione di un più stabile terminale chiederà il sacrificio della chiesa palladiana — potevano contare su una gamma di alberghi e locande da poco restaurati e ammodernati nelle prestigiose sedi di molti celebri palazzi sul Canal Grande, talvolta addirittura con servizio di bagni termali (giornalmente i fanghi giungevano via rotaia da Abano) reclamizzati in opuscoli variopinti ed elencati nelle prime guide commerciali pubblicate annualmente in città. Davanti alla punta della Dogana veniva ogni estate ormeggiato il pontone galleggiante dei bagni «Rima» (cari a Camillo Boito, che li immortalerà in Senso), ma già più di qualcuno intravvedeva le possibilità future che il connubio della città d’arte e dell’arenile di Lido aveva in serbo.
È ancora in questi vivaci e fecondi — almeno fino alla rivoluzione — anni Quaranta che s’affaccia un nuovo stile architettonico, più pittoresco del tardo neoclassico, più nuovo e aggiornato, più veneziano: si trattava della versione lagunare della stagione neogotica europea. Lo proponevano architetti che, liberatisi dell’opprimente condizionamento accademico di Diedo, scorgevano le possibilità — anche di mercato — di una pluralità eclettica di stili e linguaggi; architetti cui i numerosi restauri e ripristini su edilizia storica e monumentale avevano rese familiari le più diffuse cadenze dell’architettura veneziana e che ora tali cadenze riproponevano con accentuazioni di pittoresco e di cultura ‘patria’ (ma occorrerà attendere ancora qualche anno perché ciò sia deliberatamente ricercato e teorizzato).
Neogotico veneziano, dunque; e immediatamente però la gamma dei recuperi si amplia: le architetture dei Lombardo e di Mauro Codussi; il veneto-bizantino caro a Ruskin; il tardogotico, il moresco. Giambattista Meduna — l’interprete più versatile e originale di questa fase dell’architettura lagunare — attraversa tutte queste esperienze: dai restauri degli edifici antichi (Ca’ d’Oro, basilica di S. Marco, palazzo Cavalli poi Franchetti) alla rifabbrica della Fenice dopo l’incendio del 1836; dall’eccezionale neogotico di palazzo Giovanelli a S. Felice alla villa Revedin a Bassano, al pastiche eclettico e inedito dell’edificio per attività commerciali al ponte del Lovo; dalla bella chiesa neogotica di Carpenedo alla ridecorazione della Fenice nel 1854: in essa — a giudizio della commissione incaricata di giudicare gli elaborati — il «gusto alla Bérain, si accosta a quello che comunemente appellasi Rococò, ma volgente alla Renaissance per renderlo di maggior sveltezza e leggiadria».
I segni del vivere civile medio-ottocentesco s’infittiscono: rinunciando alle peculiarità dell’ambiente — salvo recuperarle nelle immagini turistiche e nei sogni letterari tardoromantici — si affermano le ragioni della comodità e della salubrità; il ripiegamento dagli ideali civili, dalla dimensione pubblica dell’operare che avevano informato di sé la struttura stessa della città nel primo Ottocento, segna sempre più l’affermarsi di una concezione dell’urbano come estensione del privato, come scrittura e impronta di una quotidianità borghese in cui emergono le tendenze dell’interesse immobiliare alla ricerca del ‘centro storico’, delle posizioni privilegiate e di prestigio, di aree residenziali e commerciali di lusso contrapposte non casualmente a quelle lasciate a fasce sociali marginali, al proletariato, agli insediamenti produttivi.
Se ne vedono, nella Venezia medio-ottocentesca, molti indizi: i caffè e i ritrovi riformati sul nuovo gusto riecheggiante oramai i dettami continentali e incerto ancora tra Parigi e Vienna e, forse, Trieste; le case d’abitazione agiate nelle quali si riducono le dimensioni delle finestre e l’altezza dei piani ma che si ricoprono di fitte trame decorative in marmo o in cotto e sulle quali fanno bella mostra balconcini e pergoli in ghisa dall’ornato ‘in stile’ elegante e calligrafico(18).
A questi fatti fanno riscontro i nuovi ponti metallici o marmorei che, come una ragnatela, moltiplicano i collegamenti sopra i rii, raddoppiano i percorsi pedonali, continuano a suggerire punti di vista inusitati, imprevisti scorci pittoreschi su quelli che sempre erano considerati i ‘retri’ dell’edilizia cittadina.
È singolare a questo punto notare quali logiche informino di sé in questo giro d’anni la politica veneziana determinando (nelle intenzioni o nella pratica attuazione) la forma stessa della città: del 1850 — s’è detto — è il grande progetto jappelliano per una moderna infrastrutturazione marittima commerciale che finalmente esaltasse la funzione del neocostruito percorso ferroviario e, inserendo i problemi cittadini entro un’ottica territoriale, li sottraesse all’angustia di un dibattito localistico e, tutto sommato, periferico; alcuni anni appresso però compaiono i segni di come il discorso jappelliano non sia stato compreso o venga decisamente rifiutato: da un lato accendendosi un’elefantiaca querelle circa i ponti sul Canal Grande conclusasi con la costruzione dei due manufatti metallici alla Carità e agli Scalzi (ambedue dimensionati al servizio interno ovvero pensati a sostegno degli interessi di una potente fascia di proprietà immobiliare); dall’altro lato con l’esibizione di un faraonico progetto alberghiero sulla riva degli Schiavoni (piano Fisola-Cadorin). Quest’ultimo, abbandonato solo per marginali opposizioni dell’autorità militare, altro non era che l’applicazione per absurdum delle tendenze emerse nella politica veneziana: quelle della turistizzazione globale; superfluo ripetere che, organizzato quale struttura articolata e onnicomprensiva, prevedendo addirittura una dépendance sulla spiaggia di Lido, il pittoresco complesso progettato da Lodovico Cadorin anticipava di cinquant’anni esatti, prefigurandola, l’impresa di Niccolò Spada nell’Excelsior.
L’Austria perdeva la Lombardia nel 1859; gli anni immediatamente successivi vedono alcuni tentativi di conservare almeno il Veneto e Venezia: si attuarono alcune provvidenze che però solo in piccolissima misura ovviarono le conseguenze delle punizioni imposte alla città dopo la rivoluzione quarantottesca; si pensò alla trasformazione di Venezia in città libera; a incrementare la portualità e a favorire i traffici sollevando il porto lagunare dalla forzata subordinazione a Trieste e agli altri scali adriatici; l’ultima carta appare essere la creazione di una grande Stazione marittima: solo portando la rotaia del ponte fino alla banchina si sarebbero, infatti, pienamente sfruttate le potenzialità del nuovo mezzo e della rinuncia all’insularità.
Questo della Stazione marittima è un altro dei grandi temi della storia — e non solo urbanistica — veneziana del XIX secolo. Pensato in varie versioni, dimensioni e finalità; impostato nei suoi termini generali dal progetto di Giuseppe Jappelli del 1850; ulteriormente definito in una bozza di progetto redatta in extremis dal governo di Vienna e dalla società di gestione della ferrovia Venezia-Milano tra il 1865-1866, lo scalo marittimo-ferroviario veneziano sarà messo in cantiere secondo l’elaborato di una commissione presieduta da Pietro Paleocapa, realizzato e progressivamente ampliato con modifiche e aggiunte di servizi e strutture fino al termine del secolo. Compiuta in questi termini, la Stazione marittima non faceva che ribadire le scelte e le direttrici adottate con il ponte ferroviario mentre tentava altresì di saldare il porto tradizionale della città (bacino di S. Marco e porto-canale della Giudecca) con gli impianti ferroviari attraverso le infrastrutture marittime commerciali(19).
Nonostante la realizzazione, tutto sommato tempestiva, della Stazione marittima, i problemi della città al suo ingresso nel Regno d’Italia furono gravissimi: povertà e disoccupazione, scarsità e insalubrità delle abitazioni, assai limitate iniziative imprenditoriali, difficoltà a rimpiazzare i capitali austriaci, concorrenzialità con altri porti italiani, incapacità di rifondare quell’asse lombardo-veneto su cui s’era basato il benessere dei migliori anni asburgici: trovatasi «convitata al banchetto della libertà con la veste logora e strappata», secondo le espressioni del suo primo sindaco, Venezia rimase per un buon numero d’anni in attitudine e condizione di Cenerentola.
Anche l’esempio parigino dei grands travaux del barone Haussmann giunge a farsi sentire: gli ultimi anni dell’amministrazione asburgica e quelli successivi ‘unitari’ segnano un comparire di progetti e di piani per rettificare una volta ancora le linee di un’urbanistica ritenuta oramai superata, démodée. La stessa, pur disinvolta, pratica d’intervento sperimentata sotto la tutela degli ingegneri municipali e della commissione all’ornato fino agli esordi degli anni Sessanta e fatta di molti piccoli aggiustamenti, di qualche interramento di rii, di nuovi ponti e di qualche sottoportico in più; lo stesso rinnovamento edilizio perseguito con numerose demolizioni, molte riforme parziali, qualche sopraelevazione, moltissime ristrutturazioni; tutto questo vien superato da progetti fantasiosi e da realizzazioni di mano pesante negli anni subito successivi: è il caso della Strada Nova (1867-1871), del bacino Orseolo (1868-1869), di campo S. Paternian (poi Manin, 1869-1875 e successivi), della Stazione marittima (dal 1868-1870 in poi), di interventi a S. Simeon piccolo, a S. Rocco, a Ca’ Foscari; poco dopo di via 22 Marzo, di via 2 Aprile e di altro ancora.
Una logica urbana che assume a modello la vita delle città di terraferma — abbagliata dalle conquiste della tecnica moderna e, forse più, dalle prospettive di un’economia che appare in incontenibile espansione e legata tuttavia a quel tipo di organizzazione e infrastrutturazione territoriale — mira a fare anche di Venezia una cattiva imitatrice di caratteri e di metodi che le sono sostanzialmente estranei; è quasi un’ossessione a guidare i desideri inconfessati e i tentativi appena abbozzati: portare cavalli e carrozze, linee ferroviarie e tranviarie, sopraelevate e metropolitane a correre lungo, sopra, sotto il Canal Grande e il bacino S. Marco in sogni tecnologici e deliranti fantasie (l’esito ultimo, il più pesantemente esperibile e del quale tuttora si pagano le conseguenze, è certamente il ponte autostradale e il connesso grande monstre di piazzale Roma, realizzati negli anni Trenta del Novecento).
L’industrializzazione ha interessato la Venezia insulare ben presto nel XIX secolo e ne ha segnato la forma talora in modo non trascurabile anche prima dei grandi insediamenti degli anni Ottanta. Murano conosce una trasformazione in tal senso tanto da configurarsi quale vera e propria periferia industriale in forza della sua produzione vetraria: è un processo che segna e spesso degrada profondamente il volto dell’isola in termini ancora valutabili(20).
Una sorte simile (salvo forse di minor densità relativa) tocca ad altre aree marginali in precedenza intaccate dal processo di espansione e specializzazione di manifatture. È il caso di un’area che interesserà progressivamente tutta la testata occidentale della città e che contava inizialmente la Manifattura Tabacchi e le cererie; ma non si può ignorare il vastissimo insediamento della grande fonderia Neville a S. Rocco, i cantieri navali in varie sedi, la stessa espansione dell’Arsenale nella vasta ‘coda’ dei nuovi bacini di carenaggio. Tocchiamo gli anni Ottanta e varrà quindi citare il Cotonificio Veneziano a S. Marta, l’Officina del gas, il Mulino Stucky alla Giudecca, le Officine meccaniche a S. Elena e molte altre più o meno rilevanti imprese.
Non meno significative risultano altre attività produttive di più particolare natura. Soprattutto la produzione in serie o industriale del falso, dell’imitazione, della rielaborazione dell’antico: il mobile d’arte, i cuoi artistici, le stoffe, la decorazione pittorica, il lavoro d’intaglio, il vetro, la pietra, il ferro battuto vengono riproposti non più nella naturale evoluzione dei linguaggi e del gusto bensì come riprese artigiane di modelli antichi. È una rottura esplicita e meditata quella che si verifica, resa possibile da un lato dalla riduttiva accoglienza di temi del dibattito europeo sull’arte e la produzione industriale e, dall’altro lato, dall’ormai avvenuta caratterizzazione turistica dell’immagine cittadina. Teorico ne diviene un industriale del mobile d’«arte», Michelangelo Guggenheim; una scuola professionale d’arte viene appositamente creata; i modelli son presentati in rassegne su apposite pubblicazioni popolari (di cui la boitiana «Arte Italiana Decorativa e Industriale» a partire dal 1892 sarà il prodotto di maggior respiro e di più vasta eco) e appaiono sempre tratti da edifici, oggetti, dettagli, opere decorative del passato offerti all’imitazione degli allievi e degli artigiani.
L’unificazione al Regno d’Italia significa una ripresa senza precedenti dei propositi e delle proposte d’intervento urbanistico e dà luogo immediatamente alla costituzione di una commissione per lo studio di un piano di riforma delle vie e canali della città di Venezia. Tale commissione e i suoi lavori sono l’antecedente diretto del primo Piano regolatore e di risanamento elaborato nel 1889-1891 e destinato ad accendere polemiche di asprezza inusitata(21). I primi frutti dell’attività della commissione sono proprio quei lavori (a cominciare dalla Strada Nova) cui si è fatto cenno più sopra e che continueranno ad essere realizzati in ordine sparso per circa un ventennio. Tuttavia anche altri organi e iniziative intendevano far fronte ai problemi e ai mali ormai endemici che affliggevano la città: il prefetto Torelli dava vita a una Società per l’allargamento e l’areazione delle calli; le prime associazioni per la costruzione di case operaie iniziavano una vita a lungo stentata prima di trovar definitiva strutturazione nella pubblica commissione case sane ed economiche attiva dal 1893(22).
L’altalenante storia della Serenissima conosce finalmente negli anni Ottanta l’inizio di un nuovo periodo d’espansione e, questa volta, nel nome dell’industria non meno che di un più deciso affacciarsi della città — agghindata di tutta la sua storia e della sua tradizione artistica — sul palcoscenico culturale europeo.
Dopo aver assistito, negli anni Sessanta e Settanta, all’accesissima disputa sulla ubicazione della Stazione marittima tra S. Marta e S. Basilio e prima di conoscere, nel Novecento, quelle sullo spostamento in terraferma, ai Bottenighi, delle nuove strutture portuali e sulla creazione del ponte autostradale e del suo terminale in Venezia, la vita cittadina viene investita e divisa dal grande tema del Piano regolatore e di risanamento, cioè di quegli strumenti amministrativi che sono, insieme, un caposaldo nella storia dell’urbanistica veneziana e che ebbero a portare per la prima volta in maniera clamorosa all’attenzione nazionale e internazionale il problema dell’elaborazione di un provvedimento globale e coordinato di pianificazione e salvaguardia per la città.
Nonostante gli interventi pianificatori — e forse però anche grazie e in forza di essi — i primi venticinque anni di amministrazione unitaria sono quelli in cui si afferma nel modo più brutale la tecnica dello sventramento, del rettifilo, dell’allargamento; gli anni nei quali la spinta dell’ammodernamento e, quindi, l’adesione a tecniche d’intervento proprie alle città di terraferma conoscono — anche sull’onda di una ripresa economica di una qualche entità — le loro più clamorose conquiste.
Operazioni tutte che non si fermano certo ma segnano una qualche stasi con l’inizio del meccanismo del Piano regolatore e di risanamento: questo riceve la sua prima approvazione in consiglio comunale nelle sedute del 27 e 29 dicembre 1886, ma è nell’agosto-settembre 1889 che vengono approvate le proposte tecnico-finanziarie e, anche, talune modifiche e nel 1891 che l’elaborato ha la sua definitiva sanzione dalla commissione ministeriale (e non senza ulteriori precisazioni e modifiche): il meccanismo, una volta avviato, sfuggirà di mano agli organi locali per essere assunto emblematicamente dagli organi tecnico-politici nazionali.
Nei sei anni trascorsi tra la prima formulazione e l’approvazione definitiva del Piano e anche a seguito di un dibattito di dimensione nazionale che vede coinvolte le maggiori personalità della cultura artistica e architettonica italiana (da Camillo Boito a Giacomo Boni; da Pompeo Molmenti a Domenico Morelli) si può verificare insieme una cura attenta per una progressiva limitazione degli effetti distruttivi degli interventi previsti, ma anche l’incertezza circa le linee generali di redazione di un intervento che avrebbe dovuto per la prima volta affrontare e risolvere in una globale e organica formulazione i problemi dell’urbanistica veneziana.
Sono proprio questi anni Ottanta dinamici e concreti a costituire il giro di boa di tante realtà veneziane: anni di densa produzione artistica, storica e storico-artistica (si pensi ai lavori di Molmenti e Tassini, all’Esposizione nazionale artistica del 1887 prefigurazione e prova generale per le Biennali, alle fortune della pittura di genere — Favretto muore nel 1887 —, a quelle del «realismo sociale», ai volumi monumentali sulla basilica di S. Marco — la celebre edizione di Ongania per cura di Camillo Boito —, ai molti radicali restauri e così via); anni di entusiasmo imprenditoriale e di freni molto allentati verso ogni novità e appetito, verso ogni innovazione e impresa.
Gli indizi di una rinascita in corso sono tuttavia una volta di più ambigui: l’analisi statistica della situazione commerciale e industriale documenta la progressiva affermazione dello scalo veneziano, le sue fortune crescenti, un benessere consolidato; non altrettanto poteva dirsi dei mali veneziani che persistevano più radicati e diffusi: povertà, accattonaggio, disoccupazione, crisi produttiva per settori una volta prosperi; fatiscenza e carenza delle abitazioni popolari (è di questi anni l’individuazione dei meccanismi di incentivazione per l’edilizia popolare e sovvenzionata che segnerà proprio a Venezia alcune esperienze d’avanguardia).
Nel 1881 e nel 1887 due lucide dettagliate relazioni ci informano circa la situazione dell’apparato produttivo cittadino: sono, rispettivamente, Venezia economica nel 1881 dell’economista e storico dell’economia veneziana Alberto Errera (autore, tra l’altro, un decennio innanzi, di un apprezzato saggio Storia e statistica delle industrie venete e accenni al loro avvenire), e L’ingegneria a Venezia dell’ultimo Ventennio, lavoro pubblicato in un volume miscellaneo per cura del Collegio veneto degli ingegneri in occasione del IV congresso degli ingegneri italiani.
Tra l’uno e l’altro di questi rapporti si situano gli esordi di due iniziative di notevole mole che rappresenteranno, quasi come emblemi, la ‘Venezia industriale’: il Cotonificio Veneziano (sorto a S. Marta tra l’area del puntofranco e i Magazzini generali) e il Mulino Stucky alla Giudecca (presso la punta dei SS. Biagio e Cataldo). L’attivazione dei due stabilimenti avviene nel 1883 e 1884. Non rifaremo qui né il quadro in dettaglio quale emerge da queste (e magari da altre) pubblicazioni, né le pertinenti considerazioni che di recente hanno corredato la lettura di questi dati — solo ci si limiterà a ribadire qualche contingenza. In particolare va prestata attenzione alla struttura del credito: si tratta di un sistema tutto sommato di rilevanza assai circoscritta e legato a vicende complessivamente di respiro locale (per quanto sarebbe forse ingiusto sottovalutare la dimensione d’intervento d’una famiglia quale i Papadopoli, oppure la tradizionale finanza locale facente capo ai Treves, ai Mocenigo, ai Franchetti, ai Giovanelli e a numerose altre ditte degli anni asburgici; d’altro canto gli stessi Rothschild vantano interessi e campi di presenza in città: dalle saline di S. Felice all’impresa della linea ferroviaria Ferdinandea lombardo-veneta), almeno fino all’approdo in città di Giuseppe Toeplitz e, con lui, della Banca Commerciale, ma s’aprirebbe, a questo punto, il capitolo Volpi — con annessi e connessi — e converrà quindi, almeno per ora, lasciarlo chiuso.
Più semplice forse valutare il significato e la vitalità di iniziative industriali, commerciali e grosso-artigiane connesse alla produzione d’arte: dalla vetraria (conterie, soffiati e mosaici) al mobile d’arte, dai merletti alla fotografia. Assai presto il settore conosce una razionalizzazione, un incentivo ufficiale, la definizione di un proprio cursus studiorum, tanto che dalle pagine del già citato L’ingegneria a Venezia (1887) riceviamo preziose informazioni circa i percorsi di formazione professionale degli addetti, cioè i vari corsi di disegno e di storia dell’arte impartiti nelle scuole primarie; le scuole festive istituite con analoga finalità, o, ancora, la creazione di una scuola appositamente a ciò destinata: la Scuola veneta d’arte applicata alle industrie, che nasce, per iniziativa principalmente proprio di un industriale del mobile d’arte, Michelangelo Guggenheim (ma che si appoggiava soprattutto alle elaborazioni teoriche e ideologiche d’un Pietro Selvatico e, poi, sull’impianto culturale di Camillo Boito).
Citiamo questo settore d’attività — quantitativamente ancora di scarso rilievo, se si tolga la vetraria nelle sue varie declinazioni — perché diventerà esso stesso una delle componenti la facies di Venezia, almeno nel suo risvolto letterario, almeno in quella dimensione di sovrastrutturalità che avrà presto però modo di veder ruotare attorno a sé — e spesso capovolgersi — parametri di valutazione e di giudizio quando non anche i rapporti reali tra le cose, i contesti e le interpretazioni o, più semplicemente, tra segni e significati.
Ancora gli anni Ottanta sono al centro di un processo davvero centrale e di non eludibile opulenza nella delineazione di una nuova incarnazione del mito veneziano, questa volta a declinazione mitteleuropea o, più precisamente, austriaca (e, per molti aspetti diverso, se non propriamente contrapposto sia a quello del versante britannico della linea ruskiniana che troverà però perfetto compimento letterario in Proust; sia a quello di anima prevalentemente franco-belga maturato nel clima simbolista e decadente cui però contribuirà non marginalmente D’Annunzio e che lambirà anche Fortuny). «L’anno in cui Boito scrive il suo racconto [annota Anna Giubertoni (si tratta del bellissimo e per certi versi premonitore Senso)] è anche l’anno di nascita del mito. Il 1883 è infatti l’anno in cui Venezia entra nel mitico paese dell’operetta in cui troveranno posto i principati dello Zigeunerbaron e del Graf von Luxemburg. Si può anche azzardare una data di nascita precisa: il 9 ottobre 1883. È quello il giorno della prima rappresentazione viennese dell’operetta di Johann Strauss, Eine Nacht in Venedig. La Venezia dell’operetta è quella di Casanova e del Carnevale, delle maschere e della gourmandise. Riaffiora qui l’intero corredo della ‘vita felice’ sottolineato con un’enfasi che dà la misura della distanza dall’epoca storica in cui il mito affonda le sue radici». Ma è Hugo von Hofmannsthal «a dare al mito austriaco di Venezia la più complessa elaborazione. Il che gli avvenne attraverso una serie di lavori disposti tra il 1892 e il 1914». Venezia e mito austriaco, quindi; come declinazione specifica e densa della sempiterna costruzione letteraria lagunare, una delle più alte riflessioni sulla natura singolare e ambigua della città dopo la sua stessa fine, anzi come emblema stesso di una condizione di limite(23).
«Ne risulta una concezione del mito certamente non univoca. C’è la Venezia rinascimentale del dramma Der Tod des Tizian (1892) e della tragedia Das gerettete Venedig (1904). C’è la Venezia di Casanova nelle commedie Der Abenteurer und die Sängerin (1898) e Cristinas Heimreise (1909). C’è poi la Venezia contemporanea, ma tanto più importante ai fini del mito, del racconto Der Brief des letzten Contarin (1902). E ancora la Venezia di un viaggiatore viennese nel tardo Settecento del romanzo Andreas oder die Vereinigten (1911-1924)». Se queste paiono le incarnazioni storiche (o storicistiche) del mito veneziano di Hofmannsthal, va detto che l’articolazione di segni immagini e sensazioni in cui tale mito decanta e s’incrosta appare di una strepitosa ricchezza e complessità sin dal punto di partenza, là dove lo scrittore già definisce il campo semantico entro il quale il mito (ogni mito e quindi a maggior ragione quello veneziano) riceve e dà senso: dal tema della ricomposizione degli opposti e dei contrari («nel mito si equilibra ogni cosa»), a quello della incessante e ritornante metamorfosi, a quello della esaltazione e del privilegiamento della superficie contro la profondità; quello della lontananza e del viaggio, quello della «rinuncia al possesso»; quello, infine, della sospensione dei destini, tale da consentirgli di operare l’ultima grande identificazione: «Sospendere il tramonto di Venezia [annota la Giubertoni, della quale stiamo seguendo le orme] procrastinarne nel mito la fine, significa per Hofmannsthal esorcizzare l’analogo tramonto di Vienna». Teatro e labirinto, limpidità canalettiana e imminente disfacimento alla Guardi, terra di congiurati e di gaudenti, somma traditrice e amante volgare: la coscienza e la premonizione di morte fan turbinare nell’appassionata riflessione veneziana di Hofmannsthal tutte le grandezze e le diverse declinazioni della storia e delle incarnazioni di Venezia attraverso lo straordinario caleidoscopio della cultura viennese della fine; ancora una volta Venezia appare lo specchio deformante e rivelatore del termine di una civiltà intera.
Se la vicenda letteraria giocata su tutto lo scacchiere europeo viene a cadenzare le tappe di una progressiva definizione del ruolo della città nella stagione del tardo romanticismo, è, per converso, la schizofrenia che appare il carattere distintivo della storia veneziana dopo l’annessione al Regno d’Italia; attitudine che matura a tappe forzate nel primo ventennio di questo periodo e risulta pressoché definitiva già negli anni Ottanta. La dissociazione nella realtà cittadina non nasceva dal nulla: soprattutto le contraddizioni lampanti, clamorose addirittura, tra le esigenze della conservazione e quelle del vivere quotidiano, tra la storia e la concretezza della realtà, generano le convinzioni più radicate sulle incompatibilità presunte tra aggiornamento e sopravvivenza, tra economia e cultura, tra barbarie e civiltà, concretandosi di volta in volta attorno a temi e soggetti di notevole presa emotiva: dapprima sulla legittimità dei restauri e sugli interventi urbanistici, poi sul porto e la sua ubicazione, sull’industrializzazione, sull’architettura moderna e il suo linguaggio, fino alla contrapposizione di terraferma e centro insulare: contrapposizione dapprima funzionale e infine tra divergenti modi d’essere e civiltà. Il dibattito, le polemiche, gli scontri appaiono comunque sempre dominati dall’ipoteca dell’ultima spiaggia, da un’ispirazione messianica, esplicitati ed esposti in un genere ‘alto’ e ‘tragico’ giocato su tutte le possibili gamme dell’emotività.
Al tutto si aggiunsero anche — e non per caso — altri elementi. E alcuni di questi si saldarono a dar vita a un blocco d’interessi e di idealità, di progetti politici e di disegni economici da cui nasce certamente, nel giro di tre lustri, la nuova realtà veneziana.
Proprio questo blocco — composito e tuttavia compatto — è il nocciolo poliedrico che rifiuta oramai la vecchia atmosfera tardoasburgica e quella risorgimentale, per tendere a più ambiziosi obiettivi: che guarda attento all’Adriatico orientale e al disfarsi dell’Impero ottomano, che lavora attivamente per l’istituzione di una fitta rete di collegamenti mercantili, che di fronte alla significativa e finalmente raggiunta espansione del volume dei traffici incoraggia il balletto delle proposte e dei progetti sul porto e il suo ampliamento.
Il momento è quello in cui i vecchi dibattiti e gli ideali stessi della cultura ottocentesca appaiono cadere come scorie nell’atto di generare una nuova età dell’oro, nel superamento delle incertezze e nell’individuazione finalmente sicura e inequivoca di un futuro, di un destino.
L’ideologia su cui irradiava quest’aurora poteva dirsi un amalgama ben eterogeneo di elementi disparati: la sanzione amministrativa era data, allo stato nascente, dall’accordo cattolici-conservatori e dall’elezione di Grimani a sindaco nel 1895; il riconoscimento culturale veniva dalla Biennale e dalle sue innegabili fortune; l’orizzonte economico si veniva definendo nei progetti di ampliamento del porto (e con la scelta dei Bottenighi); in termini politici il nazionalismo e l’irredentismo trovano nell’enunciazione imperiale-panadriatica e nella penetrazione balcanica ottimi banchi di prova e in D’Annunzio, Piero Foscari e nel gruppo Volpi-Toeplitz i cantori, i banditori e gli strumenti più adeguati d’intervento; tecnici quali Petit, Coen Cagli e, più tardi, Miozzi fornirono indispensabili supporti settoriali. Si potrebbe certamente continuare citando, ad esempio, le realizzazioni dei quartieri per case popolari e borghesi, ovvero il grande disegno insieme economico urbanistico e culturale facente capo alla C.I.G.A. (Compagnia Italiana Grandi Alberghi); oppure si potrebbe riproporre a una valutazione altro materiale: dall’affaire del campanile di S. Marco, all’attività di Fortuny; dalla vicenda Stucky a quella di Aldo Jesurum; dai progetti di metropolitana al tunnel per il Lido e per la Giudecca: se ne misureranno altrove vita ed esiti. Può essere interessante annotare come questo processo tanto gagliardamente innescato facesse magari le sue vittime. Si pensi allo stesso Pompeo Molmenti: imbarcato nel solido naviglio della giunta Grimani nel ’95 e creato assessore alla pubblica istruzione se ne uscirà per divergenze con la maggioranza e col sindaco sulla questione della creazione del ponte autostradale; continuerà come deputato, sottosegretario e senatore le sue battaglie di segno passatista contro i «profanatori di Venezia».
Infine: in tale quadro, che appare già in fase d’avanzata delineazione, si situa, giocato certo su un ruolo e in una cifra culturale e morale di più alta risonanza e significato, il messaggio lanciato come un grido d’allarme appassionato e competente da un’altra delle figure-cardine dell’Ottocento veneziano: John Ruskin, mostro sacro e onnipresente nume tutelare dell’integrità complessiva e puntuale della Serenissima. Ma questo grido-invettiva appare subito tutt’altro che disgiunto dai problemi della città come dallo stesso orizzonte ideologico dell’affermato mito veneziano.
È noto che il punto d’arrivo della lunga militanza pubblicistica ruskiniana è la polemica rivolta verso i restauri di S. Marco e culmina con la Lettera posta a prefazione del volumetto di A. Piero Zorzi Osservazioni intorno ai restauri interni ed esterni della Basilica di S. Marco, pubblicato da Ongania nel 1877.
Una prosa millenaristica e sentenziosa, un periodare profetico e di grande respiro retorico accomuna giudizi sprezzanti sui restauratori di S. Marco, la condanna del mondo moderno e del profitto pecuniario e il rifiuto del lavoro meccanico. A S. Marco è toccata infatti una «catastrofe [che] sorpassa tutto in indegnità». Riannodando quest’intervento ruskiniano con le pagine delle Stones of Venice — che lo precedono di un quarto di secolo — dove la decadenza di Venezia appariva letta quasi come una profezia e premonizione della rovina del mondo britannico, si può cogliere la destinazione allegorico-morale del tema della rovina — e morte — di Venezia in questo nuovo filone letterario e storiografico. Il quale filone ha tuttavia molto di differente e originale rispetto al mito e ai miti di Venezia sin qui considerati: esso infatti introduce una serie intera di problemi connessi a quello — più radicale — della conservazione fisica della città.
Dalla sparizione di Venezia tra le onde adriatiche, dalla scomparsa della città dall’orizzonte culturale europeo, dall’obnubilamento morale di Venezia e dei veneziani aveva preso pretesto l’immaginario poetico ottocentesco per dare vita al mito della morte sulle lagune. All’ombra di questo mito Venezia era mutata — e profondamente — come si è visto: una sorta di cortina fumogena aveva nascosto agli occhi dell’osservatore quel che era realmente avvenuto in città.
La denuncia di Ruskin indicava non già l’abbandono e la consunzione come cause della morte veneziana, bensì la modernità, le tecniche, il sistema economico, l’alienazione, il distacco degli operatori dalla tradizione e dalla storia. La vita presente minacciava per Venezia una nuova vera morte.
L’opinione pubblica aveva, oltre agli scritti e alle polemiche sui restauri di S. Marco, una ben macroscopica occasione d’interessarsi della nuova lebbra che pareva aggredire la città: si trattava di quel Piano regolatore e di risanamento cui s’è fatto cenno più sopra. Ancora un rovesciamento di valori e un’inversione di tendenze critiche e storiografiche si abbatteva su Venezia. Nascevano altri miti. E Venezia diveniva il singolare pretesto per il dibattito su antico/moderno, sul nuovo e la conservazione dei monumenti. Dibattito serio e serrato, anticipato — per la città — nelle sue linee di fondo proprio da Camillo Boito; ma dibattito, altresì, presto destinato a degenerare.
Erano sopravvivenze d’Ottocento o premonizioni del nuovo le pulsioni che guidavano in città, lungo una forsennata ragnatela di percorsi da S. Elena, da poco industrializzata, fino ai Magazzini generali di S. Marta sferraglianti di carri e sovraccarichi di merci, le inquietudini visionarie di Frederick Rolfe-Baron Corvo impegnato nella stesura del suo The Desire and Pursuit of the Whole (e non sarà da trascurare l’intrigante e ammiccante sottotitolo del racconto: A Romance of Modern Venice)?
Sogni medievali, quindi, e futuri fulgidi destini; intangibilità e riformabilità; moderno e antico. La scena veneziana piuttosto che rasserenarsi veniva progressivamente complessificando e intorbidando le sue acque e le sue luci. Il processo di ricomposizione di frammenti e di immagini, di visioni e rimpianti aveva, in realtà, accelerato la sua marcia negli anni successivi ai primissimi e ancora frastornati momenti del dopo annessione. Stimolati da Ruskin, nuovi «visitatori sentimentali» approdavano alle lagune onde assicurarsi gli estremi «bagliori d’oro scuro» dall’aspetto «come di piume di pavone al sole» prima che una colata di «tintura bianca» tutto facesse sparire. Anzi per scongiurare che ciò si verificasse, altri bagliori e altri ori e piume di pavone e fantasmagorie di storie improbabili venivano opportunamente fabbricati e proposti ad appagare i desideri d’antico, la fame di passato e l’aura d’arte, l’atmosfera unica irripetibile che solo Venezia (e ancora per poco, per troppo poco!) poteva garantire.
Ma uno scatto di genio fa riguadagnare acque navigabili alla navicella veneziana riportandola fuori dalle secche di improponibili mascherate: è l’intuizione che spinge Riccardo Selvatico e il suo eterogeneo circolo d’artisti, letterati, uomini politici a riproporre il passaggio stretto ma ineludibile del confronto con la modernità piuttosto che con la trama consunta e mefitica di un passato fattosi plumbea ipoteca di morte (questa sì, definitiva e irreversibile!). L’invenzione della Biennale non ha i caratteri di una scelta esclusiva e alternativa, radicale e secca; ma ha in sé tutte le potenzialità per riaprire i giochi, per far rinascere una dialettica culturale sopita o in stato di letargo: guarda avanti, chiude partite fattesi balletto retorico, promette contemporaneità e futuro, apre a un secolo nuovo, quello che inizia — in anticipo forse sui numeri del calendario — nella macchia verde dei giardini napoleonici il 30 aprile 1895.
1. Pare francamente superfluo cimentarsi in questa sede in un esercizio di ricomposizione bibliografica di una produzione letteraria di dimensione poco meno che oceanica, quella del mito di Venezia nell’Ottocento nonché della presenza della città e delle sue problematiche ideologiche o strutturali in rapporto alla modernità nella letteratura mondiale. Ci si limiterà, quindi, a segnalare un esiguo numero di testi che possono tuttavia fornire o suggerire collegamenti e pretesti utili ad abbozzare una griglia ermeneutica opportunamente tendenziosa perché sulle problematiche di cui sopra non si vadano a chiudere le sabbie mobili e totali dei saperi d’accademia ma permangano ben evidenziati quelli che in venticinque anni d’esercizi di lettura son parsi a chi scrive snodi, emergenze e provocazioni di singolare e particolare evidenza e pregnanza (ed ecco il perché del ricorrere di una altrimenti fastidiosa e imperdonabile autocitazione). Giandomenico Romanelli, Venezia Ottocento. L’architettura, l’urbanistica, Venezia 19882; Id., Il volto di Venezia nell’Ottocento, in Storia della civiltà veneziana, a cura di Vittore Branca, III, Dall’età barocca all’Italia contemporanea, Firenze 19792, pp. 411-420; Id., Venezia nell’Ottocento: ritorno alla vita e nascita del mito della morte, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall’età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1986, pp. 749-766; Giorgio Bellavitis-Giandomenico Romanelli, Venezia, Roma-Bari 1985; Eduard Hüttinger, Il ‘mito’ di Venezia, in Venezia Vienna, a cura di Giandomenico Romanelli, Milano 1983, pp. 187-226; Venezia nell’età di Canova 1780-1830, catalogo della mostra, Venezia 1978; Venezia nell’Ottocento. Immagini e mito, catalogo della mostra, a cura di Giuseppe Pavanello-Giandomenico Romanelli, Milano 1983; Dai Dogi agli Imperatori: la fine della Repubblica tra storia e mito, catalogo della mostra, a cura di Giandomenico Romanelli-Chiara Alessandri-Franca Lugato-Camillo Tonini, Milano 1997.
2. Questo concetto: cioè che contemporaneamente all’attività demolitoria, alle rapine, alle svendite, agli impoverimenti (di ogni genere) che la città subiva, si verificasse un’intensa attività progettuale, realizzativa, di costruzione di ceti egemoni, di fortune economiche, di processi produttivi, ha sempre faticato ad affermarsi e a essere laicamente riconosciuto, soprattutto in anni a noi più vicini e forniti oramai di significativi e massicci dati di conoscenza. Ne erano, per altro, sufficientemente consapevoli alcuni storici e osservatori di fine Ottocento. La possente metafora ruskiniana della storia di Venezia quasi come arena paradigmatica di uno scontro tra principi e idealità eternamente in conflitto nel cuore degli uomini così come nelle loro strutture sociali e sedimentazioni istituzionali, viene ridotta e degradata al penoso simulacro di Venezia vedova lamentosa e sconsolata che prende forma e si consolida al traino della storiografia di ispirazione molmentiana. Il mito letterario della morte di Venezia risente di queste alternative entro le quali si dibatte come tra due contrapposte polarità magnetiche. Le elencazioni — a volte per altro encomiabili per esattezza e completezza — dei torti subiti, dei danni sopportati, delle opere depredate, dei patrimoni scomparsi, difettano quasi sempre di prospettiva storica, giungendo a comporre quadri di desolante parzialità e di irritante ripetitività.
3. L’episodio più celebre e di più accesa significatività ideologica e morale è costituito dalla proposta di una nuova organizzazione e denominazione dei quartieri della città che avrebbe dovuto lasciare l’antica partizione in sestieri per adottare confini e nomi ispirati a principi etico-ideologici ingenui e curiosi (grosso modo com’era avvenuto per i nuovi nomi dei mesi). Assai più importante era però il serrato processo di rivisitazione della storia di Venezia alla luce di una chiave interpretativa nuova: dalle origini a oggi si era registrato un progressivo abbandono dei principi di democrazia e di eguaglianza a favore del prevalere di pochi in uno schema rigidamente oligarchico. Tutto ciò comportava una radicale reinterpretazione della storia e organizzazione del presente con forme e modi di partecipazione democratica ispirati direttamente ai modelli francesi. Scartate le ingenuità e le forzature, si trattò però di una stagione partecipativa di grande interesse e di elaborazioni culturali estremamente vivaci e originali. L’episodio è stato studiato e proposto da chi scrive in più occasioni; si rinvia quindi al già citato G. Romanelli, Venezia Ottocento, pp. 19-27 (con segnalazioni archivistiche e rinvii bibliografici).
4. Austria e province italiane 1815-1918. Potere centrale e amministrazioni locali. Atti del convegno, a cura di Franco Valsecchi-Adam Wandruszka, Bologna 1981; Alvise Zorzi, Venezia austriaca (1798-1866), Roma-Bari 1985; soprattutto fondamentale: Michele Gottardi, L’Austria a Venezia. Società e istituzioni nella prima dominazione austriaca (1798-1806), Milano 1993; Giovanni Distefano-Giannantonio Paladini, Storia di Venezia 1797-1997, I-III, Venezia 1996-1997; Dai Dogi agli Imperatori; Venezia e l’Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999; Venezia suddita 1798-1866, a cura di Michele Gottardi, Venezia 1999.
5. Paris, Bibliotèque de l’École des Ponts et Chaussées, ms. 3110, relazione del commissario generale della Marina a Venezia «sur la situation de ce Port, ses ressources actuelles, les amélioraments dont il est susceptible […]», 27 maggio 1806. Cf. Vincenzo Marchesi, Settant’anni di storia politica di Venezia (1798-1866), Torino-Roma 1892; Eugène Tarle, Le blocus continental et le Royaume d’Italie. Le situation économique de l’Italie sous Napoléon I d’après des documents inédits, Paris 1928; Ferdinand Boyer, Les débuts du régime napoléonien à Venise, «Rassegna Storica del Risorgimento», 44, 1957, nr. 4.
6. Venezia, Biblioteca Querini Stampalia, ms. cl. IV cod. DCXI (Venezia dopo il 1797), Note e documenti varii intorno alle condizioni di Venezia nell’anno 1813.
7. Ivi, Museo Correr, ms. Cicogna 2427 II, Gaetano Pinali, Relazione ricercata da un amico assente dall’Italia (1814).
8. Annibale Alberti, Pietro Edwards e le opere d’arte tolte da Napoleone a Venezia, «Nuova Antologia», 1926, pp. 325-338; Alvise Zorzi, Venezia Scomparsa, Venezia 1972, passim; Loredana Olivato, Provvedimenti della Repubblica veneta per la salvaguardia del patrimonio pittorico nei secoli XVII e XVIII, «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», 37, 1974; Simona Rinaldi, Edwards, Pietro, in Dizionario Biografico degli Italiani, XLII, Roma 1993, pp. 296-298; Franca Lugato, Le vicende del patrimonio artistico: dispersioni e ritorni, in Dai Dogi agli Imperatori: la fine della Repubblica tra storia e mito, catalogo della mostra, a cura di Giandomenico Romanelli-Chiara Alessandri-Franca Lugato-Camillo Tonini, Milano 1997, pp. 137-141.
9. Sandra Moschini Marconi, Gallerie dell’Accademia di Venezia. Opere d’arte dei secoli XIV e XV, Roma 1955; Elena Bassi, L’Accademia di Belle Arti di Venezia nel suo Bicentenario 1750-1950, catalogo della mostra, Venezia 1950; Ead., L’Accademia, in Venezia nell’età di Canova 1780-1830, catalogo della mostra, Venezia 1978, pp. 311-314.
10. Sulla figura di Leopoldo Cicognara si rinvia alle bibliografie dei testi più sopra citati; sia consentito di aggiungere: Giandomenico Romanelli, Cicognara, Francesco Leopoldo, in Dizionario Biografico degli Italiani, XXV, Roma 1981, pp. 421-428; Id., Leopoldo Cicognara e la politica delle Belle Arti, in Giulio Carlo Argan-Giandomenico Romanelli-Giovanni Scarabello, Canova, Cicognara, Foscolo, Venezia 1979; Id., Arte di governo e governo dell’arte: Vienna a Venezia nell’Ottocento, in Venezia Vienna, a cura di Id., Milano 1983, pp. 141-186.
11. Elena Bassi, L’Accademia di Belle Arti e Leopoldo Cicognara. La sede dell’Accademia, in Venezia nell’età di Canova 1780-1830, catalogo della mostra, Venezia 1978, pp. 238-244.
12. Leopoldo Cicognara, Omaggio delle Provincie Venete alla Maestà di Carolina Augusta Imperatrice d’Austria, Venezia-Alvisopoli 1818; Vittorio Malamani, Memorie del Conte Leopoldo Cicognara, II, Venezia 1888, pp. 169 ss.; Giuseppe Pavanello, nrr. 334-335, in Venezia nell’età di Canova 1780-1830, catalogo della mostra, Venezia 1978, pp. 247-248.
13. La testimonianza culturalmente forse più significativa dell’attenzione e della consapevolezza storica e critica verso la città e i suoi monumenti è costituita dalla monumentale pubblicazione nata e gestita all’interno dell’Accademia di Belle Arti per la regia di Cicognara: Leopoldo Cicognara-Antonio Diedo-Giannantonio Selva, Le Fabbriche più cospicue di Venezia misurate, illustrate ed intagliate dai membri della Veneta Reale Accademia di Belle Arti, I-II, Venezia 1815-1820.
14. Sulla nascita e sullo sviluppo del sistema museale civico sin dal lascito di Teodoro Correr, v. Una città e il suo Museo. Un secolo e mezzo di collezioni civiche veneziane, catalogo della mostra, Venezia 1988.
15. Pagine importanti su tali tematiche si devono a Mario Isnenghi, La cultura, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 381-482; e Id., Fine della Storia?, in Venezia. Itinerari per la storia della città, a cura di Stefano Gasparri-Giovanni Levi-Pierandrea Moro, Bologna 1997, pp. 405-436.
16. Su Santi — oltre alla bibliografia di cui alle note precedenti — v. Eva R. Rowedder Lehni, Studien zu Lorenzo Santi (1783-1839), Venezia 1983.
17. Laura Facchinelli, Il ponte ferroviario in Laguna, Venezia 1988.
18. Su tutto questo periodo del medio Ottocento e sulle figure d’architetti, d’ingegneri e d’artisti che operarono alacremente all’aggiornamento del volto della città, si rinvia ai capp. III e IV di G. Romanelli, Venezia Ottocento, che a essi sono espressamente dedicati.
19. V. Le Venezie possibili. Da Palladio a Le Corbusier, catalogo della mostra, a cura di Lionello Puppi-Giandomenico Romanelli, Milano 1985.
20. Utile Venezia città industriale, catalogo della mostra, Venezia 1980.
21. V. G. Bellavitis-G. Romanelli, Venezia, cap. 12.
22. Edilizia popolare a Venezia, a cura di Elia Barbiani, Milano 1983; Venezia Nuova. La politica della casa. 1893-1941, catalogo della mostra, a cura di Paola Somma, Venezia 1983.
23. Anna Giubertoni, Venezia nella letteratura austriaca moderna, in Venezia Vienna, a cura di Giandomenico Romanelli, Milano 1983, pp. 105-126.