Venezia nella Grande guerra
Non è più lo spettacolo di una crisi, è l'immagine di una rovina. […] Laboratori chiusi; cantieri agonizzanti; negozi mantenuti in esercizio per rispetto delle apparenze; banchine presso che inerti; operai disoccupati a centinaia per ogni categoria; circa diciottomila persone che vivono a cinque soldi il dì (quasi un ottavo della popolazione!), senza contare i molti lavoratori che possono dare poco alle loro famiglie; numerosi i precetti di sloggio; le case oramai sguarnite di oggetti, anche i più umili, da portare al Monte di pietà; una diffusa tristezza; una crescente sfiducia; un sordo brusio di voci irose contro l'iniquità della sorte, di cui è fatta responsabile l'opera degli uomini: questo lo stato economico e morale della città di Venezia al principio della stagione, che è pur sempre priva di risorse, e perciò di difese, e che impone i disagi peggiori(1).
Così Filippo Grimani, sindaco di Venezia, scriveva nel novembre 1914 in una relazione al governo sulla situazione della città. Le principali attività economiche: il traffico portuale, "l'industria del forestiero" e le produzioni artistiche, in poche settimane dall'inizio delle ostilità in Europa, avevano subito un contraccolpo gravissimo. Al declino del movimento commerciale si aggiunsero le limitazioni alla libera circolazione marittima e all'esercizio della pesca(2). Il pericolo delle mine vaganti tenne lontane le navi dalle coste adriatiche e gran parte del movimento di merci fu dirottato verso il porto di Genova.
In poco più di due mesi il tonnellaggio delle merci sbarcate si ridusse del 75% causando la disoccupazione di oltre 1.500 scaricatori. Nell'ultimo quadrimestre del 1914 l'importazione di carboni si ridusse del 58,7%, quella dei cereali del 97,3%, quella dei fosfati del 77,7%(3). Dopo una leggera ripresa nei primi mesi del 1915, con l'entrata in guerra dell'Italia l'attività portuale cessò completamente per riprendere solo nelle ultime settimane del 1918, a guerra conclusa. Fu la più grave crisi che colpì la città dall'epoca dell'annessione.
Chiuso assolutamente il porto alla navigazione commerciale, tagliata fuori la città dal movimento degli eserciti, privata dell'industria dei forestieri, sottoposta alle più dure norme di guerra, Venezia dal maggio 1914 a tutto il 1918 rimase, si può dire, avulsa dalla vita economica della Nazione(4).
Poiché il porto di Venezia era soprattutto un porto di importazione, la drastica diminuzione delle navi in arrivo paralizzò l'industria cittadina. Il crollo del movimento commerciale ebbe immediate ripercussioni sulle ditte di trasporti e quello del carbone compromise le produzioni chimiche, della calce e del cemento e delle vetrerie.
La crisi inoltre condusse alla sospensione dei lavori di costruzione di case economiche e popolari alla Giudecca; infatti la Cassa di Risparmio, finanziatrice delle opere, decise di rimandarle "a tempi migliori", allontanando così la prospettiva di un miglioramento della situazione abitativa e sanitaria della città. Sempre alla Giudecca chiuse la propria attività per non riprenderla più la Fabbrica italiana cementi che occupava circa 250 operai.
Da un questionario diffuso nel mese di agosto dalla Camera di commercio alle strutture alberghiere ed agli stabilimenti industriali al fine di valutare le ripercussioni della guerra sulle attività economiche, risultò che in maggioranza le imprese avevano dovuto ridurre l'orario di lavoro dei propri dipendenti. Le previsioni più pessimistiche vennero avanzate dalle industrie artistiche: le più importanti vetrerie, le conterie e le cristallerie, i laboratori di stoffe pregiate e di merletti prevedevano di chiudere i propri stabilimenti entro poche settimane; all'inizio di settembre gli alberghi avevano già licenziato il 78,6% degli addetti.
Le condizioni di vita delle classi popolari, che già negli anni precedenti il conflitto si erano andate progressivamente aggravando, divennero drammatiche.
Oltre all'Arsenale, ai cantieri e agli stabilimenti meccanici, che al 1911 contavano circa 6.000 addetti, al Cotonificio (901 addetti), alla Manifattura Tabacchi (1.073 addetti), alla ditta Baschiera produttrice di fiammiferi (543 addetti) e al porto, le possibilità occupazionali in città erano rappresentate dai mestieri artigiani (circa 2.000 addetti), dalla lavorazione del vetro (1.490 addetti) e dei merletti (571 operaie) e dai mille mestieri legati alle attività turistiche e commerciali, una popolazione marginale in continua crescita(5).
Ambulanti, venditori di generi alimentari, commercianti e mediatori improvvisati, trasportatori, facchini, pescatori, contrabbandieri, ecc. cercavano di appropriarsi di una quota del reddito che la città turistica e le concentrazioni residenziali consentivano di erogare(6).
Stagionalità del lavoro, basse remunerazioni salariali, elevatissimo livello degli affitti e dei prezzi dei generi di prima necessità obbligavano gran parte della popolazione a vivere in condizioni di estrema povertà in abitazioni malsane, sovraffollate, spesso composte da un solo locale oltre alla cucina(7). In tali condizioni di precarietà era sufficiente una piccola perturbazione del mercato del lavoro per far precipitare migliaia di famiglie nell'indigenza.
Mentre i portuali si riunivano per affrontare la nuova situazione e la disoccupazione si estendeva ad altre categorie di lavoratori, giunsero in città le prime ondate dei rimpatriati dall'Austria e dalla Germania. Sbarcati a Trieste, molti furono inviati a Venezia in attesa di essere avviati ai paesi d'origine. La loro disperazione, la cronaca riportò anche un caso di suicidio, aumentava il senso di incertezza e di angoscia(8).
Per far fronte al problema della disoccupazione il 15 agosto fu istituito il Comitato pro richiamati, disoccupati ed emigranti, presieduto da Antonio Fradeletto, che operò in stretto contatto con la giunta e una commissione municipale(9). Una delle prime iniziative del Comitato fu l'istituzione dei Laboratori municipali veneziani. In locali e con macchine da cucire concessi dal Comune, Maria Pezzè Pascolato(10) avviò la sezione di "lavori femminili, ricami e trine" per operaie disoccupate, ottenne commesse dalla sartoria del distretto militare e distribuì gran parte delle lavorazioni a domicilio(11).
L'amministrazione comunale provvide anche alla distribuzione giornaliera di buoni per i generi alimentari di prima necessità. In un primo momento l'importo del sussidio fu fissato con una certa larghezza: la convinzione che il conflitto non sarebbe durato a lungo e la volontà di ottenere consensi con una manifesta generosità avevano indotto la giunta a stabilire un sussidio giornaliero di 3 lire, in seguito ridotto a lire 1,30 per nucleo familiare, indipendentemente dal numero dei componenti(12). Quando, il 1° settembre, i buoni vennero sostituiti con il sistema più parsimonioso delle "cucine economiche", il malcontento popolare esplose violento: "vogliamo lavoro e non l'elemosina"; recarsi alle cucine economiche, spesso assai distanti dalle abitazioni, era gravoso; rinunciare alla riservatezza della propria casa e mescolarsi a straccioni e vagabondi era umiliante. E tali umiliazioni erano l'ultimo anello di una lunga catena di sventure che si erano abbattute in pochi giorni sulla popolazione: l'aver perduto la possibilità di una vita decorosa, la necessità di appellarsi alla beneficenza, il dover subire l'atteggiamento inquisitorio da parte dei vigili incaricati delle verifiche dello stato di indigenza.
L'amministrazione comunale riteneva indispensabile ricorrere ai sussidi per evitare tumulti, ma li elargiva nella convinzione di far opera diseducativa; la beneficenza, si affermava, avrebbe finito per "conservare e accarezzare il disagio dei disoccupati"; essi avrebbero smarrito il senso della responsabilità civica e morale e la carità sarebbe stata considerata un diritto. In alcune categorie di lavoratori come i gondolieri e i facchini di stazio il Comitato non vedeva che degli avidi e dei fannulloni.
Questa disposizione d'animo, che traspare in tutte le relazioni quindicinali al sindaco, si rifletteva in un atteggiamento di sospetto e di diffidenza nei confronti di coloro che si rivolgevano all'assistenza pubblica e alimentava l'esasperazione.
Il 1° settembre il malcontento esplose di fronte a palazzo Diedo a S. Fosca; al momento della distribuzione dei buoni-pasto, i disoccupati raccolsero i libretti, se ne riempirono le tasche, li strapparono, li gettarono, in parte li restituirono(13), poi si diressero in corteo verso Rialto percorrendo le vie centrali della città. Il giorno successivo una nuova e più violenta dimostrazione di protesta si svolse di fronte al Municipio per iniziativa delle donne provenienti dai quartieri poveri della città. Quando i vigili diedero mano alle pompe per disperdere la manifestazione, i dimostranti aggredirono le guardie scagliandole in acqua(14).
Nei giorni successivi i buoni per i generi alimentari vennero ripristinati, ma in misura ridotta, e vennero istituite sei classi in base alla composizione del nucleo familiare. Ad una famiglia composta di quattro persone spettava un sussidio di sole lire 1,20. Il primo giorno di applicazione del nuovo sistema "ci fu un tentativo di violente proteste", poi i reclami cessarono e anche dalle pagine del settimanale socialista giunsero appelli alla calma, esortazioni a rifuggire dalle "proteste smodate"(15). Ma il malcontento permaneva ed era profondo; il numero dei senza lavoro infatti cresceva di giorno in giorno. I capifamiglia cui era stato concesso il buono erano circa 3.300; non meno di 12.000 persone quindi dovevano fare affidamento sulla beneficenza pubblica. Vi erano poi tutti coloro che lavoravano a orario ridotto, i soci delle cooperative dei lavoratori portuali che potevano ancora contare su un contributo di 25 lire alla settimana tratto dai propri fondi sociali e infine gli artigiani, gli addetti al turismo e alle attività ad esso collegate(16). Alla fine di settembre gli iscritti all'Ufficio municipale del lavoro annesso al Comitato erano saliti a 4.909; il 17 ottobre a 5.606. Quando i lavoratori del porto manifestarono l'intenzione di convocare a Venezia un grande comizio di tutti i lavoratori dei porti dell'Adriatico, il problema di Venezia e della sua economia ebbe immediatamente una risonanza nazionale. Girolamo Marcello(17) ai primi di ottobre così scrisse a Salandra:
Ho fatto una corsa a Venezia e ne sono ritornato questa mane assai sconfortato perché la situazione vi è di una gravità veramente impressionante a cagione della disoccupazione. Il porto vi è deserto. Anche i vapori destinati ed annunciati per Venezia non vi approdano. […] La classe operaia è assai eccitata a Venezia […]. Gli scaricatori del porto non possono essere impiegati altrimenti ed altrove. Gli avventizi con altri disoccupati, tra i quali non mancano certamente quelli che abusano della beneficenza, gravano sul bilancio comunale per lire 3.000 al giorno per somministrazioni di buoni per viveri. Il comune a sue spese dà lavoro a circa 1.000 persone. Ma gli stivatori e scaricatori organizzati in cooperative vivono dei loro fondi di riserva e si ribellano alla beneficenza. Sinora hanno consumato la metà delle loro riserve. Ti puoi ben figurare come il falcidiare questo loro patrimonio, sul quale riposavano, sia per loro ostico e preoccupante. E quando sarà finito?
Girolamo Marcello pregava quindi il presidente del Consiglio di usare tutta la sua autorità perché a Venezia fosse inviato il maggior numero possibile di piroscafi(18). In attesa dei provvedimenti che contava di ottenere dal governo, Marcello strappò ai lavoratori del porto l'impegno a sospendere la convocazione del comizio. Non era ancora trascorso il mese di ottobre che i soci della cooperativa portabagagli e di quella dei ferrovieri marittimi esaurirono le loro riserve e chiesero il sussidio pubblico. "Anche i migliori non hanno più modo di aiutarsi da sé", annotava con sconforto il vicepresidente del Comitato ai primi di novembre ed alla metà del mese i disoccupati iscritti erano saliti a 6.656(19). Una "fiumana" che aveva "aperto ormai una breccia nella diga delle resistenze" del Comitato. Da quel momento anche coloro che vivevano di turismo non poterono più essere esclusi dal sussidio.
Furono i gondolieri a dare il primo colpo decisivo: dopo di essi vennero i portabagagli, i facchini di stazio, gli scaricatori cooperatori del porto, le guide(20).
Mentre nel complesso dopo i primi mesi di guerra l'economia italiana "aveva trovato un certo assestamento"(21), a Venezia la situazione si andava aggravando di giorno in giorno e con essa le preoccupazioni delle autorità cittadine per l'ordine pubblico. Da novembre a gennaio il lieve aumento del movimento portuale portò qualche sollievo alla disoccupazione e fu anche possibile riassorbirne una modesta quota grazie ai lavori pubblici avviati dal Comune. Si trattava di opere di straordinaria manutenzione: lavori stradali, introduzione di impianti elettrici e di riscaldamento nelle scuole, costruzione di ponti e scavo di rii. I lavori di maggiore importanza erano costituiti dalla costruzione della strada tra le Quattro Fontane e Malamocco al Lido e dalla edificazione di una scuola a S. Girolamo. Nel complesso questi lavori comportarono l'occupazione temporanea di non più di 1.000 operai(22). Era ben poca cosa ed i socialisti in consiglio comunale e sul loro organo "Il Secolo Nuovo" non cessarono di criticare la "politica dell'elemosina" e la modestia dell'impegno comunale nei lavori pubblici insistendo per la realizzazione di opere di ben più vasto respiro quali la costruzione di case economiche e popolari all'isola di S. Elena e di un ponte di collegamento con la terraferma(23).
Intanto il prezzo del grano da luglio a dicembre era aumentato del 44% e quello del mais del 37,5%(24); il prezzo del pane a novembre raggiunse le 56 lire il kg, uno dei valori più elevati d'Italia. I consumi di conseguenza subirono una brusca contrazione raggiungendo il livello più basso nel maggio-giugno 1915: il lardo e la carne macellata fresca ebbero le diminuzioni maggiori (73% e 75% in meno nel giugno 1915 rispetto a luglio 1914); la carne di castrato, di ampio consumo popolare, quasi scomparve dal mercato(25).
Alla fine di novembre una delegazione composta dai deputati veneziani e dal sindaco si recò a Roma a sollecitare finanziamenti e opere pubbliche. Nessun provvedimento di ampio respiro fu preso per la città, gli impegni assunti dal governo (esecuzione di lavori pubblici a carico dello Stato, concessioni di mutui al Comune per l'esecuzione di lavori di pubblica utilità, premi di navigazione per l'Adriatico) rimasero lettera morta e i noli marittimi per Venezia in confronto a quelli dei porti tirrenici si mantennero estremamente elevati(26).
All'inizio del marzo 1915, dopo sette mesi dallo scoppio del conflitto in Europa, il sindaco annunciò al consiglio il fallimento delle sue numerose missioni a Roma; le finanze comunali erano ormai sull'orlo del completo dissesto. Anche i lavori di collegamento della laguna al Po in vista della realizzazione della linea di navigazione interna Milano-Venezia rimanevano bloccati a causa di ritardi e lentezze burocratiche.
Ora io devo dichiarare che il Comune non ha più i mezzi per far fronte alla somministrazione dei buoni alimentari. Questi mezzi noi li abbiamo chiesti al Governo […]. Ma il Governo ci ha esplicitamente dichiarato che non può, coi mezzi di legge di cui può disporre, sovvenire le casse del Comune di Venezia, mediante un contributo diretto, e che d'altronde non intendeva fare una legge speciale per Venezia, perché ciò avrebbe creato un precedente pericoloso.
In quanto ai lavori chiesti al Governo, bisogna concludere che ben poco è stato dato a Venezia - ben poco di quel che avrebbe potuto essere eseguito in base ai progetti che noi sapevamo esistenti - e si può dire che tranne un idro-scaricatore, alcune bette, alcuni cassoni per il trasporto d'acqua, e qualche lavoro in Arsenale, niente altro noi abbiamo avuto(27).
La spesa per i buoni aveva raggiunto le 5.000 lire giornaliere, un importo assai più elevato di quello di altre importanti città; a Torino infatti - affermò Musatti - il Comune poté limitare l'ammontare dei sussidi con il ricorso alle "cucine popolari", a Milano i buoni alimentari non superarono mai le 3.500 lire giornaliere e già a partire dal febbraio 1915 il miglioramento della situazione economica aveva permesso all'amministrazione comunale la sospensione dell'erogazione dei sussidi. Se gli stabilimenti del triangolo industriale avevano potuto trarre vantaggio dalle commesse statali, la struttura produttiva veneziana sembrava destinata a rimanere depressa.
Nel febbraio il Comitato pro disoccupati aveva previsto l'imminente crollo dell'assistenza pubblica.
I più credono che la riduzione dei sussidi non basti a puntellare la situazione, tanto più che si intravedono segni di spiriti torbidi.
E la situazione è grave.
[…] Le difficoltà fanno palla di neve e la valanga è in marcia. Non la può trattenere che o un sacco di quattrini, oppure una resistenza la quale è possibile soltanto al Governo. La questione è tutta politica e finanziaria e non la si può risolvere ormai con un lavoro di più o di meno. Per qualche giorno ancora non è irreparabile, ma se il Governo non avrà il coraggio ed il buon volere di affrontarla in pieno e nel suo vero terreno, questo nostro dolore cittadino travolgerà prima gli uomini che ci sono più cari e poi imporrà ugualmente - ma troppo tardi per un utile effetto - spese, preoccupazioni, dolori […](28).
Pochi giorni dopo l'onorevole Marcello riportava tali preoccupazioni al presidente del Consiglio. Le autorità locali e il Comitato pro disoccupati, scriveva il 14 febbraio, sono "sfiduciati, si sentono abbandonati dal governo ed hanno un po' perso la testa".
Mentre la massa operaia profitta dei buoni alimentari, ma poi grida contro l'immoralità del metodo e chiede a gran voce una massa di lavori che diminuiscano la disoccupazione salvo scendere in piazza e protesta intanto contro le autorità cittadine che non sanno fare, chiedere e insistere, anche fra le classi borghesi si va diffondendo forte il convincimento che senza tumulti nulla potrà ottenersi e che solo Musatti sarà capace di attirare l'attenzione fattiva dei poteri centrali.
Per non favorire il partito socialista era quindi necessario, concludeva Marcello, prendere provvedimenti prima che si verificassero altri e più gravi tumulti(29). Ma la situazione stava ormai precipitando. L'ultimo giorno di febbraio gli scaricatori del porto si riunirono in assemblea; nell'ordine del giorno approvato essi affermavano che il tempo delle "proteste platoniche" e delle "agitazioni verbali" era ormai finito e tuttavia annunciavano di attendere "ancora una volta prima di scendere in piazza per chiedere quel che è necessario: pane e lavoro, la decisione delle autorità costituite"(30).
La protesta popolare dal settembre del 1914 non si era più manifestata in forme collettive; isolati scoppi di rabbia si erano talvolta verificati al momento della riscossione dei buoni, che costituivano sempre occasioni di grande tensione. Il fatto più grave era avvenuto nel gennaio 1915 a S. Girolamo, dove un vigile urbano era stato aggredito da un disoccupato armato di coltello(31). Alla fine di febbraio la disoccupazione in città aveva raggiunto le 10.000 unità e i buoni distribuiti erano solo 4.800. Quando, ai primi di marzo, anche i fornai, gli scalpellini, gli ebanisti, i mosaicisti si appellarono all'assistenza pubblica, fu annunciata la sospensione dei buoni.
La reazione popolare non si fece attendere. La scintilla dei tumulti che si susseguirono per alcuni giorni si accese il 15 marzo in campo S. Luca presso un negozio di frutta e verdura a causa del prezzo elevato delle cipolle. La protesta si protrasse per tutta la giornata e si trasferì alla vicina sede del Municipio dove alcune donne presentarono un memoriale in cui si chiedeva il calmiere e il ribasso degli affitti. Il giorno successivo, il 16 marzo, una cinquantina di donne tornò a Ca' Farsetti per ottenere risposta; il rifiuto del sindaco di riceverle riaccese la protesta: al grido di "abbasso la guerra, abbasso i signori" le manifestanti si diressero in piazza S. Marco, attraversarono le Mercerie e percorsero tutto il centro cittadino: tavoli e sedie rovesciate, vetrine di negozi e caffè in frantumi. Il 18 marzo tra la folla che gremiva calle del Carbon, presso il Municipio, comparvero numerosi i ragazzi, i giovani operai, i disoccupati, i facchini. Ad una delegazione Filippo Grimani espose le decisioni della giunta: istituire un calmiere era impossibile, "avrebbe inasprito ulteriormente i bottegai", nulla si poteva fare per ottenere un ribasso degli affitti o una proroga nei pagamenti; ciò che il Comune poteva garantire si limitava ad un lieve ribasso del prezzo della legna e al tentativo di persuadere i macellai a non aumentare il prezzo della carne per una settimana.
Il 18 e 19 marzo le dimostrazioni di protesta investirono l'intera città; il 18 le voci che si levavano dal corteo incitavano i manifestanti a recarsi al Cotonificio e alla Manifattura Tabacchi; e mentre al Cotonificio le dimostranti ottenevano la chiusura dello stabilimento e l'uscita delle operaie, a Castello la folla tentava di assaltare la caserma impegnandosi in duri scontri con la forza pubblica.
Anche ieri Venezia non era più Venezia, la città calma e sicura, ma pareva divenuta un campo di scorrerie, di donne, uomini e ragazzi e carabinieri e guardie e soldati rincorrentisi, azzuffantisi, urlanti, i negozi chiusi, dovunque si poteva credere che passassero baraonde; e guardie e soldati colpiti da sassi […] e da coltelli(32).
I tumulti che si verificarono nell'agosto 1914 e nella primavera del 1915(33) erano stati tra i più violenti di quelli segnalati alla Direzione generale di pubblica sicurezza. I protagonisti più accesi furono i giovani: "fanciulli" secondo la cronaca del "Gazzettino", "giovinastri" secondo quella della "Gazzetta di Venezia". Giovanissima la ragazza che il primo giorno in campo S. Luca propose di incendiare il negozio di frutta e verdura, giovani le donne che furono udite "arringare la folla" a piazza S. Marco. Gli imputati che comparvero di fronte ai giudici del tribunale della città per insulti e aggressioni, tranne una donna di 43 anni, erano tutti giovani e adolescenti.
La violenza della protesta popolare non era giunta inaspettata ai socialisti; pochi giorni prima dei tumulti sul "Secolo Nuovo" si poteva leggere che "nel sottosuolo sociale, tra le categorie più squalificate e meno organizzate, covava la ribellione"(34). All'esasperazione tuttavia il partito non seppe dare sbocchi concreti ed evitò "accuratamente di indirizzare la protesta popolare verso obiettivi di resistenza attiva"(35). Nella imponente riunione che si tenne il 19 marzo alla Camera del lavoro il segretario Giuseppe Bianchi sottolineò l'estraneità del movimento operaio ai disordini, deprecò la violenza, invitò gli intervenuti ad affidarsi alla organizzazione dei lavoratori mantenendo un "contegno calmo e sereno". Alla giunta la Camera del lavoro presentò un memoriale in cui si ribadivano le proposte per risolvere la crisi cittadina che il partito socialista aveva avanzato in consiglio comunale nei mesi precedenti: la riattivazione della navigazione e l'esecuzione di un vasto piano di opere pubbliche.
Una tale condotta contrastava con i toni del giornale socialista nei giorni precedenti quando "Il Secolo Nuovo" aveva minacciosamente previsto "una di quelle esplicazioni di energia che altre volte, in circostanze meno gravi delle attuali, il popolo ha saputo dare, facendo allibire gli uomini delle sfere dirigenti"(36). Consapevoli dello stato d'animo della popolazione, i socialisti avevano agitato lo spauracchio dei tumulti per dimostrare l'impotenza della giunta, ma nella convinzione profonda che non vi fosse "nessuna efficienza rivoluzionaria e socialista nelle esplosioni della fame" e nel timore che un'insurrezione potesse offrire una motivazione in più all'interventismo(37).
Quando la rabbia popolare esplose, il partito fu pronto a sconfessarla. Nelle donne, nei disoccupati, nei ragazzi che avevano assunto l'iniziativa della protesta essi vedevano soltanto "una folla anonima, caotica, sparuta, disorganizzata […] scesa nelle contrade ad urlare che ha fame e che non è giusto che abbia fame e che non possa sfamarsi"(38). Nella visione 'classista' del socialismo veneziano che aveva la sua roccaforte negli operai qualificati dell'Arsenale, non vi era spazio alcuno per "le popolane" e i "fanciulli" che avevano invaso la città.
Siamo di fronte a movimenti irriflessivi, senza una direttiva, di cui la causa è altrettanto chiara e precisa quanto impreciso e incerto è lo scopo. […] Si grida disperatamente contro i passanti; si invocano provvedimenti per far ribassare il prezzo del pane e della polenta; non si vogliono più pagare gli affitti, perché non si lavora, non si guadagna: non ci sono più soldi, non c'è più possibilità di occupazione. Cercate di avvicinare, tra la folla tumultuante, le donne che più vi appariscono esasperate, quelle che urlano più disperatamente, ostinatamente, interrogatele e se vi è possibile toglier loro quella diffidenza istintiva che la povera gente che langue nel dolore e nella miseria prova verso chi diversamente vive e veste, non durereste fatica a convincervi che giù per le calli e i campi del centro verso Piazza San Marco, sino a Cà Farsetti e poi alla Casa del Popolo, è l'impulso irresistibile di un malcontento che silenziosamente covava negli umili e tristi abituri assiderati dall'inverno(39).
Eppure nel loro memoriale le donne di Castello avevano avanzato la richiesta del calmiere, la cui necessità era stata con insistenza richiamata dai rappresentanti del partito in consiglio comunale. Molte di quelle donne che nelle cronache dei giornali vengono definite "popolane" erano operaie che lavoravano a domicilio come perlaie o merlettaie e che, pur avendo perduto il lavoro, erano state escluse dall'assistenza non essendo capifamiglia. Erano le madri e le sorelle delle operaie del Cotonificio e della Manifattura Tabacchi ed avevano cercato la loro solidarietà.
Le manifestazioni più incontrollate di rabbia, gli assalti a forni, magazzini e negozi, si verificarono soprattutto a Mestre. A Venezia la stampa si sofferma su un solo episodio avvenuto il 22 marzo quando alcune donne, escluse dai buoni settimanali che si stavano distribuendo a S. Rocco, entrarono in un panificio in calle dei Saoneri, dove il padrone intimorito distribuì loro il pane(40).
La consapevolezza che le condizioni di estrema miseria erano causate dalla guerra diede alle dimostrazioni di quei giorni una precisa connotazione politica, dimostrava che era possibile una vasta mobilitazione contro l'intervento e che le chiassose e insistenti manifestazioni dei nazionalisti dei giorni precedenti avevano suscitato l'insofferenza delle classi popolari. Di fronte a Ca' Farsetti, riporta "Il Gazzettino" il 19 marzo, quando una giovane donna fu udita affermare che se fosse scoppiata la guerra "si sarebbe stati un po' meglio", le dimostranti reagirono con violenza: "bisogna urlare abbasso la guerra, o se no, mandare a combatter soltanto i signori"(41).
L'incapacità di guidare la protesta aveva compromesso l'autorità morale del partito tra le classi popolari della città e indebolito la sua posizione neutralista. È significativo infatti che dopo la conclusione dei tumulti di marzo le pagine del giornale socialista siano pervase da un senso di rassegnazione e di attendismo. Il disorientamento sul tema della guerra e della pace, che già dall'agosto 1914 aveva invaso il partito, si era fatto più esplicito. Aveva ammesso Elia Musatti pochi giorni dopo lo scoppio del conflitto in Europa:
Mentre l'incendio terribile divampa tragicamente noi socialisti cerchiamo noi stessi. Non neghiamo di essere rimasti confusi e smarriti: non neghiamo che nel tumulto dei sentimenti e nel succedersi fulmineo delle più svariate impressioni, ci siamo di continuo interrogati e ci siamo risposti contraddittoriamente, ma di già - vorremo quasi dire purtroppo - siamo assuefatti all'idea e alla vita ideologica di guerra(42).
Musatti continuava affermando che i socialisti avrebbero dovuto essere pronti a difendere "l'integrità e la libertà dell'Italia" e non mancarono posizioni decisamente interventiste come quelle di Eugenio Florian, rappresentante del partito in consiglio comunale, e di Cesare Longobardi(43). Già a partire dalla fine di ottobre 1914, quando la direzione del giornale passò da Serrati a Bianchi, riformista vicino a Turati, grande attenzione fu dedicata all'atteggiamento dei partiti socialisti europei che avevano votato i crediti di guerra e si intensificarono anche le polemiche con i giovani socialisti a causa del loro acceso antimilitarismo. Nel dibattito interno al socialismo veneziano affiorarono in quei mesi tutti i nodi insoluti della riflessione socialista dei decenni precedenti: la rilevanza del principio di nazionalità per la classe operaia, la legittimità della guerra di difesa, il tema della guerra come evento portatore di progresso e di mutamenti rivoluzionari.
In caso d'invasione, noi come socialisti ci troveremmo di fronte ad una forma di sopraffazione, contro la quale istintiva, più che tendenziale sarebbe la ribellione […]. Ecco che allora la difesa del territorio della patria più borghese e scellerata che immaginare si possa, si riduce ad un fatto istintivo contro il quale non giova dissertare(44).
Negli ultimi mesi di neutralità l'azione del partito contro la guerra si limitò alla denuncia morale, alle affermazioni generiche di pacifismo e a poco a poco "preparò i militanti ad accettare ciò che a tutti appariva come inevitabile"(45). Incapaci di offrire una prospettiva al profondo disagio della popolazione, travolti dalla violenza degli interventisti, pervasi dal senso di impotenza, divisi al loro interno, i socialisti si avviarono verso quell'atteggiamento di 'concordia attiva' che li avrebbe guidati durante il conflitto. Dopo pochi giorni dall'ingresso dell'Italia in guerra la Camera del lavoro sospese l'attività sindacale per concorrere all'assistenza civile; il 29 maggio, congedandosi dai lettori, "Il Secolo Nuovo" annunciava che i consiglieri comunali Baccaglini, Musatti, Florian e Vanni si erano messi a disposizione dell'amministrazione comunale(46).
Se sul tema della pace e della guerra all'interno del partito socialista nel periodo della neutralità erano emerse incertezze e fratture, non così sul tema dello sviluppo economico della città. I socialisti infatti rimasero sempre fedeli alla propria visione industrialista ed accentuarono i toni della polemica nei confronti della giunta per aver favorito l'industria del forestiero anziché "quella dell'espansione della città verso la terraferma", dello sviluppo industriale e dei traffici(47).
Le violente ripercussioni della guerra europea sull'economia veneziana fin dalle prime settimane di agosto avevano inasprito il dibattito sul destino di Venezia e approfondito il contrasto tra le forze politiche rappresentate in consiglio comunale. L'avvenire della città fu oggetto di un serrato confronto sulle pagine della stampa cittadina. Mentre la giunta rimaneva fedele al modello neoinsulare, i socialisti chiedevano un immediato collegamento con la terraferma; Venezia era stata tanto profondamente esposta alla crisi internazionale per "le speciali condizioni create all'economia cittadina dal preponderante sviluppo dell'industria del forestiero".
L'industria del forestiero, se non esclusiva, è la principale fonte di guadagno della città, assorbendo le migliori energie della cittadinanza con una pseudo industria, da cui dilaga l'immoralità per tutta la città(48).
Occorreva quindi agire - continuava Elia Musatti - senza perdere di vista l'avvenire di Venezia, indirizzando la città "verso nuove attività e a nuove risorse e a vita più degna", in primo luogo la costruzione di un ponte di collegamento con la terraferma e la colonizzazione dell'isola di S. Elena. Dopo undici anni era riemersa la questione del ponte translagunare che era stata dibattuta in città all'inizio del secolo; il primo a sollevarla fu il partito socialista per voce di Cesare Longobardi al consiglio provinciale il 9 dicembre 1914. Anche il progetto di un ampliamento del porto e del suo trasferimento in terraferma, necessario allo sviluppo industriale della città, risaliva agli inizi del secolo. Dopo molti anni il tema era tornato al centro del dibattito politico e se il ponte translagunare sarà realizzato solo vent'anni più tardi, il progetto del nuovo porto industriale ai Bottenighi, una zona barenosa ai margini della laguna, sarà approvato proprio durante il conflitto.
I socialisti erano convinti che l'avvio del processo di industrializzazione in terraferma avrebbe contribuito ad alleviare immediatamente la disoccupazione del centro storico. Qualche giorno dopo la discussione in consiglio comunale "Il Secolo Nuovo" riprendeva il tema dell'industrializzazione di Venezia illustrando le motivazioni teoriche della scelta socialista:
Meglio che i proletari veneziani vivano nelle fasi capitalistiche marxistiche, mantenendo col plus valore la classe dirigente, che farsi mantenere da questa. […] Meglio lo sfruttamento della fabbrica, che la vergogna dolciastra di un accattonaggio larvato. I socialisti non dimenticano neppure in questa città piena di malie storiche ed estetiche l'assurdità del lamento carducciano, e perciò piccolo borghese: 'solo nel passato è il bello'. Industrializzare Venezia significa per essi iniziare una nuova epoca. Più forze di produzione il capitalismo evoca, più forze di ribellione intorno a sé suscita e prepara. Quando a Venezia le ciminiere contenderanno la gloria del cielo alle cupole e ai campanili, e lo stridore delle sirene interromperà i silenzi inerti della laguna, il socialismo avrà anche qui il suo più vero cominciamento(49).
"O con il ponte o coi Bottenighi Venezia deve essere industrializzata", affermava Cincali, autore dell'articolo.
Sulla critica all'industria del forestiero i socialisti concordavano con i nazionalisti i quali coltivavano l'idea di una "grande Venezia" dotata di grandi opifici meccanici e di cantieri navali, una Venezia ancora una volta dominatrice dell'Adriatico. Nella visione industrialista e imperialista dei nazionalisti la vulnerabilità dell'economia veneziana aveva dimostrato la necessità dell'espansione italiana nei Balcani. Afferma Piero Foscari, futuro ministro delle Colonie, il 12 ottobre 1914:
Noi saremo sempre nella impossibilità di provvedere ai nostri interessi finché dalla parte di terra avremo la minaccia di una aggressione. […] Una piccola marina, sia essa serba, montenegrina od albanese, minaccerà sempre le nostre coste se noi non risolveremo il problema dell'Adriatico come, attraverso due millenni, è stato sempre risolto(50).
Sede del secondo porto d'Italia, Venezia doveva diventare la seconda città dell'Italia settentrionale, avviandosi "verso forme più virili di attività e ricchezza"(51).
Vogliamo meno camerieri e più manovali; meno alberghi e più cantieri; meno battitori e più marinai; meno Luna Park e più sole, su la faccia di Venezia tra terra e mare(52).
Il progetto del porto industriale e i disegni espansionisti nei Balcani dell'imprenditoria veneziana, rappresentata da Piero Foscari e Giuseppe Volpi, davano al nazionalismo interventista veneziano una connotazione particolarmente aggressiva. Nei dieci anni che precedettero il conflitto si erano affacciati sulla scena economica veneziana nuovi gruppi industriali e finanziari strettamente legati alla finanza i cui interventi più significativi si erano rivolti all'area balcanica(53). Mentre la Camera di commercio, i proprietari di immobili, i commercianti, i gestori di alberghi erano orientati verso la neutralità, i nuovi gruppi industriali si schierarono per l'intervento a fianco dell'Intesa.
Fin dall'agosto 1914 inoltre Venezia divenne il centro di gravitazione dell'emigrazione adriatica che si organizzò nella Trento-Trieste, presieduta da Giovanni Giuriati(54). Un ulteriore elemento di forza del nazionalismo veneziano era rappresentato dalla possibilità di disporre di un proprio organo di informazione, "Il Dovere Nazionale", che uscì regolarmente dal maggio 1914 al gennaio 1915. Il giornale, diretto da Alfredo Rocco, era la seconda voce del nazionalismo italiano.
La visione espansionista dei nazionalisti fu ben presto fatta propria dai democratici. Mentre infatti i liberali e i cattolici furono "lenti nel rinnegare la tradizionale simpatia verso l'autoritarismo austro-tedesco" e sciolsero le loro riserve solo alla vigilia dell'intervento, "L'Adriatico", il giornale vicino ai partiti democratici, non ebbe esitazioni ad affiancare i nazionalisti(55). A partire da settembre il giornale sollecitava l'intervento a fianco dell'Intesa: il vero obiettivo era il controllo dell'Adriatico e l'espansione ad oriente(56).
La richiesta di una politica estera forte, dell'aumento delle spese militari e del potenziamento dell'Arsenale, la pratica della violenza, la ricerca dello scontro fisico come intimidazione nei confronti dei socialisti caratterizzavano l'azione politica e la competizione elettorale dei nazionalisti. Dalle elezioni amministrative del giugno 1914 allo scoppio del conflitto nel centro storico fu tutto un succedersi di manifestazioni, comizi, conferenze, costellati da aspri scontri con la polizia e i socialisti.
Tra coloro che scesero in piazza nei mesi della neutralità molti erano giovani: in prevalenza studenti, ma anche impiegati, agenti di negozio, artigiani. Un ventitreenne, Giulio Pitteri, capo del gruppo giovanile nazionalista, il 28 agosto in piazza S. Marco organizzò la prima manifestazione nazionalista per l'intervento tenutasi sul territorio nazionale. Gli scontri più violenti si verificarono il 29 novembre in occasione del comizio di Cesare Battisti nella palestra Costantino Reyer, alla Misericordia. Parallelamente alle manifestazioni di piazza, nazionalisti e irredenti organizzarono e armarono gruppi paramilitari(57).
I nazionalisti veneziani seguivano e applicavano gli assunti teorici e gli obiettivi politici che Alfredo Rocco aveva esposto in vari articoli sul "Dovere Nazionale" nei mesi precedenti: "la vecchia destra delle élites era superata, la nuova destra 'di massa' doveva dominare la piazza"(58). E fu piazza S. Marco ad essere contesa in quei mesi: a S. Marco i nazionalisti si recavano a conclusione delle conferenze patriottiche, o a bruciare la bandiera austriaca o a chiedere alla banda cittadina l'inno di Mameli. Essi ottennero l'egemonia del cuore della città grazie all'uso della violenza organizzata e alla compiacenza delle forze dell'ordine. Se infatti l'accesso al centro della città fu spesso impedito ai cortei socialisti attraverso lo sbarramento dei ponti(59), le dimostrazioni patriottiche furono considerate con minore preoccupazione e, a partire dalla fine del 1914, con crescente favore. L'atteggiamento di acquiescenza della questura venne denunciato alla fine del dicembre 1914 da una lettera anonima. Gli avvenimenti riportati nella lettera, benché definiti esagerati, non furono smentiti dal prefetto, che li interpretò come una conseguenza dell'inesperienza e della leggerezza del questore.
Ieri sera dopo il comizio privato irredentista si recarono in Piazza San Marco da varie parti alcune centinaia di persone e cominciarono a cantare e gridare abbasso l'Austria a morte l'imperatore. A cantare l'inno di Oberdank. La forza comandata dal commissario Fazio di San Marco lasciò fare, e poi i dimostranti di tutta corsa seguiti da guardie e carabinieri e tenendo alcune bandiere si diressero a san Stefano. Intanto, cosa ridicola, la forza era di dietro a loro e un trombettiere suonava sempre gli squilli, che a nulla servirono perché poterono fare la dimostrazione al consolato rumeno e poi a quello del Belgio. Dopo di che si portarono in campiello san Luca, non avendo trovato al ponte Rossini che pochi carabinieri che si fecero soprafare. Quindi avanti il consolato germanico fecero per ben dieci minuti, come dicono i giornali, una dimostrazione ostile con fischi, grida di abbasso e morte, e dopo tanto, mentre stavano per rompere lo stemma comparvero i soldati chiamati troppo tardi(60).
Anche la locale pretura davanti alla quale comparvero i giovani nazionalisti per rispondere dei reati di rifiuto di obbedienza, oltraggio e violenze si dimostrò benevola nei confronti dei dimostranti che l'11 aprile in piazza S. Marco avevano dato l'assalto alle agenzie Norddeutscher Bremen e alla Fischer Reichsteiner mandandone in frantumi le insegne. Scrive il prefetto al ministro dell'Interno il 16 aprile:
I 15 arrestati alla Pretura Urbana […] furono tutti assolti, nonostante le deposizioni dei testi di accusa, fra i quali vi erano funzionari ed ufficiali delle guardie di città e dei reali carabinieri. Diresse il dibattimento il Pretore onorario avv. Zironda di Venezia e l'assoluzione completa di tutti gli imputati (benché per alcuni di essi il pubblico ministero, rappresentato dall'avv. Ezio Bottari, avesse chiesto la condanna) lascia adito al dubbio, che egli, nel suo pronunciato, non siasi esclusivamente ispirato a quel severo sentimento della giustizia, che solo dovrebbe dirigere un magistrato nelle sue decisioni. Donde appare evidente l'opportunità che simili dibattimenti siano presieduti e diretti da giudici di carriera, che sentono maggiormente il sentimento del dovere e sanno, più di quelli onorari, mantenersi estranei alle influenze dell'ambiente(61).
Gli scontri culminarono il 15 maggio in piazza S. Marco dove i socialisti avevano indetto una manifestazione contro la guerra. Tuttavia, dopo l'amara conclusione dei moti di marzo, non poterono contare su una partecipazione di massa e i circa 300 convenuti si confrontarono con altrettanti giovani nazionalisti tra i quali comparve un gruppo organizzato di picchiatori. Il 20 maggio, dopo la votazione alla Camera favorevole all'intervento, scrive il prefetto:
Piazza san Marco andò popolandosi, furono esposte bandiere nazionali agli edifici e la cittadinanza acclamò con patriottico entusiasmo al re ed alla patria. Nella serata al suono degli inni nazionali si formò un imponente corteo che percorse Riva Schiavoni e via Garibaldi.
Al ritorno, continua il prefetto, alcuni socialisti tentarono di turbare il corteo che raggiunse indisturbato il Teatro Goldoni dove si svolse una manifestazione patriottica senza il minimo incidente(62).
L'intervento fu accolto con sollievo dalle autorità cittadine: i richiami militari, la devoluzione dei sussidi da parte del governo avrebbero alleggerito la disoccupazione. L'attività svolta nei mesi della neutralità aveva preparato le istituzioni e la borghesia cittadina ai nuovi compiti, tra i quali quello di offrire assistenza ai profughi giuliani che iniziarono ad affluire in città.
Già il 27 febbraio di quell'anno si era costituito il Comitato veneziano di preparazione civile che a partire dal giugno assunse la denominazione di Comitato di assistenza e difesa civile(63); la presidenza fu affidata al generale Emilio Castelli(64) e la segreteria a Mario Marinoni(65). La nuova istituzione accolse l'eredità del Comitato pro disoccupati la cui gestione si chiuse il 20 maggio 1915.
Alle classi popolari, dopo i disagi tanto a lungo patiti, l'intervento apparve come una liberazione dalle incertezze, molti lo accolsero come una fatalità e si chiusero in una rassegnata e silenziosa disperazione(66).
Il pesante clima di guerra si abbatté su Venezia già dal 24 maggio, quando, alle 4,10 del mattino, furono sganciate le prime bombe sulla città: i punti colpiti furono la Tana, nei pressi dell'Arsenale, la zona di S. Marta in vicinanza del gasometro e la fondamenta Tagliapietra presso Ca' Foscari. Due giorni dopo dalla facciata della basilica di S. Marco vennero rimossi i cavalli e collocati all'interno di Palazzo Ducale, un provvedimento che Filippo Grimani definì deprimente, una "dolorosa generale sorpresa per la popolazione"(67). La difesa dei monumenti veneziani fu affidata a Ugo Ojetti e quella antiaerea a Piero Foscari(68).
Dal 20 maggio 1915 la vita in città venne sottoposta al controllo della Piazza marittima: furono imposte rigidissime limitazioni alla circolazione, alla esportazione, alla navigazione; si prescrisse la chiusura anticipata dei luoghi pubblici, venne esercitato uno stretto controllo sull'ospitalità, anche temporanea. Per tre anni e mezzo nelle ore serali e notturne Venezia fu avvolta dalle tenebre: all'interno delle abitazioni erano concessi soltanto ordinari lumi a olio e i pedoni potevano camminare per le calli con lanterne cieche provviste di paralume. Ogni violazione ai bandi comportava l'arresto. Alla Piazza marittima inoltre spettavano tutte le misure di polizia: dalla vigilanza sulla stampa, alla facoltà di espellere chiunque fosse considerato nocivo per la difesa(69). Le autorità militari di Venezia dipendevano direttamente dal Comando supremo e potevano emanare bandi con forza di legge senza alcun controllo da parte del governo e in deroga alle leggi dello Stato(70). Il bando del 25 maggio 1915 inaugurava un lungo periodo di vera e propria dittatura militare; esso permetteva alle autorità di pubblica sicurezza di arrestare, "quando l'avessero richiesto speciali condizioni di ordine e sicurezza pubblica", gli individui sottoposti ai vincoli della vigilanza speciale e della giudiziale ammonizione, nonché i pregiudicati, gli affiliati alla malavita o coloro che "vivevano nell'ozio". Il bando fu accolto con favore dalla stampa cittadina; le difficoltà portate dalla guerra, si disse, non dovevano essere aggravate dal senso continuo di insicurezza per le cose e le persone. E tuttavia il provvedimento aprì una piaga dolorosa nell'esistenza di centinaia di famiglie(71).
Già pochi giorni dopo l'emissione del bando le carceri cittadine erano in uno stato di pericoloso affollamento. La "situazione è difficilissima", scriveva il direttore delle carceri giudiziarie all'inizio del giugno 1915(72). Anche dagli altri penitenziari dove furono trasferiti i veneziani si sollevarono le proteste: i detenuti rifiutavano il cibo, si sentivano "invasi dall'indignazione" e "si abbandonavano a crisi di disperazione"(73). Numerose furono le petizioni inviate al ministro dell'Interno da parte dei detenuti che rivendicavano il diritto "a non essere banditi dalla società", "a non essere sottoposti al regime degli assassini", "di respirare l'aria libera".
Quanto alla mia condotta, era già sei anni che non ebbi nessun rapporto con la P.S. e che conducevo vita onesta e laboriosa avendo in Venezia mia fissa dimora e un negozio di frutta di mia legittima proprietà(74).
Si trattava infatti di persone che non avevano processi in corso o che avevano finito di scontare la loro pena molti anni prima, o che allo scadere del termine di detenzione erano stati trattenuti in carcere; molti i minorenni rinchiusi in correzionale.
I criteri che condussero all'arresto furono estremamente arbitrari; tutti i "cittadini indesiderati" e gli indiziati politici potevano essere vittime del provvedimento, anche chi, come si legge in una lettera di protesta, "fatalmente si trovava in un caffè mentre si sparlava del governo"(75).
Con il bando del 25 maggio 1915(76) e successivamente con il bando del 25 settembre vennero estese le competenze del tribunale di guerra di Venezia. Nei primi mesi del conflitto moltissimi furono i civili che andarono sotto processo per non aver provveduto a oscurare finestre, aver tardato a chiudere i locali o per aver infranto il divieto di pesca, per aver rubato o recato danno a oggetti e strutture di proprietà dell'amministrazione militare; tra essi anche due bambini, di cui uno di soli 11 anni, accusati di aver danneggiato il 24 gennaio 1916 "gli isolatori" del telefono. Fu "una disgrazia", dichiarò il più piccolo, "tiravamo sassi contro un albero pieno di neve, mi divertivo a vederla cadere a pezzetti ad ogni sassata"(77).
La Piazza marittima inoltre doveva essere considerata zona "in presenza del nemico per il suo fronte a mare", lo affermò il Comando in capo l'11 aprile 1916 in occasione di un processo per omicidio che coinvolse tre civili(78). Nella prassi quotidiana i reati che il tribunale dovette giudicare non furono considerati tanto gravi, l'affermazione tuttavia è significativa della volontà di esercitare la massima severità sulla popolazione civile.
Una tale cappa repressiva calava su una città afflitta da gravissimi problemi economici e ripetutamente colpita dai bombardamenti. Nel corso del conflitto la città subì 42 incursioni che provocarono la morte di 52 civili; i feriti furono 84, ingenti i danni al patrimonio artistico, alle abitazioni, alle industrie e agli edifici pubblici(79). Furono ripetutamente colpiti l'Arsenale, la stazione ferroviaria e la stessa piazza S. Marco. I bombardamenti tenevano gli abitanti in uno stato di continua tensione. Se a Mestre nelle notti di plenilunio molti potevano trovare rifugio nelle campagne circostanti, a Venezia la popolazione si sentiva indifesa e impotente.
Nell'agosto 1916 la città subì i bombardamenti più violenti dall'inizio del conflitto come rappresaglia per la presa di Gorizia. Tra il 9 e il 16 agosto furono sganciate oltre 200 bombe che provocarono numerosi incendi e la morte di 10 persone; il Cotonificio fu annientato dalle fiamme(80). Le distruzioni dell'estate 1916 sollevarono un aspro dibattito sulla difesa della città. Mentre sulla stampa pesava una ancor più rigida censura(81), la polemica infuriava. Antonio Fradeletto definì la difesa antiaerea inefficace e dannosa; i colpi d'artiglieria infatti risultavano estremamente pericolosi per le persone e gli edifici ed anziché abbattere gli aerei nemici avevano provocato gravi danni tra cui l'incendio all'Hotel Des Bains(82).
Dall'inizio del conflitto la difesa antiaerea era stata predisposta organizzando su altane e abbaini punti di vedetta armati di mitragliatrici e dotando di pezzi di artiglieria e riflettori alcune navi ancorate presso il litorale. Nei primi giorni del conflitto il comando di Piazza marittima avrebbe voluto installare un osservatorio antiaereo anche in cima al campanile di S. Marco e solo le indignate proteste del sindaco riuscirono ad impedirlo. Benché dal novembre 1915 non si fossero più verificati attacchi aerei in pieno giorno, la difesa della città restava inefficace; lo ammise il ministro della Guerra in una lettera a Paolo Boselli il 28 settembre 1916:
È ormai noto che coi metodi ordinari la difesa contro velivoli nemici presenta, di notte, serie difficoltà e inconvenienti: infatti il tiro d'interdizione e lo sbarramento con fasci di luce si sono mostrati inefficaci(83).
Come difendere la città? Ricorrere ai duelli aerei avrebbe comportato la rinuncia all'uso dell'artiglieria, senza contare le difficoltà di atterraggio e decollo; più facile sarebbe stato, e il progetto era allo studio, impedire agli aerei nemici di attraversare lo spazio aereo soprastante la città tendendo una serie di cavi d'acciaio sollevati da palloni aerostatici. L'orientamento che infine prevalse fu quello delle ritorsioni sulle città austriache affidate agli alleati. La proposta "di un'assidua rappresaglia senza pietà sulle città della Germania e dell'Austria" era stata avanzata da Leonida Bissolati al Consiglio dei ministri e fu accolta da Boselli come "triste necessità di far sentire al nemico gli effetti del suo stesso sistema"(84). Anche il colonnello Giulio Douhet, polemizzando con l'attendismo del governo, l'8 settembre 1916 scriveva nel suo Diario critico che per ogni bomba su Venezia si sarebbe dovuto rispondere con "dieci o cento bombe su Vienna"(85).
A Venezia si affacciava, in maniera assai più acuta rispetto ad altre zone del paese, la caratteristica più inquietante della guerra moderna: vincere la resistenza del nemico colpendo direttamente, con la forza delle armi, la popolazione civile. Ne era consapevole Elia Musatti quando scriveva al presidente del Consiglio il 15 settembre:
Sono giunto qui da Venezia, dove ho assistito anche all'ultimo bombardamento e dove ne accertai di persona le conseguenze. [La popolazione veneziana] è ormai completamente in balia dell'audacia e dell'abilità degli aviatori austriaci, mentre la difesa della città si appalesa sempre inefficace, aggiungendo anzi nuovi danni a quelli degli esplosivi austriaci. […] Si giuoca tra combattenti ad armi impari; ed è per volontà o per calcolato ritegno o per paura o per insipienza degli austriaci, se Venezia non è in gran parte già distrutta.
Qui non si tratta di modalità tattiche o strategiche, delle condizioni ed azioni reciproche dei combattenti, qui si tratta della difesa della popolazione civile, della vita e degli averi dei cittadini, del patrimonio artistico e storico di Venezia(86).
Preoccupato del progressivo incremento della violenza, Musatti ribadiva che l'aviazione avrebbe dovuto essere utilizzata solo per servizi di ricognizione; la sua proposta ottenne una risposta secca e indignata da parte del presidente del Consiglio:
Una simile proposta non può essere presa in considerazione da chi sente il dovere di difendere la patria senza inutili barbarie ma senza omettere nulla di ciò che valga a facilitare la nostra vittoria sul nemico.
La città subirà nel febbraio 1918 le dolorose conseguenze della politica delle ritorsioni, quando i gravissimi bombardamenti che la colpirono spinsero oltre 44.000 persone all'esodo.
Malgrado l'istituzione dei Consorzi granari ed altri provvedimenti adottati dal Comune per favorire l'approvvigionamento, il movimento ascensionale dei prezzi non si arrestò. Dal secondo semestre 1914 al secondo semestre 1915 il prezzo del frumento era aumentato del 18%, quello del mais del 40% e quello del carbone del 227%(87). Scrive il sindaco il 21 gennaio 1916 al presidente del Consiglio:
Ma la questione dei prezzi, pur tanto grave, passa in seconda linea […]. Si tratta oggi di evitare con urgenti provvidenze un disastro ben maggiore. Il disastro della fame. […] Le provviste attuali di grano bastano appena per due mesi e mezzo, il granone per non più di cinque mesi, ma prima di quel tempo un allarme, che già si mostra giustificato, può gettare il panico nella popolazione ed aumentare il disagio attuale(88).
Filippo Grimani vedeva con preoccupazione diffondersi tra la popolazione la convinzione che il governo avesse abbandonato la città e nel chiedere che a Venezia fossero garantite scorte sufficienti intendeva assicurarsi "la quiete pubblica" in una città tanto provata. Oltre ai buoni per il vitto alla fine del 1915 le refezioni gratuite distribuite in città raggiunsero il numero di 7.000. La povertà conduceva un numero crescente di persone a ricorrere al Monte di pietà; nel marzo 1916 venne alla luce persino un traffico di bollette di pegno: chi non aveva più nulla da impegnare offriva a garanzia di piccoli ma onerosi prestiti le proprie cartelle di pegno(89).
Moltissimi coloro che si rivolgevano alle parrocchie. In una lettera al papa del 30 settembre 1915 il patriarca di Venezia Pietro La Fontaine, non nascondendo la propria esasperazione, così descrisse la situazione venutasi a creare in città:
Che a Venezia la miseria sia più grave che altrove, è verissimo […]. Alcune istanze favorite dal parroco di San Raffaele, accolte dalla carità del Santo Padre, han fatto sì che tutta Venezia riponesse la fiducia in Sua Santità. Di qui le numerose istanze che giungono in Vaticano. I poveri curati non si salvavano più dalle insistenze di coloro che chiedevano commendatizie, tanto che per salvarli è stata fatta dalla curia inibizione ad essi di farle. […] Le istanze piovono da ogni parte […]. Non ne possiamo più(90).
Ai primi di gennaio 1916 fu sospesa la vendita della carne per due giorni alla settimana e mentre sui giornali si susseguivano gli inviti alla frugalità, i consigli su come affettare il pane per evitare sprechi di mollica, mentre si moltiplicavano le conferenze su come mantenere una "vigorosa salute" e nello stesso tempo limitare i consumi, i prezzi salivano.
Per contrastare l'aumento del costo della vita evitando di danneggiare i commercianti al minuto, il Comune decise di ricorrere all'acquisto diretto di generi di prima necessità istituendo un ente di approvvigionamento e vendita che avrebbe operato in collaborazione con il Comitato di assistenza: la Giunta per i consumi di prima necessità. Provvedendo alle scorte di pasta, farina gialla, olio e fagioli, l'ente avrebbe esercitato una funzione calmieratrice. La proposta, che fu discussa in consiglio comunale all'inizio del 1916, ebbe l'approvazione dei socialisti; Elia Musatti la considerò infatti "un'attuazione di quei concetti che egli e i suoi amici [avevano] sostenuto da diverso tempo"(91).
Ma già nel marzo 1916 il gruppo socialista muoveva le prime critiche al funzionamento del nuovo organismo. Poiché infatti il Comune non aveva adottato il sistema degli spacci comunali, ma si era rivolto ai commercianti affinché facessero da tramite, accadeva che i generi di prima necessità posti in vendita venissero maggiorati in misura sensibile e che i commercianti non si attenessero ai bollettini settimanali. Affermò Celeste Vanni al consiglio comunale dell'11 marzo:
[Il commerciante] senza alcun rischio, col solo incarico di servire da tramite fra la Giunta dei consumi e la cittadinanza, realizza un guadagno che si aggira sull'8%. Infatti la farina viene venduta a 39 centesimi il kg. Poiché 3 centesimi vengono dati ai rivenditori; e così è degli altri generi […]. Lo stesso dicasi dei fagioli che vengono venduti a 60 cent., mentre se ne trovano dappertutto a 50 e 52 cent. al kg(92).
Così mentre nella vicina Padova il prezzo del latte era stato fissato a 25 lire al litro, a Venezia si vendeva a 35-40 lire(93). La Giunta veneziana per i consumi inoltre dovette ammettere la propria impotenza a contrastare l'aumento artificiale dei prezzi, in particolar modo di quelli della frutta e della verdura, che, prodotte in abbondanza in tutto l'estuario, avrebbero potuto essere disponibili sul mercato a prezzi modici.
Si tratterebbe di mutare ab imis fundamentis i sistemi che reggono il mercato […]. Gli ortolani sono nelle mani dei provveditori perché questi li riforniscono di capitali nei periodi invernali e perché sono in possesso di tutti gli attrezzi occorrenti al commercio della frutta e degli erbaggi(94).
La seduta di luglio si concluse con la proposta di Elia Musatti di procedere alla requisizione e alla vendita diretta. L'autorità militare, affermò, che quotidianamente adottava provvedimenti che limitavano "i diritti alla vita e la libertà del cittadino", avrebbe dovuto essere indotta dal Comune "per ragione di compensazione" alla requisizione. La proposta venne lasciata cadere e il tema non fu più affrontato dal consiglio.
Neppure i provvedimenti adottati all'inizio del 1917 - il tesseramento per la farina e poi per lo zucchero e l'apertura di alcuni spacci comunali di carne e di patate - valsero ad arrestare l'ascesa del costo della vita. In base ai prezzi imposti dalla Giunta per i consumi il prezzo del pane da gennaio a dicembre aumentò del 32%, quello dello zucchero del 34,4%, il burro e il latte subirono aumenti di oltre il 26%, la carne di seconda scelta del 60% e i fagioli del 50%(95). Dal 1914 il prezzo del carbone era aumentato di 15 volte e si erano moltiplicati i furti dalle barche che rifornivano l'Arsenale militare, le navi da guerra o l'azienda del gas. Tutto ciò che poteva essere bruciato in città era oggetto di furto: anche i ripari di legno, che il Comune aveva fatto apporre alle rive per evitare che a causa dell'oscuramento i passanti cadessero in acqua, erano stati divelti e usati per scaldarsi(96).
Di fronte ai negozi, dove le donne erano costrette a lunghe attese, scoppiava spesso la protesta. Oggetto della rabbia popolare erano i commercianti, i vigili urbani, il Comune, accusato di indifferenza e di speculazione. In occasione del sequestro di una partita di burro annacquata una commessa così commentò con le donne che facevano la coda:
Se vede che al Municipio i ga bisogno de butirro adesso che el xe caro, i farà un pan per uno e dopo i dise ch'el loga distrutto(97).
Irregolarità sui prezzi di vendita e sull'ordine di accesso negli spacci furono segnalate alla prefettura dall'ispettore provinciale per gli approvvigionamenti: neppure il regime delle tessere aveva eliminato irregolarità e abusi.
Mentre le povere donne del popolo attendono per lunghe ore il loro turno, si vedono Funzionari Municipali, Vigili o loro incaricati, entrare liberamente, ordinare, scegliere senza il minimo riguardo per chicchessia, non ricordando che gli Spacci anziché essere a disposizione di una determinata categoria di persone, servono invece alla generalità della popolazione(98).
Il peggioramento delle condizioni di vita inasprì il disagio e il malcontento dei profughi giuliani e logorò i loro rapporti con la popolazione veneziana. In una petizione inviata nel marzo 1916 al ministro Barzilai alcuni profughi avevano affermato:
I rimpatriati ed i profughi riparati a Venezia sono in procinto di morire di fame! […] Qui non si tiene alcun conto né di posizione morale, né di posizione materiale, qui si viene trattati alla stregua della più umiliante carità, qui […] dobbiamo subire i più duri patimenti, le più umilianti situazioni, tutte le possibili disillusioni morali, tutto il peso della vita d'accattonaggio(99).
Il numero dei profughi dall'inizio del conflitto era progressivamente aumentato fino a 2.850 nella primavera del 1916. A causa dell'esiguità del sussidio governativo e della loro condizione sociale, molti profughi vivevano a carico della beneficenza pubblica: dal luglio 1915 all'aprile 1916 furono assegnate 988 tessere di assistenza(100). Le condizioni abitative erano drammatiche: circa 170 profughi furono accolti in un edificio scolastico a S. Geremia, altri 800 vivevano ammassati in poche stanze nei vari sestieri della città. Le abitazioni malsane aggravavano le condizioni sanitarie di donne e bambini che costituivano la maggioranza della popolazione profuga(101).
Il quadro topografico dei rimpatriati, risultante dallo schedario anagrafico, coincide in buona parte con quello delle abitazioni più misere, meno sane, meno lontane dai centri, di moralità dubbia o indubbiamente non buona. Chi non sa quale sia il problema delle abitazioni popolari a Venezia? […]
La questione capitale è quella degli alloggi. Essa impensierisce ogni giorno di più per le sue intrinseche difficoltà, e dà luogo alla più viva preoccupazione per l'igiene cittadina. Venezia non offre scelta di quartieri ammobiliati con uso di cucina, nega ai bambini le condizioni necessarie ad una mediocre condizione della salute, costringe questa folla di povera gente a vivere ammassata con grave danno dell'educazione e del costume(102).
La popolazione veneziana, a detta del Patronato dei rimpatriati, guardava ai profughi con diffidenza e malcelato rancore e reagiva con fastidio alla convinzione diffusa tra i profughi di avere maggiori diritti(103). Inoltre i profughi godevano di un sussidio statale che, per quanto misero, appariva a molti un privilegio. Certamente non mancarono gesti di solidarietà e di aiuto, ma in una città afflitta dalla disoccupazione e dalla miseria le occasioni di attrito si presentavano quotidianamente.
Per non accentuare ostilità e contrasti, si decise di escludere gli uomini dalla possibilità di ottenere una occupazione; infatti fu considerato "impolitico e pericoloso" non dare l'assoluta precedenza ai disoccupati veneziani. Le famiglie dei rimpatriati poterono quindi contare esclusivamente sul lavoro a domicilio delle donne che veniva distribuito dai laboratori di sartoria(104).
Già poco dopo l'intervento, nel giugno 1915, il comandante in capo della Piazza marittima aveva avanzato la proposta di allontanare la maggior parte dei profughi, ma il provvedimento, come scrisse Vittorio Emanuele Orlando a Paolo Boselli il 5 agosto 1916, fu allora considerato inopportuno poiché avrebbe potuto "destare increscevole impressione in campo politico"(105). I profughi affermavano di essere di origine veneziana ed appariva impossibile contestarne il diritto a risiedervi.
Se nella primavera del 1915 fosse stato proposto il progetto di dare asilo a tremila profughi nella nostra città, non vi sarebbe stato alcuno il quale, sapendo quanto sia grave da tempo il problema delle abitazioni popolari, come fossero occupati o requisiti tutti i grandi caseggiati, come fosse ardua la ricerca di personale di custodia, come andasse inasprendosi il mercato delle derrate alimentari, pensando inoltre alle molteplici necessità di una piazzaforte che si sarebbe ritrovata in istato di resistenza, non avesse dichiarato esso progetto inattuabile in modo soddisfacente. […] Avvenne invece, che senza alcuna preparazione giungessero a frotte i rimpatriati e che, senz'altro, con l'inquietudine della gente smarrita attraverso la novità dei casi, con l'impazienza del bisogno, si ritrovassero nell'anticamera di un Ufficio municipale(106).
Nel luglio 1916 fu Maria Pezzè Pascolato ad intervenire presso il presidente del Consiglio perché dalla città venissero allontanati i profughi giuliani. Decisivi per vincere le esitazioni del governo e la resistenza dei profughi si rivelarono i bombardamenti che Venezia subì nell'agosto.
In questo, almeno, anche le bombe austriache ci hanno aiutato; perché i più imploravano di partire prima del nuovo plenilunio(107).
Un'accurata indagine sugli orientamenti politici dei profughi inoltre aveva rivelato che pochissimi erano gli irredenti. Il 28 agosto Orlando informava Boselli che i profughi sarebbero stati inviati in altre province(108).
L'allontanamento dei profughi eliminò una causa di tensione, ma non alleggerì la condizione di indigenza della popolazione rimasta. Dopo l'entrata in guerra dell'Italia, ad eccezione dei cantieri navali, dell'Arsenale militare(109), del Cotonificio Veneziano, della Manifattura Tabacchi e di alcuni stabilimenti meccanici di piccole e medie dimensioni che mantennero o incrementarono la loro attività grazie alle commesse statali, i laboratori di stoffe pregiate che trovarono uno sbocco sul mercato interno, ed in parte le vetrerie che si rivolsero alla produzione di lana di vetro, tutte le altre attività declinarono. Venezia inoltre non divenne come altre città venete una zona di retrovia e non poté quindi trarre vantaggio dal passaggio e dall'alloggiamento delle truppe.
A Mestre e in altri comuni della terraferma era più facile a lavandaie e calzolai offrire i loro servizi ai militari di passaggio e ai contadini vendere qualche fiasco di vino o qualche cesto di frutta alla stazione. Per la popolazione povera della città dal 1915 non restò altra opportunità che il lavoro alla costruzione di baraccamenti e ai trinceramenti per il Genio militare(110).
L'attività del Comitato di assistenza civile fu rivolta soprattutto ad attenuare la disoccupazione nel settore dell'artigianato. Per garantire la continuità di lavoro alle botteghe e ai laboratori di falegnami e fabbri il Comitato si dotò di un magazzino per le materie prime ed assunse commesse dall'amministrazione militare.
Gli eccellenti intarsiatori, gli artisti rinomati, che avevano raggiunto gran perfezione nella delicata costruzione dei mobili, son divenuti semplici falegnami per modesti e grossolani oggetti, quali eran e son richiesti dall'armata: cavalletti, traverse per rudimentali letti, casse e gabbie per munizioni, per fucili(111).
L'attenzione del Comitato fu sempre rivolta al dopoguerra; la "sezione per i lavori maschili" si prefiggeva infatti di gettare le basi per una cooperativa tra piccole officine per la lavorazione del legno e del ferro che avrebbe potuto assumere parte delle lavorazioni necessarie alla "preparazione delle grandi industrie che sorgeranno al cessar della guerra"(112).
Accanto al Comitato di assistenza, nel giugno del 1915, per iniziativa di Gian Carlo Stucky, sorse l'Associazione per il lavoro, con lo scopo di lenire la disoccupazione e sovvenzionare quelle piccole industrie della città che avessero maggiore "capacità di resistere all'urto degli eventi e condurre a una graduale trasformazione della produzione locale verso più ampi consumi"(113). Anche l'Associazione si preoccupava di svincolare la piccola industria e l'artigianato dalla clientela "dei visitatori della città, che cause occasionali quanto ineluttabili bastano ad orientare altrove con danno gravissimo dell'economia cittadina"(114). Piccole aziende del vetro, del legno, del mosaico e dei merletti ottennero sovvenzioni, sorse una piccola fabbrica di colla per calzolai che riforniva alcuni calzaturifici militari ed anche una fabbrica di giocattoli.
Tuttavia la maggioranza dei disoccupati rimasti in città difficilmente poteva assumere lavori artigianali; con la chiusura del porto e l'arresto delle attività turistiche, facchini, barcaioli e gondolieri vissero del sussidio, della carità pubblica, dei proventi di lavori occasionali e dell'incetta di stracci e oggetti metallici. Poche furono le squadre ingaggiate per i lavori militari in zona di guerra. Gli scaricatori veneziani, si disse, fecero "sempre pessima riuscita"(115) e solo l'intervento di Elia Musatti presso l'Intendenza generale valse a convincere le autorità militari a rinnovare l'esperimento(116).
L'espediente più diffuso tra la popolazione povera per integrare i magri proventi era tradizionalmente rappresentato dalla pesca in laguna, un ripiego che si rivelava ormai impraticabile. Infatti sia la pesca di mare che quella di laguna diminuirono a valori insignificanti. Mentre nel 1914 vennero portati al mercato di Venezia oltre 52.509 quintali di pesce, nel 1917 questi si ridussero a 5.652 per risalire lievemente nel 1918 a 12.072(117). Il decreto luogotenenziale del 25 luglio 1915 (nr. 1119) che vietava la pesca in tutto l'Adriatico "tanto di notte come di giorno, per qualsiasi barca, nave o galleggiante", concedeva un sussidio da 60 centesimi a 1 lira a tutti quei pescatori che "traessero dall'esercizio della pesca i mezzi di sussistenza". Restavano esclusi i pescatori di laguna, benché fossero stati anch'essi danneggiati dalle limitazioni imposte alla pesca notturna con le lampare ed in genere dall'aumento della circolazione di imbarcazioni militari(118). Molti piccoli proprietari di imbarcazioni, non potendo sostenere le spese di manutenzione, furono costretti a vendere i propri pescherecci. Il problema era particolarmente grave a Chioggia dove anche i proprietari dei bragozzi d'alto mare invocarono indennità per poter sostenere le spese di cantiere. Verso la fine del 1915 il presidente della Camera di commercio prevedeva che il capitale rappresentato dalle migliaia di barche a Venezia e Chioggia "sarebbe andato economicamente distrutto alla fine dell'estate, per graduale deperimento"(119). Risentivano della crisi della pesca anche tutti coloro che svolgevano le varie attività collegate e che non percepivano alcun sussidio: pescivendoli, facchini di pescheria, calafati, oltre alle numerose donne che si dedicavano alla lavorazione e alla tintura delle reti(120).
Difficile anche per chi praticava la pesca in mare ottenere il sussidio; pochi infatti esercitavano esclusivamente il mestiere di pescatore, come esigeva il decreto. Nella zona di S. Cristoforo 52 pescatori nel febbraio del 1916 si rivolsero al parroco perché inoltrasse una petizione al sindaco:
Tutti i soprascritti pescatori, vanno periodicamente a pescare lungo le coste, ma in tempo anormale (notti di acqua e di bufera) non potendo esercitare il mestiere, va da sé che eccezionalmente si prestano ad altri lavori per guadagnare un pane(121).
Numerosissimi furono quindi i pescatori che infransero i divieti e furono per questo deferiti al tribunale militare(122). Sui pescherecci un uomo anziano, generalmente il padrone dell'imbarcazione, era aiutato da numerosi ragazzi minorenni, in molti casi poco più che bambini. Erano infatti soprattutto i figli dei pescatori che sostituivano i padri nell'unico lavoro con il quale avevano familiarità.
Nell'agosto 1917 venne tratto in arresto un ragazzo di 17 anni di Castello il quale dichiarò di aver sempre fatto il mestiere di pescatore e di aver continuato anche durante i divieti(123). Ugualmente un giovane di 21 anni di Cannaregio, sorpreso a vendere "cappe tonde" porta a porta, dichiarò "che con quella vendita si guadagna[va] da vivere e che con la bassa marea sarebbe tornato a pescare"(124).
Benché la maggioranza dei pescatori comparsi di fronte ai giudici militari provenisse da Pellestrina, Burano e Chioggia, dove l'attività della pesca era di gran lunga la prevalente, non mancarono, specialmente nel 1917, "poveri nullatenenti veneziani che vivevano alla giornata". Per divieto di pesca vennero arrestati anche barcaioli, facchini, fattorini e vetrai disoccupati(125).
Né l'età avanzata né le accertate condizioni di povertà valsero ad attenuare la severità del tribunale militare di Venezia. Alla pena prevista dai bandi fu condannato nel maggio 1917 un barcaiolo di 65 anni sorpreso mentre vendeva molluschi a Cannaregio; le sue condizioni furono dai vigili definite "miserrime perché disoccupato: da diverso tempo malato di cuore, viveva a carico della sorella"(126). A oltre 10 lire di multa fu condannato un pescatore veneziano nell'aprile del 1917. "In condizioni critiche [informa il Comune] Pio Vianello, sarebbe a mal partito se non avesse le razioni delle cucine economiche"(127).
Le pene erano ancora più severe se i pescatori erano stati colti nei pressi di zone militari o se, al momento dell'arresto, avevano sfogato la loro rabbia. "Voialtri siete prepotenti e strafotenti", aveva esclamato nella primavera del 1917 un pescatore di S. Pietro in Volta sorpreso con la barca carica di pesce ed in seguito condannato a 5 giorni di reclusione(128).
Nel corso del conflitto anche alle donne vennero a mancare molte occasioni di lavoro: oltre alla lavorazione dei merletti e del vetro, declinarono le industrie tessili; il peggioramento delle condizioni economiche del ceto medio ridusse le opportunità di lavoro nel servizio domestico e nel settore dell'abbigliamento che nel 1911 dava lavoro a non meno di 2.000 operaie. I maggiori sforzi organizzativi e finanziari del Comitato di assistenza civile e dell'Associazione per il lavoro si indirizzarono alla istituzione di laboratori di sartoria: "Le abili ricamatrici, le perlere si tramutarono in cucitrici" e si dedicarono alla lavorazione di indumenti per i soldati(129).
Lasciarono i fuselli per i ferri da maglia anche le numerose operaie della ditta Jesurum (circa 5.000 tra donne e ragazze alla vigilia del conflitto), ma la lavorazione di farsetti, giubbe e pantaloni, "arti meno gentili, ma più utili", era assai più modestamente retribuita(130). I lavori di sartoria inoltre non erano facili per le donne che non conoscevano l'uso della macchina da cucire e molte, specialmente le donne sposate, dovettero ripiegare sui lavori di maglia, ancor meno redditizi.
Gran parte delle lavorazioni venivano svolte a domicilio; i laboratori di sartoria alla fine del 1915 occupavano meno di 200 operaie, mentre oltre 2.000 erano coloro che lavoravano nelle proprie abitazioni. Nel 1916, dopo la distruzione del Cotonificio, si aggiunse un altro laboratorio dove alle cotoniere, che non avevano alcuna pratica di cucito, vennero offerti corsi di istruzione professionale e le lavoratrici a domicilio salirono a 4.000. Si trattava di ben poca cosa rispetto alle dimensioni della disoccupazione e dei bisogni: alla fine del 1916 le operaie bisognose erano 12.382, quelle ammesse alle lavorazioni si limitavano a 6.200(131).
Il timore dei tumulti dei disoccupati, che nel 1914 e nel 1915 videro le donne protagoniste, fu sempre al centro delle preoccupazioni del Comitato e Maria Pezzè Pascolato non esitò ad agitare lo spauracchio dei moti di piazza di fronte al governo. Scrive il 3 settembre 1916 al presidente del Consiglio:
Voglia raccomandare a Scialoja particolare benevolenza verso questi Laboratori Municipali, di cui il primo fu istituito da un'ora all'altra, il 16 agosto 1914! Quando le donne dei nostri scaricatori scesero in piazza […](132).
Anche nella scuola professionale istituita dall'Associazione per il lavoro si confezionavano capi di abbigliamento: scarpette per bambini, biancheria, berretti e collane di perle esposte in mostre e mercatini(133). Parte del lavoro veniva distribuita a domicilio e per le "operaie più meritorie e più bisognose" erano disponibili "piccoli premi". L'assegnazione delle lavorazioni infatti comportava anche l'ingerenza nella sfera privata delle operaie dalle quali si pretendeva avessero sempre tenuto buona condotta. Anche le vedove di guerra potevano fare assegnamento su un sussidio settimanale per i figli solo se la loro moralità era considerata irreprensibile da "informatori" incaricati di sorvegliarne il comportamento(134).
Anche per coloro che ottennero piccole integrazioni di sussidio o qualche lavoro di cucito, la vita era difficilissima. Nel novembre 1917 una donna di 38 anni, madre di tre figli, denunciata per aver imprecato contro la guerra, dichiarò che in aggiunta al sussidio governativo di 61,60 lire mensili riceveva dal Comitato una integrazione di 5 lire, non raggiungendone nel complesso neppure 2,5 al giorno(135).
La documentazione processuale offre numerose conferme delle condizioni di diffusa povertà, dello stato di abbandono in cui vivevano tanti bambini, dell'insufficienza delle strutture di assistenza. Scrive nel 1916 la moglie di un muratore al marito al fronte:
Mio caro Marito, […] devi sapere che costretta dal bisogno, non avendo altro da impegnare, o dovuto vendere parte della Mobiglia per non languire di fame me e i miei figli, così ora, sono costretta di dormire a terra, ma speriamo che questa benedetta guerra possa avere un termine, al più presto possibile così potrà aprirsi i lavori di nuovo ed allora potremo a farsi tutto cio ahamo perduto. Ora sappi che tutti i miei figli sono disoccupati, e col denaro che mi passa il Governo non posso tirar avanti […](136).
Rimaste sole a far fronte ai bisogni primari della sopravvivenza, a sostituire gli uomini nelle piccole attività artigianali o commerciali, le donne incapparono in misura assai più elevata rispetto al passato nelle maglie della giustizia: per aver imprecato contro la guerra, insultato le guardie, per aver trasgredito alle disposizioni annonarie o perché sorprese a mendicare. "Questo schifoso governo ci fa morire di fame", aveva gridato una giovane donna di Cannaregio nel luglio 1917.
Avendo mio marito al fronte e mia madre gravemente inferma all'ospedale, oggi lasciai i miei bimbi soli in casa e mi recai all'ufficio informazioni a S. Maria Formosa ove non potetti avere nessuna informazione. Perciò mi sfogavo da me dicendo in malora la guerra. Avendomi una guardia malamente afferrata per le braccia, mi scappò detto che mi lasciasse altrimenti gli molavo una ciabatta(137).
Nel maggio 1917 fu arrestata, e in seguito condannata a 15 giorni di detenzione, una giovane donna che "chiedeva l'elemosina in Riva degli Schiavoni in toni vessatori". Poiché il marito aveva disertato, le era stato tolto il sussidio.
È vero che chiedevo l'elemosina avendo tre figli senza mangiare. Mi limitai a dire alle guardie: 'ho il marito al fronte, vedrà anche lei se ci va…'(138).
Al momento della riscossione del sussidio o di fronte agli spacci, quando le donne di uno stesso sestiere si ritrovavano insieme e si scambiavano le loro esperienze di privazioni, di perdite, di separazioni, era facile che si accendesse la scintilla di una protesta improvvisa. A ben 25 lire di multa fu condannata dal tribunale militare una giovane donna perché, dopo aver fatto inutilmente la fila per acquistare il latte per il suo bambino di pochi giorni, aveva protestato(139). Una pena di 5 giorni di prigione fu inflitta ad una donna di 23 anni: "lazzarone e musso" aveva detto ad una guardia che l'aveva spinta perché tenesse la fila davanti allo spaccio per la legna nell'ottobre 1917(140).
Nelle donne e nelle ragazze rimaste a sostenere il peso delle accresciute difficoltà della vita, la condivisione della solitudine, delle fatiche e dei dolori rinsaldò legami di amicizia e di solidarietà. Piccoli gesti di aiuto reciproco alleviavano la fatica quotidiana: vicine e parenti si alternavano nella cura dei bambini, nelle file davanti agli spacci, nei lavori domestici. Nel giugno 1917 comparve di fronte ai giudici militari un'operaia di Dorsoduro per rispondere del reato di favoreggiamento alla diserzione. Aveva nascosto in casa sua il marito di una vicina che accudiva i suoi bambini quando lei era al lavoro.
Nella maggioranza dei procedimenti penali nei confronti delle donne durante il conflitto affiora l'angoscia per il destino dei figli, per non poterli nutrire o sorvegliare. Il Comitato svolse un'intensa attività a favore dell'infanzia; essa fu rivolta specialmente ai neonati, con la distribuzione di latte e corredini, e ai fanciulli dai 3 ai 6 anni che venivano accolti in numerosi asili organizzati in varie zone della città dove veniva loro offerta la refezione e una fetta di pane a merenda; ai più bisognosi si distribuivano zoccoli o babbucce. Nonostante l'impegno profuso l'attività di assistenza non riuscì a venire incontro ai bisogni più urgenti e nel corso del conflitto la condizione infantile si aggravò progressivamente. La fame, il freddo, l'incertezza del domani avevano fatto crollare la natalità(141), ed anche per i bambini che videro la luce le possibilità di superare i primi anni di vita si ridussero drasticamente. La percentuale di coloro che morirono ad un'età inferiore ai 5 anni passò dal 24,8% sul totale dei decessi nel secondo semestre del 1914 al 30% nel 1915; la mortalità dei bambini in questa classe di età raggiunse il livello più elevato nell'inverno 1916, quando toccò la vetta del 41% per attenuarsi a partire dal maggio 1917(142). Le morti infantili aprirono un vuoto profondo tra la popolazione e ne alterarono la struttura per età: nonostante l'altissima natalità dei primi anni del dopoguerra(143), nel 1921 i bambini da 1 a 5 anni rappresentavano il 6% della popolazione in confronto al 7,1% registrato nel 1911.
Le condizioni di vita dei fanciulli non emergono mai dalle fonti ufficiali; quando essi fanno la loro comparsa nelle pubblicazioni di quegli anni, ci appaiono sempre in gruppo: scolaresche inquadrate alle manifestazioni patriottiche, giovani esploratori in parata. Non è quindi facile comprendere il loro stato d'animo, come vivessero i drammatici mutamenti che la guerra aveva portato nelle loro vite, e soprattutto come recepissero i messaggi dalla propaganda. I bambini in età scolare infatti rappresentarono la componente della popolazione civile che più di ogni altra fu investita dalla propaganda e dalla mobilitazione patriottica: a scuola, nei doposcuola organizzati dal Comitato di assistenza, negli istituti per l'infanzia abbandonata gestiti da religiose, nelle istituzioni pro orfani, i bambini venivano sollecitati a comporre temi e poesiole patriottiche, a scrivere lettere ai soldati; venivano loro proposti racconti i cui protagonisti erano piccoli eroi. Ai fanciulli si impose un immaginario in cui dominavano morte e violenza, si insinuò nelle loro menti che il raggiungimento dell'età adulta coincideva con la condizione di combattente. I giochi che i bambini facevano nei campi e nelle calli sono rivelatori della tensione e dell'aggressività indotta dalla guerra nella loro vita quotidiana. La cronaca cittadina della "Gazzetta di Venezia" è fitta di resoconti di piccole battaglie "a colpi di pietre" che avvenivano nei campi(144).
La guerra è un male contagioso e i monelli ne sono infetti. Dicemmo infatti giorni orsono di battaglie a sassate che i soldati di domani ingaggiano nei campi […]. Ieri invece gran battaglia nel Ramo campo rotto a San Canciano. Grida, sfide, corse, sassate, aspra pugna insomma, durata un'ora. […] Sta bene che in tempo di guerra, lo spirito bellicoso vada incoraggiato, ma non a scapito delle teste, dei vetri e delle ben costrutte orecchie dei cittadini e poi i ragazzi studino e lavorino ché solo in questo modo contribuiranno alla guerra e alla vita dei grandi(145).
Dai resoconti giornalistici dei giochi infantili, non privi di compiacimento per "lo spirito bellicoso" dei bambini, traspare una violenza nuova nei gesti e nel linguaggio. "Tu sarai un sacco di sabbia e io sarò una bomba, vedremo se ti squinterno"(146). Nelle battaglie inscenate nei campi inoltre è riconoscibile la simbologia che ricorreva nelle immagini della propaganda: l'Italia e l'Austria erano impersonate da bambine, difese o trascinate per i capelli dai piccoli contendenti. Con l'aggressività e le scorribande in gruppo i bambini cercavano di soffocare la paura e di sfogare la tensione provocata dai bombardamenti. Ricorda Armando Gavagnin:
Quando gli aeroplani nemici passavano sulla città, il crepitio delle mitragliatrici e il colpo secco delle piccole artiglierie, diventavano assordanti, mettevano un tremito, ma nello stesso tempo davano la sensazione della valida difesa, così come, in ogni altro momento la vista delle armi e il grido delle guardie. Noi ragazzi non s'aveva paura e tutti i momenti erano buoni per scappare all'aperto o in cerca di proiettili e di schegge o a vedere gli effetti delle bombe appena cadute(147).
Tutti gli articoli sulle battaglie dei "monelli" per le calli si concludevano con severi ammonimenti alle madri, incapaci, in assenza degli uomini, di esercitare la necessaria autorità sui propri figli, con inviti ai passanti a reprimere gli eccessi dei bambini con ben assestati ceffoni.
All'immagine del piccolo orgoglioso custode dei valori nazionali si andò con sempre maggiore insistenza accostando quella del ragazzo incorreggibile. Durante il conflitto la stampa enfatizzò il problema della delinquenza dei minorenni e già a partire dall'inizio del 1916 i giornali lanciarono un grido d'allarme per la "nuova delinquenza di guerra" presentando il comportamento di "ragazzetti" e adolescenti come una minaccia sociale. Le caratteristiche del giovane delinquente che venivano offerte all'opinione pubblica (audacia, mancanza di senso morale, attività notturna) apparivano tanto più inquietanti in una società impegnata nello sforzo bellico e in una città sottoposta all'oscuramento. Il ragazzo criminale traeva profitto dalle difficoltà delle classi medie, derideva il loro patriottismo, si insinuava e si nascondeva nel groviglio delle strette calli avvolte nell'oscurità.
Ragazzetti di 13-14 anni con incredibile audacia spesso anche con abilità degna di vecchi delinquenti penetrano nelle case, scassinano mobili, forano muri e soffitti, poi, arrestati, non si danno per vinti, ma cercano con mille astuzie di scagionarsi. […] La delinquenza degli adulti è molto diminuita in città, grazie ad una radicale epurazione compiuta nei bassifondi, ma ecco che ora vengono a galla i minorenni(148).
Le manifestazioni di criminalità minorile erano tutt'altro che gravi e non allarmavano le autorità giudiziarie. Nel gennaio del 1918 Umberto Castellani in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario affermò che la delinquenza minorile a Venezia era in netta diminuzione(149).
I reati di cui si rendevano colpevoli i minorenni erano costituiti in gran parte da piccoli furti nelle case, nei negozi e negli alberghi. Giovani operai militarizzati sottraevano dalle officine meccaniche o dall'Arsenale materiale di ferro e ottone; dalle barche che rifornivano fabbriche e cantieri rubavano il carbone(150).
Per far fronte alle necessità della vita, per compensare le ristrettezze di lavori miseri e insicuri, molti ricorsero al furto, all'imbroglio. Per gli adolescenti delle classi popolari, che in molti casi dovettero farsi carico del mantenimento familiare, le opportunità di lavoro che la guerra aveva aperto in città non erano numerose: essi poterono occuparsi come fattorini postali o avventizi ferroviari, lavorare per il Genio o negli stabilimenti ausiliari. Tuttavia l'ingresso negli stabilimenti e nei cantieri che avevano assunto commesse belliche era facile solo per i figli di operai meccanici(151). Le officine che lavoravano per il munizionamento non erano di grandi dimensioni e non disponevano di torni automatici che avrebbero consentito l'utilizzazione di mano d'opera giovanile. "Con le attrezzature esistenti [scrisse la ditta Dorigo nell'ottobre 1915 al Comitato regionale di mobilitazione industriale] perché un apprendista arrivi a potersi applicare alla lavorazione di proiettili occorre un tirocinio di almeno un anno"(152).
Nell'estate 1914 i primi ad essere licenziati erano stati i ragazzi(153) e sin dall'inizio di settembre era sorto in città un ricreatorio per garzoni disoccupati al fine di sottrarli alla strada.
Tra i molti problemi derivati dalla disoccupazione uno dei più gravi è quello che riguarda i giovani operai. Ogni principale licenzia per i primi, e con più tranquilla coscienza i garzoni, pensando che il loro contributo al sostentamento della famiglia è minimo. Ma se il danno materiale per lo più non è grave, gravissimo è il danno morale(154).
Le attività che il ricreatorio offriva, il disegno o le buone letture volte ad "elevare gli animi", non potevano venire incontro ai bisogni più urgenti dei giovani lavoratori e dopo poco più di due mesi il Comitato, lamentando "continue difficoltà di ogni specie e da ogni parte", annunciò che le iscrizioni si erano andate sempre più assottigliando(155).
Da allora nessun'altra iniziativa assistenziale fu più realizzata nei confronti degli adolescenti che furono abbandonati a se stessi. Anche i più piccoli si aggiravano per la città, pronti a cogliere le occasioni di un piccolo guadagno, anche illecito. Spesso si offrivano come aiutanti nei traslochi tanto frequenti tra la popolazione più povera, sempre alla disperata ricerca di condizioni abitative tollerabili, o raccoglievano stracci per poi rivenderli a negozi o a merciai ambulanti. Nel giugno 1917 fu processato un tredicenne sorpreso a Cannaregio ad acquistare porta a porta degli stracci di lana; aveva guadagnato 2 lire aiutando in uno "slogio" e aveva pensato di investirle in stracci(156).
La guerra indusse anche nella vita delle ragazze della città e delle isole un netto peggioramento che trova un immediato riscontro nell'aumento della prostituzione clandestina. La piccola cronaca dei giornali e la documentazione processuale offrono numerosi esempi di giovanissime prostitute alloggiate senza permesso in città. Molte provenivano da Chioggia e Pellestrina, ragazze che si erano recate nel centro storico nel tentativo di fuggire dalla schiavitù del lavoro a domicilio, alla ricerca di un destino migliore. A Chioggia, con la crisi della pesca, a mantenere la famiglia erano soprattutto le figlie con la lavorazione dei merletti. Lo ricorda il prefetto di Venezia alla fine del 1916: ad una famiglia di pescatori che non potesse far assegnamento sul lavoro di una giovane figlia, non restava che vivere del sussidio. Le madri infatti erano spesso "cariche di figlioletti" e non potevano dedicarsi ad alcuna attività(157).
Anche le condizioni delle domestiche, esposte a nuove forme di controllo e di ricatto, andarono peggiorando durante il conflitto. Esse infatti in gran parte provenivano dai piccoli centri della provincia, e per farvi ritorno nei giorni di libertà avevano bisogno del passaporto per l'interno e del permesso di soggiorno; spesso i padroni non si curavano di fare le dichiarazioni necessarie presso la Piazza marittima costringendo così le ragazze a lunghe separazioni dalle famiglie, distacchi particolarmente penosi quando, a causa dei bombardamenti, si aveva il desiderio di rassicurare i congiunti.
Il pesante clima di repressione che avvolse la città fin dai primi giorni di guerra fece sì che il malcontento trovasse espressione per lo più in forme individuali di protesta. Se si escludono i casi di inosservanza alle norme relative all'oscuramento e alla chiusura dei pubblici esercizi, fu il reato di oltraggio e resistenza alle guardie ad essere discusso con maggior frequenza nell'aula del tribunale militare di Venezia. Erano manifestazioni di insofferenza per le mille limitazioni imposte dal comando della Piazza marittima: non ripararsi con prontezza nei rifugi o nelle case all'allarme aereo, accendere una sigaretta durante l'oscuramento, attardarsi nelle osterie oltre il limite d'orario. Al momento dell'arresto la collera a lungo trattenuta esplodeva in frasi ingiuriose e in imprecazioni contro la guerra. Nell'inverno 1917 così un operaio protestò per l'anticipata chiusura dei locali pubblici:
Non ci permettono neppure la tranquillità di bere un bicchiere di vino dopo aver lavorato tutto il giorno! Siamo sopraffatti e voialtri non sapete fare il vostro servizio(158).
E un biadaiolo che si era rifiutato di rifugiarsi in una casa durante l'allarme:
Quei porsei che vol la guera no i ne lassa gnanca andar a magnar!(159).
Il controllo dei passaporti per le calli o sui vaporetti, le irruzioni nelle locande per la verifica dei permessi di soggiorno o nelle case alla ricerca di disertori erano altrettante occasioni per sfogare la propria opposizione alla guerra. "Imboscati, andate al fronte!". Oppure: "Mascalzone, lazzarone, farabutto, vai al fronte a farti ammazzare!". Sono le frasi ricorrenti di chi era fermato per via o subiva una contravvenzione.
Dove va?
Dove mi pare.
Vieni immediatamente qui!
Vengo subito porco di un maresciallo e ti farò vedere che sono un galantuomo(160).
I cittadini fermati per via si dimostravano offesi per essere trattati come "farabutti qualsiasi" e protestavano di essere "galantuomini". Nel novembre del 1917 venne arrestato persino il commissario di polizia di S. Polo perché aveva oltraggiato un aiutante della marina per il suo eccessivo zelo nel fermare cittadini ritenuti sospetti(161).
Spesso l'insofferenza per le continue interferenze nella vita quotidiana si accompagnava ad esplicite manifestazioni di simpatia per i "tedeschi":
I tedeschi sono ricchi, hanno denaro, soldi e libertà, a loro nulla manca, mentre noi manchiamo di tutto e quello che è più speciale, dobbiamo chiudere i negozi quando vogliono, pagare i generi come intendono, caso contrario, multe, contravvenzioni e prigione… Siamo stati noi Italiani a volere la guerra e non gli austriaci ed i tedeschi, che essendo stati aggrediti difendono la loro patria e perciò siamo noi i carnefici(162).
In qualche occasione l'esasperazione per le misure repressive esplose in forma collettiva. Un episodio significativo accadde il 14 agosto 1917; quella mattina la città aveva subito il bombardamento più grave in termini di vite umane: era stato colpito l'Ospedale civile, i morti erano stati 17 e i feriti 28. Quando le incursioni cessarono, un "numero grandissimo di barche" si avviò verso le Fondamenta Nuove dove un aereo austriaco era caduto in laguna. Le ingiunzioni ad allontanarsi caddero nel vuoto ed allora i carabinieri iniziarono a investire le imbarcazioni con getti di acqua: grida contro la guerra, fischi, proteste e insulti furono le immediate reazioni(163).
La collera popolare infatti era pronta a sfogarsi contro chi impersonava il potere politico e militare: gli agenti di polizia, le guardie di città, gli ufficiali, i carabinieri erano scherniti con canzoni irriverenti, aggrediti, insultati: "I nostri figli sono al fronte, il tenente è giovane e dovrebbe essere al fronte", gridò un operaio della Manifattura Tabacchi al pontile della stazione ferroviaria all'inizio del 1917(164).
Nel marzo del 1918 un gruppo di giovani, tra i quali un reduce mutilato, non tollerarono la presenza di un funzionario di polizia al Caffè Cavour in campo S. Stefano, dove avevano intenzione di giocare a carte; passandogli accanto uno di loro disse: "vorrei sapere chi è questa carogna che sta qui dentro", e un altro: "è il momento di dargli addosso!"(165).
Il caso più grave di aggressione avvenne nel maggio 1917 in calle Ruga, a Castello, dove un gruppo di sei giovani, tra cui un arsenalotto, accerchiò alcuni agenti, li percosse con pugni e calci rivolgendo loro "le maggiori invettive"(166).
Nel sestiere di Castello infatti avvennero gli incidenti più numerosi. A S. Martino, a parere dei carabinieri, esisteva un "covo di persone pregiudicate e sospette"; ovunque era diffuso l'aiuto ai disertori e gruppi di giovani cercavano di impedire l'ingresso nel sestiere alle forze dell'ordine. Sempre a Castello, nell'ottobre 1917 due operai dell'Arsenale furono giudicati dal tribunale militare per aver insultato gli agenti di polizia. "Tu sei una guardia di P.S. […] se vuoi qualcosa da noi, fatti avanti"(167).
L'opposizione alla guerra si manifestava inoltre nell'aiuto a disertori e renitenti; anche a Venezia infatti la popolazione civile offriva rifugio nelle abitazioni, nei magazzini, nei retrobottega a chi era fuggito dal fronte o non vi aveva fatto ritorno dopo la licenza. Molti infatti furono i soldati veneziani che disertarono per "aiutare a vivere" mogli, madri e sorelle ed esse erano pronte ad aggredire i carabinieri per impedire l'arresto.
Mascalzoni, lazzaroni, assassini, andate voialtri al fronte nò mandare gli altri al macello, i nostri mariti non vogliono uccidere i suoi fratelli andate voialtri gente venduta in guerra che noi a causa di questa maledetta guerra è già da due anni che si soffre(168).
"Vagabondi! Non sapendo che fare vanno fermando i poveri figli di mamma" gridò l'11 dicembre 1917 un'operaia disoccupata agli agenti di polizia che avevano fermato tre presunti disertori(169).
La simpatia con cui la popolazione guardava ai soldati arrestati aveva indotto il Comitato di assistenza civile a chiedere a Paolo Boselli che essi fossero fatti viaggiare di notte, durante le ore in cui vigeva l'oscuramento, e non fosse loro permesso di sostare sotto le tettoie della stazione di S. Lucia al fine di sottrarli agli sguardi compassionevoli dei passanti(170).
Nel 1917, in città, a causa delle misure di polizia che il prefetto aveva assicurato, non si verificarono imponenti manifestazioni di protesta come in altre zone della provincia, a Cavarzere e a Camponogara, o nel vicino Polesine dove migliaia di donne si rifiutarono di riscuotere i sussidi, bloccarono i treni, assaltarono i Municipi, devastarono le abitazioni dei cittadini più abbienti(171). Nel centro storico all'inizio dell'anno il questore aveva segnalato che nel sestiere di Castello, "parecchie" donne avevano manifestato l'intenzione di "impedire con la violenza che le famiglie dei richiamati si rec[assero] a riscuotere i sussidi". Erano stati gli operai dell'Arsenale e i soldati in licenza, affermava il questore, a sobillare le donne(172).
All'inizio di luglio fu un gruppo di donne di S. Croce a trovare il coraggio di manifestare contro la guerra rifiutando i sussidi, "giornalmente incitando a commettere atti di violenza contro l'autorità" e affermando
che se si voleva il termine della guerra, nessuna donna doveva recarsi a ritirare i sussidi, bensì protestare perché fossero mandati a casa i loro uomini, che era necessario fare la rivoluzione affinché cessasse la guerra e diminuissero i prezzi dei generi di prima necessità, altrimenti tutti sarebbero morti di guerra o di inedia, che le donne potevano ottenere tutto riunendosi in gruppo recandosi al municipio per protestare contro il rincaro dei viveri e contro la guerra e perché mandassero a casa i loro uomini che erano stanchi(173).
Nella primavera-estate 1917 infatti anche a Venezia le notizie trapelate della rivoluzione in Russia avevano diffuso tra le classi popolari un senso di fiduciosa attesa e incoraggiato le manifestazioni di ribellione e i gesti di sfida.
I socialisti faranno terminare la guerra con la rivoluzione e allora daranno un calcio al Re e lo manderanno a spasso come hanno fatto in Russia. Credere alla stampa è un errore perché dicono tutte bugie e si vedrà a guerra finita quello che è sortito nei periodi soppressi dalla censura(174).
Mentre i comportamenti popolari emergono con nettezza dalle numerose fonti archivistiche, è molto più difficile comprendere lo stato d'animo dei ceti medi. Nel Comitato di assistenza, oltre agli esponenti del patriziato e del ceto altoborghese di professionisti e commercianti, si impegnarono nelle attività assistenziali e solidaristiche anche numerosi esponenti della media e piccola borghesia. Erano proprio questi ultimi a costituire l'asse portante dell'apparato assistenziale contribuendovi con un impegno diretto, in prima persona. Basti pensare all'azione capillare svolta dagli insegnanti, dai membri delle istituzioni di beneficenza, della Croce Rossa e delle opere pie nelle varie attività di assistenza e propaganda e nella raccolta di fondi. La consapevolezza di svolgere un ruolo insostituibile verso i più bisognosi contrastava con il progressivo peggioramento del proprio status sociale; con il passare dei mesi infatti il potere d'acquisto degli stipendi degli impiegati e dei dipendenti pubblici si ridusse progressivamente(175); vi era poi un'ampia fascia di piccoli commercianti, di locandieri che risentivano della contrazione dei redditi delle classi operaie e medie(176). Inoltre l'insistenza polemica dei mesi precedenti sul parassitismo delle attività legate al turismo, rendeva più acuto il senso di insicurezza per il futuro e spingeva molti a ripiegarsi nel proprio piccolo mondo. La difficoltà di mantenere quel decoro nello stile di vita che permetteva ai ceti medi di distinguersi dalle classi popolari e operaie risvegliò impulsi di difesa della propria identità sociale. Sulla stampa cittadina, anche nelle piccole notizie di cronaca, comparvero con sempre maggior frequenza espressioni di biasimo per i nuovi modi di vivere delle classi popolari, considerati non conformi alla loro condizione sociale. Commentando il diffondersi dell'abitudine del bere anche tra le donne del popolo, così scriveva la "Gazzetta di Venezia" nell'aprile del 1917:
Le classi medie che hanno più vigile il senso della convenienza, già da qualche tempo, anche per ragioni economiche, hanno diminuito assai il consumo del vino ed abolito quasi totalmente quello di liquori e hanno fatto opera vantaggiosa a se stesse ed anche alla collettività e devono essere quindi le classi operaie a dare il triste spettacolo?(177).
Le classi popolari, si diceva, che godevano dei sussidi comunali e governativi, erano facilmente indotte all'indolenza, mentre le classi medie sopportavano le privazioni con maggior senso di dignità e consapevolezza dei nuovi doveri civili.
Tutte le classi ebbero a risentire degli effetti della crisi […]. Mentre gli strati infimi della popolazione gravano in parte sulle braccia del governo che li alimenta coi sussidi stabiliti nei casi di richiamo, e dei Comitati locali, […] quelle che senza paragone maggiormente soffersero e soffrono, sono le classi medie e la piccola borghesia; proprietari di scarsi fondi, professionisti, impiegati, esercenti […]. Né queste classi di benemeriti cittadini hanno modo di provvedere con ripieghi straordinari agli straordinari bisogni, salvo poi chiudere le falle in tempi migliori, mentre non è ad esse classi possibile né compatibile, col diffuso senso del decoro, il ricorrere all'assistenza civile, nemmeno nei casi più gravi […](178).
Al rancore di larga parte dei ceti medi verso le classi popolari si univa la sfiducia nei confronti della classe dirigente cittadina. Nell'estate del 1916 una "commissione di cittadini", presieduta da Camillo Alberto Sebellin, si recò dal presidente del Consiglio per chiedere provvedimenti di agevolazione fiscale e finanziaria a favore dei proprietari di immobili ed esercenti nonché la concessione di indennità per gli impiegati.
Accennando alle disagiate condizioni degli impiegati tutti, sia dello Stato, della Provincia, del Comune, che delle Opere Pie, inclusi pel Comune i maestri ed i Vigili, noi sentiamo il dovere di chiedere per questa benemerita classe di cittadini, che ha veduto dimezzare i propri proventi, del 30 del 40%, in causa del rincaro generale, un aumento del 15 e del 25% cominciando da quest'ultima percentuale per i stipendi minimi(179).
L'iniziativa della commissione sollevò le preoccupazioni di Antonio Fradeletto che il 25 agosto, in una lettera a Boselli, scriveva:
Il contegno della popolazione veneziana è stato fin qui ammirevole. Ma la situazione è divenuta ormai tragicamente grave. Disagio persistente e acuto, pericolo continuo, hanno contribuito a crearla. Si accusa il Governo di abbandonare la Città, si accusa noi di non saper ottenere. La stessa iniziativa assunta dalla Commissione non autorizzata di cittadini veneziani che Ella ricevette giorni or sono, tende a screditare sempre più le rappresentanze politiche e amministrative, facendole comparire come incerte e impotenti(180).
Camillo Alberto Sebellin pubblicò nello stesso anno un opuscolo dal titolo Venezia nel conflitto europeo nel quale criticava l'opera della giunta comunale per i suoi cedimenti nei confronti delle classi popolari e per la politica annonaria.
Il Comune, per far qualche cosa e per far tacere i malcontenti, istituì da un anno e mezzo una commissione, coll'incarico di fissare i prezzi di listino, quasi a modo di calmiere, benché senza poteri coattivi. […] La commissione, tra il martello del pubblico che si lagna e l'incudine dei fornai, biadaiuoli e affini, pestò sodo sull'incudine, perché quei che si lagnavano erano i più e perché, da che mondo è mondo, si è sempre detto che, se il pane è caro, la colpa è dei fornai(181).
Oltre ai piccoli esercenti e agli impiegati, tra le categorie colpite dallo stato di guerra vi erano i piccoli proprietari di immobili, veri e propri "proletari del capitalismo" che "talora dovettero rinunciare a tutto, perché gli inquilini, o per forza maggiore o per cattiva volontà, non pagano"(182). Molti piccoli proprietari di immobili inoltre avevano subito danni ingenti in seguito ai bombardamenti, gli altri vivevano nell'incubo di vedere da un momento all'altro il loro patrimonio distrutto.
La richiesta di un riconoscimento concreto e pubblico dei sacrifici sopportati con fierezza si accompagnava alla tendenza a presentarsi come protagonisti del processo produttivo, asse portante del futuro sviluppo economico della città. Alberghi e bagni, continua Sebellin, non sarebbero più stati il perno della vita economica veneziana; la guerra aveva evidenziato la vulnerabilità del settore turistico, e per preparare "la resurrezione della Venezia del domani" non si sarebbe potuto prescindere dalla forza economica di artigiani e ceto medio.
I padroni fabbri, falegnami, muratori, ecc., non meno che i fornai, i biadaiuoli, i commercianti vari, ecc. formeranno ciascuno per la propria categoria, potenti organizzazioni che avranno per compito l'accaparramento delle materie prime e la loro equa distribuzione, la divisione e l'economia del lavoro, lo sfruttamento dei mercati, la sorveglianza dei controlli e la mano d'opera, l'applicazione delle leggi sul lavoro, le tariffe dei compensi per gli operai ed impiegati, ed i prezzi di rivendita.
Queste corporazioni, che potranno arricchirsi presto, coi contributi sociali obbligatori, di cospicui capitali, saranno la nuova potenza finanziaria e sociale del domani; che sostituendo in parte il cieco ed egoistico capitalismo liberista, di cui è il più insigne monumento l'anonima, moralizzeranno il commercio e l'industria(183).
Sulle autorità incombeva quindi il compito di organizzare le migliori energie produttive della città per la ripresa delle "attività in ogni campo". Le nuove corporazioni, consapevoli della propria importanza nella sfera economica, avrebbero saputo farsi interpreti del rinnovamento sociale contrapponendosi alla vecchia classe dirigente.
Questa forza finanziaria, industriale, commerciale, appunto perché sarà insieme una forza morale, rappresentante degna di tutti e singoli lavoratori, diventerà anche una forza politica di primo ordine; capace di rinnovare di sangue vivo il vecchio politicantismo e il degenere parlamentarismo, esponenti del caos già esistente nel paese.
Quale partito saprà mettersi alla guida delle nuove e potenti organizzazioni dei lavoratori?
Saranno capaci i vecchi partiti, quasi tutti legati a preconcetti e a formule, di modificarsi fino a divenir l'esponente e il mezzo di esplicazione, di attuazione di tanti e così vivi bisogni? O sorgerà un partito del tutto nuovo, con un contenuto superiore ad ogni formula, atto a riassumere e dirigere così le aspirazioni ideali come le aspirazioni materiali di un popolo assetato di giustizia e di benessere, perché passato attraverso la più grande tragedia che la storia ricordi?(184).
La guerra, che aveva imposto gravi sacrifici alla città, aveva anche indicato la via per la sua rinascita: unioni "di uomini avveduti e decisi" avrebbero saputo far fronte a compiti eccezionali. Un anno dopo l'intervento ampie fasce del ceto medio veneziano, nella convinzione di aver acquisito nuovi diritti, avevano lanciato una sfida alla classe dirigente.
I "piccoli interessi" tuttavia già durante il conflitto erano destinati a soccombere di fronte al maggior gruppo finanziario e industriale della città. Mentre le tradizionali attività produttive veneziane languivano, il settore elettrico, che non aveva subito alcun contraccolpo dalla dichiarazione della guerra, prosperava. Il gruppo S.A.D.E. (Società Adriatica di Elettricità), controllato da Piero Foscari e Giuseppe Volpi, grazie alle opportunità offerte dalla guerra, aveva rafforzato la propria struttura finanziaria e allargato il suo raggio di azione(185).
Nel 1917 il gruppo diede vita al progetto di una zona industriale dove "la presenza di energia elettrica in quantità eccezionale fosse utilizzata da industrie elettrosiderurgiche e navali"(186). Richiamo brevemente il rapido succedersi degli avvenimenti nella prima metà del 1917, già minuziosamente ricostruito(187): il 1° febbraio 1917 i rappresentanti dei maggiori enti industriali della città diedero vita al Sindacato di studi per imprese elettro-metallurgiche e navali nel porto di Venezia, presieduto da Giuseppe Volpi; nel maggio Enrico Coen Cagli, ingegnere capo del Genio civile e direttore dei lavori del porto di Genova, presentò il progetto del nuovo porto di Venezia, il 12 giugno il Sindacato costituì la Società anonima porto industriale di Venezia e infine il 23 luglio a palazzo Chigi Paolo Boselli, presidente del Consiglio, Ivanoe Bonomi, ministro dei Lavori pubblici, Filippo Grimani e Giuseppe Volpi firmarono la Convenzione relativa alla concessione della costruzione del nuovo porto di Venezia, in regione di Marghera, ed ai provvedimenti per la zona industriale ed il quartiere urbano. Tre giorni dopo la convenzione divenne esecutiva grazie al decreto 26 luglio 1917, nr. 1191, che stabiliva l'assunzione da parte dello Stato dell'esercizio del nuovo porto. La rapida approvazione di un progetto che non aveva alcuna relazione diretta con la produzione di guerra, in un momento in cui lo sforzo bellico era al culmine, è certamente da ricondurre alla forza di pressione degli interessi economici e finanziari rappresentati dal Sindacato, molto tuttavia contò nell'orientare le decisioni della classe politica cittadina la situazione in cui si era venuto a trovare il centro storico dall'inizio delle ostilità(188).
Benché né il consiglio comunale né il Parlamento fossero stati chiamati a partecipare alla stesura del decreto legge su Porto Marghera, esso venne sempre presentato come una risposta ai voti di Venezia e dei suoi rappresentanti. Le condizioni che la guerra aveva creato in città misero le autorità cittadine e lo stesso partito socialista nell'impossibilità di poter respingere il progetto. Esso poté facilmente essere presentato come un atto di giustizia nei confronti di una città particolarmente provata dalla guerra e che non aveva ottenuto che scarsi aiuti dallo Stato.
Venezia, la città d'Italia che più è stata colpita e si è data in vero olocausto alla patria, deve nell'avvenire trovare giusto compenso ai suoi immensi sacrifici, deve riassurgere alla sua antica potenza […]. La guerra ha avuto il beneficio inapprezzabile di metterci di fronte alla realtà e di obbligarci tutti a scegliere la nostra via: lo sviluppo della grande industria(189).
Difficile per il sindaco opporsi al progetto quando da anni pesava da più parti sulla giunta l'accusa di non aver saputo nulla ottenere dal governo. Afferma Filippo Grimani alla riunione del consiglio in seduta privata il 9 maggio 1917:
Il cantiere navale e le grandi industrie non potranno costituire che un grande vantaggio per Venezia. Lasciar passare l'attuale momento favorevole sarebbe una grave colpa, che per la nostra città potrebbe poi essere un danno irreparabile. La Giunta è in massima favorevole al progetto; ha presente gli oneri ai quali il comune va incontro, ma crede che nell'interesse della città, le trattative siano da continuare(190).
Neppure i socialisti, che sempre avevano sostenuto la necessità dello sviluppo industriale della città, fecero un esame critico del progetto che avrebbe cambiato il destino della città; "anzi [affermò Elia Musatti in consiglio comunale] è da fare ponti d'oro a tutti coloro che intendono di sviluppare industrie a Venezia".
La minoranza ha sempre propugnato l'ampliamento della città ed ha spesse volte sostenuto varie dispute, contrapponendo questo programma a quello amministrativo della Giunta troppo tenera per lo sviluppo dell'industria dei forestieri.
Perciò quando si presenta un progetto di sviluppo industriale della città, la minoranza non può essere che favorevole, tanto più quando si propone di andare in terraferma nel momento di maggiore difficoltà della vita cittadina, momento in cui occorre riguardare a qualche cosa che compensi del triste periodo che stiamo attraversando(191).
Benché in disaccordo sulla gestione del porto, il gruppo socialista non trovò "ragioni sostanziali per respingere il progetto" e si astenne dalla votazione che il 16 agosto 1917 approvava la convenzione firmata con il governo. In quella occasione al gruppo socialista non restò che lamentare la mancata estensione a Venezia dei benefici previsti dalla legge per il risanamento della città di Napoli ed il fatto che il Comune fosse stato messo di fronte al fatto compiuto. Erano trascorse solo poche settimane dall'approvazione del progetto quando furono mossi i primi importanti passi verso la sua realizzazione. Il 27 ottobre si costituì la Società cantieri navali e acciaierie di Venezia presieduta da Volpi a cui aderirono l'Ansaldo, la Terni, l'Ilva, la Alti forni di Piombino. In riva alla laguna approdavano i maggiori gruppi siderurgici, cresciuti a dismisura con le commesse statali. Avvalendosi della normativa sui sovraprofitti di guerra(192), la Società cantieri navali prevedeva l'impianto di una acciaieria e di un cantiere per la costruzione di navi di ogni dimensione.
Solo la rotta di Caporetto impedì la sua rapida attuazione.
La sconfitta militare sopraggiunse in città in un momento di particolare tensione e malcontento; le manifestazioni di opposizione alla guerra infatti dall'estate si erano fatte più esplicite ed avevano coinvolto anche i militari addetti alla difesa della città. "Siamo stufi di questa guerra!", aveva gridato il 1° ottobre un soldato della sezione antiaerea, "sarebbe meglio che venissero 6 o 7 zeppelin a seppellire Venezia!"(193).
E nei giorni della ritirata non mancarono espressioni di compiacimento per la vittoria austriaca. "Viva l'Austria! [gridò un bracciante disoccupato in calle dei Fabbri] Si sta meglio sotto i barbari tedeschi che sotto l'ignoranza italiana"(194).
Il sentimento di opposizione alla guerra, scrisse il ministro della Marina il 13 ottobre 1917, diffuso nelle campagne, si era esteso alla città e aveva contagiato anche i ceti medi:
Anche in città, dove la fiamma dell'amor patrio è sempre stata viva nelle classi elevate e medie, causa le incursioni aeree nel cuor della notte, si manifesta un malcelato senso di stanchezza. Le operazioni di rivista dei riformati procedono tranquillamente, ciò non toglie che tra gli interessati serpeggi il malcontento, e che con assoluta assenza di entusiasmo si adattino a dare la loro opera al paese(195).
A causa della censura su giornali e corrispondenza e dell'accresciuta vigilanza non fu facile per la popolazione farsi un'idea degli avvenimenti e ciò aumentava il senso di incertezza e di angoscia. In vari punti della città in molti accorrevano alla lettura dei bollettini di guerra, ma erano le notizie che passavano di bocca in bocca a far circolare speranze e timori. Era la stazione ferroviaria il luogo in cui giungevano notizie e informazioni che subito si diffondevano con grande rapidità. Il 2 novembre 1917 fu sorpreso a S. Lucia un capotreno mentre leggeva un volantino austriaco a ferrovieri e soldati che avevano fatto capannello. Il volantino era stato raccolto a Cismon da un viaggiatore ed era stato accuratamente copiato dai compagni di viaggio e dallo stesso capotreno(196).
Lo stato di angoscia in cui viveva la popolazione era aggravato dalla mancanza di notizie sulla sorte dei congiunti al fronte, dal timore dell'invasione e dall'incertezza sul destino della città. Se le autorità cittadine avrebbero voluto che Venezia fosse dichiarata patrimonio dell'umanità e la popolazione vedeva in ciò la possibilità di essere risparmiata da ulteriori bombardamenti, il capo di stato maggiore della marina non intendeva rinunciare all'importante base adriatica.
Venezia [scrisse Thaon di Revel a Orlando il 2 novembre] oltre che avere un notevole Arsenale, contiene materiali bellici preziosi ed è munita verso il mare da opere stabili di difesa di primaria importanza; tutto il necessario per assicurare una base alla nostra Marina anche in Alto Adriatico. Per migliorare le condizioni di essa, furono scavati nuovi canali navigabili nella laguna e fu trasportato man mano a Venezia il miglior materiale disponibile altrove e che ben difficilmente potrebbe ora recuperarsi in caso di ritirata ulteriore(197).
Quando il 12 novembre il governo austriaco chiese attraverso l'ambasciata spagnola al governo italiano se Venezia dovesse essere considerata "città aperta", la speranza che la città potesse essere sottratta alle azioni di guerra svanì. Questa infatti fu la risposta di Sonnino:
Venezia città non è fortificata. Quanto alla questione della difesa della zona di territorio nella quale essa si trova non si ritiene che alcuna risposta possa darsi nell'attuale fase delle operazioni di guerra(198).
Sulla difesa della città non mancavano divergenze tra i capi di stato maggiore dell'esercito e della marina. Alla difesa della base adriatica, scrisse Armando Diaz a Thaon di Revel, "non potevano essere subordinate le operazioni dell'esercito" che dovevano essere "libere da ogni vincolo di conservazione di particolari località e territori". Se l'esercito avesse subito uno sfondamento da nord, le necessità di ripiegamento avrebbero comportato la rinuncia a coprire Venezia(199).
Nel frattempo nessuna decisione venne presa sullo sgombero degli abitanti. Mentre le autorità militari erano favorevoli ad uno sfollamento immediato di tutta la popolazione, il presidente del Consiglio temeva per i problemi di ordine pubblico che un esodo in massa avrebbe causato. Il 15 novembre il presidente del Consiglio, il comandante di Piazza marittima, il prefetto e le autorità cittadine concordarono nel consentire un esodo graduale; i disoccupati e tutti coloro che potevano portare "perturbamento alla città" dovevano essere allontanati.
Nel frattempo fu inviato a Venezia un grande quantitativo di munizioni, cannoni, affusti e complessi antiaerei e la città fu stretta nella morsa della mobilitazione militare: la navigazione lagunare venne a cessare del tutto, vennero a mancare gli approvvigionamenti alimentari e iniziò l'esodo della popolazione.
La popolazione veneziana dal novembre 1917 all'aprile del 1918 passò da 113.941 a 40.263 abitanti (v. Tab. 2)(200).
I treni partivano ricolmi, la stazione centrale presentava un ben triste aspetto, ingombra di migliaia di colli accatastati in enormi masse(201).
Furono i benestanti, coloro che potevano far fronte alle spese del viaggio e della vita lontano dalle proprie case, a partire per primi, un esodo che Antonio Fradeletto deprecò sulle pagine della "Gazzetta di Venezia" il 22 novembre 1917.
Ma come non si comprende che la fuga delle persone colte e agiate è un disastro? […] Essa lascia dietro di sé profonda depressione morale, sottrae alimento alla fiamma dell'italianità, defrauda di mezzi i Comitati d'assistenza quando più stringe il bisogno, toglie ai miseri il conforto dell'umana solidarietà(202).
Carceri e manicomi furono le prime istituzioni alle quali si rivolse l'attenzione delle autorità. Furono pure sfollati ospedali, case di ricovero, orfanotrofi, comunità religiose(203). Dopo la pubblicazione del bando che annunciava il censimento della popolazione della città, nella notte tra il 7 e l'8 novembre, l'esodo si estese anche alla popolazione povera(204).
L'esodo era organizzato dall'Ufficio sgomberi, organo del comando in capo. Dalla fine dell'anno in Comune operava una commissione che accoglieva le domande di partenza, accertava lo stato di indigenza dei richiedenti, accordava la gratuità del viaggio. Poco sappiamo dei criteri di accoglimento delle domande, ma i prospetti delle partenze e la suddivisione per parrocchie della popolazione censita alla fine di aprile 1918 suggeriscono che a restare furono i più poveri. Le partenze furono scaglionate per gruppi omogenei sulla base dell'attività lavorativa: cotoniere, tabacchine, portuali affrontarono insieme il viaggio e l'insediamento nelle nuove località.
In una sola settimana, dal 14 al 21 novembre, abbandonarono la città 8.931 persone. Oltre la metà di coloro che in quei giorni partirono a spese del Comune, in maggioranza fanciulli, adolescenti e anziani, lo fecero sotto la guida e la responsabilità di una donna(205). La decisione di abbandonare la città era difficile per tutti; l'incertezza tra il restare e il partire conduceva a veri e propri stati di angoscia: il timore dei bombardamenti e delle conseguenze dell'invasione si scontrava con quello di far patire i disagi di un viaggio nella cattiva stagione a bambini e anziani(206). Troppe erano le incognite da affrontare: oltre al timore di perdere i contatti con i parenti al fronte, vi era l'incertezza della destinazione e del ritorno. I profughi infatti non avrebbero più potuto rientrare in città senza l'autorizzazione delle autorità militari, lo impediva un visto impresso sui documenti personali.
A risolvere le indecisioni e a spingere all'esodo sopravvennero ben presto le accresciute difficoltà della vita in città. Erano trascorse solo poche settimane dalla sconfitta militare e già si stavano esaurendo gli approvvigionamenti alimentari; Venezia inoltre era rimasta priva di difesa contro gli incendi: il corpo dei vigili in una città minacciata quotidianamente dai bombardamenti fu ridotto a soli 10 uomini. Ad aumentare l'esasperazione e i timori della popolazione si aggiunsero le voci, trapelate dagli ambienti militari, sull'esistenza di ordini che prevedevano la distruzione di tutti i servizi pubblici e l'allontanamento degli uomini dai 15 ai 60 anni per non lasciare in mano al nemico forze di lavoro valide. Il 5 dicembre Filippo Grimani scriveva a Vittorio Emanuele Orlando:
Fin d'ora l'amministrazione comunale deve dichiarare (pur senza assumere né la responsabilità né la direzione dello sgombero) che uno sgombero forzato della città diventa necessario ed anzi inevitabile se non s'intende di provvedere alla incolumità, all'approvvigionamento, ed alla continuità dei pubblici servizi, condizione essenziale per lo svolgimento della vita cittadina(207).
Le autorità cittadine temevano che la città dovesse affrontare uno sgombero d'urgenza: l'esodo, scrisse il sindaco, non avrebbe potuto essere che lento, caotico, pericolosissimo, "tale infatti da rendere meno triste il consiglio di rimanere tutti qui a rigore di fortuna"(208).
Il capo del governo, ancora all'inizio di dicembre, rinnovava i suoi inviti a tranquillizzare la popolazione, ma non poteva offrire alcuna assicurazione sulle scorte alimentari, né sulla difesa militare della città. Le condizioni degli approvvigionamenti erano ovunque difficili e precarie, scrisse Orlando al sindaco, e non vi era ragione di favorire Venezia; gli unici provvedimenti che il governo poteva assicurare si limitavano al mantenimento in servizio dei vigili del fuoco esonerati e al rafforzamento del corpo degli agenti di pubblica sicurezza(209).
Alla vigilia dei bombardamenti di febbraio i contrasti tra le autorità civili e quelle militari si erano riacutizzati; alla metà di febbraio un ordine emanato dalla Piazza marittima che imponeva lo sgombero immediato di 15.000 abitanti tra Mestre e Venezia aveva sollevato le proteste di Orlando: "non ammetto [dichiarò] che deliberazioni di simile genere si possano prendere all'insaputa del Capo del Governo"(210). Il risultato fu che nei giorni successivi furono sospese tutte le partenze, anche quelle scaglionate(211). Quando la città fu colpita dalle bombe, nella notte tra il 26 e il 27 febbraio, il malumore e la confusione erano al massimo.
Qui abbiamo tutte le notti gli aeroplani, di notte si fa giorno, sono otto notti di seguito che vengono, questa notte sono venuti quattro volte(212).
I bombardamenti che si abbatterono sulla città alla fine di febbraio furono i più intensi dall'inizio del conflitto. Nel complesso in sole otto ore furono sganciate 300 bombe, mentre nei tre anni precedenti erano state complessivamente circa 800; furono colpiti anche il Ricovero di mendicità, l'Ospedale militare e l'Istituto di S. Gioacchino(213). Dal cielo piovvero anche manifestini che definivano il bombardamento una "rappresaglia per Innsbruck". Nei giorni successivi furono i vescovi veneti ad esprimere le loro preoccupazioni per la politica delle ritorsioni in una lettera al presidente del Consiglio:
Incomincia già a formarsi nelle popolazioni del Veneto […] la persuasione che il governo austro-ungarico desisterebbe da ogni bombardamento sulle nostre belle e patriottiche città, qualora ottenesse una reciproca promessa da parte del Governo italiano. […] Sarebbe così ovvio e naturale che l'uso degli aerei fosse limitato al servizio di ricognizione, salva agli aerei medesimi la libertà di aggredirsi vicendevolmente(214).
Poche ore dopo la cessazione dei bombardamenti il prefetto invocava l'agevolazione dello sfollamento della città per "calmare la disperazione della massa popolare". E mentre una delegazione si recava al Municipio per chiedere l'esodo in massa, la città era scossa da tumulti:
Mezza città è senza acqua, senza luce, senza gas. […] Stamane dimostrazioni percorrono città reclamando alte grida salvezza donne e bambini. Avvennero durante notte scene miserande per affollamento nei rifugi. Donne vi partorirono, altra vi impazzì(215).
Le persone che in pochi giorni si accalcarono di fronte agli uffici aperti per la registrazione nelle scuole comunali di S. Provolo, a Ca' Diedo, S. Trovaso e S. Felice, furono 35.000. Da marzo a maggio non meno di 25.000 veneziani furono allontanati da Venezia. Fino ad 800 persone al giorno lasciarono la città. Tra i partenti comparvero per la prima volta gli abitanti di Murano (339) che furono destinati a Teramo. Nel maggio la popolazione veneziana continuò a scemare, poi l'esodo si attenuò per cessare quasi totalmente nell'agosto.
L'intensità dei bombardamenti aveva riacutizzato il timore che per ragioni militari legate alla difesa della città potesse essere interrotto il ponte ferroviario impedendo così ogni collegamento con la terraferma. Mentre il sindaco invocava il potenziamento dei trasporti marittimi a Chioggia(216), l'ondata di profughi veneziani creava serie difficoltà nei luoghi di arrivo.
Le disponibilità di accoglienza a Rimini, Alessandria, Genova e Pesaro si dimostrarono inferiori al previsto e assolutamente inadeguate ai bisogni. Nei mesi di marzo e aprile fu tutto un susseguirsi di telegrammi da parte delle autorità cittadine che invocavano dal governo assicurazioni sull'accoglienza della popolazione profuga.
Filippo Grimani in un telegramma del 24 aprile ad Orlando, ricordando che il "problema civico di Venezia doveva essere considerato un problema nazionale", scriveva:
Ora è venuta meno ogni disponibilità posti. Computi fissati con V.E scorso gennaio inattuabili perché da più parti prefetti protestano insufficienza approvvigionamenti che non è accresciuto in correlazione al numero di profughi anche se notevole. Così le assegnazioni per Venezia progressivamente diminuite non garantiscono cibo indispensabile ai veneziani fuoriusciti ed imputansi ai profughi della insufficienza dei generi comune consumo e togliesi quella benevolenza degli ospiti che sola lenisce dolore esodo. Ad Alessandria, ove furono accolti 1.788 veneziani, manca ogni altro posto malgrado promessa immediata di 3.000 posti che avrebbero dovuto accrescersi sino a 10.000. A Genova, dopo invio 1.367 persone non accettansi altre e contavamo su 2.500 posti. A Pesaro si occuparono 1.081 dei quali 4.970 posti calcolati da comm. Cirmeni Ispettore generale Ministero Interno, ma non effettuabile qualche altro invio per assoluta deficienza di arredi casalinghi e per incompiuta requisizione. Per eguali cause ad Ancona non si è dato alloggio e stentatamente che a 513 persone sulle duemila ipotizzate e che avrebbero dovuto ascendere fino a 8.000. A Perugia non furono mandati che 316 veneziani malgrado prima disponibilità fosse fino a 1.000 persone e 6.000 dovessero essere complessivamente profughi nostri colà raccolti(217).
Nei giorni successivi l'esodo, benché in misura più limitata rispetto ai mesi precedenti, poté riprendere. Nei primi cinque mesi del 1918 furono allontanate dalla città oltre 24.000 persone; altre 20.000 erano fuggite a proprie spese.
Ad eccezione dei laboratori artigiani, delle industrie artistiche, che spostarono le proprie attività a Rimini, Livorno e in altre località, e dei cantieri Savinem che si trasferirono a Piombino con i propri operai, l'esodo degli stabilimenti industriali prese vie diverse dalla maggioranza della popolazione. Alcune aziende se ne rammaricarono temendo con il trasferimento di perdere il controllo sulla propria mano d'opera(218).
Il trasferimento di industrie nella colonia più popolosa non fu considerato vantaggioso dal punto di vista economico e non ebbe grande rilievo. Se ne discusse presso il Comitato di mobilitazione industriale per il Veneto il 23 marzo 1918:
Al Municipio di Venezia, affermò il presidente, è stata comunicata l'intenzione di impiantare qualche industria a Rimini, più per ragioni morali che per ragioni di economia. Egli ritiene che tale iniziativa, sebbene non rientri strettamente nelle attribuzioni del comitato, debba essere aiutata, e perciò propone di recarsi prossimamente a Rimini e prendervi accordi con quei rappresentanti del comune di Venezia(219).
Le officine meccaniche Toffolo, che si erano trasferite a Rimini nel novembre 1917, rimasero inoperose per diciotto mesi a causa della mancanza di materie prime(220). Nelle nuove sedi molti stabilimenti modificarono la loro attività adattando o rinnovando il macchinario alle nuove produzioni di guerra, assunsero mano d'opera locale e aumentarono le loro dimensioni. Lo stabilimento di materiale elettrico Pilla si trasferì nei pressi di Firenze, la Svan a La Spezia, la ditta Dal Prà si dedicò alla produzione di materiale ferroviario a Reggio Emilia, la Riseria Italiana si trasferì a S. Germano Vercellese, il cantiere Poli a Viareggio, la cooperativa Benedetto Brin a Reggio Emilia, la ditta Zampato a Pisa, lo Stabilimento veneziano industrie metalli e legno a Prato, la Levi ad Arezzo. Quest'ultima si fuse con la ditta Zago di Venezia e con la Del Favero di Vittorio Veneto per la produzione di aeroplani(221).
Poco quindi sappiamo delle condizioni di vita degli operai e degli artigiani veneziani che andarono profughi, dispersi in diverse destinazioni, spesso costretti a mutare lavoro. Da coloro che avevano seguito i propri stabilimenti giunsero numerosi segni di malcontento sia per le condizioni di lavoro e di salario che per i difficili rapporti con la popolazione locale.
Nell'ottobre 1918 la protesta dei lavoratori della Savinem fu discussa dal Comitato regionale di mobilitazione industriale dopo che il giornale "Il Martello" aveva pubblicato un articolo dal titolo Schiavitù moderne a firma di "un gruppo di operai". Nell'articolo si denunciavano lo sfruttamento della mano d'opera militare, il rifiuto della direzione di inoltrare le domande dei comandati di mutare la propria condizione militare, la mancata assegnazione del sussidio alle famiglie, la prepotenza dei capi. Fu incaricato di una inchiesta Luigi Frizzole, socialista veneziano e rappresentante operaio all'interno del Comitato. Tutti gli operai comandati furono singolarmente interrogati; Frizzole giunse alla conclusione che le accuse rivolte alla direzione nel complesso erano infondate, tuttavia affermò:
Ho trovato quelle maestranze in uno stato d'animo non tranquillo, per le condizioni di vita rese penose dall'ambiente scarso di abitazioni e male approvvigionato […](222).
Poche settimane più tardi, il 20 novembre 1918, fu un gruppo di operai del cantiere a rivolgere al sindaco le proprie lagnanze e ad invocare il rientro in città:
[I cari figli] attualmente presenti a Piombino non possono frequentare le scuole essendo poveri innocenti boicotati dagli insegnanti e odiati dai compagni di scuola […]. Stanchi di soffrire più oltre in terra straniera, mal visti dalla popolazione Piombinese, sprovvisti dei più urgenti bisogni, ricoverati malamente in Capannoni o in piccoli tuguri privati, costretti a lavorare in locali scoperti, esposti a tutte le intemperie, e più ancora la gran parte di noi malandata in salute, appunto per le tante privazioni suesposte, invochiamo […] quell'interessamento urgente e umanitario per farci ottenere il più presto possibile il rimpatrio che da tanto tempo aneliamo(223).
Se l'esodo graduale della popolazione fu favorito dalle autorità cittadine, quello delle più importanti attività industriali, al contrario, fu considerato con crescente apprensione: le industrie meccaniche e navali, una volta trasferite altrove, difficilmente avrebbero fatto ritorno alla loro antica sede. Il destino della città, scriveva il sindaco ad Alfredo Dallolio, sarebbe rimasto quello di una città esclusivamente dedita al turismo.
La natura stessa delle imprese non consente sistemazioni provvisorie e le spese che si richieggono oggi per dar efficienza agli impianti impediranno domani il proposito di ritornare a Venezia. Così, finita la guerra, mancheranno qui fonti di lavoro produttivo e dominerà, sola e perciò corruttrice, l'industria del forestiero(224).
Le preoccupazioni non erano infondate; secondo un'inchiesta condotta dal Ministero per le Armi e munizioni nelle prime settimane del novembre 1918, sia la Savinem che il cantiere Poli dichiararono di avere intenzione di mantenere parte della loro attività a Piombino e Viareggio; in maggioranza le altre industrie fecero sapere che sarebbero tornate a Venezia solo quando si fossero presentate condizioni vantaggiose: trasporti gratuiti per i macchinari, elettricità e mano d'opera a basso costo, indennità(225). Il rientro infatti fu lento e si protrasse per molti mesi dopo la fine delle ostilità.
Alla fine di aprile Venezia appariva una città silenziosa e spopolata: case abbandonate, negozi chiusi, alberghi deserti. Non solo le industrie, ma anche gli istituti di credito e gli uffici comunali si erano trasferiti e così pure la Camera di commercio, la deputazione provinciale, il distretto militare. In città quasi ogni attività venne a cessare. Alla fine di novembre anche il magazzino militare si era trasferito a Rimini ed il laboratorio di sartoria diretto da Maria Pezzè Pascolato era stato riorganizzato a Genova. "A Venezia non resta quasi possibilità di impiego per le sue maestranze. E il disagio della popolazione è senza esempio"(226).
Era rimasto in città il 27,07% della popolazione censita nel 1911; oltre agli impiegati pubblici, la maggioranza era costituita dalla popolazione più povera che doveva giornalmente ricorrere alle cucine economiche(227).
Dalle parrocchie in cui prevalevano gli operai, i braccianti e gli avventizi, i piccoli esercenti, le partenze furono più limitate. Spiccano tra tutte la parrocchia di S. Pietro di Castello dove risiedevano le famiglie degli arsenalotti e quelle di S. Silvestro e S. Cassiano dove abitavano i facchini del mercato di Rialto. Alla Giudecca l'esistenza di tanti piccoli orti e anche di qualche stalla ed il fatto che l'isola fosse stata risparmiata dai bombardamenti contribuirono ad indurre parte della popolazione a rimanere.
La particolare situazione in cui venne a trovarsi Venezia immediatamente dopo la ritirata inasprì ancora di più le misure repressive. Già a partire dai primi giorni di novembre la "Gazzetta di Venezia" diede grande risonanza nella pagina dedicata alla cronaca cittadina alle condanne inflitte dai tribunali. Il 1° novembre 1917, in un breve articolo intitolato Condanna esemplare, si legge:
La sera del 30 ottobre scorso certo Boschin Carlo fu Romano di anni 45, veneziano, trovandosi in un bar nei pressi della Stazione, uscì in considerazioni tanto sconciamente antipatriottiche, da suscitare lo sdegno dei presenti. Denunciato, venne immediatamente arrestato. Comparve ieri, per direttissima, innanzi al Tribunale Penale e venne condannato a 3 mesi di reclusione e 50 lire di multa. Imparerà ad essere italiano! E la lezione servirà anche a parecchi altri(228).
Era sufficiente una frase da cui trapelava un senso di stanchezza o di sfiducia per essere denunciati per disfattismo. Nell'aprile andò sotto processo anche un ragazzo di 13 anni: "Stai tranquillo [aveva scritto ad un parente al fronte] che sono tutte ciacole quelle che dicono i giornali e la gente, fanno per farci acquistare dell'odio"(229).
Il 18 novembre il prefetto di Venezia annunciò al Ministero di aver adottato disposizioni ancora più severe per l'allontanamento dalla città "di tutti coloro che [potevano] costituire pericolo per la sicurezza e l'ordine pubblico"(230). Reati comuni come danneggiamenti, attentati alla libertà di lavoro, frasi volte a deprimere lo spirito di resistenza delle popolazione avrebbero trovato nel corso del 1918 pronta e severa punizione. È quanto promise l'avvocato generale Umberto Castellani il 10 gennaio 1918 in occasione dell'inaugurazione dell'anno giudiziario:
Per grande fortuna nostra sembra che ora ogni movimento interno contro la guerra sia venuto a cessare. Ove malauguratamente qualche tentativo diretto od obliquo avesse ancora a manifestarsi, la esperienza amara ammaestri tutti. Io credo di potermi rendere garante per la Magistratura Veneta che essa nella repressione giudiziale farà, al caso, pronta opera di giustizia e di patriottismo(231).
I condannati e persino gli indiziati di disfattismo furono inviati a Perugia, Arezzo, Lucca per l'intera durata della guerra(232). Tali provvedimenti non valsero tuttavia ad eliminare la piccola criminalità e le manifestazioni di dissenso in città; a causa della disoccupazione, della povertà, delle difficoltà della vita, aggravate dai rigori dell'inverno, nel 1918 aumentarono i piccoli furti, ad opera soprattutto di bande di giovanissimi. Dalle case dei profughi si sottraevano coperte, biancheria, abiti; dai materassi si ricavava la lana e se ne faceva incetta.
I prezzi dei generi di prima necessità salivano vertiginosamente: nel gennaio 1918 a Venezia si registrano i prezzi più elevati d'Italia per fagioli, patate, carne suina e stoccafisso, tutti generi di ampio consumo popolare(233).
Le persone ammesse al beneficio delle razioni gratuite distribuite dall'Opera pia cucine economiche di Venezia passarono da 1.647 nel novembre 1917, a 8.423 nel 1918. I locali degli ospedali, del manicomio, degli istituti di beneficenza e degli orfanotrofi accolsero il numero crescente di indigenti e le loro attrezzature furono utilizzate per la preparazione dei pasti; anche per l'approvvigionamento del pane le difficoltà non furono lievi poiché la maggioranza dei forni aveva chiuso i battenti(234).
Condizioni tanto difficili non potevano non riflettersi sull'andamento della mortalità che nel 1918 fu elevatissima: 2.722 morti su circa 40.000 abitanti presenti; negli anni precedenti (1914-1917) la media dei decessi era stata di 3.242 unità, ma su una popolazione presente tre volte superiore. Nel 1918 di sola tubercolosi polmonare e influenza morirono ben 978 persone(235).
Negli ultimi mesi di guerra le difficoltà della vita in città riaccesero le rivendicazioni delle categorie operaie che erano rimaste e del ceto medio impiegatizio. Il giorno successivo ai gravi bombardamenti che si abbatterono sulla città, gli impiegati statali presentarono al governo un memoriale in cui si definivano la categoria che più di ogni altra aveva sofferto dei disagi portati dalla guerra. Ingiusto e inopportuno era a loro parere il divieto di lasciare la città quando altre istituzioni pubbliche e militari si erano trasferite. In primo luogo quindi essi rivendicavano la possibilità di essere sostituiti, richiedevano inoltre che il periodo di servizio trascorso a Venezia venisse considerato campagna di guerra e computato doppio ai fini pensionistici, che fosse concessa l'indennità di località disagiata oltre ad una indennità fissa mensile per provvedere al sostentamento delle famiglie che, su suggerimento del governo, avevano lasciato la città ed infine un indennizzo speciale per eventuali danni subiti a causa dei bombardamenti(236).
La protesta degli impiegati veneziani anticipava l'agitazione dei dipendenti dello Stato e degli enti locali che sarebbe dilagata di lì a poco in tutti i centri cittadini(237).
Qualche settimana più tardi ai dipendenti pubblici si unirono gli operai e gli impiegati delle officine grafiche Carlo Ferrari. Nel maggio 1918 presentarono le loro richieste prima al Comitato regionale di mobilitazione industriale e poi al comandante della Piazza marittima. Chiedevano un aumento salariale del 25% per caro viveri, come i dipendenti pubblici.
Forse la loro vita e l'esistenza non è difficile come quella categoria d'operai? Con un'arte malsana, soggetti per ben 9 ore al giorno in una officina coi miasmi dell'antimonio, un operaio quando si reca alla sua modesta casa non porta ai suoi cari che poco più di una lira al giorno per ciascun componente la famiglia, resta ottuso, perplesso e spossato(238).
Nel luglio fu la volta degli operai della Società di illuminazione; chiedevano un aumento del caro viveri e la riduzione del debito contratto dagli operai con la società in previsione dello sfollamento della città(239).
Non meno irta di difficoltà nell'ultimo anno di guerra si presentava la vita nelle colonie. La maggior parte dei profughi veneziani (68.329 secondo il censimento a cura del Ministero per le Terre liberate all'ottobre 1918) si trovava in Emilia (20.126), Toscana (10.045), Lombardia (9.289)(240). In base alle rilevazioni della Commissione profughi del Comune di Venezia dal novembre 1917 al maggio 1918 si trasferirono a Rimini, Riccione, Cesenatico, Cattolica, Bellaria e Viserba a spese del Comune non meno di 17.000 veneziani.
Le partenze si svolsero nella più grande confusione e incertezza; il viaggio era lentissimo e i disagi immensi: furono utilizzati anche carri bestiame, senza illuminazione, senza latrine e le sofferenze erano aggravate dalla stagione invernale. Numerosi i casi di bambini dispersi o abbandonati(241).
Già a partire dai primi giorni di novembre nella pagina di cronaca cittadina della "Gazzetta di Venezia" comparve la rubrica Profughi che si ricercano, a cui si rivolgevano coloro, ed erano soprattutto soldati, che erano rimasti privi di notizie dalle famiglie.
Anche la destinazione fino all'ultimo restava incerta. Accadeva che treni avviati verso l'Emilia o la Romagna fossero fatti proseguire per Senigallia, Ancona, Pesaro, Napoli. Dirottamenti improvvisi potevano avvenire anche in seguito a segnalazioni dei prefetti dei luoghi di destinazione. Tra il 7 e l'8 novembre 700 veneziani, che avrebbero dovuto recarsi a Parma, furono improvvisamente dirottati verso Ferrara. Nei giorni precedenti i veneziani avevano manifestato il proprio malcontento. Scrive il prefetto Cotta il 7 novembre:
Duecentotré profughi partiti da Venezia sera 5 qualificati come appartenenti condizione umile avviati ricovero Zibello hanno protestato per destinazione pretendendo voler restare a Parma o recarsi località dove trovar lavoro. […] Alcuni hanno lasciato il ricovero (nonostante le assicurazioni). Si prega di tener conto nell'invio dei profughi della loro condizione e delle loro capacità a lavori che la provincia non può offrire(242).
La volontà di mantenere il più possibile unita la comunità veneziana fece alla fine prevalere la scelta del litorale adriatico, nella zona tra Cesenatico e Cattolica dove erano disponibili i villini utilizzati nella stagione balneare, quando il litorale riminese accoglieva quasi 40.000 villeggianti. I proprietari dei villini tuttavia opposero non poche resistenze alla requisizione; essi infatti "avrebbero voluto imboscarli e tenerseli a disposizione, in vista di una prossima stagione balneare"(243).
Così i profughi furono costretti a vivere in condizioni di sovraffollamento. Ai primi di gennaio 1918 l'Ufficio comunale di assistenza profughi di Rimini segnalava una media di oltre 19 persone per abitazione.
Si trattava di villini signorili inadatti ad accogliere le famiglie numerose delle classi popolari; le persone abbienti che si recavano in vacanza sul litorale infatti in genere consumavano i loro pasti negli alberghi e le cucine non erano convenientemente attrezzate; i profughi dovettero adattarsi a cucinare nei corridoi o nelle stanze da letto con fornelli a carbone.
Era accaduto inoltre che alcuni proprietari avessero privato gli appartamenti di mobili e attrezzature per timore che fossero danneggiati. Stoviglie, arredi e biancheria vennero ammassati nei piani terra e tenuti sottochiave, un oltraggio per chi mancava di tutto. Per di più molti villini erano stati lesionati dal terremoto del 1916 o danneggiati dalle bombe: i vetri delle finestre andati in frantumi e le condutture dell'acqua spezzate dal gelo non erano state ancora riparate. A soffrirne per primi furono i bambini. I fanciulli di meno di 10 anni infatti rappresentavano ben il 30% della popolazione profuga.
Scrive al sindaco un soldato la cui famiglia, composta dalla moglie e da 5 bambini di età inferiore a 10 anni, era profuga a Rimini:
Qui trovò accoglienza da bestie, immagini che da tre mesi si dormono sulla paglia, tutti in una camera i miei bambini e moglie che sono irriconoscibili e io di non poterle essere di sollievo mentre nella mia casetta a S. Rocco nulla mancava...(244).
Fino alla fine di novembre il Comitato di mobilitazione civile e il Comune di Venezia, che avrebbero dovuto provvedere all'assistenza e all'approvvigionamento, non avevano ancora fatto pervenire sulla costa adriatica i generi di prima necessità: mancavano il pane e il latte, le coperte, e nei villini privi di riscaldamento e situati in luoghi battuti dal vento il freddo era intollerabile. Per tutto l'inverno il problema della distribuzione di indumenti caldi non fu mai convenientemente risolto; le poche coperte assegnate erano oggetto di furto, in qualche caso vennero fatte a brandelli per farne sciarpe o altri indumenti per ripararsi dal freddo(245).
La precarietà della vita nella colonia preoccupava le autorità riminesi e già il 20 novembre il prefetto "scongiurava" il deputato di Rimini Facchinetti di ottenere la sospensione degli arrivi avanzando le più allarmate preoccupazioni per l'ordine pubblico in Romagna(246). Tra i profughi veneziani, affermava, vi erano anche elementi torbidi che potevano essere causa di disordini(247).
Due giorni dopo alcune donne veneziane si riunirono di fronte ai villini e si avviarono verso il centro cittadino per protestare per la mancanza di coperte, arredi, latte per i bambini; il corteo, secondo le modalità consuete delle proteste femminili durante il conflitto, si ingrossò per via e di fronte al Municipio manifestarono centinaia di donne(248).
La possibilità che il malcontento dei veneziani esplodesse in manifestazioni violente e compromettesse i rapporti con la popolazione civile e le autorità cittadine era al centro delle preoccupazioni del Comitato di assistenza civile che fece ogni sforzo per tenere sotto il suo controllo ogni aspetto della vita della colonia e sollecitò a questo scopo anche un nuovo funzionario di polizia per la zona al fine di "identificare e sorvegliare gli elementi torbidi"(249).
I primi spacci di generi di prima necessità furono aperti il 28 novembre e solo dalla fine del mese i profughi poterono contare sui primi acconti del sussidio(250) (10 lire a settimana per ogni adulto, 5 per ogni bambino di età inferiore ai 10 anni)(251).
Ma, denunciava una petizione sottoscritta da 12 profughi, i prodotti in vendita erano scarsi e di cattiva qualità e il sussidio non garantiva neppure un regime alimentare privo di carne, latte, formaggi e uova. Una famiglia composta da tre adulti e un fanciullo doveva spendere oltre al sussidio quasi 3 lire al giorno per avere caffè zuccherato alla mattina, pasta e fagioli a pranzo, pane e zuppa di cavoli a cena e per rifornirsi di candele e carbone(252). Ad aggravare la situazione nella primavera del 1918 giunse un'altra ondata di profughi. Da gennaio a maggio i nuovi arrivati furono oltre 6.000.
E mentre il prefetto di Rimini avanzava difficoltà di requisizione e chiedeva di sospendere gli invii al fine di provvedere all'arredamento degli alloggi, il prefetto di Venezia faceva presente la necessità di "calmare la notevole inquietudine" che serpeggiava in città(253).
Le attività di assistenza ai profughi ad opera del Comune e del Comitato, dopo la risoluzione dei problemi di alloggio, si rivolsero all'assistenza sanitaria e religiosa, all'educazione scolastica e soprattutto al collocamento. All'inizio dell'anno nelle zone in cui i profughi erano affluiti più numerosi le attività lavorative organizzate rimasero estremamente limitate: a Cesenatico, dove alloggiavano 1.900 veneziani, vi era un solo laboratorio di confezione di indumenti militari in grado di occupare 50 donne; a Riccione, che ospitava 1.600 profughi, oltre al laboratorio di sartoria, nel gennaio 1918 entrò in funzione un calzaturificio che offriva lavoro a 50 operai(254). Nei mesi successivi furono incrementate le lavorazioni di sartoria e venne istituito un laboratorio-scuola dove si apprendeva l'uso della macchina da cucire; uomini e ragazzi vennero inviati in squadre al fronte per i lavori di trinceramento.
Gli uffici profughi, i delegati del Comune e del Comitato di assistenza civile fecero da intermediari per il trasferimento delle piccole imprese artigianali da Venezia, alle donne offrirono aiuti per riscattare dal Monte di pietà i loro piccoli averi, concessero contributi per l'abbonamento ferroviario a chi trovava lavoro lontano dalle proprie abitazioni. L'attività di assistenza, le raccomandazioni per una vita moderata priva di sprechi si accompagnavano a ispezioni nelle case attraverso agenti di pubblica sicurezza per verificare se i profughi fossero entrati in possesso di qualche lampadina o coperta in più(255). Le frequenti visite domiciliari, l'attenzione ai bisogni dei singoli si accompagnavano ad un severo controllo sulla condotta personale. Un'esplosione di malcontento, una frase che poteva turbare la tranquillità della colonia, comportava l'ammonizione. Accadde a due operai che si erano recati presso Bassano a lavorare per il Genio militare; al ritorno raccontarono di essere sfuggiti per miracolo alla morte a causa della pericolosità dei luoghi in cui si svolgevano i lavori. Deferiti al tribunale di Forlì, oltre alla condanna a 2 mesi di reclusione, al pagamento di 100 lire di multa, ricevettero la "severa ammonizione dell'avvocato Marsich" per aver allarmato le madri dei numerosi ragazzi che erano partiti con le squadre dei lavoratori(256).
Una preoccupazione costante fu quella di "togliere dalla strada centinaia di ragazzi vagabondi e pericolosi a sé e agli altri" procurando loro occupazione e assistenza. L'assessore delegato Garioni il 23 dicembre 1917 a nome dell'ufficio di assistenza profughi del Comune di Venezia proponeva la creazione di ricreatori più che di vere e proprie scuole elementari per le quali mancavano gli arredi.
[I ragazzi vagabondi] saranno raccolti in squadre da insegnanti che assolveranno il loro compito tenendoli disciplinati, svolgendo il programma di insegnamento nell'aula, o sulla spiaggia o in campagna, traendo da fatti naturali l'argomento di lezioni all'aperto.
Nei mesi immediatamente successivi, nonostante la mancanza di maestre, fu possibile assicurare una vera e propria istruzione elementare e i ricreatori, gestiti da sacerdoti, accoglievano i bambini per qualche ora nel pomeriggio. L'attività scolastica iniziò il 22 novembre 1917 e nel marzo del 1918 le scuole tra Rimini e Cattolica erano in grado di accogliere 1.750 fanciulli che salirono a 2.500 alla fine dell'anno. A Viserba le lezioni si svolgevano in 4 soli locali in cui erano stipati 500 alunni; a Rimini all'inizio del 1918 erano accolti negli asili 600 bambini dai 3 ai 6 anni, ma la scuola elementare disponeva di sole 4 aule per circa 400 iscritti(257). La frequenza inoltre era saltuaria, soprattutto quella dei più grandicelli, dai 10 ai 12 anni(258).
La scuola, scrisse la direttrice Anita Canal alla fine del suo mandato, si sforzò di dare ai ragazzi indisciplinati l'"impronta dell'ordine e della disciplina", rafforzata dal mondo chiuso e sorvegliato della colonia. La sua ultima relazione al sindaco è colma di rimpianto per il clima della colonia quando poteva incontrare per le vie i ragazzi cui insegnava nelle classi o ritrovarsi negli spacci con le donne che frequentavano la scuola serale o i laboratori e "attaccare discorso con tutti".
La retorica e la propaganda patriottica erano ancora più accentuate tra i fanciulli profughi: nelle aule sovraffollate, dove si scriveva sulla copertina dei quaderni e uno scolaro a turno girava tra i banchi con l'unica carta asciugante disponibile, i bambini venivano sollecitati ad apprezzare la protezione offerta dall'assistenza cittadina da un mondo estraneo e forse ostile. I bambini veneziani infatti erano intimoriti dal dover affrontare l'inserimento nelle scuole locali, dove le differenze di abitudini e di linguaggio avrebbero accentuato i disagi e le umiliazioni.
Se il comportamento dei bambini più piccoli poté essere tenuto sotto controllo con una certa facilità in scuole e ricreatori, non così quello degli adolescenti che, spesso privi di occasioni di lavoro, si aggiravano tra i villini o per le vie del centro cittadino alla ricerca di opportunità di piccoli guadagni, anche illeciti. La grande maggioranza dei veneziani giudicati dal tribunale di Forlì aveva un'età compresa tra i 12 e i 18 anni. Dagli alberghi sottraevano stoviglie, dalle ville uova e galline, dai negozi caffè e cioccolata e dai carri ferroviari carbone. Si trattava spesso dei figli maggiori di famiglie numerose che vennero condannati severamente, fino a 7 mesi di reclusione(259). Qualcuno fu anche condannato per disfattismo. "Vigliacca l'Italia e porco il re!" aveva gridato un diciottenne che avrebbe voluto rientrare temporaneamente a Venezia(260).
Poco sappiamo dei rapporti con la popolazione locale; la documentazione giudiziaria tuttavia rivela che non mancarono atteggiamenti di diffidenza verso i veneziani ritenuti responsabili di numerosi episodi di criminalità a Rimini e Riccione. Nel corso dei dibattimenti infatti nelle dichiarazioni di accusa affiorano spesso sentimenti di ostilità.
Un processo significativo si celebrò presso il tribunale di Forlì nell'ottobre del 1918 contro sei ragazzi accusati di aver sottratto del denaro in un'abitazione di Riccione. Poiché la derubata non "poteva avere alcun sospetto sui vicini di casa", aveva accusato i ragazzi "che parlavano il dialetto dei profughi", i quali però furono assolti per mancanza di prove(261). Assolto con la stessa motivazione un facchino veneziano di 44 anni accusato di aver sottratto due coperte di lana nel gennaio 1918 dall'Hotel Amati dove era alloggiato. La proprietaria aveva accompagnato la sua accusa con questa affermazione: "i profughi che sono a Riccione non fanno che bere ed a sera, uomini e donne, sono tutti briachi"(262).
Seconda per importanza, dopo quella riminese, era la colonia di Genova(263). Nel maggio i profughi veneziani erano 3.750 in città e 3.100 in provincia(264).
Benché nel capoluogo ligure la richiesta di mano d'opera negli stabilimenti ausiliari fosse sempre elevata, l'inserimento dei veneziani non fu privo di difficoltà. Come profughi, che avevano dovuto abbandonare la propria città, il proprio lavoro e talvolta la propria famiglia, essi ritenevano di avere maggiori diritti.
Da un lato i veneziani vorrebbero ottenere subito proficuo impiego nelle condizioni almeno uguali a quelle che asseriscono avere goduto nella loro città d'origine e si acconciano soltanto di rado ed a stento ad accettare occupazioni di minore impegno di minor reddito od a conservarle. Rifiuti codesti che spesso pronunziati con tono sprezzante e con enunciazione delle teorie ben note circa il diritto al sussidio ed all'apprezzamento del salario quasi fosse soltanto rappresentato dalla differenza tra sussidi e mercede, urtano come scandalosi agli Uffici locali e non raccomandano la maestranza veneziana(265).
Anche per chi si adattava ai lavori più umili la vita era difficilissima a causa delle infelici condizioni delle abitazioni, spesso distanti dai luoghi di lavoro, dei prezzi elevati dei generi di prima necessità e della insufficienza dei salari. Il quadro, scrisse Rambaldi, era fosco e penoso:
Necessità di vivere in case ammobiliate di una città, ove la popolazione è densa, i quartieri circostanti le località industriali sono saturi e quasi soprasaturi di gente, le pigioni sono normalmente elevate, la vita è cara come in pochi altri luoghi […]. Necessità di piegarsi ad idee ad usanze severe e spesso intransigenti in fatto di lavoro, di disciplina, di spirito di sacrificio. Necessità di accettare nuove forme di impiego, di prendere posto all'estrema della fila dei lavoratori, di acconciarsi alla scarsezza delle paghe(266).
La media delle mercedi si aggirava intorno alle 30-40 lire settimanali e neppure coloro che lavoravano a cottimo ottenevano guadagni molto più elevati. Ad esacerbare il malcontento ed il senso di ingiustizia intervenne un'ordinanza prefettizia che riconosceva il diritto al sussidio solo a coloro che provenivano da territori invasi o sgomberati dalle autorità militari. Il veneziano non era considerato profugo, ma "un irragionevole postulante".
Dopo gli arrivi di febbraio vennero concessi sussidi straordinari e limitati al periodo di tempo necessario a procurarsi alloggio e lavoro. Nel frattempo i profughi erano alloggiati e nutriti a spese del Comitato all'Albergo Popolare. Se nei primi tempi inoltre il sussidio veniva accordato solo in base alla condizione economica, successivamente, in base al decreto del 27 giugno, lo si concesse solo a coloro che non riuscivano a trarre dal lavoro quanto bastasse per vivere, mentre chi non aveva trovato occupazione era escluso dal sussidio. Chi a Venezia viveva del sussidio, se lo vide decurtato. Sulla gravità del provvedimento intervenne l'assessore Garioni; così si legge nel verbale della seduta del 1° luglio 1918:
L'esodo dei cittadini veneziani fu, contro la volontà e le pratiche della Giunta, indirizzato su zone inadatte e fatto tumultuariamente, senza la preoccupazione dell'avvenire di questi concittadini e della possibilità di creare adatti ambienti di lavoro. Successivamente gli spostamenti a questo scopo furono resi difficili o impossibili dall'opera negativa dei prefetti. Allo stato attuale delle cose crede pericoloso sospendere il sussidio o ridurlo a cifra ridicola per i bisogni di tanta gente sperduta per l'Italia.
I pericoli sono: di agitazione per quelli che non si sono sistemati col lavoro; di patimenti per quelli che non guadagnano a sufficienza; di definitivo allontanamento da Venezia per coloro, infine che dovranno sistemarsi stabilmente con la famiglia nei luoghi ove si guadagnano da vivere.
E sarà così la parte migliore e più produttiva della popolazione che abbandonerà definitivamente Venezia.
Di fronte a tale stato di cose, propone un'azione vigorosa presso il governo perché non sia lecito passare da una deplorevole e dannosa larghezza di aiuti e sussidi, al taglio dei viveri a persone che furono in gran parte sollecitate ad allontanarsi da Venezia con promesse di benessere e di tranquilla esistenza nei luoghi scelti per nuova dimora.
In caso di rifiuto obbligare il Governo a ristabilire la vita civile ed industriale della nostra città, richiamare qui tutti i cittadini profughi e preparare tutti i provvedimenti di lavoro e di assistenza per una vita possibile anche in tempo di guerra(267).
Il provvedimento inoltre escludeva le donne capofamiglia con numerosi bambini e anziani a carico per le quali era difficile lavorare. Per oltre tre quinti la colonia genovese era costituita da donne e ragazzi e ben 381 erano le donne capofamiglia.
Le più giovani poterono occuparsi nel laboratorio per la confezione di indumenti militari organizzato a Genova da Maria Pezzè Pascolato che distribuiva lavoro a domicilio a cucitrici e ricamatrici. Tra le donne che lavoravano per il laboratorio era stata istituita una organizzazione "di risparmio sulle settimane buone" per affrontare con minore incertezza il rientro a Venezia e non dover vivere di sussidio. Anche Maria Pezzè Pascolato a Genova, come Anita Canal a Rimini, parlava in toni entusiasti del clima della colonia. Essa definiva il laboratorio una grande famiglia in cui la cucina e le spese erano fatte in comune e le donne accoglievano i soldati della brigata Venezia le cui famiglie erano rimaste nei territori occupati(268).
In città, ma soprattutto in provincia, dove non era facile trovare un'occupazione, era sempre il lavoro femminile a rivelarsi decisivo per il sostentamento familiare; i lavori di cucito infatti potevano essere dislocati più facilmente: si costituivano piccoli gruppi ai quali il Comitato inviava la macchina da cucire o aiutava le famiglie "meritevoli" ad acquistarla. A Borgo Fornari, Ronco Scrivia, Sale, Montegrosso, Asti, furono organizzati laboratori che distribuivano il lavoro nei vicini paesi. A Sampierdarena alcune sigaraie furono assunte dal locale tabacchificio. Nei comuni in cui sorgevano stabilimenti tessili, come a Isola del Cantone e a Pontecurone, poterono trovare lavoro numerose fanciulle e ragazze.
Ovunque in provincia si lamentava la mancanza di indumenti e le cattive condizioni abitative. Le sistemazioni erano le più varie: casupole di campagna, stanze di albergo, grandi edifici (caserme, riformatori) riadattati a dormitori, case private, appartamenti da villeggiatura. La caratteristica comune era l'eccessivo affollamento. Scrivono al sindaco alcune donne capofamiglia da Castelnuovo Scrivia:
Siamo in più riunite in una casa fra donne e bambini, che non si può più rimanere più a lungo, dalla ristrettezza dei locali(269).
A Celle Ligure nella stagione balneare per i profughi non rimanevano che le casupole di campagna, prive di bagni e di acqua(270). A Savona erano alloggiati in ricoveri-dormitorio in cui ogni forma di intimità era negata.
Nella città di Savona i profughi veneti e irredenti (101 famiglie) sono in parte raccolti entro vasti fabbricati discretamente ridotti a dormitori, separati per sesso, con impianti di cucine, lavatoi e latrine; ed in parte alloggiati in case private (206 famiglie). Ho personalmente visitati i vari ricoveri comuni ove con ingegnosi adattamenti sono riusciti a conservare le piccole unioni famigliari, specie per quanto riguarda la preparazione e il consumo del cibo(271).
Alberghi e dormitori erano spesso gestiti da religiose (a Nervi l'albergo era gestito dalle Canossiane di Chioggia) che si occupavano anche della preparazione del cibo, dell'istruzione dei bambini e della vigilanza sul comportamento. In quei locali angusti, così come nelle stanze degli alberghi, le donne svolgevano anche il loro lavoro di cucito. Le sistemazioni migliori erano segnalate nelle località di villeggiatura come a Ronco Scrivia, dove furono requisiti piccoli appartamenti ed assegnati a singole famiglie di profughi. In provincia ancora più acuto era il problema della disoccupazione e della indisponibilità degli uomini ad accettare le offerte di lavoro che provenivano dal settore agricolo.
Vero è che in alcuni casi si concentrarono popolazioni agricole in zone marittime e popolazioni marinare in centri agricoli. L'inconveniente è maggiore di quanto si creda perché il contadino messo al lavoro dei porti e nelle industrie […] non vorrà più fare il contadino; mentre l'operaio e lo scaricatore portati nei centri agricoli non si adattano a fare il contadino: restano nell'ozio e constatiamo il fatto strano che con tanta mano d'opera libera i proprietari richiedano ed ottengano in larga scala i prigionieri di guerra per i lavori agrari e i lavori delle strade, ferrovie(272).
I problemi maggiori si presentarono in provincia di Alessandria e nelle colonie dell'Italia centrale. Nell'aprile la provincia di Alessandria accoglieva 1.788 veneziani, per l'83% costituito da donne e bambini. E mentre le autorità cittadine si dimostravano riluttanti alla requisizione delle ville di periferia e la Croce Rossa americana progettava la costruzione di una nuova borgata di baracche in periferia, i profughi vennero disseminati in piccoli centri della provincia, spesso in paesi di montagna dal clima estremamente rigido, "in case di poverissima gente". Non stupisce quindi che dalla provincia di Alessandria giungessero le maggiori lamentele: il clima freddo e umido unito alle cattive condizioni abitative era considerato nocivo alla salute dei bambini.
Anche in Abruzzo, nelle Marche, in Umbria la dispersione dei profughi in paesi di montagna, in abitazioni che non riparavano dal freddo, la difficoltà di approvvigionamento alimentare, la mancanza di opportunità di impiego al di fuori del lavoro di cucito e ricamo a domicilio suscitarono lamentele e proteste.
Civitella del Tronto [scrivono alcuni capifamiglia, in gran parte donne] paese situato in mezzo ai monti, tutto dirupi e boschi non si confà affatto al fisico nostro abituato alla pianura veneziana. Inoltre e più di tutto non si trova latte, né alcun altro alimento delicato per i bimbi, che costretti a nutrirsi di patate e fagioli deperiscono a vista d'occhio con evidente pericolo della loro salute(273).
In varie occasioni, nel marzo e nell'aprile 1918 i nuovi arrivati ad Alessandria manifestarono il loro malcontento per non essere destinati a vivere in città, per la mancanza di coperte e materassi, per le cucine comuni e la mancanza di latte per i bambini. Il 12 marzo, alla stazione di Alessandria i profughi non trovarono alcun tipo di ristoro e "successe un mezzo tumulto". Il 21 marzo il responsabile della colonia fu circondato da un gruppo di 26 veneziani:
Un soldato urlò una filippica sul modo di tradire le famiglie dei poveri soldati; le donne gridarono in coro la 'carità' di tutti i veneziani, le bambine piangevano(274).
Il 24 aprile 1918 il rappresentante del Comune ad Alessandria scrisse a Filippo Grimani: "avviso che la situazione è difficile e può divenire pericolosa. A Montegrosso sabato saranno senza viveri". Dalla primavera del 1918 infatti i beni di prima necessità assegnati a Venezia diminuirono costantemente e non fu possibile garantire la sussistenza. I delegati del Comune attraverso manifesti e volantini invitavano alla pazienza e alla laboriosità e con riunioni, visite e lettere cercarono di placare il malcontento. Scrive alla famiglia Bonivento il responsabile della colonia di Alessandria il 19 marzo 1918:
Mi si informa che siete malcontenti della vostra destinazione, che domandate di ritornare a Venezia. […] Vi diedi una busta col francobollo incoraggiandovi a mandarmi vostre notizie, ad esprimermi i vostri desideri. Perché non scrivermi direttamente? Perché lagnarvi, invece con la gente del luogo? […] Voi non immaginate che le vostre lamentele rattristano e feriscono. Non date forza, con le vostre parole, alla voce pur troppo diffusa che i Veneziani di tutti i profughi sono i soli esigenti, incontentabili, sgarbati. Pensate che i nuovi capitati nel paese diminuiscono a tutti la razione del pane, perché la farina assegnata al comune non cambia. Eppure, anche sapendo questo, la gente del paese vi accoglie come fratelli. […] La vostra inquietudine è come un febbrone di nostalgia, malattia di cui si guarisce col buon senso e con la buona volontà(275).
"Col tempo e con la buona volontà [scriveva lo stesso responsabile il 20 marzo 1918 a 4 profughi] si fa l'abitudine a molte cose che pure si vorrebbero migliori". Non sempre tuttavia si faceva appello al buon senso e alle virtù di adattamento; da alcune lettere indirizzate al sindaco sappiamo che esprimere il proprio malcontento per gli alloggi o il sussidio poteva costare il trasferimento in altri paesi.
Qualcuna anche di noi [scrivono 7 profughe], incolpata anche innocentemente come rivoluzionaria ci hanno esiliate in un paese che si chiama Piovaro(276).
Dopo la notte tra il 26 e il 27 febbraio le sirene in città tacquero per quasi sei mesi; le bombe lanciate nella incursione successiva (nella notte tra il 20 e il 21 agosto) caddero per lo più in mare e sulla spiaggia senza procurare danni alla città. A partire dall'estate 1918 molti profughi avrebbero voluto ritornare a Venezia e l'ispettore generale di pubblica sicurezza ai primi di agosto intervenne presso le autorità militari della Piazza marittima, il sindaco e il prefetto per il rientro di 2.000 profughi da Forlì. Tutti concordarono sull'inopportunità di un tale provvedimento(277).
Il rientro fu possibile solo a chi era provvisto di mezzi e non aveva mai usufruito del sussidio. Si stabilì invece che tutti coloro che ne avevano goduto, anche solo temporaneamente, non potessero far ritorno in città senza il nulla osta del comandante capo della Piazza marittima
per evitare che la città si ripopo[lasse] di persone bisognose d'aiuto, non utili, perché non adatte al lavoro o non capaci per gli impieghi qui offerti(278).
Prima di consentire il rientro della popolazione povera, si era cercato di favorire la ripresa della vita cittadina riattivando i servizi pubblici e richiamando i negozianti.
I mesi che seguirono la conclusione del conflitto furono i più difficili per i profughi veneziani: le autorità cittadine ponevano restrizioni al rientro e quelle dei Comuni ospitanti erano ansiose di sbarazzarsi della loro presenza. Ancora alla fine di dicembre il sindaco di Rimini si rivolgeva al presidente del Consiglio perché si provvedesse al rimpatrio dei veneziani: ogni ritardo avrebbe compromesso la ripresa della stagione balneare; i soldati riminesi che stavano per essere congedati non avrebbero potuto trovare lavoro nel ripristino dei villini sul mare(279).
Solo alla fine di febbraio 1919 la maggioranza dei profughi aveva fatto ritorno a Venezia e già ai primi di marzo era scoppiata la protesta della popolazione che era rimasta in città nell'ultimo anno di guerra: 2.000 donne manifestarono davanti al Municipio per ottenere un sussidio pari a quello concesso ai profughi. "Gli animi sono esacerbatissimi", scriveva allarmato il prefetto(280). Qualche mese più tardi furono i profughi a protestare in 1.000 davanti alla prefettura chiedendo che fosse protratto il sussidio straordinario di tre mesi(281).
Nella primavera inoltre Venezia divenne ancora una volta meta di profughi. Questa volta si trattava degli abitanti delle zone occupate del Sandonatese e del Portogruarese che al loro rientro avevano trovato le case distrutte e le baracche destinate ad ospitarli non ancora ultimate.
Torme di vecchi di donne, di bambini, […] dopo lunghissimo viaggio, dopo disagi e privazioni di tutti i generi e dopo aver consumato ogni peculio, finiscono col rifugiarsi a Venezia(282).
Le speranze di un rapido ritorno alla normalità dopo tante sofferenze si infransero di fronte alle crescenti difficoltà della vita e della disoccupazione. Le attività economiche della città infatti non ebbero una immediata ripresa. Alla fine del 1918 le vetrerie attendevano ancora il rientro dei loro operai, i cantieri prevedevano un rientro parziale e non immediato; solo il Mulino Stucky, che aveva sospeso la produzione, ma non aveva abbandonato la città, prevedeva di ampliare la propria attività in tempi brevi. Ormai le aspettative di sviluppo industriale si erano spostate ai Bottenighi. Il giorno immediatamente successivo all'inizio dell'offensiva italiana, il 25 ottobre 1918, fu approvato il decreto che autorizzava l'inizio dei lavori per il nuovo centro industriale a Porto Marghera.
Il processo di edificazione di Porto Marghera coincise con l'aggravarsi della crisi occupazionale in città: la smobilitazione dell'esercito, l'interruzione dei lavori del Genio militare, la lentezza della riconversione delle industrie profughe nel 1920 fecero salire il numero dei disoccupati a 10.000 unità. La situazione cittadina era resa ancora più difficile dalla crisi del settore cantieristico e meccanico; cessate le ostilità i lavori all'Arsenale, che negli anni di guerra avevano dato lavoro a oltre 3.000 operai, furono quasi completamente interrotti(283). Iniziava così il rapido declino del settore che da oltre 6.000 addetti nel 1911 passò a circa 3.000 nel 1921 e a poco più di un migliaio nel 1931. Con la crisi dell'Arsenale inoltre andò dispersa la mano d'opera più qualificata e specializzata della città che solo in parte poté trovare occupazione al cantiere Breda a Porto Marghera(284).
Accanto alle attività collegate alla cantieristica declinò anche l'industria tessile ed il più importante stabilimento della città, il Cotonificio Veneziano, dopo una breve ripresa, chiuse i battenti nel 1927. Né questo andamento negativo fu compensato da una maggiore vitalità del settore artigiano e delle piccole imprese che al contrario mantenne per molti anni un andamento stentato.
Furono solo le lavorazioni tradizionali, a prevalente occupazione femminile, a riprendere rapidamente il consueto ritmo produttivo: l'industria del vetro, dell'abbigliamento, dei merletti, della seta, delle stoffe artistiche si avvantaggiarono della svalutazione della moneta e fino al 1926 indirizzarono la loro produzione verso i mercati statunitensi e britannici. Molto superiore all'occupazione nell'industria si rivelò nel 1921 l'occupazione nei servizi: ben 11.000 erano gli addetti al commercio, dei quali almeno 5.000 appartenevano al proletariato urbano: piccoli negozianti, osti, affittacamere, locandieri(285).
Una tale struttura economica non poteva essere in grado di riassorbire la disoccupazione che nel corso degli anni Venti rimase sempre elevata; i nuovi stabilimenti del polo industriale infatti si rivolsero alla mano d'opera proveniente dalle campagne dell'entroterra che rispetto a quella cittadina dimostrava maggior senso della disciplina, maggiore sopportazione della fatica e minori pretese salariali(286).
Le pressioni delle organizzazioni politiche fasciste per l'occupazione della mano d'opera cittadina a Marghera si scontrarono sempre con la decisa opposizione degli industriali. La "nuova Venezia" non sarebbe stata finalizzata alla "vecchia Venezia" né avrebbe rappresentato una possibilità di assorbimento della disoccupazione del centro storico(287).
Svanivano così le speranze riposte nell'industrializzazione della terraferma per la risoluzione dei problemi produttivi e occupazionali del centro storico. L'idea, da molti condivisa, che le nuove industrie avrebbero ripagato la città delle difficoltà che la popolazione aveva dovuto affrontare durante gli anni di guerra, si rivelò un'illusione. La tanto deprecata industria del forestiero con il suo carattere stagionale e le lavorazioni artistiche con il loro aleatorio mercato rimasero per molti anni ancora l'asse portante della struttura produttiva cittadina.
1. La crisi economica della città di Venezia. Relazione al Governo, Venezia 1914, pp. 6-9.
2. Un'ordinanza della capitaneria di porto il 7 agosto 1914 vietava a tutte le navi, nazionali ed estere, dal tramonto al sorgere del sole, l'ingresso nel porto. Dal 20 agosto, sempre per ragioni di sicurezza della navigazione, furono imposte anche limitazioni alla pesca in mare. La chiusura del porto di Venezia nelle ore notturne, "Gazzetta di Venezia", 7 agosto 1914.
3. Per la continuità del lavoro nei porti dell'Adriatico, relazione della Camera di commercio di Venezia-Ufficio del traffico, in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, A5G, Conflagrazione Europea, 1914-1918, b. 125, fasc. 17.2.
4. Camera di Commercio e Industria di Venezia, Notizie sul movimento economico della provincia di Venezia durante il periodo della guerra, Venezia 1921, p. 1.
5. Comune di Venezia, Relazione sul V censimento demografico e I censimento degli opifici ed imprese industriali, 10-11 giugno 1911, Venezia 1912, pp. 146-153. L'occupazione alla ditta Baschiera, al Cotonificio e alla Manifattura Tabacchi era quasi tutta femminile.
6. Leopoldo Magliaretta, La qualità della vita, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, p. 355 (pp. 323-380). Nel 1911, su un totale di quasi 74.000 attivi, erano stati censiti 768 venditori ambulanti (di cui 84 donne), 2.608 commercianti in generi alimentari (di cui 232 donne) e 5.299 trasportatori. MAIC-Direzione Generale della Statistica e del Lavoro, Censimento della popolazione del Regno d'Italia al 10 giugno 1911, IV, Roma 1915, pp. 110-112, tav. VI.
7. Nel 1910 il 46% delle case veneziane era sprovvisto di acqua corrente; nei quartieri più popolari di Castello, Cannaregio e Dorsoduro, dove la popolazione povera si era andata progressivamente ammassando, si trovava il maggior numero di abitazioni malsane, ubicate al piano terreno. Municipio di Venezia, Il problema delle abitazioni in Venezia, Venezia 1910.
8. L'arrivo di 310 emigranti col piroscafo Derna, "Gazzetta di Venezia", 17 agosto 1914.
9. Tra i membri del Comitato: Maria Pezzè Pascolato, i direttori di giornale Bolla e Ravenna, Emilio Castelli, il colonnello Paleologo Oriundi per l'Associazione reduci d'Africa, il professor Rambaldi e membri del consiglio comunale come Scarabellin e Zardinoni.
10. Maria Pezzè Pascolato (1869-1933), scrittrice e traduttrice, nel 1896 fu ispettrice scolastica per il Comune e nel 1899 fondò la Scuola femminile "Vendramin Corner". Negli anni successivi fondò la Croce Azzurra, si impegnò nella lotta contro l'alcolismo e la tubercolosi. Dopo la guerra fu tra le prime ad aderire al Fascio femminile e ne divenne fiduciaria provinciale. Fondò la colonia estiva di Villa Patt a Sedico Bribano e fu delegata dell'Opera Nazionale Maternità e Infanzia. Adriano A. Michieli, Maria Pezzè Pascolato, "Rassegna Italiana", 14, febbraio 1936, nr. 213.
11. L'opera del Comitato, "Gazzetta di Venezia", 1° settembre 1914.
12. Nella seduta del consiglio comunale del 23 ottobre 1914 Giacinto Menotti Serrati criticando l'operato della giunta parlò di lire 1,40; benché non smentito dal sindaco, probabilmente si tratta di una piccola imprecisione. Infatti il rapporto del Comitato pro disoccupati alla fine di settembre fornisce i seguenti dati: centesimi 0,80 per un nucleo familiare composto da una sola persona e lire 1,30 per un nucleo familiare composto di più membri.
13. I libretti restituiti furono circa 1.500. Non vogliono la carità, "Il Secolo Nuovo", 5 settembre 1914.
14. Una dimostrazione di disoccupati, "Gazzetta di Venezia", 2 settembre 1914; Un'altra dimostrazione di disoccupati davanti al Municipio, ibid., 3 settembre 1914.
15. Agli operai, "Il Secolo Nuovo", 5 settembre 1914.
16. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1915-1920, VI-2-27, b. 789, Comitato veneziano pro richiamati, disoccupati ed emigranti, relazione, 24 settembre 1914.
17. Girolamo Marcello (Venezia 1869-1940) nel gabinetto Salandra, dal marzo 1914 al giugno 1916, fu sottosegretario alle Poste e telegrafi. Alberto Malatesta, Ministri, deputati, senatori dal 1848 al 1922, II, Roma 1941, p. 151.
18. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, A5G, Conflagrazione Europea, 1914-1918, b. 125, fasc. 17.2, lettera del 6 ottobre 1914. Il 9 ottobre, il prefetto Rovasenda telegrafava al presidente del Consiglio indicando come unica possibile soluzione alla crisi veneziana l'istituzione di "speciali servizi di convogli piroscafi scortati da cacciatorpediniere o navi rastrellamine". Ivi, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Guerra europea, fasc. 17.2.34.
19. 1.552 lavoratori portuali; 581 metallurgici; 598 addetti alle arti edilizie; 609 lavoratori del legno; 276 dipintori e decoratori; 50 tappezzieri e materassai; 131 addetti alle industrie alimentari; 244 addetti all'industria dell'abbigliamento; 108 calzolai e parrucchieri; 59 addetti all'industria dei fiammiferi; 538 addetti alle industrie di lusso; 76 lavoratori del libro; 257 inservienti; 212 agenti di negozio e fattorini; 789 facchini e braccianti e 576 addetti ad attività varie. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1915-1920, VI-2-27, b. 789, Comitato veneziano pro richiamati, disoccupati ed emigranti, relazione, 24 ottobre 1914.
20. Ibid.
21. Riccardo Bachi, L'economia dell'Italia in guerra, Roma 1918, p. 4.
22. Sui lavori svolti a carico del Comune, il numero di operai e di giornate lavorative, l'importo di spesa, v. il dettagliato resoconto del sindaco al consiglio comunale del 23 ottobre 1914.
23. V. in particolare l'intervento di Musatti alla seduta del consiglio comunale del 14 dicembre 1914 e i suoi interventi sul giornale: Contro la guerra e per il lavoro. I voti delle associazioni operaie, "Il Secolo Nuovo", 3 ottobre 1914; Verso l'inverno infame, ibid., 21 novembre 1914.
24. Sulla necessità di provvedimenti eccezionali per rifornire di grano la regione veneta, "Gazzetta di Venezia", 12 dicembre 1914; Camera di Commercio e Industria di Venezia, Notizie sul movimento economico della provincia di Venezia nel 1914, Venezia 1915, p. 20.
25. Nel giugno 1915 il valore delle entrate per dazi consumi si ridusse del 20% rispetto al giugno 1914. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1915-1920, II-8-22, relazione della Camera di commercio, 1915. La relazione è conservata anche in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Guerra europea, fasc. 17.2.34.
26. Il Ministero della Marina aveva promesso ordinativi per l'Arsenale e l'attivazione di alcune linee marittime sovvenzionate; il Ministero dei Lavori pubblici si era impegnato per la pronta attrezzatura del molo di ponente e per un bacino galleggiante di carenaggio; il Ministero della Guerra avrebbe dovuto inviare a Venezia alcuni carichi di cereali per i militari. Al Ministero delle Finanze fu richiesta l'esecuzione di alcune opere alla Manifattura Tabacchi, al Ministero di Grazia e giustizia la riduzione dei locali della pretura e al Ministero delle Poste e telegrafi un nuovo impianto telefonico. Comune di Venezia, Verbale di deliberazione del Consiglio comunale di Venezia. Convocazione straordinaria. Seduta pubblica del 14 dicembre 1914.
27. Id., Verbale di deliberazione del Consiglio comunale di Venezia. Seduta pubblica del 5 marzo 1915.
28. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, A5G, Conflagrazione Europea, 1914-1918, b. 125, fasc. 17.2, estratto di lettera del vicepresidente del Comitato veneziano pro richiamati, disoccupati ed emigranti, 10 febbraio 1915.
29. Ivi, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Guerra europea, fasc. 17.2.34, lettera del 14 febbraio 1915.
30. I propositi degli scaricatori del porto, "Gazzetta di Venezia", 1° marzo 1915.
31. Un vigile assalito da un disoccupato, ibid., 12 gennaio 1915.
32. Nuovi tumulti a Venezia, "Il Gazzettino", 20 marzo 1915.
33. Le manifestazioni di protesta e di rabbia popolare si estesero a Mestre e nell'entroterra; a San Donà negli scontri tra dimostranti e carabinieri rimase ucciso un giovane bracciante. Dopo l'eccidio di San Donà di Piave. L'inchiesta della Camera del Lavoro di Venezia, "Il Secolo Nuovo", 27 marzo 1915.
34. La crocifissione della consorteria veneziana, ibid., 6 marzo 1915.
35. Francesco Piva, Lotte contadine e origini del fascismo. Padova-Venezia: 1919-1922, Venezia 1977, p. 37.
36. Un Assiduo, Il doppio gioco della giunta Grimani, "Il Secolo Nuovo", 6 febbraio 1915.
37. Troppo tardi?, ibid., 13 marzo 1915.
38. Mentre per le nostre contrade imperversa la esasperazione popolare. Il nostro dovere, ibid., 20 marzo 1915.
39. Ibid.
40. Un'altra dimostrazione a S. Rocco, "Il Gazzettino", 23 marzo 1915. Sulle manifestazioni femminili di quei giorni v. anche: Nadia M. Filippini, 'Su compagne!'. Lavoro e lotte delle donne dall'Unità al fascismo, in Cent'anni a Venezia. La Camera del lavoro 1892-1992, a cura di Daniele Resini, Venezia 1992, p. 258 (pp. 247-262).
41. Una giornata di tumulti a Venezia. Sassaiole e conflitti. Soldati e carabinieri feriti. Numerosi arresti, "Il Gazzettino", 19 marzo 1915.
42. Elia Musatti, Noi e la guerra, "Il Secolo Nuovo", 8 agosto 1914.
43. Cesare Longobardi nel maggio 1915 partecipò a manifestazioni interventiste.
44. Postilla, "Il Secolo Nuovo", 9 gennaio 1915. Il corsivo è mio.
45. V. a tal proposito: F. Piva, Lotte contadine e origini del fascismo, p. 37; Emilio Franzina, Tra Otto e Novecento, in Storia d'Italia. Le regioni dall'Unità a oggi. Il Veneto, a cura di Silvio Lanaro, Torino 1984, pp. 761-858.
46. Le deliberazioni delle associazioni politiche ed economiche del proletariato veneziano, "Il Secolo Nuovo", 29 maggio 1915.
47. Elia Musatti, Verso l'inverno infame, ibid., 21 novembre 1914.
48. Comune di Venezia, Verbale di deliberazione del Consiglio comunale di Venezia. Seduta pubblica 14 dicembre 1914, p. 501, intervento di Elia Musatti.
49. F. Cincali, Per l'industrializzazione di Venezia. Luci e ombre. Il cominciamento, "Il Secolo Nuovo", 19 dicembre 1914.
50. Comune di Venezia, Verbale di deliberazione del Consiglio comunale di Venezia. Seduta pubblica 12 ottobre 1914, p. 338.
51. Un manifesto dei nazionalisti, "Gazzetta di Venezia", 25 giugno 1914.
52. Alberto Musatti, La riprova, comparso ne "Il Dovere Nazionale" nel novembre 1914, citato da Luciano Pomoni, Il Dovere Nazionale. I nazionalisti veneziani alla conquista della piazza (1908-1915), Padova 1998, p. 289. Il tema dell'industria del forestiero, definita parassitaria, occasione di "colonizzazione straniera", fu un tema centrale nella campagna elettorale per le elezioni amministrative che si tennero il 28 giugno 1914 e che portarono alla conferma della giunta clerico-moderata e del sindaco Filippo Grimani.
53. Nel 1903 si costituiscono la Regia cointeressenza tabacchi del Montenegro e il Sindacato italo-montenegrino con lo scopo di costruire un porto ad Antivari e una linea ferroviaria Antivari-Scutari. Per la realizzazione di queste opere si costituisce la Compagnia di Antivari che tra il 1908 e il 1909 le porta a compimento. L'operazione del porto di Antivari è stata considerata la prova generale di Porto Marghera. V. Cesco Chinello, Porto Marghera 1902-1926. Alle origini del 'problema di Venezia', Venezia 1979; Maurizio Reberschak, L'economia, in Venezia, a cura di Emilio Franzina, Roma-Bari 1986, pp. 252 ss. (pp. 227-298).
54. Giovanni Giuriati proveniva dal partito radicale, ma agiva in stretto contatto con i nazionalisti. La Trento-Trieste contava circa 1.000 iscritti.
55. F. Piva, Lotte contadine e origini del fascismo, p. 29.
56. Ibid., p. 28.
57. Nel dicembre Giovanni Giuriati organizzò a Mestre un gruppo paramilitare composto da irredenti. Giovanni Giuriati, La Vigilia, Milano 1930. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, A5G, Conflagrazione Europea, 1914-1918, b. 125, rapporto del prefetto, 15 gennaio 1915.
58. Mario Isnenghi, Introduzione a L. Pomoni, Il Dovere Nazionale, p. 10.
59. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, A5G, Conflagrazione Europea, 1914-1918, b. 125, telegramma del prefetto, 10 gennaio 1915.
60. Ibid., lettera anonima, 29 dicembre 1914.
61. Ibid., rapporto del prefetto, 16 aprile 1915.
62. Ibid., telegramma, 21 maggio 1915.
63. Oltre ai rappresentanti della Camera di commercio, della deputazione provinciale, del consiglio provinciale e della congregazione di carità, facevano parte del Comitato oltre 100 membri, tra i più illustri rappresentanti della borghesia cittadina tra cui anche il socialista Luigi Frizzole. Mario Marinoni ricopriva la carica di segretario. Comitato Cittadino di Assistenza e Difesa Civile, L'opera compiuta nel 1915, Venezia 1916, pp. 45-50. Nel gennaio 1916 si costituì, con l'assistenza finanziaria del Comitato di assistenza civile, il Comitato provinciale di Venezia per l'assistenza dei mutilati in guerra. Giuseppe Scarpellon, Per l'assistenza ai mutilati in guerra. L'opera del Comitato Provinciale di Venezia, Venezia 1917.
64. Emilio Castelli (1832-1919), ufficiale di stato maggiore nel 1853, partecipò alla guerra di Crimea; combatté a Palestro e a Castelfidardo; dal 1860 al 1866 fu aiutante del generale Cialdini e quindi addetto militare dell'ambasciata di Parigi. Quando, per limiti di età, lasciò la carriera militare, entrò a far parte per alcuni anni della giunta Grimani; nel febbraio 1917 fu nominato senatore. Giovanni Scarabello, Il martirio di Venezia durante la grande guerra e l'opera di difesa della marina italiana, I, Venezia 1933, p. 148.
65. Mario Marinoni, nato nel 1886 a Mantova, si laureò a Padova in Giurisprudenza e a soli 32 anni divenne professore ordinario di Diritto internazionale all'Università di Modena. Radicale, interventista, contribuì nel dopoguerra alla nascita della Democrazia Sociale, un partito che faceva proprie le aspirazioni del combattentismo ed era in città l'espressione più immediata dei ceti medi di matrice radical-repubblicana. Morì a Venezia il 25 febbraio 1922. G. Scarabello, Il martirio di Venezia, p. 149; F. Piva, Lotte contadine e origini del fascismo, pp. 19-2, 129-131.
66. Dopo i tumulti di marzo la protesta si era affievolita. L'ultima scintilla si accese nello stabilimento Baschiera ai primi di maggio: una trentina di impacchettatrici protestarono per una nuova scatola di fiammiferi che "recava loro danno", uno sciopero che si concluse rapidamente con il licenziamento delle operaie e la chiusura del reparto. Un'agitazione di fiammiferaie dello stabilimento Baschiera, "Gazzetta di Venezia", 9 maggio 1915.
67. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Guerra europea, fasc. 17.5.38, telegramma di Filippo Grimani al presidente del Consiglio, 26 maggio 1915. Vibrate proteste contro il provvedimento furono espresse anche dall'onorevole Fradeletto, ibid., telegramma, 26 maggio 1915.
68. Sulla difesa dei monumenti veneziani v. Ugo Ojetti, Il martirio dei monumenti, Milano 1917; sull'attività di Piero Foscari nella difesa antiaerea: Armando Odenigo, Piero Foscari. Una vita esemplare, Rocca San Casciano 1959.
69. Aristide Manassero, Bandi militari nelle zone di guerra, "Rivista Penale", 83, 1916, nrr. 1-2.
70. Su questi temi v. Giovanna Procacci, La legislazione repressiva e la sua applicazione, in Stato e classe operaia in Italia durante la prima guerra mondiale, a cura di Ead., Milano 1983, pp. 41-59.
71. Secondo la prefettura alla fine del 1916 gli arrestati per ragioni di pubblica sicurezza erano circa 250. Telegramma, 26 dicembre 1916, in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione di Polizia Giudiziaria, Profughi e internati di guerra (1915-1920), b. 13.
72. Ibid., telegramma, 8 giugno 1915.
73. Ibid., rapporto del 18 settembre 1915.
74. Ibid., lettera di C. Giovanni dal carcere di Mantova, 31 ottobre 1916.
75. Ibid., lettera di Luigia V. al ministro della Guerra, 28 maggio 1916. Inviati dopo molti mesi di carcerazione al domicilio coatto, molti nell'estate del 1919 non avevano ancora fatto rientro a Venezia, ibid., lettera del ministro dell'Interno al ministro della Marina, 29 luglio 1919.
76. Con il bando del 25 maggio 1915 la competenza del tribunale di guerra, oltre ai reati commessi dai militari e dai civili specificati dall'articolo 545 del codice militare, venne estesa ai reati di spionaggio, tradimento, resistenza, impedimento o rifiuto di esecuzione di ordini delle autorità militari, incendio, guasto di opere pubbliche, spoliazione di militari o prigionieri di guerra feriti. Alla giurisdizione militare vennero inoltre sottoposti molti reati previsti dal codice penale comune come il favoreggiamento, l'istigazione e l'associazione a delinquere, l'eccitamento alla guerra civile nonché tutti i delitti contro la sicurezza dello Stato.
77. Bologna, Archivio di Stato, Tribunale militare di Venezia, b. 790, fasc. 411. Antonio S. e Luigi N. furono assolti il 6 febbraio 1916.
78. Ibid., b. 798, fasc. 1715.
79. G. Scarabello, Il martirio di Venezia, pp. 59-61. I danni furono calcolati in 22 milioni di lire; per il patrimonio artistico la perdita più grave fu costituita da un prezioso affresco del Tiepolo conservato nella chiesa degli Scalzi distrutto dal bombardamento del 24 ottobre del 1915: i resti dell'opera furono in seguito venduti a beneficio della Croce Rossa. Ibid., pp. 66-68.
80. Il 9 agosto ben 79 punti della città furono colpiti, 33 il 16 agosto. Il 4 settembre furono colpite le zone immediatamente adiacenti a piazza S. Marco e il 12 settembre fu colpita la chiesa dei SS. Giovanni e Paolo. Per una meticolosa ricostruzione dei danni subiti in città rimando ibid., pp. 59, 75-86.
81. Il 15 settembre Paolo Boselli dispose che dalla stampa nulla trapelasse sulla questione della difesa antiaerea. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Guerra europea, fasc. 19.2.5.2.4. Sulla figura di Antonio Fradeletto e sulla sua attività durante la guerra v. Daniele Ceschin, La 'voce' di Venezia. Antonio Fradeletto e l'organizzazione della cultura tra Otto e Novecento, Padova 2001.
82. Alle critiche del deputato seguì un'aspra e risentita risposta di Piero Foscari, che da poco aveva abbandonato l'incarico di responsabile della difesa antiaerea della città. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Guerra europea, fasc. 19.2.5.2.4, lettera di Piero Foscari, 6 settembre 1916.
83. Ibid., fasc. 19.2.5.2.4.
84. Ibid., settembre 1916 (non è indicato il giorno).
85. Giulio Douhet, Diario critico di guerra, II, Torino 1920, p. 418.
86. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Guerra europea, fasc. 19.2.5.2.4, lettera del 15 settembre 1916.
87. Camera di Commercio e Industria di Venezia, Notizie sul movimento economico della provincia di Venezia durante il periodo della guerra, pp. 20-22.
88. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Guerra europea, fasc. 17.2, "I rifornimenti di grano per il territorio della Piazza forte di Venezia", 21 gennaio 1916.
89. Una losca agenzia d'affari chiusa dalle autorità, "Gazzetta di Venezia", 9 marzo 1916.
90. I vescovi veneti e la Santa Sede nella guerra 1915-1918, a cura di Antonio Scottà, Roma 1991, pp. 25-26.
91. Comune di Venezia, Verbale di deliberazione del Consiglio comunale di Venezia. Seduta pubblica del 28 gennaio 1916, p. 12.
92. Ibid., p. 113.
93. Id., Verbale di deliberazione del Consiglio comunale di Venezia. Seduta pubblica dell'11 marzo 1916, intervento del consigliere Luigi Tagliapietra, p. 114.
94. Id., Verbale di deliberazione del Consiglio comunale di Venezia. Seduta pubblica del 12 luglio 1916, intervento del consigliere Pietro Parisi a nome della Giunta, p. 227.
95. Comune di Venezia-Ufficio di Statistica, "Bollettino Mensile".
96. Dal giugno 1915 al gennaio 1916 annegarono 19 persone a causa dell'oscuramento. Comune di Venezia, Verbale di deliberazione del Consiglio comunale di Venezia. Seduta pubblica del 28 gennaio 1916, intervento del sindaco, p. 17.
97. Bologna, Archivio di Stato, Tribunale militare di Venezia, b. 851, fasc. 3864.
98. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1915-1920, II-8-33, lettera riservata, 14 ottobre 1918.
99. Ivi, Guerra europea, b. "Profughi veneziani e ss.", petizione firmata da 42 profughi, marzo 1916.
100. Ibid., Patronato veneziano dei rimpatriati, relazione al sindaco di Venezia, 25 aprile 1916. Il Patronato fu istituito nel giugno 1915 e iniziò la sua attività il mese successivo.
101. Le donne di età superiore a 15 anni rappresentavano il 40% dei rimpatriati e i bambini e i ragazzi di età inferiore a 15 anni il 64% di tutti i sussidiati. Ibid.
102. Ibid., relazione al sindaco di Venezia, 25 maggio 1916.
103. Nel marzo 1916 una lettera anonima era stata inviata da Venezia al ministro dell'Interno, ibid.
104. Anche a Chioggia il sostentamento delle famiglie dei rimpatriati dipendeva unicamente dal lavoro delle ragazze dedite alla lavorazione dei merletti. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione di Polizia Giudiziaria, Profughi di guerra e internati, b. 4, relazione del prefetto sulle condizioni dei rimpatriati accolti in Chioggia, s.d.
105. Ivi, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Guerra europea, fasc. 19.5.11.34.
106. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Guerra europea, b. "Profughi veneziani e ss.", Patronato veneziano dei rimpatriati, relazione al sindaco di Venezia, 25 aprile 1916.
107. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Guerra europea, fasc. 19.5.11.34, lettera di Maria Pezzè Pascolato, 3 settembre 1916.
108. Alla fine dell'anno almeno 700 profughi erano stati trasferiti. "Il provvedimento è in corso [affermava il prefetto] e viene attuato con prudenza". Ivi, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione di Polizia Giudiziaria, Profughi di guerra e internati, b. 4, rapporto 4 dicembre 1916.
109. L'occupazione all'Arsenale nel marzo 1917 era di 2.415 operai, in grande maggioranza si trattava di esonerati, specializzati e altamente qualificati.
110. Altri lavori di dragaggio furono intrapresi dal magistrato alle Acque e dal Ministero della Marina. "I due ingressi del porto di Venezia […] vennero messi in comunicazione col porto marittimo e con l'Arsenale mediante un canale approfondito ad undici metri e allargato in alcuni punti per le manovre". Vincenzo Porri, Cinque anni di crisi nel Veneto. 1914-1918, Roma 1922, p. 21.
111. Comitato Cittadino di Assistenza e Difesa Civile, L'opera compiuta nel 1915, pp. 6-7.
112. Ibid., p. 35.
113. Il capitale iniziale era di lire 207.000 e nei primi sette mesi di attività andò in aiuto di 56 aziende. Associazione per il Lavoro, Adunanza del Consiglio di amministrazione tenuta il giorno 29 gennaio 1916, in Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1915-1920, II-8-21.
114. Id., La sua opera nel primo anno di vita. I suoi propositi, Venezia 1917, p. 12.
115. "Conferenza del 28 febbraio 1916 col prefetto e col vicequestore e col presidente del Comitato di assistenza civile", in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Comando Supremo, Segretariato generale per gli affari civili, b. 489.
116. Ibid., lettera del generale Lombardi, 25 giugno 1916.
117. Camera di Commercio e Industria di Venezia, Notizie sul movimento economico della provincia di Venezia durante il periodo della guerra, p. 14.
118. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1915-1920, VI-2-33, lettera del 1° gennaio 1916.
119. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Guerra europea, fasc. 19.11.9, nota del presidente della Camera di commercio, 27 aprile 1916, con la quale chiedeva al presidente del Consiglio dei ministri la concessione di un sussidio del 10% del valore dei natanti per consentire la manutenzione.
120. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1915-1920, VI-2-33, lettera del sindaco al Capitano di porto, 14 ottobre 1915. Nel comune di Venezia i soli pescivendoli e i facchini erano valutati nell'ottobre 1915 in 237. Nel 1911 i pescatori censiti a Venezia erano in complesso 355, a Chioggia 3.364. MAIC-Direzione Generale della Statistica e del Lavoro, Censimento della popolazione del Regno d'Italia al 10 giugno 1911, pp. 92-93, tav. VI.
121. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1915-1920, VI-2-33, lettera del parroco Giuseppe Ambrosi, 23 febbraio 1916.
122. Il pesce trovato nelle imbarcazioni veniva sequestrato e venduto al Comitato di assistenza civile e i trasgressori puniti con multe da 5 a 20 lire. Bologna, Archivio di Stato, Tribunale militare di Venezia, b. 860, fascc. 4055 e 4080.
123. Ibid., b. 896, fasc. 5511, Angelo Chiavalin, condannato a 5 lire di multa il 18 agosto 1917.
124. Ibid., b. 912, fasc. 6116, Costante Rigo, condannato a 5 lire di multa l'8 novembre 1917.
125. Ibid., b. 895, fasc. 5469 e b. 900, fasc. 5651.
126. Ibid., b. 878, fasc. 4784, Marco Tonci, barcaiolo, condannato a 5 lire di multa il 18 maggio 1917.
127. Ibid., b. 887, fasc. 5141, Pio Vianello, condannato a 10 lire di multa nel maggio 1917; v. inoltre il fasc. 5160.
128. Ibid., b. 869, fasc. 4435, Innocente Gherzo, condannato a 5 giorni di reclusione il 17 maggio 1917.
129. Comitato Cittadino di Assistenza e Difesa Civile, L'opera compiuta nel 1915, pp. 6-7.
130. In base ai contratti stipulati nel dicembre 1916 per la confezione di un paio di pantaloni era prevista una retribuzione di 50 centesimi, per un paio di mutande 30 centesimi, per un asciugamano 2,5 centesimi. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Guerra europea, fasc. 19.10.4.67. La retribuzione giornaliera che nei primi anni del secolo poteva raggiungere un'operaia della Jesurum era di 2,5 lire. Maria Pezzè Pascolato, Industrie femminili venete antiche e moderne, in Le industrie femminili italiane, Milano 1906, p. 84 (pp. 71-89).
131. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Commissariato assistenza civile, b. 1, fasc. "Venezia, indumenti militari di panno e tela", rapporto del prefetto 15 gennaio 1917. Il numero delle lavoratrici, assicurava il prefetto, era in continuo aumento.
132. Ivi, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Guerra europea, fasc. 19.5.11.34.
133. Associazione per il Lavoro, La sua opera nel primo anno di vita, p. 7.
134. L'opera di assistenza agli orfani del Comitato di assistenza civile, "Gazzetta di Venezia", 20 maggio 1917.
135. Bologna, Archivio di Stato, Tribunale militare di Venezia, b. 921, fasc. 3573, Adele Sartor, assolta il 2 gennaio 1918.
136. Ibid., b. 845, fasc. "Giuseppe Rumor", interrogatorio 16 novembre 1916. Il soldato disertò per andare in aiuto alla famiglia e fu arrestato dopo quattro mesi.
137. Ibid., b. 885, fasc. 5055, Antonia Visentin, condannata a 9 giorni di reclusione militare.
138. Ibid., b. 876, fasc. 4656, Palmira Marella, condannata il 25 maggio 1917.
139. Ibid., b. 868, fasc. 4400, Italia Da Ponte, condannata il 3 maggio 1917.
140. Ibid., b. 915, fasc. 3262, Luigia Corò, condannata il 3 novembre 1917.
141. Furono oltre 3.000 i bambini che sarebbero nati se non fosse intervenuta la guerra. Nel triennio 1911-1913 nacquero in media ogni anno 3.149 bambini; nel periodo 1914-1918 (compresi quelli che nacquero durante il profugato) essi furono solo 2.532. Comune di Venezia, Il censimento generale del 1° dicembre 1921 della popolazione di Venezia, Venezia 1923, p. 40.
142. Nel gennaio 1916 la percentuale dei bimbi fino a 4 anni morti sul totale dei decessi fu del 40,7%, nel febbraio del 38,2%, nel marzo del 41%. Comune di Venezia-Ufficio di Statistica, "Bollettino Mensile", gennaio-marzo 1917, mia elaborazione.
143. Dal 1914 al 1918 la media dei nati per anno fu di 2.532 bambini; nel 1919 le nascite salirono a 2.705, nel 1920 a 3.624, nei primi undici mesi del 1921 a 3.707. Anche per i bambini di 5-9 anni la mortalità fu in costante aumento; nel 1917 la sua incidenza era doppia rispetto a quella del secondo semestre 1914. Comune di Venezia, Il censimento generale del 1° dicembre 1921, p. 43.
144. Battaglie a colpi di pietre, "Gazzetta di Venezia", 3 gennaio 1917.
145. Battaglie di sassi, ibid., 17 gennaio 1917.
146. Nei campi di Venezia, ibid., 18 gennaio 1918.
147. Armando Gavagnin, Vent'anni di resistenza al fascismo, Torino 1957, p. 30.
148. Recrudescenza della delinquenza minorile, "Gazzetta di Venezia", 10 marzo 1917.
149. I condannati dal 1916 al 1917 passarono da 353 a 228. Corte d'Appello di Venezia, Inaugurazione dell'anno giudiziario 1918. Discorso dell'avvocato generale Umberto Castellani all'assemblea della Corte del 10 gennaio 1918, Venezia 1918, p. 43.
150. Sulle condizioni di vita dei giovani lavoratori veneziani nonché sugli episodi di piccola criminalità v. Bruna Bianchi, Crescere in tempo di guerra. Il lavoro e la protesta dei ragazzi in Italia 1915-1918, Venezia 1995, pp. 73, 86, 100, 115-116, 123.
151. Ne è un esempio l'esperienza di Armando Gavagnin. Quando scoppiò il conflitto, poco più che quattordicenne, poté occuparsi alla Benedetto Brin, uno stabilimento meccanico che produceva bombarde, grazie all'intervento del padre, operaio dell'Arsenale. Era stato garzone di lattaio e di fornaio. A. Gavagnin, Vent'anni di resistenza al fascismo, p. 25.
152. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero Armi e munizioni, Uffici diversi, b. 255, risposta al questionario del Ministero Armi e munizioni, 29 ottobre 1915.
153. In base alla rilevazione della Camera di commercio nel mese di agosto era stato licenziato il 15,5% dei fanciulli in confronto al 6,4% degli uomini e al 5,1% delle donne. A.S.V., Camera di commercio. Posizione guerra 1914-1918, b. 533, fasc. 2, "Inchiesta sulle condizioni di lavoro nella provincia di Venezia in seguito allo stato di guerra". Ancora più elevato lo scarto negli stabilimenti della provincia: 25%.
154. Per i garzoni disoccupati, "Gazzetta di Venezia", 10 settembre 1914.
155. Il ricreatorio dei garzoni, ibid., 21 ottobre 1914.
156. Bologna, Archivio di Stato, Tribunale militare di Venezia, b. 885, fasc. 5013, Romeo Vianello, prosciolto il 20 giugno 1917. V. anche il fasc. 5030. L'incetta di stracci di lana e metalli era stata vietata dall'ordinanza del 20 ottobre 1915 della Piazza marittima la cui infrazione comportava l'arresto.
157. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione di Polizia Giudiziaria, Profughi e internati di guerra (1915-1920), "Relazione sulle condizioni dei rimpatriati accolti in Chioggia".
158. Bologna, Archivio di Stato, Tribunale militare di Venezia, b. 882, fasc. 4899, Giuseppe Lugato, condannato il 15 giugno 1917 a 15 lire di multa.
159. Ibid., b. 894, fasc. 5440, Umberto Diana, condannato per oltraggio a 12 giorni di reclusione il 7 agosto 1917.
160. Chi proferì queste frasi era un girovago di 53 anni che da 40 anni dormiva nella sua barca presso il ponte delle Quattro Fontane al Lido. Ibid., b. 913, fasc. 6172, Eugenio Trevisan, condannato a 2 mesi e a 70 lire di multa il 27 ottobre 1917.
161. Ibid., b. 919, fasc. 3453, Camillo Gallo, assolto l'11 dicembre 1917. Un aiutante di marina in piazza S. Marco aveva fermato un negoziante di colori di Rialto "perché dava sospetto sul contegno, sull'andamento e sul vestire".
162. Ibid., fasc. 5281, Antonio Bernardi, calzolaio, condannato a 1 anno di reclusione il 6 agosto 1917.
163. Un "possidente" e un barbiere vennero deferiti al tribunale militare. Ibid., b. 898, fasc. 5603; Angelo Carli e Ferdinando Annichiro furono condannati a 10 giorni di reclusione il 28 agosto 1917.
164. Ibid., b. 861, fasc. 4147, Vittorio De Cal, condannato a 150 lire di multa il 22 marzo 1917.
165. Ibid., b. 943, fasc. 7654; uno dei giovani, Mario Carraro di 24 anni, gondoliere, fu condannato a 6 mesi.
166. Ibid., b. 869, fasc. 4444, Giuseppe Bisotto, Romeo Crespi e Francesco Schulz, condannati a 3 mesi e 100 lire di multa.
167. Ibid., b. 909, fasc. 6001, Luigi Cescuti, condannato a 15 giorni di reclusione e 50 lire di multa il 16 ottobre 1917.
168. Ibid., b. 865, fasc. 4299. Si tratta della moglie e di due sorelle di un disertore che alla vista dei carabinieri fuggì dalla finestra. Furono condannate nell'aprile del 1917 a 50 lire di multa.
169. Ibid., b. 920, fasc. 3526, Minerva Zabeo, condannata il 19 dicembre 1917 a 8 giorni di reclusione ordinaria.
170. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Guerra europea, fasc. 19.4.8, lettera del 13 maggio 1917.
171. Ivi, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, A5G, Conflagrazione Europea, 1914-1918, b. 125, rapporto del prefetto, 5 giugno 1917.
172. Ibid., 18 gennaio 1917.
173. Bologna, Archivio di Stato, Tribunale militare di Venezia, b. 892, fasc. 5324, Giuseppina M. e Filomena G. condannate il 1° agosto 1917 a 25 giorni di reclusione per istigazione a delinquere. Sulla protesta delle donne nelle campagne v. Giovanna Procacci, Dalla rassegnazione alla rivolta. Mentalità e comportamenti popolari nella Grande guerra, Roma 1999, pp. 207-250; sul vicino Polesine: Bruna Bianchi, La protesta popolare nel Polesine durante la guerra, in Nicola Badaloni, Gino Piva e il socialismo Padano Veneto. Atti del convegno, Rovigo 1996, pp. 157-188.
174. Bologna, Archivio di Stato, Tribunale militare di Venezia, Fascicoli processuali, b. 891, fasc. 5264, Mario Cadel, calzolaio; per questa frase, proferita in calle della Mandola, fu condannato a 1 anno e 1 mese di reclusione oltre a 550 lire di multa il 6 agosto 1917.
175. Vera Zamagni ha calcolato la diminuzione di reddito degli impiegati statali. Fatto 100 il numero indice dei redditi reali nel 1913 degli impiegati, troviamo che nel 1917 essi erano scesi per le varie categorie da 53 a 59 e nel 1918 da 44 a 58; Vera Zamagni, Le alterazioni nella distribuzione del reddito in Italia nell'immediato dopoguerra (1919-1922), in La transizione dall'economia di guerra all'economia di pace in Italia e in Germania dopo la Prima guerra mondiale, a cura di Peter Hertner-Giorgio Mori, Bologna 1983, p. 517 (pp. 509-532).
176. All'ottobre 1917 avevano interrotto la propria attività non meno del 12% delle trattorie, bettole e caffè esistenti all'inizio del conflitto. Comune di Venezia-Ufficio di Statistica, "Bollettino Mensile".
177. Un campo nuovo di propaganda civile e patriottica, "Gazzetta di Venezia", 3 aprile 1917.
178. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Guerra europea, fasc. 17.2, memoriale inviato a Paolo Boselli il 16 luglio 1916 da una Commissione di cittadini veneziani, pp. 2-3. Il memoriale, il cui relatore era Alberto Sebellin, portava le firme di Augusto Agazzi, Piero Bortoluzzi, Attilio Cadel, Nicolò Spada, Giuseppe Vaerini.
179. Ibid., p. 4.
180. Ibid., lettera dell'on. Fradeletto al presidente del Consiglio, 25 agosto 1916.
181. Camillo Alberto Sebellin, Venezia nel conflitto europeo, Venezia 1916, pp. 14-15.
182. Ibid., p. 16.
183. Ibid., p. 18.
184. Ibid., p. 19.
185. Dopo aver completato gli allacciamenti della rete nordorientale con quelli dell'Italia centrale e dell'Appennino, la società rifornì di energia tutto il territorio delle operazioni belliche e delle retrovie e poté raddoppiare il suo capitale sociale (da 20 a 40 milioni tra il 1914 e il 1918). Santo Peli, Le concentrazioni finanziarie industriali nell'economia di guerra: il caso di Porto Marghera, "Studi Storici", 16, 1975, nr. 1, pp. 182-204.
186. Ibid., p. 184.
187. Sul dibattito che si sviluppò in città sul destino industriale di Venezia e su tutta l'operazione Marghera, rimando alla dettagliatissima ricostruzione di C. Chinello, Porto Marghera 1902-1926.
188. Non mi soffermo quindi sull'iter parlamentare dei vari decreti di esecutività, sulle concessioni di servizi, sulle esenzioni tributarie, sui vantaggi nell'acquisto delle aree garantiti al nuovo porto dallo Stato e dal Comune; per una ricostruzione dettagliata su questo tema rimando a S. Peli, Le concentrazioni finanziarie.
189. Così presentava alla cittadinanza la costituzione del Sindacato di studi per imprese elettro-metallurgiche e navali la "Gazzetta di Venezia", il 2 febbraio 1917, in un articolo dal titolo: Per la soluzione dei problemi cittadini del dopoguerra.
190. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1915-1920, II-8-22, processo verbale della seduta privata del consiglio comunale, 9 maggio 1917, p. 4.
191. Ibid., p. 11. Il corsivo è mio.
192. Si tratta dell'articolo 14 del decreto del 14 giugno 1917 che prevedeva l'esenzione a partire dal 1° gennaio 1916 della sovrimposta straordinaria di guerra sui redditi che derivavano dall'esercizio di navi mercantili alla condizione che fosse investita nell'acquisto o nella costruzione di navi mercantili una somma quadrupla dell'ammontare della sovrimposta stessa.
193. Bologna, Archivio di Stato, Tribunale militare di Venezia, b. 906, fasc. 5903, Silvio Manfrin, condannato a 2 mesi per vilipendio alle istituzioni il 12 ottobre 1917.
194. Ibid., b. 916, fasc. 3308, Giuseppe Cappeller, condannato il 7 novembre 1917 a 3 mesi per vilipendio alle istituzioni. L'uomo, pregiudicato per reati contro la proprietà e "di condotta morale non buona", si era difeso dicendo: "non appartengo a nessun partito politico, e sono solamente uno studioso di filosofia generale". Aveva protestato perché non gli era stato riconosciuto il diritto alla tessera per il pane.
195. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, A5G, Conflagrazione Europea, 1914-1918, b. 125, "Condizioni dell'ordine pubblico nella Piazza Marittima di Venezia", 13 ottobre 1917, relazione al ministro dell'Interno.
196. Bologna, Archivio di Stato, Tribunale militare di Venezia, b. 917, fasc. 3327, Mario Ferrari. Il capotreno fu assolto il 27 novembre 1917 dall'accusa di insubordinazione perché riuscì a provare di aver mostrato il volantino anche ai carabinieri e quindi di aver agito in buona fede e per pura curiosità.
197. G. Scarabello, Il martirio di Venezia, p. 182.
198. Ibid., p. 189.
199. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Guerra europea, fasc. 19.5.9.14, "Difesa della laguna di Venezia", rapporto di Armando Diaz al capo di stato maggiore della marina, 14 dicembre 1917.
200. A partire dal mese di maggio vi fu un parziale rientro; alla fine delle ostilità tuttavia la popolazione non superava le 50.000 unità. Comune di Venezia, Il censimento generale del 1° dicembre 1921, p. 19.
201. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Guerra europea, Assistenza ai profughi, b. 3, "La commissione profughi: opera svolta dalla sua costituzione", 20 settembre 1918. Secondo la Commissione, nel novembre 1917 erano rimaste in città 94.552 persone, non già 113.941 secondo i calcoli successivi del Comune.
202. Cospicue elargizioni al Comitato di Assistenza Civile, "Gazzetta di Venezia", 22 novembre 1917.
203. Per un resoconto dettagliato di partenze e destinazioni di comunità religiose, conventi, ospedali, orfanotrofi dal 3 novembre al 19 dicembre v. Esodo e sgombero di alcuni paesi del litorale, "Bollettino Diocesano del Patriarcato di Venezia", 1917, pp. 310-314.
204. Il 18 novembre l'amministrazione comunale calcolava che i capifamiglia disoccupati fossero 4.000. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Guerra europea, b. "Profughi veneziani e ss.", appunto di Filippo Grimani per Vittorio Emanuele Orlando.
205. Lo confermano i prospetti giornalieri delle partenze. Ivi, 1915-1920, VI-2-27, b. 791.
206. Molte si sfogavano per lettera con parenti e conoscenti ai quali chiedevano consiglio e sostegno morale. Lo confermano le lettere che contenevano anche imprecazioni contro la guerra e che vennero intercettate dalla censura. Una donna di 35 anni, sposata con tre bambine con il marito e il fratello al fronte, si sfogò con la fidanzata del fratello: "maledetta sia la guerra che fu un vero disagio per tutta l'Italia e specialmente per la nostra famiglia". Bologna, Archivio di Stato, Tribunale militare di Venezia, b. 921, fasc. 3573, Adele Sartor, assolta il 2 gennaio 1918.
207. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Guerra europea, fasc. 19.2.bis.11, il sindaco di Venezia al presidente del Consiglio, 5 dicembre 1917.
208. Ibid., lettera di Filippo Grimani, 15 gennaio 1918.
209. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Guerra europea, b. "Profughi veneziani e ss.", Orlando al prefetto, 8 dicembre 1917.
210. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Guerra europea, fasc. 19.2.bis 11, telegramma di Orlando al ministro della Marina, 27 febbraio 1918.
211. In dicembre l'esodo si attenuò e dalla metà di gennaio alla fine di febbraio 3.949 veneziani presero la via dell'esodo. I dati si riferiscono sempre alla popolazione povera della città, assistita dal Comune.
212. Bologna, Archivio di Stato, Tribunale militare di Venezia, b. 938, fasc. 1033, Carlo Ghenzovich, 13 anni, aveva scritto questa frase in una lettera inviata a un parente al fronte; fu assolto il 13 aprile 1918.
213. G. Scarabello, Il martirio di Venezia, p. 59.
214. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Guerra europea, fasc. 19.2.bis.11, lettera dei vescovi veneti a Vittorio Emanuele Orlando, 14 marzo 1918. Orlando rispose riaffermando che la barbarie dei bombardamenti sulle città era caratteristica unicamente del nemico.
215. Ibid., telegramma del prefetto al ministro dell'Interno, 27 febbraio 1918.
216. Ivi, Ministero dell'Interno, Ufficio Cifra, Telegrammi in arrivo, telegramma, 9 aprile 1918, nr. 11153 del ministro dell'Interno al prefetto.
217. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Guerra europea, Assistenza ai profughi, b. 1, telegramma nr. 11352.
218. V. ad esempio la dichiarazione della direzione dello Stabilimento industrie metalli e legno, in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero Armi e munizioni, Uffici diversi, b. 261, lettera, 22 maggio 1918.
219. Verbale del Comitato di mobilitazione industriale per il Veneto, ibid., b. 250.
220. Sicinio Bonfanti, La Giudecca nella storia, nell'arte, nella vita, Venezia 1930, pp. 276-277.
221. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero Armi e munizioni, Uffici diversi, b. 250, Comitato regionale di mobilitazione industriale per il Veneto, verbale del 23 marzo 1918, intervento del presidente, pp. 2-3.
222. Ibid., b. 258, relazione di Luigi Frizzole al presidente del Comitato regionale di mobilitazione industriale per il Veneto, 28 ottobre 1918.
223. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Guerra europea, Assistenza ai profughi, b. 3.
224. Ibid., b. "Profughi veneziani e ss.", lettera, 16 gennaio 1918.
225. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero Armi e munizioni, b. 261, fasc. "Trasformazione industrie nel dopoguerra. Questionari".
226. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Guerra europea, b. "Profughi veneziani e ss.", lettera di Filippo Grimani ad Alfredo Dallolio, 16 gennaio 1918.
227. Dal maggio all'ottobre 1918 l'Opera pia cucine economiche distribuì oltre 1.142.458 razioni gratuite. Calcolando che erano rimaste in città circa 40.000 persone, oltre il 14% doveva fare giornalmente ricorso alle cucine economiche. Opera Pia "Cucine economiche di Venezia", Relazione morale esercizio 1917-1918, Venezia 1920, pp. 10-11.
228. "Gazzetta di Venezia", 1° novembre 1917; v. anche l'articolo Chiacchieroni arrestati, ibid., 8 gennaio 1918.
229. Bologna, Archivio di Stato, Tribunale militare di Venezia, b. 938; v. n. 212.
230. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Ufficio Cifra, Telegrammi in arrivo, vol. 28, telegramma, 18 novembre 1917.
231. Corte d'Appello di Venezia, Inaugurazione dell'anno giudiziario 1918, p. 34.
232. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione Affari Generali e Riservati, A5G, Conflagrazione Europea, 1914-1918, b. 125, telegrammi del prefetto alla Direzione generale di P.S., 25 febbraio, 14 marzo, 17 maggio, 8 luglio, 29 agosto 1918.
233. MAIC-Ufficio del Lavoro, Consumi delle classi operaie in Italia. Prezzi al minuto delle derrate e generi di consumo popolare forniti dalle cooperative di consumo, "Bollettino dell'Ufficio del Lavoro", 1918, II semestre, pp. 112-113.
234. Opera Pia "Cucine economiche di Venezia", Relazione morale esercizio 1917-1918, p. 6.
235. Comune di Venezia-Ufficio Statistica, Riassunto demografico-sanitario dell'anno 1919 e notizie supplementari, Venezia 1919, pp. 10 e 12. I dati tuttavia sono da considerare con estrema cautela; infatti comprendono anche i decessi dei militari.
236. Associazione Generale fra Impiegati Civili di Venezia, Memoriale diretto al R. Governo per provvedimenti da prendersi a favore dei Funzionari dello Stato residenti a Venezia, 1° marzo 1918, in Roma, Archivio Centrale dello Stato, Presidenza del Consiglio dei Ministri, Guerra europea, fasc. 19.2.bis.11.
237. Sulle agitazioni dei dipendenti pubblici v. Giovanna Procacci, 'Condizioni dello spirito pubblico nel Regno': i rapporti del Direttore generale di Pubblica Sicurezza nel 1918, in Di fronte alla Grande guerra. Militari e civili tra coercizione e rivolta, a cura di Paolo Giovannini, Ancona 1997, pp. 186-187 (pp. 177-247); per la città di Roma v. Alessandra Staderini, Combattenti senza divisa. Roma nella grande guerra, Bologna 1995, pp. 363-403.
238. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero Armi e munizioni, Uffici diversi, b. 255, fasc. "Vertenze economiche", lettera, 20-5-1918.
239. Ibid., lettera degli operai al rappresentante del Comitato regionale di mobilitazione industriale, 3 agosto 1918.
240. Comune di Venezia, Il censimento generale del 1° dicembre 1921, p. 20.
241. Sull'assistenza ai bambini veneziani profughi v. Lucia Sandri, L'assistenza ai figli dei richiamati e dei profughi nell'ospedale degli Innocenti di Firenze durante la prima guerra mondiale. Lo sviluppo del diritto all'assistenza, in Le guerre dei bambini da Sarajevo a Sarajevo, a cura di Maria Cristina Giuntella-Isabella Nardi, Napoli 1998, pp. 229-236.
242. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Ufficio Cifra, Telegrammi in arrivo, vol. 26.
243. È quanto affermò nella seduta del 20 febbraio in consiglio comunale il consigliere Finzi, incaricato dalla giunta comunale di esaminare con l'Alto commissariato profughi le possibilità di accoglienza per coloro che avrebbero dovuto abbandonare la città. Sul litorale avrebbero potuto trovare accoglienza altre 8.000 persone se si fosse riusciti a vincere la resistenza alla requisizione. Comune di Venezia, Verbale di deliberazione del Consiglio Comunale di Venezia. Seduta pubblica 20 febbraio 1918, p. 38.
244. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Guerra europea, b. "Profughi veneziani e ss.", lettera del 20 febbraio 1918.
245. Forlì, Archivio di Stato, Tribunale penale di Forlì, b. 417, fasc. 86, Giulio Tonini, ragazzo di 18 anni che dichiarò: "Avevo freddo al collo. Pativo il freddo di malaria". Fu condannato a 2 mesi di reclusione e 70 lire di multa il 15 maggio 1918. V. inoltre il procedimento penale contro Augusto Da Fano, profugo di 44 anni accusato del furto di 2 coperte e assolto per mancanza di prove il 19 febbraio 1918.
246. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Ufficio Cifra, Telegrammi in arrivo, vol. 28.
247. L'interrogazione al ministro dell'Interno del deputato di Rimini fu pubblicata dalla "Gazzetta di Venezia" e con essa la risposta del sindaco Grimani il 16 marzo 1918.
248. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Ufficio Cifra, Telegrammi in arrivo, vol. 30, telegramma del prefetto di Rimini, 22 novembre 1917.
249. Ibid., telegramma del prefetto di Venezia, 28 novembre 1917.
250. Verso la metà di gennaio il numero complessivo dei profughi sussidiato dallo Stato era di 10.421. Ibid., telegramma, 18 gennaio 1918.
251. Un ammontare inferiore era devoluto agli adulti di famiglie con più componenti. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Guerra europea, Assistenza profughi, b. 1, Ufficio comunale assistenza profughi, Rimini, 25 gennaio 1918.
252. Ibid., petizione del 28 gennaio 1918 indirizzata al prefetto.
253. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione di Polizia Giudiziaria, Profughi e internati di guerra (1915-1920), b. 20, fasc. "Venezia esodo", telegramma del prefetto di Rimini, 18 marzo 1918; telegramma del prefetto di Venezia, 19 marzo 1918.
254. V. le rubriche della "Gazzetta di Venezia" La vita dei profughi veneti pubblicate il 2, 3 e 4 gennaio 1918. Secondo l'Ufficio comunale assistenza profughi all'inizio di gennaio a Viserba erano presenti 754 profughi, a Cesenatico 1.400, a Riccione 1.699, a Cattolica 1.234. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Guerra europea, b. "Profughi veneziani e ss.".
255. Nell'ottobre 1918 gli agenti di P.S., per conto del Comitato di assistenza, fecero irruzione nell'abitazione di Giuseppe Scateggio per sottrarre alcune lampadine e imporre così un risparmio sulla luce. Forlì, Archivio di Stato, Tribunale penale, b. 425.
256. Ibid., b. 416, fasc. 301.
257. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Guerra europea, Assistenza profughi, b. 1, relazione dell'ufficio assistenza profughi, 23 dicembre 1917 e 27 gennaio 1918.
258. Ibid., relazione della direttrice scolastica Anita Canal, 3 marzo 1919. Sull'organizzazione scolastica v. inoltre la documentazione raccolta ivi, 1915-1920, VII-10-41.
259. Forlì, Archivio di Stato, Tribunale penale, b. 420, fasc. 170; b. 422, fasc. 218; b. 417, fascc. 86 e 207; b. 421, fascc. 146 e 109; b. 426, fasc. "Adolfo Pietro"; b. 425, fasc. 985.
260. Ibid., b. 416, fasc. 781; il ragazzo, Luigi Fasan, fu condannato a 3 mesi di reclusione.
261. Ibid., b. 417, procedimento penale contro Santi Antonio, Tognatti Giovanni, Rizzo Umberto, Agostinetti Giovanni, Loi Pietro e Geremin Mario, assolti il 12 ottobre 1918.
262. Ibid., b. 416, fasc. 286.
263. All'inizio del 1918 i profughi veneziani nella provincia di Genova secondo l'Ufficio profughi erano 3.048, in gran parte residenti nel comune, pari a un terzo di tutta l'emigrazione veneta nella città. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Guerra europea, b. "Profughi veneziani e ss.", relazione di Rambaldi al sindaco, 8 gennaio 1918. L'emigrazione veneta era molto più consistente nei comuni della provincia. Nel complesso i veneti residenti in provincia di Genova erano 16.000.
264. Ibid., Assistenza ai profughi, b. 2, relazione dell'Ufficio profughi veneziani, s.d. [probabilmente maggio 1918].
265. Ibid., relazione di Rambaldi al sindaco, 8 gennaio 1918, p. 8.
266. Ibid., p. 6.
267. Ivi, VI-2-27, b. 791, processo verbale di seduta della giunta municipale, 1° luglio 1918.
268. Ivi, Guerra europea, Assistenza ai profughi, b. 2, Laboratori municipali veneziani pro disoccupate, 7 settembre 1918.
269. Ibid., lettera al sindaco, s.d.
270. Ibid., "Ispezione alla colonia di Celle Ligure", 25 agosto 1918.
271. Ibid., Ufficio dei profughi veneziani, Genova, 23 febbraio 1918.
272. Ibid., Ufficio dei profughi veneziani, Genova, "Organizzazione del lavoro ai profughi in Liguria e Piemonte".
273. Ibid., b. 4, lettera s.d.
274. Ibid., b. 2, lettera al sindaco di Rambaldi.
275. Ibid., lettera 19 marzo 1918.
276. Ibid., lettera s.d.
277. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione di Polizia Giudiziaria, Profughi e internati di guerra (1915-1920), b. 20, telegramma di Lutrario al ministro dell'Interno, 1° agosto 1918.
278. Per la rinascita di Venezia, "Gazzetta di Venezia", 25 agosto 1918.
279. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, Guerra europea, b. 3, telegramma s.d.
280. Roma, Archivio Centrale dello Stato, Ministero dell'Interno, Direzione Generale Pubblica Sicurezza, Divisione di Polizia Giudiziaria, Profughi e internati di guerra (1915-1920), b. 20, telegramma 2 marzo 1919.
281. Ibid., telegramma del prefetto al ministro dell'Interno, 4 luglio 1919. A tutti i profughi "bisognosi" che erano rientrati dopo il 27 gennaio 1919 fu concesso un sussidio straordinario; le domande furono 20.000 e molti furono esclusi dal beneficio.
282. Ibid., b. 8, lettera del prefetto di Venezia al ministro dell'Interno, 29 aprile 1919.
283. Con la cessazione delle ostilità la marina militare aveva sospeso le lavorazioni e una cooperativa metallurgica socialista, la S. Elena, avanzò domanda di appalto. Nel frattempo la società di Volpi, Cantieri navali e acciaierie, con l'appoggio di Antonio Fradeletto, ministro per le Terre liberate, ottenne l'appalto provvisorio di due scali dell'Arsenale fino all'aprile del 1921. Tra il 1920 e il 1921 fu scatenata una massiccia campagna propagandistica contro il pericolo che l'Arsenale cadesse in mano ai socialisti e nel 1922 il Consorzio operaio si ritirò. F. Piva, Lotte contadine e origini del fascismo, pp. 83-85; Id., Il reclutamento della forza-lavoro: paesaggi sociali e politica imprenditoriale, in I primi operai di Marghera. Mercato, reclutamento, occupazione. 1917-1940, a cura di Id.-Giuseppe Tattara, Venezia 1983, p. 347 (pp. 325-463).
284. Paolo Feltrin, Il cantiere Navale Breda (1928-1942), in I primi operai di Marghera. Mercato, reclutamento, occupazione, 1917-1940, a cura di Francesco Piva-Giuseppe Tattara, Venezia 1983, p. 213 (pp. 178-229).
285. Giuseppe Tattara, Il mercato del lavoro veneziano, ibid., p. 117 (pp. 91-129).
286. F. Piva, Il reclutamento della forza-lavoro, pp. 345-350.
287. V. su questi temi Fabio Ravanne, Migrazioni interne e mobilità della forza-lavoro: Venezia e Marghera, in La classe operaia durante il fascismo, a cura di Giulio Sapelli, Milano 1981, pp. 579-636.