VENEZIA (A. T., 22-23)
Città del Veneto, capoluogo della provincia omonima.
Sommario - la città (p. 48). - Storia (p. 52); Istituzioni della Repubblica (p. 58). - Arti figurative (P. 60). - Biblioteche e istituti di cultura: Biblioteche e archivî (p. 67); Istituti d'istruzione (p. 67); Gallerie e musei (p. 67); Istituti di cultura (p. 68). - Vita teatrale (p. 69). - Vita musicale (p. 68). - Letteratura dialettale (p. 71). - Folklore (p. 73). - I dominî veneziani d'oltremare (p. 74). - La provincia di Venezia (p. 76). - Tavv. XI-XX.
La città. - Venezia sorge su un arcipelago d'isolette, al margine tra la laguna viva e la laguna morta, a km. 4 dalla terraferma, con la quale è unita, oltre che da servizî marittimi con il nuovo porto di Venezia Marghera, anche da ferrovia a doppio binario e da autostrada, che sorpassano lo specchio lagunare mediante due grandiosi ponti (quello ferroviario costruito nel 1841-46, lungo m. 3601; l'altro nel 1931-32, denominato "del Littorio", lungo m. 4070 e largo 20, che corre per buon tratto affiancato al precedente). La separa dal mare aperto la stretta e allungata isola di Malamocco, lunga km. 12 e larga dai 300 ai 1000 m., la cui estremità settentrionale, a 1400 m. dalla punta della Motta, è divenuta la sede di una tra le più aristocratiche ed eleganti stazioni balneari d'Europa (Venezia Lido). Il comune è stato più volte ampliato, aggregando sia le numerose altre isole della laguna, alberganti nuclei abitati di notevole fama, sia centri cospicui di terraferma, da tempo entrati nell'orbita economica della città: il comune di Malamocco (r. decr. 18 gennaio 1883); il territorio di Marghera (d. l. 26 luglio 1917); i comuni di Pellestrina (r. decr. 27 maggio 1923), di Burano e Murano (regio decr. 30 dicembre 1923); quelli, sulla terraferma, di Mestre, Chirignago, Favaro Veneto, Zelarino (regio decr. 15 luglio 1926), e la frazione Malcontenta, staccata dal comune di Mira (r. decr. 15 luglio 1926), cui fu ceduta da quello di Venezia una superficie di 13,52 kmq. Così costituito, il comune misura, attualmente, una superficie di 455,2 kmq., dei quali 195,i soltanto agrarî e forestali, con una popolazione complessiva al 1936 (21 aprile) di 265.988 ab., per cui viene ad occupare il 9° posto tra i grandi comuni italiani. Per la sua posizione geografica la città gode di un clima temperato di transizione: la temperatura media annua è di 14°,4; l'inverno non è troppo freddo non senza però scarti notevoli (in media 3,8 con minimi assoluti di −10°); l'estate moderatamente calda (in media 22°,9, con massimi assoluti di 36°,1); rilevanti l'umidità (80% nell'inverno; 67% in estate) e la nebulosità con una media pari a 38,6 giorni all'anno, con i massimi in dicembre, gennaio, febbraio, i minimi in estate (zero in giugno), dovute in gran parte all'influenza del clima padano continentale, non ostacolato da alcun riparo naturale; la media dei giorni con neve è di 3,3 all'anno col valore massimo del gennaio (1,8). Le precipitazioni sono discretamente abbondanti, pari a 708 mm. annui con prevalenza dell'autunno (28%), e nell'estate (27%); il periodo meno piovoso è l'inverno, con accentuata siccità in febbraio. Il vento che spira con la maggiore frequenza è quello di NE. (greco); segue in ordine decrescente il NNE. (scirocco); il mese più ventoso è il maggio, quello più calmo il novembre.
La struttura topografica del centro cittadino, nella sua complessa irregolarità, rispecchia chiaramente la decisiva influenza, esercitata in oltre 13 secoli di storia, dalle specialissime condizioni ambientali sull'insediamento umano. La città è sorta su 118 isolette (comprendendovi anche quelle di S. Giorgio Maggiore e della Giudecca), estendendosi da ovest ad est, dalla punta della Stazione Marittima al margine orientale verso la laguna, dietro S. Pietro, per una lunghezza di m. 4260, con una larghezza massima da nord a sud di m. 2790; un perimetro (comprese le isole della Stazione Marittima, di S. Giorgio, di S. Elena e la Giudecca) di km. 13,7 e una superficie di kmq. 7,062. Le isole un tempo erano in numero molto maggiore, perché con l'andare del tempo molti canali furono interrati: oggi ne esistono ancora 160. È alla loro presenza che Venezia deve una delle sue caratteristiche topografiche inconfondibili, che la fanno unica al mondo, celebratissima. Il canale fondamentale, l'arteria maestra del centro, è il celebre Canal Grande o Canalazzo, col breve prolungamento del Canale di S. Chiara, lungo m. 3800, largo da 30 a 70 m., profondo m. 5-5,50 ha la forma di una gigantesca S inversa, e divide la città da NO. a SE. in due parti disuguali, terminando all'altezza del Bacino di S. Marco, dove confluisce nel più vasto Canale di S. Marco, su cui si affaccia il Palazzo Ducale. Nel Canal Grande sboccano 45 rii, che permettono le comunicazioni con tutti i sestieri della città; si allinea lungo le sue sponde oltre un centinaio di palazzi dell'antica nobiltà veneziana, offrendo un quadro incomparabile di bellezza e di arte. Sorpassano il canale tre ponti (dell'Accademia, di Rialto, della Stazione). I rii o rielli sono di solito di modestissime dimensioni, misurando 4-5 m. di larghezza, raramente 8-10 e servono soltanto per il transito delle gondole e delle piccole imbarcazioni. Naturalmente una delle caratteristiche di Venezia è il gran numero di ponti (circa 400), quasi tutti di pietra o di mattoni. Solo nel 1486 incominciò l'uso della costruzione dei ponti di pietra ad arco, che più tardi vennero muniti di parapetti con eleganti motivi architettonici. Accanto ai rii, le strade, piccole, anguste, spesso tortuose, la cui pavimentazione incominciò nel 1676, con i salizzoni di trachite euganea (da cui salizzada) formarono un altro elemento spiccatissimo della topografia urbana e vengono chiamate di solito calli (callette, calleselle; fondamente, se costeggiano l'acqua; rio terrà si chiama un canale interrato): i larghi spazî aperti vengono denominati campi, quelli minori campielli; corti, generalmente, se prive di sbocco.
Separata dal nucleo fondamentale urbano per mezzo del Canale della Giudecca, lungo m. 1680, largo in media poco più di 300, si estende la Giudecca, insieme di otto isolette, chiamata un tempo per la sua morfologia Spinalunga; deve l'attuale denominazione probabilmente alla dimora forzata dei Giudei. Già luogo di svago, con ville e giardini, oggi è un sobborgo prevalentemente industriale, abitato da numeroso elemento operaio.
A oriente, separata dalla Giudeeca dal Canale delle Grazie, sorge verso sud l'impareggiabile bacino di San Marco. Data la ristrettezza dello spazio fabbricabile è naturale che le aree a giardino siano molto poche, quando si eccettuino i Giardini Pubblici, creati per ordine di Napoleone I (1807), nella sezione sud-orientale della città, con splendida vista sul bacino di S. Marco e sulla Laguna: questi giardini sono in parte occupati dai padiglioni dell'Esposizione Internazionale di Arte Moderna, dal 1895 una delle attrattive artistiche più cospicue di Venezia. Una nuova opera si è aggiunta, a rendere più suggestiva e incomparabile questa zona di Venezia, e cioè la costruzione della monumentale Riva dell'Impero, inaugurata il 23 marzo 1937, che dalla Riva degli Schiavoni porta ai Giardini Pubblici con una lunghezza di 700 m., alla quale possono attraccare anche navi di grosso tonnellaggio, essendovi un fondale utile di oltre 10 m.
La città si divide in sestieri: San Marco, Castello, Cannareggio, S. Croce, S. Polo, Dorsoduro, che comprende anche la parrocchia di S. Eufemia alla Giudecca.
La popolazione di Venezia si è andata sviluppando e contraendo a seconda delle condizioni politiche, militari ed economiche, delle quali fu sempre indice sensibilissimo. Il governo della Serenissima fu forse il primo stato a comprendere l'importanza dei rilevamenti statistici, i primi dei quali risalgono al sec. XIII, e che dal sec. XV si susseguirono a periodi più o meno regolari di tempo. La città contava 133.000 abitanti nel 1338; quasi un secolo più tardi, all'apogeo della sua grandezza, si toccava la cifra di 190.000 individui, cifra non più raggiunta sino al sec. XX. Si piomba a soli 120.000 nel 1509, l'anno fatale per la storia della repubblica, quando Venezia affrontò con fermo animo quasi tutta l'Europa coalizzata ai suoi danni: le sorti migliorano nei decennî successivi, tanto che nel 1563 si è di nuovo saliti a 183.000 ab. Gli anni successivi denotano un lento fatale declino; la lotta contro i Turchi, la perdita di tutti i possedimenti del Mediterraneo orientale arrecano un colpo gravissimo alla sua egemonia economica, tanto che alla fine del sec. XVII la popolazione è di soli 139.000 ab. Si mantiene con alterna vicenda sui 130-140.000 in tutto il secolo successivo. Due anni prima del trattato di Campoformio contava 137.240 ab. Le sorti non migliorarono sotto il dominio francese e tanto meno sotto quello austriaco: la perdita quasi completa di ogni traffico non favorì lo sviluppo del centro, che contava 125.000 ab. al censimento del 1857: il primo censimento italiano dava per Venezia 129.000 abitanti.
Unita all'Italia, Venezia riprende la sua ascesa regolare e continua. Si riattivano i commerci (è del 1880 l'apertura dei primi manufatti del porto noto col nome di Stazione Marittima), si sviluppa incessante l'industria del forestiero, si migliorano grandemente le condizioni igieniche: la città sale da 129.000 ab. nel 1871 a 150.000 nel 1901, a 156.000 nel 1911. Allo scoppio della guerra mondiale, Venezia era nel pieno fiorire delle sue molteplici attività, che venivano improvvisamente arrestate; il porto senza navi, chiusi quasi tutti gli stabilimenti, limitato da rigorose restrizioni lo scambio delle merci e l'accesso delle persone. La popolazione della città si riduceva a 130.000 ab. nell'aprile del 1917, a 116.000 nell'estate dello stesso anno. Caporetto, le incursioni aeree da parte del nemico portarono all'esodo di gran parte della popolazione: il 30 aprile 1918 fu eseguito un computo generale, che dava presenti nel vecchio comune circa 45.000 persone esclusa la guarnigione. Il censimento dei profughi dava sparsi fra le città d'Italia oltre 65.000 cittadini di Venezia, accanto a 3300 di Burano e di Murano. Cessate le ostilità, il ritorno dei profughi avveniva con ritmo febbrile, tanto che nel 1921 la città contava 165.000 abitanti, saliti a 173.000 nel 1931. In un sessantennio dunque la popolazione è aumentata del 34%. I singoli sestieri si comportano in maniera difforme: avverte una diminuzione del 10% il sestiere di S. Marco; offrono aumenti, inferiori a quello generale della città, Castello (32%), S. Polo (20%), Dorsoduro (27%), mentre invece quelli di S. Croce e Cannareggio aumentano del 37% e del 48% rispettivamente: la Giudecca poi, abitata attualmente in prevalenza da operai, è il sestiere che avverte l'aumento più cospicuo (142%).
Nel complesso, peraltro, siamo di fronte a spostamenti positivi poco sensibili, quando si pensi all'aumento di molti altri grandi centri italiani: e questo si spiega pensando alla specialissima ubicazione di Venezia. Ma se i quartieri urbani avvertono aumenti modesti, non così è per i quartieri insulari e di terraferma, oggi pienamente attratti nell'orbita economica veneziana. Infatti, considerando le variazioni territoriali come avvenute già nel 1871, notiamo per l'intero comune di Venezia un aumento percentuale assoluto del 57% (città 34%): i quartieri suburbani e di terraferma salgono da 36.000 ab. nel 1871 a quasi 88.000 ab. nel 1931 (aumento del 143%). L'Isola di Malamocco sale da 2096 ab. nel 1871 a 10.207 nel 1931, soprattutto per opera del Lido (8676 ab.), l'elegante stazione climatica estiva, ricca di ville, giardini, alberghi lussuosi, mentre le altre frazioni sono di modeste dimensioni, quali Malamocco (l'antica Metamanco; 1036 ab. nel 1931), che fu, dopo Eraclea, sede del governo veneziano; 4 km. più a sud gli Alberoni (224 ab.), modesta borgata, che deve il suo nome agli altissimi pioppi, che si elevano presso il forte, oggi diventata stazione balneare a carattere popolare; nel sessantennio, l'ex-comune di Burano sale da 6927 ab. a 11.134: nel 1931 il centro omonimo contava 5519 ab., su quattro isolette, famose per l'industria del merletto ad ago; quello di Murano varia da 3770 ab. a 6987 individui, di cui 5941 concentrati nell'omonimo centro (v.), sopra un gruppo di 5 isole, celeberrime per l'arte vetraria; a sud di Malamocco, l'ex-comune di Pellestrina, formato da parecchie frazioni (Pellestrina centro, 2507 ab. nel 1931), a carattere eminentemente agricolo (ortaglie) e peschereccio, che avverte una diminuzione sensibile passando da 6253 ab. a 5329 ab. Anche i centri di terraferma avvertono formidabili aumenti, in grazia del magnifico sviluppo delle industrie e del sorgere del grande porto di Marghera. Ed ecco l'omonima frazione balzare da 615 ab. nel 1871 a 4670 (4043 accentrati) nel 1931, affiancata al porto commerciale e alla zona industriale, magnifico esempio di città-giardino, che coprirà un'area di 150 ettari, capace di 30.000 persone, già dotata di servizî pubblici e igienici modernissimi. Poco più a nord sorge il centro di Mestre (19.175 abitanti nel 1931), il cui ex-comune avverte un aumento sensibilissimo balzando da 9931 ab. nel 1871 a 31.727 nel 1931,, grande nodo stradale e ferroviario, unito con Venezia centro e Venezia Marghera. Variazione positiva cospicua avvertono anche gli ex-comuni di Favaro Veneto (Favaro centro 323 ab. nel 1931), Chirignago (1089 ab. nel centro), Zelarino (237 ab.).
L'aumento demografico del comune è in parte dovuto all'eccedenza dei nati sui morti. Nel periodo 1929-1934 essa fu nel complesso di 9591 unità, con un valore relativo medio annuo pari al 0,6%. A tale riguardo esiste una profonda differenza tra il vecchio comune e quelli di recente aggregati, nel senso che Venezia città ha sempre avuto un quoziente di eccedenza molto basso, anzi addirittura negativo nel periodo 1871-90 e negli anni 1916-17-18 per evidenti ragioni, mentre gli ex-comuni di terraferma e lagunari hanno sempre avuto un'eccedenza cospicua (nel periodo 1881-1901 gli ex-comuni di Murano, Burano, Mestre, Favaro Veneto, Chirignago e Zelarino hanno presentato un'eccedenza media annua superiore a 1,5% accanto a 0,03% di Venezia). Comunque si nota, al riguardo, un miglioramento continuo dovuto soprattutto al diminuire progressivo dell'indice di mortalità per le migliorate condizioni igieniche.
Anche per Venezia ha grande importanza il fenomeno immigratorio: i nati fuori del comune di censimento costituivano nel 1931 il 33%, pari a 86.323 persone: di queste oltre 66.000 risultavano nati nell'Italia settentrianale (Veneto 49.323), 7979 nell'Italia centrale, 8124 nell'Italia meridionale e nelle Isole. Degna di nota la presenza del numeroso elemento meridionale, fatto non nuovo, che si riscontra, ancor più accentuato, in tutte le altre grandi città dell'Italia padano-veneta.
Cospicuo è anche l'elemento nato all'estero. Il numero dei cittadini stranieri in Venezia risultò nel 1931 di 3015 individui (3066 in tutta la provincia), soprattutto di nazionalità germanica (642), inglese (501), nordamericana (262), austriaca (236), svizzera (172) ungherese (145), francese (104), ecc.
Venezia ha una fisionomia economica molto spiccata: nel 1931 su 211.343 individui di età superiore ai 10 anni, 100.000 circa esercitavano condizioni non professionali, oltre 111.000 erano addetti alle diverse attività economiche: di questi il 41% era impiegato nell'artigianato e nella grande industria; il 29% nel commercio e nei mezzi di comunicazione, l'8% nell'agricoltura e nella caccia, ecc.
La grande industria era forte nel 1927 di 4411 aziende e 39.180 addetti: tutte le attività sono rappresentate, dalla pesca (977 occupati) alla lavorazione del legno (1840), della carta, all'industria tipografica (677 operai), dalle industrie meccaniche e dagli addetti alla lavorazione dei minerali, che formano il nucleo fondamentale con oltre 8000 operai, alle industrie delle costruzioni (6483 operai), alle tessili (2052), alle chimiche (2028). I centri di maggiore attività sono Venezia, Murano (vetrerie), Mestre, ma soprattutto Marghera, che ha veduto sorgere, a partire dal 1919, un grandioso porto e una vera città industriale (v. appresso). Industria particolarissima e fondamentale è poi quella turistica, sia balneare estiva (Lido), sia per cause artistiche (monumenti, chiese, opere d'arte, esposizioni, rassegne cinematografiche, ecc.).
Gran parte dello sviluppo di Venezia centro e dei sobborghi, soprattutto di terraferma, è peraltro dovuto al porto, anzi all'insieme dei porti, che hanno fatto della città il secondo emporio commerciale del regno, dopo Genova.
Anche al tempo gloriosissimo della repubblica il mare fu sempre la prima ragion d'essere di Venezia. Le navi, entrate nella Laguna, davano fondo in uno degli specchi più vicini della città: nel porto di S. Niccolò, di fronte all'Arsenale, poi in seguito più addentro, nel Canale e nel Bacino di S. Marco e nel Canale della Giudecca ovvero alle fondamente prospicienti i grandi mercati della città, a S. Pietro, alla Bragora, al Ponte della Paglia, alla Dogana da mar, alla Dogana da terra presso la Salute, all Giudecca e lungo il Canal Grande, all'Erberia, al Fontego dei Tedeschi al Fontego dei Turchi, ecc. Questo stato di cose si mantenne inalterato per secoli, ma quando nel 1846 giunse alla città la ferrovia, attraverso il celebre ponte, un nuovo orizzonte economico si apriva per Venezia: tutti i piani di miglioramento furono peraltro frustrati dalle vicende politiche e militari. Soltanto dopo il 1866, anno in cui la Serenissima veniva finalmente e per sempre unita alla madrepatria, si cominciò a formulare un piano organico, deliberando la costruzione di un primo gruppo di approdi sulle "sacche" e il palude esistenti fra gli sbocchi occidentali del Canal Grande e del Canale della Giudecca, ossia in un punto che la ferrovia avrebbe potuto facilmente raggiungere. Sorse così la prima parte di quella che poi fu chiamata la Stazione Marittima (1880), che incominciò ad accusare un traffico notevolissimo. I lavori continuarono ininterrotti, inaugurandosi nuove opere portuali nel 1886, 1892, 1896; tra il 1902 e il 1904 si completò il Molo di Levante e si costruì l'ultimo tratto delle banchine sul Canale della Giudecca a San Basilio, dando modo al traffico di aumentare, toccando sin dal 1904 i 2 milioni di tonnellate e il suo massimo di quasi tre milioni nel 1912. Ma già dal principio del sec. XX si andava sempre più nettamente delineando l'insufficienza delle opere portuarie, cui recarono solo parziali miglioramenti le nuove opere di allargamento dei bacini e di allungamento dei moli. Si andò così maturando il progetto di costruire un nuovo porto sulla terraferma e fu scelta come località la zona di Marghera, in ottima posizione rispetto a Venezia e a Mestre. La convenzione fu stipulata tra il governo, il comune di Venezia e la società "Porto industriale di Venezia" nel luglio 1917, mentre accanita infuriava la guerra italo-austriaca. Il piano regolatore generale del porto di Marghera, redatto da Coen-Cagli, includeva nel perimetro di tutte le nuove opere previste un'estensione complessiva di 11 kmq., dei quali 3 erano riservati agl'impianti del porto commerciale; 6 kmq. alla zona industriale, circa 2 al quartiere urbano. I lavori iniziati nel 1919 venivano nel loro insieme portati innanzi febbrilmente, tanto che il 17 maggio 1922 s'inaugurava la via di accesso al nuovo porto, costituito dal grande Canale Vittorio Emanuele III, che parte dalla Stazione Marittima ed ha andamento rettilineo est-ovest, lungo 4100 m., largo in superficie 70 m., profondo 10. Sulla sponda destra, provenendo da Venezia, si apre in prossimità del porto commerciale e industriale il porto dei petrolî, intorno al quale sono accentrati i depositi d'idrocarburi su una superficie di ben 400.000 mq Al Canale Vittorio Emanuele III fanno seguito due canali marittimi industriali, che da esso diramano e cioè il Canale industriale Nord, lungo m. 2500, provvisto di due capaci darsene, e il Canale Brentella (m. 1000), i quali si addentrano a servire gli stabilimenti eretti nel gruppo più settentrionale di aree per industrie. A questi nel 1924, si aggiunse un nuovo grande canale (Canale industriale Ovest), lungo circa 4000 m., e più tardi il nuovo canale per barche da 300 tonn. aperto per il collegamento di Porto Marghera con il naviglio di Brenta e quindi con Padova. Il porto commerciale è costituito da grandi moli, paralleli fra loro, lunghi m. 1000 e larghi 200, intercalati fra altrettanti bacini, con una superficie che, a lavori ultimati, coprirà kmq 3,5 con 10 km. di calate a grande fondale, dotate d'impianti modernissimi di carico e scarico, nonché di grandi opere ferroviarie. Di pari passo è proseguito lo sviluppo industriale, che conta attualmente oltre 60 stabilimenti, tra i più potenti d'Italia, per la produzione delle benzine col procedimento del cracking, di fertilizzanti, dell'alluminio, di vetri in lastre e di cristalli (la produzione di Venezia Marghera sopperisce ai 3/4 del fabbisogno nazionale), dell'energia termoelettrica, di prodotti siderurgici e meccanici, cantieri navali, ecc. Affiancato alla zona industriale, verso ovest, è sorto il nucleo urbano. Trenta km. di strade ferrate in servizio della zona industriale e commerciale, 40 km. di strade ordinarie, con un imponente cavalcavia a cinque rampe dello sviluppo complessivo di 1,5 km., il quale collega Porto Marghera con Mestre, al disopra della ferrovia a doppio binario Mestre-Venezia; 30 km. di fognature, quasi 40 km. di acquedotti stanno a dimostrare il grandioso lavoro compiuto dal 1919 a oggi.
Il traffico complessivo del porto segue un aumento molto confortante non tanto per il numero delle navi entrate e uscite, che oscilla sulle 8-9000 unità annue, quanto per il tonnellaggio delle merci imbarcate e sbarcate. Esse sommarono a 2.760.000 nel periodo 1911-1913; dopo il collasso causato dalla guerra mondiale, il traffico riprende vigoroso, tanto che nel periodo 1923-1925 esso è salito a 2.144.000 tonn. annue; nel triennio 1932-1935 balza a 3.712.142 tonn., tanto da porre Venezia al 2° posto tra i grandi porti italiani, dopo Genova, avendo largamente superato Trieste. Per il 60-65% le merci vengono trasportate da navi battenti bandiera italiana. Le altre marine più rappresentate sono quelle inglese, tedesca, iugoslava ed ellenica. Prevalgono in maniera assoluta le merci importate, costituite in prevalenza da materie prime e combustibili (carboni, petrolî e derivati, materie fertilizzanti, cotoni, cereali, vini, ecc .), mentre le merci esportate riguardano in gran parte manufatti. I principali paesi aventi relazione con Venezia sono quelli del Mediterraneo centro-orientale e del Mar Nero; cui si devono aggiungere Gran Bretagna e Olanda in Europa; Stati Uniti, Argentina in America, India Britannica in Asia. Venezia, adunque, compie una particolare e spiccatissima funzione, quella cioè di orientare la maggior parte del suo traffico nell'ambito del Mediterraneo: è sede della società di navigazione "Adriatica", che in connessione alla "Tirrenia" di Napoli, esercita tutte le linee sovvenzionate del Mediterraneo e del Mar Nero e la linea commerciale Italia-Nord-Europa. Venezia, inoltre, gode di una posizione privilegiata nei riguardi del traffico di terraferma, perché non soltanto ha un retroterra pianeggiante, ricco di popolazione e d'industrie, di mezzi stradali e ferroviarî; non soltanto è servita da molti transiti internazionali, ma è anche dotata di una ricca rete di vie navigabili, che fanno capo alla Laguna e più precisamente: dall'estremo nord di questa si diparte verso E.-NE. la litoranea veneta che porta alla foce dell'Isonzo e serve le provincie di Treviso, Udine, Gorizia; alla laguna media confluiscono, raccogliendosi nei due rami del Naviglio di Brenta (ramo di Fusina e ramo di Porto Marghera), le vie d'acqua navigabili delle provincie di Padova, Vicenza e in parte anche di Venezia; infine alla laguna inferiore, e precisamente a Chioggia, fanno capo le arterie di maggiore importanza, tutte confluenti a Brondolo sul Canale Lombardo (Adige, Adigetto, Canale di Pontelongo, Canal Bianco, l'asta fondamentale del Po).
Grandioso è dunque il quadro dei mezzi di comunicazione tanto per via d'acqua quanto per terraferma e via aerea, che fanno capo a Venezia. Questa è collegata con i principali centri insulari e rivieraschi della Laguna mediante linee regolari di piroscafi e vaporetti, gestite dall'Azienda Comunale di Navigazione Interna e Lagunare (A.C.N.I.L.), che nel 1904 subentrò alla società privata, costituita nel 1872 (Società Veneta Lagunare di navigazione a vapore): sono così allacciati con la Serenissima il Lido, Malamocco, Alberoni, Pellestrina, Chioggia (km. 30), Murano, Burano, Torcello, Treporti, Punta Sabbioni (km. 16). Servizî regolari di navigazione portano poi a Fusina (km. 8), dove arriva la tramvia elettrica proveniente da Padova (km. 36). Le comunicazioni con la terraferma sono assicurate dalla linea ferroviaria a doppio binario, che da Venezia S. Lucia porta a Venezia Mestre (km. 9), sorpassando la Laguna mediante un grandioso ponte di muratura, lungo m. 3601, aperto al traffico nel 1846: Venezia-Mestre è il grande nodo ferroviario, da cui si irraggiano le linee di grande traffico per Trieste (km 148) e Postumia (km. 230); Udine (km. 127) e Tarvisio (km. 221), Trento (km. 148); Padova (km. 28) e Milano (km. 258); Padova-Bologna (km. 123 da Padova; 151 da Venezia-Mestre). Un gran numero di ferrovie e tramvie di carattere locale si staccano da Mestre, quali la ferrovia per Adria (km. 58; 67 da Venezia S. Lucia), le tramvie per Treviso (km. 19), Mirano (km. 11), Malcontenta (km. 6), Carpenedo, ecc. Collega poi Venezia città con Mestre una filovia lunga km. 10, resa possibile dalla costruzione del grandioso Ponte del Littorio, lungo m. 4070, largo 20 m. (22,25 se si considera anche la soletta di cemento armato che lo congiunge con il vecchio ponte ferroviario), su cui passa l'autostrada proveniente da Padova (sezione della grande arteria in corso di attuazione Torino-Trieste) e terminante nel grande piazzale presso la Stazione Marittima, vasto ben 40.000 mq., di cui 9000 occupati dalla grandiosa rimessa. Ma Venezia è diventata anche un importantissimo nodo aviatorio, servito dall'Idroscalo di S. Andrea e dall'Aeroporto di S. Nicolò. Le linee, gestite dall'Ala Littoria e dalla Società Avio Linee Italiane, portano a Milano (km. 250), Trieste (km. 113), Fiume (km. 225), Roma (km. 450): a queste si devono aggiungere le linee internazionali per Monaco (km. 862); Berlino (km. 1369); Vienna (km. 490) e Budapest (km. 710).
L'arsenale. - La costruzione dell'arsenale di Venezia venne decisa nel 1104, essendosi dimostrato necessario di allestire in uno stabilimento statale le armate per tutelare lo sviluppo coloniale e il commercio marittimo veneziano. Il primo arsenale occupava la parte chiamata anche oggi "Arsenale Vecchio". Successivi ingrandimenti furono eseguiti nel 1303 e nel 1325. Nel 1473 si costruì la "Novissima", onde disporre di una darsena per le galee pronte. In quell'epoca oltre che degli scali coperti per la costruzione delle galee, l'arsenale disponeva della corderia ("tana"), della veleria, di officine e depositi per legnami, alberi, remi, ecc. e di una fonderia per le artiglierie. Fino al 1509 vi era anche quanto occorreva per fabbricare le polveri, ma in seguito a un incendio questo servizio venne trasferito nelle isole della Laguna. Nel 1660 s'iniziò la costruzione delle navi a vele quadre, fino allora acquistate in Olanda e in Inghilterra.
L'arsenale era retto da tre "provveditori" e da tre "patroni", scelti fra i patrizî. Al funzionamento tecnico si provvedeva con un ammiraglio e con "proti" delle varie categorie di maestranze.
L'arsenale lavorò intensamente fino a tutto il sec. XVII, occupando più migliaia di arsenalotti che godevano di speciali privilegi. La sua attività si ridusse nel sec. XVIII in seguito alla politica di neutralità adottata dalla Repubblica. Alla conclusione del trattato di Campoformio l'arsenale venne completamente spogliato dai Francesi prima di essere consegnato all'Austria. Durante l'occupazione austriaca ebbe scarsa attività, e al tempo dell'insurrezione del 1848-49 fornì i mezzi di difesa durante l'assedio della città. L'Italia, dopo il '66, vi dedicò molte cure e lo dotò di 3 bacini di carenaggio. Durante la guerra 1914-18 vi furono costruiti sommergibili, naviglio leggiero, batterie galleggianti per il fronte dell'Isonzo e del Piave e quei M. A. S. che compirono leggendarie imprese contro i porti e le navi del nemico.
Le fortificazioni. - Anticamente Venezia non ebbe fortificazioni importanti. Riconosciuta, dopo la guerra contro i collegati di Cambrai, la necessità di proteggere la città contro attacchi di navi, fu affidata al Sanmicheli la costruzione del castello di Sant'Andrea sul Lido (1543) con cortine e cannoniere quasi al livello delle acque. Successivamente vennero costruiti altri forti e batterie fra cui il più importante in terraferma fu il forte di Marghera, eseguito per ordine di Napoleone I nel 1810, col compito di proteggere il canale di Mestre contro sbarchi in terraferma, assicurare sbarco e rifugio a truppe di presidio.
I forti Manin e Rizzardi, costruiti in un secondo tempo (1848), sempre in terraferma, a difesa del canale di Mestre e delle comunicazioni con Venezia, completavano ciò che prese il nome di "campo trincerato di Mestre".
Inoltre il forte S. Nicolò, il forte Alberoni e il forte S. Pietro nelle isole omonime rappresentavano la difesa dell'ingresso del porto.
Con la costituzione del regno d'Italia, Venezia divenne una piazzaforte marittima e terrestre di grande importanza nello scacchiere orientale e base di operazioni offensive contro l'impero austriaco che aveva Pola come sua base contro l'Italia. La sua organizzazione impegnò una zona molto più vasta comprendente "il campo trincerato di Mestre" e un gran numero di batterie e forti marittimi distribuiti in profondità variabili da 5 a 15 km. intorno a Venezia e al suo arsenale.
Molte di dette opere, però, erano di tipo antiquato e di limitata portata per cui l'offesa non risultava sufficientemente tenuta a rispetto così da sottrarre il centro vitale a bombardamenti e attacchi navali.
Fu vanto della Marina italiana l'aver saputo attuare in tempo, già prima della guerra mondiale, quell'organizzazione della sua base navale atta a migliorarne la difesa della fronte a mare e ad aumentare considerevolmente gl'impianti per il funzionamento dei servizî della flotta. Negli anni della vigilia s'erano infatti munite le sue isole, le sue fortezze, gli estuarî di poderose armi destinate a proteggerla dal mare; gli Ancoraggi delle navi vennero protetti con sbarramenti e sistemazioni difensive contro attacchi di naviglio sottile e di sommergibili; poderose protezioni antiaeree furono create e organizzate durante il periodo bellico.
Furono inoltre approfonditi un grande specchio d'acqua a Malamocco capace dell'intera flotta italiana, e il canale fra Malamocco e Venezia -gettate ostruzioni fisse nel porto del Lido e scavati canali interni a nord e a sud di Venezia per il transito delle siluranti e di altri galleggianti al sicuro dalle insidie e dalla vista del nemico.
Questi canali, che alleggerirono di molto il traffico delle linee ferroviarie per il trasporto di materiali, si dimostrarono di validissimo aiuto alle operazioni dell'esercito, riuscendo ad assicurare trasporto di materiali fino a un totale di 80.000 tonnellate mensili.
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Storia.
La storia di Venezia (o meglio delle Venezie, al plurale), prima di essere storia di una città, fu storia di una regione, di quella X regio dell'ordinamento augusteo, estesa dalla Pannonia all'Adda nella quale il territorio veneto era strettamente collegato politicamente e amministrativamente all'Istria (v. venezia e istria). Fino alla metà del sec. VI non solo fu mantenuta tale unità, ma non si manifestò nessuna differenziazione tra la zona marittimo-lagunare e quella continentale; e così passò dall'impero romano, al governo gotico, al dominio bizantino. L'una fu distaccata dall'altra in conseguenza dell'occupazione del territorio continentale da parte di nazioni transalpine, che s'insediarono in Italia, conservando la propria organizzazione statale e la propria fisionomia. La zona marittima, che continuò a restare in possesso del governo bizantino, fu separata da quella continentale: autori del distacco furono i Longobardi, ai quali invano il dominio bizantino contrastò il cammino per giungere alla Laguna, aggrappandosi disperatamente ad alcuni capisaldi del sistema difensivo nord-orientale, da Oderzo a Padova. Il crollo prima di questo (609), poi di quello (616), costrinse i superstiti residui di dominio romano, progressivamente avulsi e isolati dal territorio della capitale, Ravenna, a cercare ospitalità nelle isole della Laguna non più inospiti. La pressione esercitata dagl'invasori stranieri sopra le popolazioni indigene della terraferma aveva obbligato queste a riportare i loro domicilî nelle isole semideserte della Laguna, dianzi o spopolate o stazioni di pesca o di transito, temporanee o stabili. Sorsero così i nuovi centri di abitazione, accanto ai vecchi già esistenti e irrobustiti dalle nuove correnti. Grado, plebs di Aquileia, fu elevata alla funzione di castrum. Chioggia, beneficiando del suo fortunato isolamento, poté sfuggire alle conseguenze di questi movimenti, conservando intatta la propria tradizione. Ma tra questi sorsero i nuovi aggregati, i quali, all'ombra delle isole consorelle custodi della tradizione indigena, raccolsero il soffio di romanità portato dai profughi dalla terraferma verso nuove sedi, quale geloso patrimonio della loro civiltà e dei loro diritti. La sede del governo provinciale passò da Oderzo nell'isola innominata, poco discosta dal prospiciente bordo continentale, nella quale fu edificata la nuova città, Civitas nova, poi detta Eraclea, la prima e sola che apparisse con tale nome e funzione nel ricostituito ducato bizantino; la sede dell'autorità ecclesiastica sostò a Grado, luogo che aveva offerto il primo rifugio ed era propizia a esser difesa da opere militari. Numerosi i profughi e numerose le isole per dare a essi conveniente ospitalità, a seconda della comodità della loro dislocazione, in rapporto alla distanza dai luoghi d'origine: Torcello, Caorle, Equilio, Olivolo, Fine, Malamocco, ecc. Il ducato bizantino delle Venezie, distrutto in terraferma, si riorganizzava nella Laguna, sotto la sovranità dell'Impero d'Oriente, alle dipendenze dell'esarca di Ravenna, come una delle circoscrizioni del dominio italico, sotto il diretto governo di un magister militum. Questo si legge nell'iscrizione torcellana del 639, senza dubbio di sorta sopra la sua autenticità, sopra la sua veridicità e senza incertezza d'interpretazione; e questo regime durò immutato, nella forma almeno, per quasi un secolo ancora, anche se animato di poca vitalità e interpolato forse dalle prime inquietudini isolane. Erano preludio delle latenti aspirazioni verso una nuova organizzazione più conforme allo spirito romano, che la sorte costringendo il ducato a vivere una vita propria, aveva preservato immune da infiltrazioni straniere, fossero tedesche o fossero bizantine. Quando l'Italia tutta nel 726 reagì contro l'errore iconoclasta, che era offesa e al sentimento della fede occidentale e a quello artistico, l'exercitus del ducato, interprete e geloso custode della spiritualità indigena, tra la quale era nato e cresciuto, aderì al moto di ribellione esploso in tutte le circoscrizioni. L'eventualità che ne seguisse una secessione fu scongiurata dal pronto intervento del pontefice, anima e guida del moto, desideroso di ottenere la correzione, non la punizione dell'aberrante mente imperiale. Era però gettato il seme fecondo di ulteriori sviluppi. L'autonomia di un reggimento locale era affermata, e non poteva essere più distrutta: anzi fu inconsapevolmente fortificata da due circostanze, che aiutarono una precisa definizione, l'isolamento territoriale, dal quale il ducato fu circondato; il noncurante abbandono di ogni controllo non solo da parte del governo costantinopolitano, ma anche da parte di quello esarcale ravennate. Il crollo di questo, nel 751, diede una sanzione più decisiva alla condizione di fatto che già esisteva. Il dominio bizantino d'Italia si smembrò in altrettanti ducati autonomi, se non indipendenti, già preformati. Essi non ripudiarono la loro dipendenza ideale da Costantinopoli, assai debolmente e con molta intermittenza resa efficace e fatta sentire in pratica, in rapporto alle capacità politiche e militari d'intervento diretto. Ma la possibilità di funzionamento e di vita autonoma era già inderogabilmente fissata all'atto della secessione del 726: questo si può considerare quasi il punto di partenza di ogni ulteriore evoluzione. Per un secolo, e più, mentre il piccolo ducato veneto ondeggiava fra lotte interne ed esterne, tra minacce di Longobardi e Bizantini, tra quelle di Bizantini e Franchi, poi infine con disperato sforzo resisteva ai tentativi di assorbimento da parte del restaurato impero occidentale e per esso del regno italico, in cerca di un assetto stabile, la sua figura si precisava e si perfezionava territorialmente prima, politicamente e costituzionalmente poi. La primitiva sede di governo, Cittanova, fu osteggiata e aspramente combattuta dalle isole consorelle, e per due volte malmenata: altre aspiravano a raccoglierne l'eredità, e, dopo qualche incertezza, Malamocco prevalse, anch'essa oggetto d'invidia, gelosia e contrasti. Allora le isole del Nord contesero il primato a quelle del Sud nella zona laguanre, e in fondo tutte e ognuna, legate fra loro dalla precaria autorità di un duca o di un magister militum, affettavano reciproca indipendenza. La crisi franco-bizantina, al principio del sec. IX, per la definizione delle sfere politiche e territoriali dei due imperi, trovò la sua risoluzione in questo angolo di terra bizantina, difeso per l'ultima volta da una squadra orientale, prima al tempo di re Pipino, poi al tempo dell'imperatore Carlo, e fu suggellata con il patto di Aquisgrana dell'814. Questo fu rinnovato un decennio dopo fra le due potenze e fu confermato nell'840 dall'imperatore Lotario in persona a favore delle isole e degli abitanti della Laguna. Come era stato, unitamente a quello di Ravenna dell'808, pegno di pace fra i due imperi, che si scontravano al limite interno della Laguna, così attraverso il vaglio di queste vicende diventò quasi lo statuto fondamentale, politico e territoriale, del ducato. Territorio già soggetto ai Bizantini, d'ora in poi riprendeva la sua piena libertà e indipendenza, di fatto prima che di diritto, con animo schiettamente romano secondo la tradizione ereditata dai suoi abitatori. Attraverso tali vicende si realizzava non soltanto l'unità territoriale, ma anche l'unità politica, raccogliendo nell'isola centrale del sistema lagunare gli organi di governo, ponendo fine ai rabbiosi contrasti insulari, e schiudendo la porta a un avvenire più luminoso. Rialto, la piccola isola destinata a sollecito ingrandimento, assurgeva a simbolo e strumento di una vita nuova; essa ospitava la preziosa reliquia di S. Marco, trasportata da Alessandria nell'828 per rendere vani gli sforzi dei nemici, che, contestando a Grado i diritti metropolitani offendevano le più gelose prerogative di libertà della piccola patria; essa, favorendo il rapido moto di migrazione dalle altre isole, innalzava sé stessa, abbassava quelle; essa bonificava angoli morti giacenti nei suoi pressi, riuniva a sé quelli già da tempo abitati, assorbiva il centro militare di Olivolo, al tempo del doge Pietro; nello stesso sec. X costruiva la civitas, che fu prima civitas Rivoalti, poi civitas Veneciarum. Il nome continuava a esser dato alla regione, ma andava anche limitandosi al gruppo delle isole realtine, per l'unione delle quali era stato formato il corpus civitatis Venetiarum.
In due secoli, il sec. IX e il X, durante i quali i rapporti esterni furono regolati secondo le norme franco-bizantine definitivamente coordinate nell'840 nel cosiddetto pactum Lotarii, la vita veneziana riuscì gradualmente a creare una città, Venezia; a ordinare intorno a essa l'unità politica e territoriale del ducato; a imprimere a questo una fisionomia ben definita e differenziata, ad assicurare la continuità di funzioni e nell'ordine civile e in quello religioso con il graduale sviluppo di organi; a garantire la stabilità dello stato pur fra i numerosi sobbalzi di congiure e rivolte interne. Cambiavano, per moti violenti, persone e famiglie, non l'istituto ducale, il quale anzi si consolidò nella sua struttura, accettando il principio elettivo in confronto della normale procedura di cooptazione. Dopo la morte del I Candiano (889), con meditata e significativa procedura, fu adottato il nuovo sistema, minutamente descritto dal più antico storico veneziano, al quale solo si possa prestar fede, il diacono Giovanni del principio del sec. XI. In severa disciplina, in ordinato raccoglimento, il popolo era così educato e ammaestrato allo studio e alla preparazione degli organi del regime, a coltivare e affìnare lo spirito di espansione, ad applicare le maggiori attività all'esercizio del traffico, che era parte integrante e ragione prima del futuro sviluppo. I commerci non ristavano, le navi non riposavano: esse solcavano i mari da occidente a oriente, dall'Africa a Costantinopoli, risalivano dal Mediterraneo su per l'Adriatico e facevano il viaggio inverso. Gli ostacoli militari, Slavi e Saraceni, che incontravano lungo la loro strada, erano rimossi anche con la forza, come nelle spedizioni dell'865, dell'876, dell'880, dell'887, ecc.; ma in esse non era ancora palese alcuna volontà precisa di conquista, alcun programma di allargamento territoriale. Esse erano ispirate e guidate da un pensiero di difesa, non di offesa, per tutelare il proprio patrimonio, che era tutto affidato alle navi, non per ghermire con atto da corsaro quello altrui. L'idea di conquista maturò alla fine del sec. X, dopo l'insano tentativo del IV Candiano (v.) di consolidare il potere personale protetto dalla politica dell'imperatore Ottone: strenua assertrice ne fu la famiglia degli Orseolo. Il primo Orseolo (v.), padre, ebbe il compito di placare le ire che avevano agitato la coscienza del popolo; il secondo, quello di destare nel suo animo il sentimento ancora latente della propria virilità, della propria capacità e del proprio diritto.
All'alba dell'anno 1000 le navi venete sotto il comando del doge Orseolo approdarono in Dalmazia; raccoglievano l'omaggio delle comunità indigene, greche e non greche; ottenevano da esse promessa di fedeltà, di collaborazione, di cooperazione per essere state liberate dalla minaccia slava. Quando il doge assunse il fatidico titolo di dux Dalmatiae, accanto a quello di duca delle Venezie, nessuno protestò. Anche se per il momento di scarsa efficacia, la via era però tracciata. Gli accordi con città istriane (Capodistria) avevano aperto la via a un intenso scambio; l'intervento in Dalmazia apriva alla politica veneziana una nuova breccia: né sopra questa sostò. L'ostilità del patriarca aquileiese Poppone (strumento forse dell'impero) fece sì ritardare, ma non fece retrocedere la città ducale dalla meta alla quale tendeva. La famiglia Orseolo espiò le sue colpe e i suoi errori, ma i suoi successori non seguirono una linea di condotta diversa. Le presunte grandi riforme del Flabianico non importarono grandi novità nella costituzione e nella vita: continuarono il metodico ritmo perseguito da varî secoli. Anche il Contarini non ebbe novità da introdurre, né una azione singolare da svolgere; i problemi che a lui si presentarono, non furono diversi da quelli del passato. Anch'egli trovò la questione del patriarcato gradense allo stesso punto al quale era stata condotta dal terzo Orseolo, sotto le implacabili minacce del patriarca di Aquileia per annettere Grado alla chiesa aquileiese; anch'egli trovò la questione dalmata e zaratina nelle medesime condizioni del momento della conquista. I Veneziani, zelanti, ispirati da un patriarca non meno zelante, alla metà del secolo, nella calda atmosfera di riforma, s'industriarono a creare e opporre alla vecchia teoria metropolitana aquileiese quella di una Nova Aquileia, mercé la quale s'illudevano di spegnere l'antichissimo diritto del primo focolaio di diffusione della fede cristiana: ma il tentativo fallì. Grado tuttavia mantenne la figura di sede patriarcale del ducato, e Aquileia conservò il suo diritto metropolitano. Rispetto poi alle ribellioni zaratine, alla loro repressione e alla riconquista della città, attraverso le scarse, e spesso fantastiche testimonianze, si può concludere che, come la prima conquista non fu annessione, così la rivolta non fu aperto distacco, e la repressione non costrinse la città ad abdicare. I rapporti fra Venezia e Zara e in genere fra Venezia e la Dalmazia nella prima metà del sec. XI, e anche poi, si mantennero in un'atmosfera d'incertezza e d'indeterminatezza: difficilmente si potrebbe asserire che le città fossero entrate nell'orbita dell'influenza veneziana, non solo, ma anche che fossero o no sottoposte al dominio più o meno diretto di Venezia. Il regime dei priori in quelle regioni ancora esisteva, e accanto a esso e sopra esso s'intravvede la presenza di strateghi imperiali bizantini, e vi ha anche la presenza di qualche signoria croata al tempo di re Cressimiro: e tale condizione perdurò fino al tempo dell'incursione normanna nelle terre dalmate (1075) e forse anche dopo. Studî recenti hanno messo in luce come l'aspro duello gregoriano delle investiture svolgesse una delle fasi più salienti, in quegli anni proprio in Dalmazia, con il concorso normanno. I Veneziani se ne stettero neutrali, fino a un certo punto, fra papa e imperatore, tra Enrico IV e Gregorio VII, che si dolse di un sottinteso senso di ostilità da lui rilevato nei Veneziani dopo la protezione loro accordata. Ma non se ne stettero neutrali fra Normanni e Bizantini, che aspramente si combattevano nel Basso Adriatico nel penultimo decennio del sec. XI a prefazione quasi delle spedizioni crociate. Alleati dei Bizantini contro i Normanni, dopo aver negoziato con molta accortezza e ben fondato utile la loro collaborazione, cooperarono alla sconfitta di Roberto il Guiscardo nei tentativi di estendere il suo dominio nei Balcani. I Bizantini per terra furono battuti, i Veneziani per mare ottennero notevoli successi, consolidando i promessi guadagni in Oriente a favore dei loro traffici, e i Normanni furono costretti a rinunciare per il momento al loro sogno ambizioso di dominare l'una e l'altra sponda adriatica.
Ma, oltre ai benefici assicurati da stipulazioni positive, contratte con l'impero d'Oriente (ed erano le prime), preparavano in Occidente il nuovo edificio del dominio dell'Adriatico, quel privilegio del governo del Golfo, da nessuno conferito, ma garantito e cementato da una forza più valida di qualunque documento o di altra obbligazione. Dal principio alla fine del secolo il principe da duca delle Venezie era diventato duca della Dalmazia, e poi ancora della Croazia, ancorché il dominio territoriale non fosse corrispondente al titolo assunto. Le città dalmate nel 1076 avevano assunto l'impegno, verso Venezia, di non permettere nuove incursioni normanne, e fu così stroncato ogni ulteriore tentativo straniero d'espansione verso il nord, con il concorso del re Colomano d'Ungheria. Dopo la riunione della corona di Croazia alla sua, il re ungherese diventò implacabile nemico di Venezia, pronto a tormentare i suoi dominî. Da Pietro II Orseolo, nell'anno 1000, a Vitale Michiel I, nel 1100, dalla spedizione sulle coste dalmate alla spedizione siriaca, che, con la pietà religiosa delle sacre reliquie di S. Nicolò da Mira, fruttò i primi stabili acquisti lungo la costa mediterranea meridionale, in un secolo il piccolo ducato, fedele alle forme semplici e primitive di organizzazione, era diventato politicamente un grande stato. Prima che a un assetto interno più organico, Venezia pensava a costruire una solida politica estera, strumento di protezione ed espansione dei traffici, affidata a una rete di accordi e di trattati con città limitrofe e anche lontane. Questi, trascinandola in una sfera più ampia di rapporti internazionali, la mettevano a contatto della concorrente attività delle due maggiori repubbliche marinare italiche, Pisa e Genova, ben presto incontrate lungo le vie dell'Oriente, dove era stata portata dagl'interessi dei crociati.
Nel sec. XII nettamente si affermò e si definì la posizione del ducato nel giuoco dai reciproci interessi tra piccoli e grandi contrasti, nella prospettiva di vecchie forze, che esaurivano la loro funzione politica tradizionale, il papato e l'impero, e di nuove che si intercalavano a quelle, i comuni e gli stati nazionali. Il vario mutare della situazione europea non si rifletté solo sopra l'equilibrio nelle relazioni esterne, ma, contribuì a elevare la funzione politica e militare marittima a fattore eminente dell'equilibrio generale, dagli sforzi felici per il dominio dell'Adriatico all'intervento nella guerra normanno-bizantina alla metà del secolo, all'opera di mediazione tra Federico I e Alessandro III e i suoi alleati nel 1177 (pace di Venezia). Nello stesso tempo era anche compiuta l'evoluzione della vita interna e degli organi che la regolavano e la indirizzavano. Da Pietro Polani a Sebastiano Ziani e a Enrico Dandolo, dal 1140 circa alla fine del secolo, nel corso di quasi sessant'anni fu un succedersi di avvenimenti esterni che mutarono la faccia della scena sopra la quale, direttamente o indirettamente, la città doveva svolgere la sua attività: Venezia vide sorgere all'interno gl'istituti fondamentali destinati alla rigenerazione politica e sociale della propria vita. Sorsero successivamente il primo Consiglio di Savi, dal quale per graduale perfezionamento derivarono il Maggior e il Minor Consiglio (v. appresso: Istituzioni della repubblica veneta); sorse il Comunis Venetiarum e si precisò la separazione ben definita dei privilegi e diritti personali del doge dalle funzioni impersonali dello stato. Ogni altra riforma, con l'istituzione di numerosi magistrati e con la promulgazione dei primi statuti legislativi, fino a quello costituzionale del 1207 che regolò la procedura elettorale, e, indirettamente, fissò la struttura generale in un ordine sistematico degli organi di govemo, si può considerare un immediato corollario di quegli ordinamenti essenziali. Così la politica militare e marittima di Enrico Dandolo e la grande impresa che coronò la sua opera provocando il crollo di un secolare impero, quello greco (1204), trovarono le loro origini prossime, se non remote, nella collaborazione contro i Normanni della metà del secolo e nell'inevitabile conflitto con i Bizantini, degenerato nel 1173 nelle dolorose persecuzioni costantinopolitane contro i Veneziani colà residenti. Enrico Dandolo, destreggiandosi fra gli opposti e contrastanti appetiti occidentali, che aspiravano a raccogliere l'eredità del caduto impero, assicurò alla sua patria il dominio della parte migliore, più ricca e di più sicura conservazione, quella marittima, mantenuta anche dopo il tramonto dell'effimero Impero Latino d'Oriente. Ma ormai Venezia, territorialmente sempre ristretta nel corpo delle isole realtine (e lo sarà fino alla caduta), aveva sviluppato e andava sviluppando l'attrezzatura politico-amministrativa di un grande stato, capace di dominare un vasto impero coloniale, suscettibile di ampliamenti nelle appendici continentali, aggiunte in seguito, più che nelle basi marittime.
In questo quadro maturavano i due grandi eventi della storia veneziana del sec. XIII, il secolare mortale duello con Genova, provocato intorno a Candia si può dire all'indomani della fondazione dell'Impero Latino e continuato per tanto tempo con qualche sosta di pace precaria; il rinnovamento degli ordini sociali, concluso alla fine del secolo con le leggi di Piero Gradenigo, noto sotto l'erronea denominazione di "Serrata del Maggior Consiglio".
Il dissidio e le ostilità con Pisa erano nate per l'incontro delle due repubbliche sopra un terreno di comuni interessi, la Siria, ma presto fu dissipato per l'instabilità dei possessi di ambedue in quella zona sotto la perenne minaccia saracena. La lotta con Genova ebbe origine invece dall'urto d'interessi nelle acque costantinopolitane, coltivato e nutrito dall'odio e dal rancore bizantino mai spento contro i Veneziani. Arbitri questi della mente e della sorte dell'Impero Latino di Costantinopoli, videro sollevarsi contro, nel 1261, la coalizione greco-genovese saldata dal trattato di Ninfeo, e operante prima ancora che fosse perfetta. La debolezza del regime latino e la rapidità di azione dell'avversario fecero crollare quello, e con la caduta di Costantinopoli i Veneziani scontarono la loro troppo larga potenza nella città. Nei primi istanti della vittoria nemica sotto la pressione genovese dovettero abbandonarla. Buono per Venezia che il recente alleato dei Greci non era da meno del cacciato collaboratore, d'altronde indispensabile alla vita costantinopolitana. Presto i Veneziani ritornarono e resero mala ricompensa. Essi prapararono presso il nuovo governo l'allontanamento dei Genovesi e lo smantellamento della loro colonia in S. Giovanni d'Acri. Lo stato di guerra durò per oltre un quarantennio, perché la tregua stipulata a Cremona nel 1270 per cinque anni, e poi di quinquennio in quinquennio prorogata fino al 1290, non era sufficiente per impedire atti di ostilità o violenze corsare fra le squadre delle due parti. Nell'ultimo scorcio del secolo furono riprese le ostilità con aperta rottura del patto, che pur aveva superato la prova del conflitto pisano-genovese e della Meloria. Dal Corno d'Oro la lotta si estese all'Adriatico. Dopo varî temporeggiamenti, Ruggiero Morosini si presentava con la squadra di fronte al quartiere genovese di Costantinopoli (1296), ma fu respinto. Due anni dopo Lamba Doria (1298) entrò nell'Adriatico e all'altezza di Curzola scontrò la squadra di Andrea Dandolo, la sconfisse e in gran parte la distrusse senza trarne alcun profitto. La pace di Milano (1299), negoziata da Bonifacio VIII, da Carlo II d'Angiò e da Matteo Visconti, per il momento compose il lungo dissidio; ma era segreta aspirazione forse dei contendenti di riaprirla. Nei medesimi anni, nei quali ardeva la guerra ed era negoziata la pace, il doge Gradenigo, eletto in un momento di viva agitazione (1289) per la presunta offesa delle tradizionali procedure elettorali, si apprestò a formulare e sottoporre alla ratifica dei Consigli quelle leggi, che male furono interpretate, in periodo non molto posteriore, come un soffocamento dei diritti popolari, anziché il risultato dell'evoluzione costituzionale e sociale maturata nel corso di un secolo negli organi dello stato, con l'allargamento della classe dirigente (v. Istituzioni della repubblica veneta). Tre anni dopo la famigerata legge, che si presumeva attentasse ai diritti dell'inesistente democrazia (1297), scoppiava una congiura contro il Gradenigo, ordita da Marino Bocconio e dalla clientela dei Tiepolo (1300). Reazione democratica, fu detto, per distruggere le leggi aristocratiche. Forse no; altro era il motivo, avvolto in gran mistero, e appena se ne intravvede la verità. La quale con tutta probabilità è questa: rivolta di clientele familiari, non facilmente spente, raccolte intorno ad alcune famiglie, Bocconio, Tiepolo, Querini, le quali, come nel 1300, così nel 1310 con la forza delle armi tentarono di abbattere il govemo non per restaurare un'ipotetica democrazia mai esistita, ma per instaurare un ordine personale secondo l'antico costume. Il moto fallì la prima volta, nella quale fu tentato; fallì anche la seconda, e fallirà tutte le volte nelle quali con intendimenti analoghi si pronuncerà, come nel 1354 per opera di Marin Faliero. Il governo collegiale dell'aristocrazia, praticamente dominante attraverso la salda organizzazione magistraturale, aveva realizzato tante fortune, con le annessioni delle terre adriatiche, con il sicuro sviluppo dei possessi coloniali, con la tenace resistenza ai nemici esterni, soffocando le non gravi e non pericolose sedizioni interne. Ma altre prove non meno aspre lo attendevano per il sensibile e ormai inevitabile mutamento della politica estera.
Dopo le conquiste sul mare, Venezia aveva vagheggiato anche l'ideale di possessi continentali, per valersi di essi soprattutto in previsione di una minaccia di grossi stati gravitanti sopra il fianco, per dare respiro più ampio al piccolo territorio, ormai entrato nel giuoco della politica mondiale, e per garantire la sua difesa. Le milizie pontificie non erano forse giunte fino a Ferrara con aspra guerra nei primi anni del sec. XIV? E minacce, non verbali soltanto, di Padovani, di Trevigiani, di Carraresi, di Scaligeri, di Fiorentini e di Viscontei, non si susseguirono l'una dopo l'altra per tutto il secolo premendo lungo il fianco occidentale più vulnerabile? Non premevano ai confini anche i duchi d'Austria e i patriarchi aquileiesi e i Triestini? Senza contare che, oltre queste minacce, nemici irriducibili spiavano il momento favorevole per offendere Venezia, che in una forma o nell'altra aveva offeso tutti e disturbato tutti. Genova e l'Ungheria, nonostante tutte le proteste di amicizia, a ogni buona occasione erano preparate e pronte all'assalto. Per una previdente ragione di difesa, per tutelare sé stessa e le proprie conquiste coloniali, per garantire la propria politica mondiale, Venezia, quotidianamente assediata da troppi nemici, doveva uscire dal suo nido, per non restare in esso soffocata, e convincersi dell'opportunità di una politica continentale a complemento di quella marittima. Questa politica fu attuata nel corso del sec. XIV prima con il giuoco d'una serie d'alleanze; poi la repubblica, quando poté toccare con mano che queste riuscivano insufficienti e l'assedio era spinto avanti nell'Adriatico, fino a Chioggia (1380), ed era convertito in uno stretto blocco al quale partecipavano tutti, Genovesi, Carraresi, Ungheresi, Fiorentini, ecc., con uno sforzo supremo si liberò (pace di Torino, 1381), infranse il cerchio stretto intorno ad essa e risolutamente abbracciò la politica di acquisti continentali, considerata il solo rimedio efficace. Ad essa si era dimostrata sempre ostinatamente riluttante: all'alba del nuovo secolo fra tante accese passioni, il governo si arrendeva all'evidenza dei fatti. Un piccolo stato, quale il veneziano, vissuto in mezzo alle burrascose vicissitudini della storia medievale e di stati territorialmente e politicamente di pari forza, per sopravvivere e non sparire, come tanti altri confratelli, sommerso nell'irresistibile vortice di forze maggiori, doveva dare a sé stesso forma e organizzazione di stato moderno a larga base territoriale.
Infranta l'Ungheria, infranta Genova, Venezia doveva una volta per sempre liberarsi da molesti vicini: prima, dalla signoria trevigiana del duca d'Austria, poi dalla signoria carrarese (1405), poi da quella scaligera (1406), poi da quella del patriarca aquileiese (1420), i cui territori furono annessi, per opporli alla temuta marcia di un regno continentale, quale era stato abbozzato da Carraresi e Scaligeri, quale i Viscontei vagheggiavano, e quale poi gli Sforza lasciarono ai loro successori. Il bilancio, istituito da Tommaso Mocenigo prima di morire (1423) circa profitti e perdite della politica dell'ultimo ventennio, pareva invitare a grande prudenza e a una politica di raccoglimento.
La politica del dogato di Francesco Foscari non si arrese invece alla ragione e al buon senso, ma cedette all'impulso del sentimento. Venezia, fino alla pace di Lodi (1454), stette con le armi in pugno, sopportando i maggiori oneri, sottostando alla tirannia dei maggiori condottieri, dal Carmagnola al Colleoni, decisa a penetrare addentro nei dominî lombardi dei Visconti e degli Sforza. Eppure anche per Venezia erano apparse in Oriente oscure nubi gravide di tempesta. I Turchi Osmanli erano passati in Europa e dalla fine del sec. XIV, minacciavano nello stesso tempo i dominî continentali dell'Impero d'Oriente, destituito ormai di ogni vigore, e quelli coloniali veneziani. Ma Venezia assistette calma e tepida al rapido cammino dei conquistatori sopra il continente europeo, arrestato dalla discordia intestina fra i capi saraceni più che dalla vittoria iniziale dei Veneziani (a Gallipoli). Le divisioni fra loro insorte annullarono il valore delle vittorie da quelli riportate; ma i Veneziani alla lotta aperta preferirono formule di accordo, escogitate per guadagnar tempo, perché forse troppo impegnati in Occidente, e non vollero neppure nel momento supremo, nel quale Maometto II cingeva d'assedio Costantinopoli e la occupava (29 maggio 1453), dare valido aiuto e concorso per la difesa della città. Tutte le nazioni cristiane furono egualmente sollecite ad accordarsi con il vincitore, e altrettanto fecero i Veneziani, mentre il vecchio doge Francesco Foscari, mestamente subendo il tragico destino, cedeva, deposto, l'alta dignità a quello che si era dimostrato fervido nemico della sua politica, Pasquale Malipiero.
Comincia il tempo di registrare perdite, anche per Venezia, che deve stare nell'Egeo sopra la difensiva, e, quando occorra, arretrare. Fra le nazioni cristiane si discusse a lungo circa il modo di opporsi ai Turchi, ma nulla si concluse. Nel 1470 dopo non lunga guerra cadde in mano di questi Negroponte; pochi anni dopo essi erano nel Friuli e ponevano l'assedio a Scutari in Albania. Sopraffatti da una spesa enorme senza aver potuto trarre alcun beneficio da qualche atto di eroica resistenza, nel 1479 i Veneziani si rassegnarono alla pace con la perdita di Negroponte, delle Sporadi, di Lemno, Argo, Croia, Scutari, e, peggio, obbligandosi a tributo annuo per essere tollerati sopra le vie del commercio orientale. Ormai Venezia era avviluppata da ogni lato dalla politica, dalle insidie, dalle armi delle grandi nazioni. A oriente il Turco esercitava le maggiori pressioni, avanzava fino a Otranto, né l'acquisto di Cipro, per cessione di Caterina Cornaro, valeva a scongiurare l'ineluttabile. Venezia non assistette disattenta e distratta, quasi incurante della minaccia turca, che progrediva per terra e per mare, attendendo la catastrofe. Turbata, vedeva avanzare con le medesime intenzioni nel Trentino il duca d'Austria, preludio delle rivendicazioni imperiali di Massimiliano; vedeva avanzare Carlo VIII, sceso ad aprire la strada, preparata da papa Sisto nella guerra di Ferrara di pochi anni prima, a Luigi XII. In una situazione così incerta, così inquieta e piena di diffidenze, alla fine del sec. XV, prese la sua decisione: combattere e trattenere con la diplomazia gli avversarî maggiori sopra il continente (trattato di Blois del 1498); contenere, senza impegnare troppe forze, i minori (in Friuli); scendere con tutte quelle disponibili per mare contro il Turco, facendo appello a tutta la cristianità. La fortuna non l'assistette, per colpa non si sa di quali errori: la squadra di Antonio Grimani fu battuta a Porto Longo nell'Isola di Sapienza il 12 agosto 1499, sia per inerzia dei comandanti, sia per superiorità o abilità strategica degli avversarî. Il capitano generale Grimani scontò duramente le colpe sue e degli altri prima di essere riabilitato ed elevato alla dignità ducale: ma la guerra continuò altrettanto dura e infelice sotto i successori, nonostante qualche scontro fortunato e l'effimero concorso delle squadre spagnola, francese e pontificia. A Venezia si invocava a gran voce la pace; a Costantinopoli, l'abile preparazione di Andrea Gritti, rimasto prigioniero, come mercante o segreto informatore e negoziatore in veste di mercante, aprì la strada ai difficili accordi, resi più ardui dalla presenza nella guerra della corona ungherese. La pace fu comunque conclusa (1503), e, riconfermata nel 1517, durò per un trentennio, durante il quale la crisi degli stati continentali, Francia, Spagna, Impero, mediatrice la curia romana, si acuì e preparò nuove grandi conflagrazioni. L'Italia era la meta, Venezia il capro espiatorio, spogliata, dopo la conclusione della Lega di Cambrai (1509), di ogni possesso di terraferma. Dal terribile collasso, che pareva aver distrutto ogni sua potenza e attività, si riebbe presto, sempre sospettosa e turbata dalle ripercussioni del conflitto austro-francese, di Francesco I e Carlo V. Le vittorie contro quello e il suo predominio in Europa spinsero Carlo V a ottenere la collaborazione del Turco in quella che non a torto fu detta l'empia alleanza, guidata da Andrea Doria. Venezia, ostile all'impero, desiderosa di tornare alla Francia, non ebbe l'ardire: preferì una incerta neutralità, attirando sopra di sé l'avversione francese e conseguentemente quella turca (1537), né valse a salvarla dalla rovina la sua adesione alla grande lega cristiana del 1538 che, sotto la condotta di Andrea Doria, per tradimento, o piuttosto per incapacità ed errore politico suggerito da ambizione e livore, fu condotta al disastroso scontro della Prevesa del settembre dello stesso anno. Venezia, ingannata sopra il terreno militare e politico, seppe resistere a tutte le seduzioni delle parti avverse, a tutte le lusinghe, a tutte le manovre diplomatiche, che traversavano la sua strada, fino all'ultimo episodio dei negoziati del 1540, con cessione della Morea, segretamente formulata ma tosto rivelata al nemico dall'ambasciata francese. La pace fu conclusa, e dal 1540 al 1570 fu mantenuta; Venezia seppe conservare cauta e guardinga neutralità per non esser nuovamente coinvolta in guerre in Oriente e in Occidente. Non mancarono sollecitazioni a parteciparvi o provocazioni dirette o indirette contro i proprî dominî: ma essa manifestò sempre grande tolleranza, anche quando fu assalita e offesa dalla violenta conquista di Cipro da parte di Selīm II. Era preludio di una nuova grande catastrofe, a prevenire la quale Marc'Antonio Barbaro e il suo successore nel bailaggio di Costantinopoli avevano consigliato una politica forte con l'alleanza a Spagna e Francia: ma era vana illusione. E la guerra fu ripresa con sprezzante ferocia dai Turchi sotto le mura di Nicosia e di Famagosta in Cipro, difese dal supremo valore dei provveditori veneziani Dandolo e Bragadin. Mentre i Turchi operavano con violenza nell'Egeo, le squadre cristiane, che si dovevano riunire sotto il comando di Don Giovanni d'Austria, tra somma lentezza compivano i loro apparati nel Basso Adriatico (1570): e sostarono fino all'anno seguente. Quando parvero finalmente riunite in forte ordine di battaglia, mossero il 16 settembre 1571, scontrarono la squadra avversaria il 7 ottobre e diedero battaglia a Lepanto, dove rifulsero le virtù e il coraggio del Colonna, di Don Giovanni e del Venier, mentre il dubbio contegno del Doria fu oggetto di recriminazioni. Dalla vittoria non furono però tratte le debite conseguenze. Venezia, amareggiata dallo spettacolo di abbandono e disinteresse, al quale era costretta ad assistere, preferì la pace, nonostante le veementi opposizioni del Venier (7 marzo 1753): essa era anche impressionata dal grande malessere economico e finanziario dal quale era oppressa. Fu detto che questa fu l'ultima grande guerra combattuta da Venezia; ma è affermazione errata. È invece vero che, per un secolo almeno, non incrociò più le armi con il suo mortale nemico, il Turco, in un conflitto militare di vasta estensione. Dopo Lepanto, dopo la cessione di Cipro, nel sec. XVII, per nulla decadente nell'attività politica, né in quella economico-commerciale, come di solito si prospetta, con somma energia di spirito affrontò problemi e avversarî temibili: la curia romana, per combattere le pretese giurisdizionaliste a suo danno, strenuamente oppugnate da fra Paolo Sarpi, in presenza della grave situazione creata dall'interdetto; l'Austria, per respingere e reprimere le insidie degli Uscocchi (la cosiddetta guerra di Gradisca nel 1616-17); la Spagna, per difendersi dalla insidiosa politica, di cui si era fatto esponente l'ambasciatore in Venezia, il marchese di Bedmar (1619). Ma tra le grandi guerre europee del secolo essa stette, più che neutrale, vigile osservatrice dello svolgersi degli eventi e attiva negoziatrice nel campo diplomatico e politico, fra le parti contendenti, non in quello militare. Intervenne ai grandi congressi (Vestfalia) per non restare estranea alla vita politica del continente, senza assumere maggiori responsabilità, accontentandosi di profilare qualche riflesso nei problemi più strettamente italiani (contese di Valtellina, guerre di successione di Mantova e Monferrato). Ogni sua attenzione politica e militare era sempre rivolta all'Egeo e al Turco; a sorvegliare le cupidigie di questo sopra Candia, di cui a organizzò, per quanto lentamente, la difesa e la resistenza fino alla sua perdita (1669); a ritornare alla vita del mare, dalla quale l'avevano distratta le troppe preoccupazioni continentali. La perdita di Candia fu compensata dall'acquisto della Morea, guadagnata in lunghi anni di faticose operazioni da Francesco Morosini, acquisto notevole e forse più duraturo, se il cattivo genio della politica e della diplomazia veneziana non fosse diventato troppo devoto al verbo di Vienna. Un primo insuccesso diplomatico Venezia subì per colpa dell'Austria a Carlowitz (Karlovci; 1669) a danno dei sacrifici sopportati e delle vittorie conseguite. Impegnata in una nuova guerra con il Turco, in una campagna non del tutto infelice, a quasi totale beneficio dell'Austria, subì un secondo insuccesso a Passarowitz (Požarevac; 1718), con la perdita della Morea e del residuo dominio dell'Egeo. E ancora per colpa dell'Austria. Si disse che la neutralità, spesso proclamata fra le grandi potenze, diminuì il suo prestigio, straniandola dal concerto politico europeo, e la trascinò alla rovina. In verità, anche dopo l'ultima guerra con il Turco, al principio del sec. XVIII, Venezia conservava ancora intatte le sue riserve politiche e militari, delle quali poteva dare prova e documento al congresso di Aquisgrana (1748) e nell'ultima campagna marittima contro i cantoni barbareschi, vittoriosamente combattuta da Angelo Emo nel 1784-85. L'asserita decadenza veneziana del sec. XVIII, che prende norma dai penosi avvenimenti degli ultimi anni, dalla fatale conclusione del dogato di Ludovico Manin, dal fatuo regime democratico immolato a Campoformio (1797) sull'altare degl'interessi austro-francesi, è più che altro letteraria, rispecchiata nell'abusato costume dei convegni da salotto. Ma questo costume non è specifico del secolo XVIII: a Venezia la vita, alquanto leggiera, del salotto, aveva dominato anche molti secoli prima, quando, per unanime consenso si riconosce nella coscienza generale gagliardia di spirito. E gagliardia di spirito si sorprende ancora nell'ultimo secolo di vita della gloriosa repubblica, se si esce dall'imbellettata e profumata atmosfera di alcove e si penetra tra quella pensosa, grave e riflessiva, nella quale erano agitati, discussi e risoluti, con pacatezza e passione, i problemi fondamentali della vita. Gli uomini che sapevano applicare la mente ad ardite riflessioni con tanta intuizione e finezza, non erano figli di un popolo decadente; gli uomini che, nonostante tutto, potevano trasmettere ai loro immediati eredi un patrimonio intellettuale, morale e spirituale, quale confidarono ai loro successori, non erano, essi e i loro immediati predecessori, decadenti. La resurrezione politica del 1848, in epiche giornate non solo di lotta, ma anche di ordinato governo, sotto gli auspici di nomi cari, Daniele Manin e Niccolò Tommaseo, non s'improvvisava nel giro di pochi giorni o di pochi anni. Risorgeva lo spirito nazionale mai distrutto, che l'amore regionalistico, con sentimenti di fedele devozione aveva conservato intatto, al pari delle altre regioni consorelle, per farne un dono alla patria dopo aver subito le prove del martirio.
Bibl.: P. Filiasi, Memorie storiche de' Veneti primi e secondi, Venezia 1788; S. Romanin, Storia documentata della Repubblica di Venezia, ivi 1842-78; G. Monticolo, La cronaca del diacono Giovanni e la storia politica di Venezia sino al 1009, Perugia 1899; R. Fulin, Breve sommario di storia veneta, Venezia 1914; E. Musatti, Storia di un lembo di terra ossia Venezia e i veneziani, Padova 1881; id., Storia di Venezia, Milano 1919, voll. 2; P. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, 5ª ed., Bergamo s. a.; R. Bistort, La repubblica di Venezia dalle trasmigrazioni nelle lagune fino alla caduta di Costantinopoli, Venezia 1919; F. A. Gfrörer, Storia di Venezia dalla sua fondazione fino all'anno 1084, ivi 1876-78; Ch. Diehl, Une république patricienne. Venise, Parigi 1915; A. Battistella, La repubblica di Venezia nei suoi undici secoli di storia, Venezia 1921; A. Medin, La storia di Venezia nella poesia, Milano s. a.; H. Kretschmayr, Geschichte von Venedig, Gotha 1903-34, voll. 3; R. Cessi, Venezia ducale, Pova 1928-31; G. Cassi, L'Adriatico attraverso la storia, Milano 1908; C. Manfroni, Intorno agli studi di storia veneziana di Orazio Brown, in Atti Istituto veneto, LXIX, 1071; Gli studî storici in Venezia dal Romanin ad oggi, in Nuovo arch. ven., n. s., XVI, p. 352 segg.
Per il periodo del Risorgimento: G. M. Trevelyan, Daniele Manin, ecc., Bologna 1926; V. Marchesi, Storia documentata della rivoluzione e della difesa di Venezia negli anni 1848-49, venezia 1916; A. Errera e C. Finzi, La vita e i tempi di Daniele Manin, ivi 1872. Per maggiori informazioni bibliografiche relative ai periodi remoti della storia di Venezia si consultino le vecchie, ma pur sempre ottime, Bibliografie veneziane del Cicogna e del Soranzo, i Bollettini bibliografici del Fulin, del Bertoldi, del Predelli, del Cipolla, del Segarizzi, successivamente pubblicati, come seguito a quelle, nell'Archivio veneto e nel Nuovo archivio veneto, e R. Cessi, Indice generale dell'"Archivio veneto" 1871-1930, Venezia 1933-1936, voll. 3.
Istituzioni della repubblica veneta. - L'ordinamento politico-amministrativo veneziano ha le origini prime e essenziali nelle poche ma fondamentali strutture romane ereditate e perfezionate dai Bizantini. Il doge non è che il dux romano-bizantino di designazione locale, dopo la secessione del 726, per opera dell'exeratus; la concio publica, fino a che sussiste, non è che la trasformazione nell'ordine civile dell'exercitus assorbito dal placito; i tribuni progressivamente scompaiono, e subentrano con carattere di nuova istituzione, geneticamente indipendente dalle precedenti, gli iudices a metà del sec. VIII. Gli organi dello stato da questa epoca, e per un bel pezzo poi, sono il doge, il cui potere è illimitato, e trova limitazione solo nel parallelo ed egualmente illimitato potere esercitato dalla concio publica. Egli era assistito nell'esercizio ordinario del potere legislativo ed esecutivo da un ristretto numero di dignitarî civili in figura magistraturale, ai quali risale la prima origine della curia ducis, soprattutto designati da competenza tecnico-giuridica, per l'esercizio dell'attività giurisdizionale.
Accanto a questi, e prima di questi, sedevano nel placito, a fianco del doge, anche i dignitarî ecclesiastici, patriarca, vescovi, abati dei grandi monasteri: con una miglior definizione della natura civile delle funzioni statali, nel sec. VIII, e con il progressivo affermarsi dell'organizzazione magistraturale, la partecipazione degli alti membri del clero alle attività della vita politica e amministrativa mutò di posizione: andò dileguando nella sua figura rappresentativa, fino a scomparire, e l'influenza ecclesiastica si fece sentire invece nella vita dello stato attraverso l'attività personale e quotidiana di singoli gregarî di grado inferiore, conformemente alla trasformazione graduale della costituzione. Dal sec. VIII al sec. IX le riforme si attuarono lentamente, secondo una concezione organica, per spontanea e naturale coscienza delle necessità pratiche e per intuitiva rispondenza della mente a queste, non per uno studio preconcetto, che potesse muovere da principî teorici e astratti. Attraverso questa graduale, costante e progressiva evoluzione, gl'istituti ecclesiastici, patriarcato e vescovati, ritratti alla loro più naturale funzione, consolidarono la base e l'ordinamento nazionale minacciato di assorbimento e di distruzione da parte del confratello patriarcato aquileiese, contro il quale i Veneziani vittoriosamente resistettero anche con le armi per sostenere diritti, nel calore delle polemiche esagerati e forse deformati con la postulazione di teorie improprie, come quella della Nova Aquileia. Ma la cosiddetta teoria gradense valse ad assicurare attraverso i secoli, e specialmente nei momenti più acuti di lotta, il carattere e l'indipendenza nazionale della vita ecclesiastica, che fu uno dei fattori essenziali nella costruzione della vita politica del ducato.
Parallelamente alla precisa definizione dell'ambito dell'attività ecclesiastica si svilupparono gli organi della vita civile. La dignità ducale diventò elettiva per rinuncia del doge Giovanni, nel 889, alla morte del I Candiano, di esercitare la prerogativa, a lui riservata, di designare il successore e finalmente per l'automatico abbandono, qualche secolo dopo, della pratica della correggenza, non completamente abolita subito per l'introduzione del sistema elettivo.
Organi costituzionali nuovi, che valessero a modificare l'ordine dello stato, la sua struttura e le sue funzioni, accanto a quello ducale e all'assemblea popolare, non compaiono fino alla metà del sec. XII. Doge e popolo sono i due termini sopra i quali è fondata la costituzione veneziana dei primi secoli: la patria e la podestà dominicale sono le espressioni politiche e giuridiche della vita veneziana fino all'apparire di quel consilium sapientum, istituito dal doge Pietro Polani nel 1143, o poco prima, "pro honore et utilitate seu et salvatione nostrae patriae", al quale "Veneciae populus obedire sacramento est adstrictus". È il primo Consiglio di carattere e funzioni legislative, che non ha ancora un nome, se non quello indeterminato di consilium sapientium, ma automaticamente per il fatto della sua istituzione limita i poteri e le prerogative del doge e dell'assemblea popolare. È pure il primo passo verso l'ordinamento comunale, con l'introduzione del concetto di communis, che designa rivendicazione dei diritti patrimoniali pertinenti allo stato e separazione di questi dalle prerogative e dai privilegi personali del doge. Tale definizione risale alla seconda metà del sec. XII, e coeva è anche l'istituzione di un piccolo consiglio intorno alla persona del doge costituito dai consiliarii, separando la funzione consiliatoria da quella iudiciaria della curia ducis. E poiché anch'esso per le funzioni che esercitava aveva figura di consilium, nell'uso comune fu denominato minore, per distinguerlo da quello dei sapienti, cui fu riservato il nome di maggiore. Questo probabilmente accadde, o poco prima o poco dopo, intorno all'epoca alla quale la tradizione fa risalire la prima precisazione della procedura elettorale ducale. È il periodo nel quale furono progressivamente abbozzati i lineamenti magistraturali dello stato, e cominciarono a sorgere i primi organi, attraverso i quali il concetto alquanto generico e astratto di quelli assunse una figura concreta secondo due principî fondamentali nella genesi dell'ordinamento veneziano: il sistema elettorale, e la collegialità nell'esercizio delle funzioni. La legge del 1207 precisò gli organi costitutivi di governo e le modalità della loro composizione. Esistevano allora due consigli, quello minore e quello maggiore, con funzioni legislative, l'uno di sei membri, eletti ciascuno dai tre elettori per ogni sestiere, l'altro di trentacinque, eletti con analogo metodo uno per ciascuna trentacia; esistevano sei procuratori del comune, eletti uno per sestiere; esistevano tre camerarî, assistiti da sei scrittori, scelti fra i cittadini tre di qua e tre di là dal canale. Tutti questi, come ogni altro pubblico ufficiale di nuova istituzione, designato dal consiglio presieduto dal doge, era eletto dai tre elettori, scelti periodicamente ogni anno uno per le singole trentacie. Altri ordini non esistevano ancora e le notizie, che pretendono di far risalire a tempo assai remoto questi e altri consigli, sono prive di qualunque fondamento. Così, sebbene istituiti non molti anni dopo tale data, è infondata presunzione far risalire al 1172 o poco oltre l'apparsa del Consiglio dei XL. Il primo e sicuro ricordo di questo, che s'incontra, appartiene al 1223. Altrettanto si dica del Consiglio dei Rogati (Pregadi), poi Senato per antonomasia, erroneamente identificato con il Consilium sapientium del tempo del Polani, sorto con tutta probabilità non molto prima del 1230 e composto di 60 membri. L'uno e l'altro inizialmente, eletti per designazione dei tre elettori, l'uno pro bono et proficuo communis, l'altro per il regolamento di materie economiche, godevano di piena autonomia, sia nelle modalità di composizione, sia nelle rispettive funzioni ordinarie. Ma fino dai primi tempi il concomitante esercizio di funzioni analoghe suggerì l'automatica riunione di due o di tutti i consigli predetti per la discussione di materie di comune competenza, inizialmente in forma saltuaria, poi sempre più frequente, infine costantemente, per dare all'attività legislativa unità d'azione. E il Maggior Consiglio diventò il centro di attrazione di tutti gli altri, come quello che aveva per eccellenza funzioni legislative e, per l'atto istitutivo, poteri sovrani. In tal modo la composizione del massimo organo nel terzo decennio del sec. XIII diventò sempre più complessa e per il numero dei membri e per la qualità di questi e per le funzioni esercitate. In seguito all'aggregazione in unico corpo di consigli distinti, che senza perdere la propria individualità, furono assorbiti dal fratello maggiore di fatto e di nome, il Maggior Consiglio risultò composto di due ordini di membri, di quelli elettivi e di quelli di diritto, gli uni designati attraverso la procedura del 1207 dai tre elettori ed elevati, non sappiamo in quale anno, ma certo prima del 1282, dal numero originario di 35 a quello di 100, per bilanciare l'influenza della grande massa magistraturale; gli altri, per privilegio ad essi riconosciuto o come membri dei consigli collaterali o come deputati all'ordine magistraturale, destinato a rapido incremento nell'esercizio delle loro funzioni e per effetto di queste o nel periodo immediatamente seguente a quello.
Per il progressivo aumento del numero delle magistrature, per la estensione ai membri di queste del privilegio di far parte del Maggior Consiglio, per il riconoscimento della capacità di conservarlo senza dover essere sottoposti a ulteriori scrutinî, per tutte queste circostanze e altre ancora introdotte in epoche successive, il massimo organo dello stato divenne assai presto pletorico, raggiungendo quelle cifre, che una tradizione fantastica ha fatto risalire ad epoche remote. Con l'aumento del numero e la quotidiana consuetudine la disparità di provenienza dei singoli membri andò scomparendo e automaticamente si produsse nel suo seno, per effetto della parificazione di tutti i membri nell'esercizio delle loro funzioni, unità e fusione politica dell'intero organo. La designazione attraverso la scelta e la proposta dei tre elettori, poi portati a quattro e in casi speciali a più, per i membri elettivi, per quelli che entravano per il tramite della quarantia e dei rogati, fu mantenuta per tutto il secolo; così pure fu mantenuta la designazione dell'ordine magistraturale o per mezzo degli elettori o per estrazione a sorte, integrata l'una e l'altra procedura con il voto dell'intero corpo, salvo le limitazioni, che escludevano determinati membri per pregiudizio d'interesse nelle elezioni stesse. Tali designazioni elettive o di diritto, che davano accesso al Consiglio, sia per il sistema adottato, sia per il costante aumento di uffici, alternando dall'una all'altra magistratura i singoli membri, facevano ricadere la scelta in generale sopra le medesime persone e tra le medesime famiglie, in modo che la composizione dell'assemblea da un anno per l'altro poco variava. Il perpetuarsi e il rinnovarsi annualmente nelle stesse persone e nelle stesse famiglie delle funzioni dello stato o come pubblici ufficiali, o come membri di consigli e per questi o altri motivi come membri dell'assemblea sovrana, creavano a vantaggio di esse una estimazione politica e morale, che facilmente si traduceva nella creazione di un privilegio, e infine nella creazione di un diritto. Questa è la genesi del patriziato, che si afferma nettamente durante il corso del sec. XIII, attraverso l'appartenenza al Maggior Consiglio, e attraverso essa tende a trasformarsi in una casta, piuttosto che assumere figura di classe sociale. L'ultima evoluzione in questo senso è sancita dalle leggi della fine del sec. XIII, conosciute sotto il titolo di Serrata del Maggior Consiglio e da quelle del principio del seguente, che, codificando la condizione di fatto già esistente, con la progressiva eliminazione della procedura elettorale, finirono con trasformare in ereditaria l'appartenenza al grande consesso, cui si accedeva o per elezione diretta ovvero per elezione indiretta attraverso i pubblici uffici come membri di diritto. Attribuire alla riforma un carattere aristocratico ispirato a meditata intenzione di escludere l'elemento popolare e precludere a esso l'accesso al Maggior Consiglio e agli uffici pubblici, è presunzione erronea dedotta da erronea valutazione del processo genetico di tutta la costituzione. La legge proposta nel 1286 e quelle approvate nel 1297 e nel 1299 non facevano che sancire una condizione di fatto da lungo esistente e, lungi dal diminuire il numero dei membri del consesso, lo aumentavano, aprendo l'adito a quelli che temporaneamente in un determinato anno restavano esclusi e conservando sempre la possibilità di ammissione di membri mai appartenuti al Consiglio né aventi diritto ereditario.
Avvenuta la trasformazione del metodo di composizione, è naturale che la quarantia fosse incaricata di verificare la validità dei titoli ereditarî, secondo una procedura sempre più rigorosa, perché le disposizioni di legge non fossero eluse dagl'inadempienti, e a questo fine fu dato mandato all'Avogaria de Comun di registrare nascite e matrimonî, con la creazione dello stato civile del ceto patrizio. Fu fissata anche l'età ordinaria per l'ammissione (venticinque anni), consentendo per due terzi l'annuale ammissione anticipata per mezzo dell'estrazione della bolla d'oro.
Mentre era perfezionata tra la fine del sec. XIII e il principio del sec. XIV la struttura di corpo sovrano ereditario, era precisata la prerogativa dell'elezione ducale, sottratta completamente (salvo l'acclamazione, destinata anch'essa a diventare una cerimonia formale fino al momento della sua soppressione nel 1423), all'assemblea popolare, ed era ordinata la procedura elettorale attraverso scrutinî sempre più numerosi, sino al numero di 41, nella speranza di reprimere la piaga della vita veneziana (il broglio elettorale). In pari tempo la funzione politica del corpo sovrano andava rapidamente declinando e restringendosi per aumento d'influenza di altri corpi.
Il Consiglio dei Rogati, inizialmente aggregato con i Quaranta, al Maggior Consiglio, eletto prima dagli elettori, poi dallo stesso Maggior Consiglio, era composto di 60 membri e nel primo secolo di sua vita, accanto alle funzioni amministrative, esercitò anche quelle politiche per delegazione del Maggior Consiglio. Era consuetudine nel secolo XIII e XIV delegare a corpi, che si ritenevano subordinati, potere e autorità di decidere di materie specialmente di politica estera o a questa connesse, sia ordinarie sia straordinarie. Ma se il precetto affermava che il numero ristretto concorreva al sollecito disbrigo degli affari e al mantenimento del segreto, si finiva poi con accedere alla proposizione contraria, che il maggior numero era generatore di miglior consiglio. Perciò, dopo istituiti, i consigli straordinarî o si abolivano o si fondevano, e, mentre si faceva più impellente l'opportunità di governare per delegazioni, donde nacque la fortuna dei Rogati, si rafforzò la capacità di questi aggregando, prima temporaneamente dalla fine del sec. XIII, poi stabilmente, il vecchio Consiglio dei XL per l'esercizio delle funzioni politico-amministrative, non per quelle giurisdizionali. In merito all'esercizio di queste la quarantia fu prima bipartita (criminale e civile), poi tripartita (dividendo la civile in vecchia e nuova). Giusta il concetto di allargare le basi di partecipazione ai lavori dei rogati di membri del Maggior Consiglio, mentre questo si spogliava dell'esercizio effettivo di molte prerogative, ai membri ordinari si aggiungevano membri straordinarî (la zonta), che dal numero iniziale di 20 furono raddoppiati nel 1433 e triplicati nel 1450 e stabilmente aggregati dal 1506.
La compagine del Consiglio fu gradatamente rafforzata, sebbene non tutti i membri avessero sempre diritto di voto, con l'aggregazione o permanente o in determinate circostanze di pubblici ufficiali, in virtù della loro carica e in funzione di essa o per le conoscenze acquisite, perché appena usciti. In tal modo nei riguardi dei rogati accadeva quanto si era verificato nell'evoluzione del Maggior Consiglio: il piccolo nucleo di prima istituzione fu soverchiato dal numero dei membri aggiunti, e se mantenne sempre la propria fisionomia, a differenza del Maggior Consiglio, nel quale la fusione d'elementi eterogenei fu completa, ciò dipese dal fatto che non perdette mai il carattere fondamentale di corpo delegato, anche se la funzione delegata era permanente. Lo presiedeva il doge; alle sedute partecipava la Signoria, che era composta dal doge, dai 6 consiglieri (Minor Consiglio) e dai tre capi dei Quaranta, e più tardi l'intero Collegio, formato dalla Signoria e dai tre ordini di Savî eletti in seno ai rogati per la preliminare discussione e formulazione dell'attività legislativa, costituenti la Consulta (Savî del Consiglio, di Terraferma, agli ordini). Nei rogati entrava ancora il Consiglio dei X, istituito temporaneamente nel 1310 per giudicare i colpevoli della congiura del Querini e di Baiamonte Tiepolo. Era formato da dieci membri ordinarî, fra i quali erano scelti i tre Capi, con l'aggregazione del Minor Consiglio: più tardi ad esso fu fatta un'aggiunta di altri dieci membri, per corrispondere all'allargamento delle sue funzioni, quando dal campo politico-giudiziario ne fu estesa la competenza alla politica estera e all'attività amministrativa, soprattutto in materia finanziaria e per il governo della zecca. Il Consiglio dei rogati nel sec. XIV aveva assorbito le principali funzioni spettanti al Maggior Consiglio, e per corrispondere e giustificare la preponderante influenza politica era stato numericamente aumentato, fino a 240 membri. Nei secoli XV e XVI analogo processo si era verificato, se non nelle stesse proporzioni, in confronto del Consiglio dei X, la cui influenza politica si sovrappose a quella dei rogati, per ossequio al canone, che più utile e più vigorosa era l'opera di governo affidata a consigli ristretti: e non era oligarchia, perché, per la periodica rinnovazione delle cariche ogni anno, o poco oltre, con contumacia per altrettanto periodo, era possibile evitare il pericolo d'infeudare l'interesse dello stato a quello di un ristrettissimo nucleo patrizio. La costituzione aristocratica, finalmente definita nel governo di una casta, era animata da un netto spirito antioligarchico, in modo da poter resistere vittoriosamente in tutte le circostanze nelle quali si era affacciato il pericolo d'un colpo di stato con intenti personali e oligarchici dal Tiepolo al Foscari, e anche poi. Essa aveva tale elasticità da superare non solo l'oligarchia politica, ma anche quella amministrativa, con un giusto contrappeso numerico in modo da ristabilire l'equilibrio di ogni possibile crisi di questa natura. Nel sec. XVI il contrasto fra Senato e Consiglio dei X divenne così intenso da provocare fra i due corpi un conflitto di competenza: e questo, con la soppressione della zonta del Consiglio dei X, aprì la via a un momento risolutivo, eliminando il dualismo di governo fra i due organi, che prospettava la possibilità d'una instaurazione oligarchica con la preponderanza assoluta di uno dei due e in particolare del meno numeroso. Ai rogati nel 1586 furono restituite tutte le funzioni, che erano state usurpate dai Dieci. Questi trovarono un rafforzamento della loro naturale competenza politico-giudiziaria nell'istituzione collaterale nel loro seno dei tre Inquisitori di stato. Il Senato tornò ad essere come prima, anzi meglio di prima, l'arbitro della vita politica dello stato: non troppo numeroso da esser soffocato e paralizzato nella sua attività dal peso dell'eccessivo numero, non troppo ristretto da cadere nel vizio opposto e destare preoccupazione di diventare un'oligarchia. Del resto fra i tre organi fondamentali dell'ordinamento statale Maggior Consiglio, Consiglio dei rogati, Consiglio dei X, si era venuto stabilendo un armonico coordinamento funzionale nel rispettivo campo, quello istituzionale del corpo sovrano, quello politico nel campo dell'ordinaria amministrazione, quello di polizia nel più ampio senso della parola e in tutte le sue conseguenze nel campo giurisdizionale. Tutti gli organi dello stato facevano capo ai tre sommi Consigli: da questi erano eletti e in parte tratti gli officia, sia interni sia esterni, sia di palazzo (curie giudiziarie, derivate per naturale germinazione dall'originaria unica curia ducale), sia di Rialto. Collegi e magistrati, con funzioni consultive o esecutive, scelti in ogni caso tra i membri del Maggior Consiglio, di vecchia o nuova istituzione, temporanei o permanenti, rinnovabili sempre annualmente o semestralmente o più, erano periodicamente eletti da uno dei tre consigli, partendo dalle più alte cariche, rappresentate dai Procuratori di S. Marco, fino a quelle più modeste negli uffici da terra e da mare, nell'ordine finanziario, in quello giudiziario, in quello economico, in quello militare, in quello diplomatico e rappresentativo. In questo complesso organismo, reso robusto da un saldo collegamento ben coordinato di funzioni, piuttosto che da subordinazione gerarchica, limitata ai rapporti fra consigli e uffici, l'apparente autonomia e libertà d'iniziativa e indipendenza concessa alle singole magistrature era equilibrata al centro dall'attività e dal controllo unitario dei tre consigli, e alla periferia dal sistema sempre più frequente di studio ed esame collettivo dei magistrati più o meno interessati nelle singole materie di rispettiva competenza. Il sistema delle riunioni in conferenza per la risoluzione di problemi, che toccavano la competenza di magistrati diversi, aveva il grande vantaggio di avvicinare sopra uno stesso tema esperienze specifiche diverse, ed eliminare i possibili conflitti, facilitando il coordinamento, che pareva compromesso dal troppo rigido reciproco isolamento magistraturale e dal soverchio accentramento politico e amministrativo dei consigli legislativi.
Il difetto instituzionale dello stato veneziano, che fu oggetto di forti recriminazioni e produsse gravi crisi e l'ultimo tracollo nel 1797, si deve ricercare nell'insuperabile distacco segnato fra il territorio primitivo, il dogado, nell'ambito della Laguna, e i territorî successivamente annessi nelle colonie d'oltremare e nella prossima terraferma; più ancora nel distacco fra la casta dominante e i sudditi dominati, più che in città, nei dominî esterni.
La disparità di diritti politici fra chi beneficiava materialmente e moralmente di ogni privilegio di governo nella vita dello stato e chi sopportava l'onere corrispondente senza godere di alcuna soddisfazione, creava nell'orbita dello stato distintamente due categorie di sudditi, che stavano in antitesi di pensiero e di spirito: l'una godeva di tutti i diritti, l'altra era gravata da tutti gli oneri, e fra esse, nell'apprezzamento politico, non esisteva altra differenza che quella di essere o no in possesso di quel diritto ereditario, che la consuetudine attribuì al patriziato e gli uomini in esso consolidarono. A più riprese fu sentito il bisogno di rettificare questa posizione, allargando l'ambito di coloro, che fossero ammessi a partecipare alla vita politica dello stato: ma tutti i tentativi abortirono, sia per la gretta resistenza degli organi legislativi, sia per l'improprietà delle soluzioni affacciate. L'allargamento di partecipazione alla vita dello stato si risolse sempre in ammissioni individuali, dettate o da opportunità personali o da necessità di gravi crisi finanziarie. Nel trascorrere degli anni, mentre la generosità, la bonarietà e la larghezza del patriziato verso le plebi, e specialmente verso le plebi rurali, accaparrò al governo patrizio il favore di queste, l'intransigenza dei dominanti verso i ceti superiori irritò e produsse in questi un sentimento di rancore e di ribellione pronto a scoppiare nei momenti più acuti e pericolosi. Questo accadeva nel 1797 con la rovina dello stato, non per amore e affezione all'idea democratica francese, ma per ritorsione contro l'intransigente secolare misconoscimento di diritti reclamati a gran voce. Nel 1509, al momento del collasso provocato dalla infausta Lega di Cambrai, era avvenuta la stessa cosa: e allora non si parlò di democrazia, ma si accusò il patriziato di esser venuto meno alla sua missione.
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Arti figurative.
Venezia non nasce bizantina, come si ripete generalmente, ma bizantina diventa quanto più da povera diventa ricca e potente. Come il tribuno delle isole dipende da Bisanzio non direttamente, ma attraverso l'Esarca, così, anche in arte, Venezia dipende da Ravenna, almeno sino al sec. XI, con quel tanto, e non più, di bizantino che attraverso quest'ultima è comune a tutta l'architettura dell'Alto Adriatico, da Parenzo ad Aquileia e a Grado. L'altare a mensa su colonne, scoperto nella basilica di Torcello, è di carattere piuttosto romano che orientale. All'infuori dei musaici pavimentali, che si credono del sec. IX, nessuna rivelazione bizantina hanno dato gli scavi di S. Zaccaria, vantata fondazione imperiale di Leone X l'Armeno; e la primitiva S. Marco dei Partecipazio, compiuta nell'832, finita di decorare nell'883, risulta, dalle fondazioni rimaste, in tutto simile alla chiesa di Pomposa, sorta in quei tempi su esempî ravennati e le membrature di pietra che ne derivano, comici e amboni, inserite nell'odiema S. Marco con palme, arboscelli e croci dentro le solite trecce di vimini, sono dello stile barbarico-bizantino dei secoli VIII e IX, comune a tanta parte d'Italia.
Il doge Pietro Orseolo il Santo, come probabilmente ordinò a Costantinopoli gli smalti con la storia di S. Marco della primitiva pala d'oro, così, nel ricostruire e ornare, ma non rifar nuova, la basilica dopo l'incendio del 976, deve aver ottenuto che maestri bizantini scolpissero le arcatine sorrette da colonnette costituenti l'attuale stilobate del presbiterio, o almeno i bellissimi plutei che vi stavano sopra, oggi da ricercare nei parapetti delle gallerie e davanti al sepolcro della dogaressa nell'atrio, con gli alberetti, le lepri, i leoni e i pavoni affrontati, capolavori decorativi della seconda età d'oro bizantina. Grande sviluppo monumentale ebbe Venezia sul volger del Mille, conquistati dal Doge Pietro Orseolo II (991-1108) il dominio dell'Adriatico e il predominio in Oriente. Ma in quanto ad architettura, veduto pure quel che rimane di antico a S. Eufemia della Giudecca, a S. Giovanni Decollato e a S. Giacometto di Rialto, poco nei primi secoli della sua storia deve Venezia direttamente a Bisanzio.
Anche a S. Marco, per cui già nella più antica tradizione i Veneziani vantavano di aver fatto venire maestri e disegni da Costantinopoli per riprodurre la chiesa costantiniana dei Ss. Apostoli, bisogna indagare l'essenza architettonica, prescindendo dai rivestimenti marmorei, dai musaici, da tutta l'immensa pompa ornamentale bizantina, per vedere la nuova basilica quale, fondata nel 1063 dal doge Domenico Contarini, era pressoché compiuta nel 1071 e nel 1094 consacrata.
Dobbiamo anzitutto considerare, guardandole da Palazzo Ducale, le absidi poligonali di S. Marco, fatte di semplici mattoni e ripensare a quelle di S. Fosca a Torcello e del duomo di Murano, il quale appartiene alla tradizione ravennate-romanica. I ricordi dei restauratori di S. Marco, a cominciare dalla facciata, attestano, sotto tanta ricchezza di rivestimento e i sovrapposti ordini di colonne, sussistere le altissime arcate cieche lombarde, tutte di mattoni, con semplici contorni semicircolari di pietra, e il sagacissimo odierno proto della Basilica, Luigi Marangoni, afferma che tutta la struttura è romanica. Esclusa la banalità della copia, non fosse che per il doversi attenere per tanta parte alle fondazioni precedenti, lo schema di S. Marco, a croce greca, con le grandi arcate sui quattordici piloni isolati che sostengono le cinque cupole espanse e stendono sul nostro capo tutto e solo un dominio di cielo, è, nella sua grandiosa, serrata logicità di struttura, così nuovo, anzi unico allora, e non solo in terra latina, che solamente l'esempio dell'antichità poteva ispirarlo. Non chiese edificate dal sec. X all'XI, a Costantinopoli o nell'Ellade, che pur con le cinque cupole hanno tutt'altro carattere, ma opere costantiniane e giustinianee di tanti secoli prima e di tanta gloria, servirono all'architetto di S. Marco d'incitamento per raggiungere coi suoi mezzi quella perfezione architettonica. Certo se non avesse dominato l'Oriente, Venezia non avrebbe S. Marco. L'aspetto orientale S. Marco lo deve in parte a modificazioni e aggiunte, quando, dopo le prede, come i pilastri d'Acri e i Guerrieri abbracciati e la testa imperiale di porfido, portate dai dogi crociati con la conquista e il saccheggio di Costantinopoli (1204), Venezia s'impadronisce d'immensi tesori: dei famosi Cavalli (v. animale: Gli animali nell'arte III, tav. lxxxv), della pala d'oro con i ritratti di Giovanni Comneno e dell'imperatrice Irene, delle rarità dei calici e delle altre meraviglie del tesoro con una congerie infinita di marmi, fra i quali i sigilli stessi di porfido e di verde antico delle tombe imperiali, e, ornata di tanti gioielli, sempre più vuole essere bizantina e negli ornati di porte e finestre copiando addirittura modelli costantinopolitani (v. bizantina, civiltà, VII, tav. xxxix). Trae incitamenti anche dall'Oriente arabo nell'atrio o nartece che circonda il piè di croce, con la corona delle piccole campate, ciascuna a cupola emisferica, affini, anche negli archi dolcemente acuti, per comune derivazione, ai monumenti normanni di Palermo, e l'oriente islamico trionfa nell'altissima copertura plumbea aggiunta nel sec. XIV sopra le basse cupole, dando tanto fascino esternamente all'insieme.
Forse non molto dopo che era sorto, nella sua possanza italica, il campanile rinnovato e compiuto nella cella campanaria al principio del sec. XVI (caduto nel 1902, finito di ricostruire nel 1912), un maestro romanico modellò, si crede verso il 1172, i grandi capitelli cubici e le basi delle enormi colonne di granito col San Todaro e il Leone-chimera della Piazzetta. E un altro romanico adunò e distribuì, pareggiandole per materie e colore davanti alle cinque porte di entrata del nartece di S. Marco, una serie mirabile di colonne orientali (troviamo sulla facciata di S. Marco tutte le varietà più belle di capitelli bizantini) perché su piani degradanti facessero da preludio agli arconi marmorei concentrici dei portali, come quelli delle cattedrali romaniche, intagliati con sempre più vigorose figurazioni dei Mesi (v. bassorilievo, VI, pag. 355), delle Virtù, dei Mestieri. Una scuola era sorta intormo a S. Marco raffinatasi nel trarre copie da preziosi marmi antichi per farle corrispondere agli originali sulla facciata, e nell'imitare sculture bizantine. Sono stati poi raggruppati con l'Antelami, gli scultori dei Profeti della Cappella Zeno, del Sogno di S. Marco, del Presepe al seminario patriarcale.
Lasciando le porte di bronzo (v. porta, XXVII, tav. ccxxxi), ed altre squisite particolarità, l'attrattiva somma del S. Marco è nei musaici, cominciando dal pavimento (v. pavimento, XXVI, tav. cxxxix) in tanta parte rifatto, di poco posteriore a quello di S. Donà del duomo di Murano, datato 1140 (v. musaico, XXIV, tav. x111).
Nell'immensa superficie tutta oro del fondo, base comune alle sonorità del colore, per le prescrizioni del Senato di non mutare, rifacendo, né iscrizioni né soggetti, vige ancora tutta intera la primitiva iconografia, quella prescritta per la nuova basilica bizantina della dinastia macedone. Delle composizioni delle cupole, la più bella, la grande centrale dell'Ascensione di Cristo, ripete precisa quella di S. Giorgio a Salonicco e forse in Oriente avranno trovato il loro prototipo anche le Virtù bellissime tra le finestrelle e gli Evangelisti e i quattro Fiumi terminali; come nella cupola della Discesa dello Spirito Santo le figure dei popoli stanno identiche a quelle fra le finestrelle della cupola di San Luca nella Focide. Se quindi non intervennero, come storicamente si afferma, maestri bizantini portando disegni, gl'italiani andarono a cercarli in Oriente; ma, contrariamente a quanto avviene nei musaici di età normanna a Palermo, in tutta S. Marco non vi è un pezzo che mostri la raffinatezza dei musaicisti greci, quali appaiono a Dafni di Atene o a San Luca. Tutte le vaste composizioni sono ripetute con più rude vigoria, bellissima nelle storie della Passione di Cristo sui due arconi di mezzo. In quanto all'età degli antichi musaici di S. Marco i più recenti son quelli del nartece (sec. XIII) cui tennero dietro (sec. XIV) i musaici del battistero e della cappella di S. Isidoro. Certo molteplicità di epoche oltre che di scuole, suggeriscono i raffronti tra le raffigurazioni dei Miracoli di Cristo lunghe ed eleganti e la Vita della Vergine a figure grosse e atticchiate e le Storie degli Apostoli con la preziosa Preghiera nell'orto. Ma una cronologia precisa delle parti più antiche non si può dire ancora accertata. Nell'insieme i musaicisti di San Marco segnano lo svolgersi e il grandeggiare dell'arte musiva a Venezia, anche per la produzione delle tessere dorate e degli smalti, specialità dei forni muranesi, divenuta arte veneziana per eccellenza che al principio dei sec. XIII orna le basiliche di Roma e insegna a Firenze e prosegue poi, sia solo come arte riproduttiva di pitture, con alti e bassi la sua storia fino ai nostri giorni.
In parecchie vecchie costruzioni, specialmente intorno a Rialto, vive ancora il singolare tipo della casa veneziana detta bizantina, abitazione pacifica, aperta col portico direttamente sul canale, cui sovrasta la loggia ed è rafforzata da due ali più chiuse derivanti dalle primitive torri, rivestita di marmi con ricchi fregi, cornici, patere, formelle, coronata da merlatura.
Gli archi a pieno sesto si allungano su alti piedritti nella tipica forma del cosiddetto arco bizantino, spesso poggiati altissimi, su pilastri quadrati con semicolonne segnate agli angoli, come nelle ali del Fondaco dei Turchi a S. Stae, rovinato dal restauro, come nella casa intatta del Rio Foscari che meglio delle altre conserva l'originaria struttura. Decorate da merli erano tutte le case patrizie come il Palazzo Ducale, che possiamo rievocare quale era nel sec. XII dai ricordi di simili costruzioni con merlatura ad ampie zone triangolari, decorate di formelle marmoree in uso anche a Ravenna nella casa di Droydone e di cui a Venezia possiamo citare solo un esempio in Corte della Grana presso S. Martino. I grandi palazzi bizantini a Rialto, Ca' Businello, Ca' Lion, Ca' Da Mosto, a non dire degli altri gruppi, per solo qualche parte architettonica conservata, mentre infinite sono le case veneziane ornate di fregi, di patere, di croci di pietra e di cotto, tolte dalle precedenti costruzioni. Si distinguono le tipiche cornici del sec. IX da quelle del XII e di queste a foglie spinoose di cui vediamo, ad esempio in Calle del Ridotto e in Campo S. Bartolomeo, fregi lunghissimi. Difficile delle tante patere con animali affrontati distinguere quelle di provenienza orientale da quelle copiate a Venezia. Bellissimo il clipeo marmoreo del Basileus in campo Angaran a S. Pantalon che si vuole del sec. X.
Le immense ricchezze inducono Venezia a rinnovare (e scomparvero così tante pittoresche singolarità come i portici a tettoia rimasti a S. Giacometto di Rialto e il protiro lateralmente ai Carmini) anche le prime chiese gotiche degli ordini mendicanti che, terminate nei primi decennî del Quattrocento, assumono tanta bellezza.
L'ardita spinta in alto degli archi acuti, ornati di belle cornici di pietra, con le finestrate absidali aperte fra costolone e costolone, dànno all'insieme delle grandi chiese dei Frari e di S. Zanipolo, sorte contemporaneamente in gara fra di loro, con vòlte a crociera su grandi piloni rotondi, un aspetto gotico imponente ma sereno e luminoso, dove ogni ornamento marmoreo, come ai Frari i cancelli claustrali del coro e a S. Zanipolo la serie magnifica dei monumenti dogali, prende grande risalto dalla povertà circostante. Proseguendo nel primo Quattrocento, lo schema delle chiese veneziane gotiche è reso più semplice. Si rinuncia al transetto nelle chiese a tre navate di S. Stefano, della Madonna dell'Orto e del Carmine, e, più oltre nel Quattrocento, si creano tipi di grande semplicità e pure elegantissimi, a navata unica, con tre absidi poligonali, come S. Maria della Carità (Accademia) di Bartolomeo Bon e S. Gregorio. Solo la nuova chiesa bellissima di S. Zaccaria, iniziata nel 1458 da Antonio Gambello, col peribolo e le quattro cappelle raggianti dietro l'altar maggiore s'ispira inizialmente, e vedi quanto tardi, al gotico oltremontano.
Dall'abilità grande di terminare e di ornar di cornici coteste costruzioni gotiche tutte di mattoni, nasce un tipo originale venezianissimo di facciata che segna il sorgere della navata centrale con alta curva a baule scendente dalle parti in un contorno mistilineo rafforzato da edicolette e da pinnacoli sulle lesene, come ai Frari, alla Bragora, a S. Aponal, a S. Andrea della Zirada, alla scuola della Misericordia. Deriva dallo stesso motivo il coronamento gotico tutto edicole e cuspidi di S. Marco, iniziato dai Delle Masegne e portato a termine da Nicolò Lamberti di Arezzo, subito mirabilmente sensibile alla grazia pittoresca veneziana.
La scultura del Trecento si può seguire a Venezia specialmente nella decorazione tombale che, dal tipo di sarcofago paleocristiano o romanico, passa a quello toscano del letto funebre nei sepolcri del doge Giovanni Soranzo (1312-28) nell'antibattistero di S. Marco, dell'ambasciatore fiorentino Duccio degli Alberti ai Frari (morto nel 1336) e del doge Andrea Dandolo (morto nel 1354), pure a S. Marco, fino a quello grandioso ma frammentario del doge Marco Corner (morto nel 1368) a S. Zanipolo con la Madonna di Nino Pisano.
Vanta Venezia nei De Sanctis una famiglia di scultori attiva già a mezzo il Duecento, la quale ha in Andriolo e in suo figlio Giovanni artisti insigni, che con i loro grandi e ornatissimi cassoni sepolcrali gotici incontrarono, però, a quel che pare, molto maggior favore a Padova e a Verona che non in patria, forse perché a Venezia, e lo prova l'urna del doge Francesco Dandolo (morto nel 1339) nel Capitolo dei Frari, dalla finissima rappresentazione in tutto bizantina del Transito della Vergine, si era rimasti più fedeli alla tradizione. Associandovi influssi nordici, i maestri Iacobello e Pietro Paolo Delle Masegne scolpiscono nitide, come intagliate nel porfido e di grandiosità quasi classica, le statue sopra l'iconostasi di S. Marco. Non estranei forse a Bologna alla prima educazione di Iacopo della Quercia, ivi essi lasciarono nell'altare di S. Francesco dai tanti pilastri e pinnacoli e nicchie e statue un saggio dei loro polittici veneziani, e Pietro Paolo (1402) creò l'ultimo di codesti trionfi decorativi nel balcone centrale, sporgente verso il Molo, di Palazzo Ducale.
Il Palazzo per antonomasia occupa a Venezia il primo posto dopo S. Marco e, suggestivo e venerando per tanta storia, tutto vi appare più antico che non sia.
Non deriva da eccezionale partito architettonico l'incongruenza di tanta massa in alto chiusa e pesante sopra così aperta leggerezza in basso, ma solo dall'espressa volontà del senato che nel 1340 decise fosse fabbricata una sala immensa per tutta la nobiltà adunata in Gran Consiglio, senza uscire dal recinto sacro dell'antico palazzo, sala che nel 1365 quando il Guariento vi dipingeva il Paradiso, doveva essere compiuta.
Perché fosse più bello, dopo la vittoria su Genova, si ebbe l'ardimento di rinnovare, sotto la sala, tanto la loggia che doveva essere ancora la bizantina, quanto il colonnato del portico, donando a questo i capitelli ottagonali, a quella il bellissimo ornato gotico sovrastante. Il disegno del capitello angolare del portico, quello tanto bello dei pianeti se non a Giovannino de' Grassi, come si è voluto, va attribuito a quella scuola lombarda prossima al Quattrocento, insieme con gli altri capitelli delle raffigurazioni enciclopedico-morali, talune gentilissime. Del pari la leggerezza della loggia e dei suoi archi a curve inflesse, sormontate dal traforo delle croci quadrilobate, non si può spiegare che con l'intervento diretto dei costruttori e decoratori dell'aerea massa marmorea del duomo di Milano e, nominatamente, di Matteo Raverti. Infatti codesto gotico ornamentale risponde in tutto a quello dei loggiati della Ca' d'Oro. Di questa, se non d'altre come la Arian poi Minotto dove il fregio quadrilobato da semplice si fa doppio, conosciamo precisamente dal 1420 al 1434 le vicende costruttive e il gareggiarvi della compagnia dei tagliapietra lombardi, fra cui lo stesso Raverti, con quella veneziana dei Bon. Dopo l'interruzione di qualche decennio nel 1424, demolito tutto il vecchio palazzo verso la Piazzetta, il completamento del nuovo continua e, sia pure che, sopraggiungendo da Firenze, il Lamberti coi suoi aiuti vi porti nelle decorazioni scultoree un senso tanto più raffinato della forma, lo spirito gotico è lo stesso. Esso trionfa nella Porta della Carta di Bartolomeo Bon, celebratissima per il merletto marmoreo della sua finestra, cominciata nel 1438 nonché nel porticato che mette all'arco Foscari e vi celebra, passata già la metà del 400, con la selva dei pinnacoli e delle statue unite a quelle dei Lamberti quelle del Riccio e del Lombardo, il trionfo di San Marco.
È veramente il tempo, doge Francesco Foscari, di Venezia trionfale, che il fasto della sua ricchezza esprime nello stile gotico ancora ma divenuto dolcemente italiano, anzi veneziano e si esalta pittorescamente nella gioia dei marmi policromi. Celebri le grandi case gotiche sul Canal Grande dei Foscari, dei Pisani e di tante altre famiglie, ma meglio preservate da restauri e da rifacimenti quelle sui rii interni, le principesche dei Pesaro a S. Benedetto, dei Priuli a S. Provolo con loggiati e poggioli angolari, dei Soranzo a Van Acsel a S. Canciano e parecchie altre. Impareggiabile in esse la perfezione di ogni particolare costruttivo e decorativo nel che si giovano delle sobrie dimensioni come la Ca' d'Oro continuamente celebrata per le sua bellezza (v. angolo, III, p.337) e, delle minime, come più avanti nel tempo (1475), casa Contarini Fasan, o palazzetto di Desdemona di fronte alla Salute, coi poggioli dalle bellissime transenne a cerchi traforati; e, quasi incapace di reggere sulla stretta base il peso di tanti preziosi marmi, la Casa dei Dario (1487). Né importa se agli archi acuti sono sottentrati i rotondi, perché lo spirito, le proporzioni, gli ornamenti, sono sempre gli stessi. Deliziose tutte le singolarità della nobile casa veneziana: il cortile con le mura merlate e il portale marmoreo, la vera da pozzo, la scala scoperta pur nel cortile, mentre internamente si usano più le scale a chiocciola, del quale tipo una tutta esterna, con loggia saliente del Palazzo Contarini del Bovolo a S. Luca, di Giovanni Candi (1499; v. VIII, p. 710), sembra un minareto. Lo stile gotico era così congenito a Venezia che la classicità del Rinascimento non vi è accettata da principio se non attraverso compromessi che riescono gustosissimi, come il portale di S. Zanipolo che sembra quasi baroccheggiante (1458), la porta dell'Arsenale col suo grande Leone (1460), l'arco Foscari.
In questo, con i nicchioni susseguenti, si è voluto vedere la prima opera di Antonio Rizzo, fra gli architetti e scultori della seconda metà del Quattrocento il maggiore e il più veneziano. Lo ammiriamo nella facciata sul rio di Palazzo Ducale, rifatta dopo l'incendio del 1483, come architetto severo, che si era nutrito di classicità, forse viaggiando per le isole greco-veneziane; e ne apprezziamo lo spirito di venezianità nel completare il cortile, quando trasforma in classico il pilone bizantino, vi crea il suo pilastro ottagonale, accorda agli archi acuti, con bello slancio, i rotondi e giunge a darci la Scala dei Giganti. Alla testa dei tanti tagliapietra lombardi si mette, dopo il 1470, quei che assunse il cognome di Lombardo, Pietro Solari da Carona, passato forse prima di giungere a Padova e a Venezia da Firenze ad assumere eleganze nuove dell'arte rinata, come mostra nel presbiterio di S. Giobbe che decorano le belle terracotte robbiane. Il Lombardo è soprattutto un virtuoso dell'ornato marmoreo, anche in composizioni policrome e si può dire che l'ornato supplisce per lui all'architettura o per sé stesso la crea, come nella chiesa dei Miracoli, celebratissimo scrigno di squisitezze marmoree (v. chiesa, X, tav. X) pefetto in ogni sua parte. Severo talento costruttivo, da gareggiare col Rizzo e allargarne l'opera, ha, unico fra i lombardi, Mauro Coducci bergamasco. La facciata di S. Michele in Isola, opera di perfetta bellezza termina tonda in alto a baule, secondo lo schema veneziano trecentesco, adottato dall'Alberti nel progetto del Malatestiano, reso perfetto nella semplicità geometrica; ma già in quella, pur tanto bella e imponente, di S. Zaccaria la semplicità architettonica è sopraffatta da troppi ornamenti: Il partito della bifora su colonna, pure di origine albertiana, venezianamente ringentilito, associa nell'opera del Coducci la scala della scuola di S. Giovanni Evangelista, alla casa Corner-Spinelli, quella sul Canal Grande dai poggioli trilobati, e se per lo stesso partito lo si potesse credere autore del palazzo Vendramin Calergi, sarebbe da mettere fra i maggiori architetti d'Italia. È molto importante che dalla basilica di S. Marco egli non abbia solo tratto, come si afferma, il ritmo curvilineo dei frontoni della scuola di S. Marco a San Zanipolo, altra delle squisitezze decorative dei Lombardi, ma addirittura un tipo nuovo elegantissimo di chiesa, a pianta centrale e a cupola in S. Giovanni Grisostomo e a S. Maria Formosa, seguito poi dal Sansovino e da Giorgio Spavento nel disegno ben altrimenti complicato e maestoso di S. Salvatore. Lo stesso Spavento coronerà, ben addentro il Cinquecento, gl'intenti decorativi dell'architettura veneziana nella pompa tuttavia classica della scuola di S. Marco. Un gruppo di grandi edifici pubblici veneziani: le Procuratie Vecchie congiunte alla Torre dell'orologio, che si vuole progetto del Coducci, da attribuirsi a Guglielmo Grigi e al Bon, bergamaschi, e l'ornatissimo palazzo dei Camerlenghi, ritenuto dello stesso Guglielmo bergamasco, a Rialto (1525 e seg.), dove rimpetto era già sorto ad attendere gli affreschi di Giorgione il Fondaco dei Tedeschi per opera di Antonio Abbondi, lo Scarpagnino, e, pure attribuito a lui, il palazzo dei Dieci Savi, sono tutti ancora, vorrei dire, venezianamente quattrocenteschi, di quando cioè la città gloriosa imponeva la sua tradizione e anzitutto lo scopo degli edifici ai buoni costruttori, senza essere, come sarà dal Sansovino in poi, dominata, sia pur con tutta la grazia e l'intendimento.
L'apporto diretto toscano ad opera dei Lamberti trova Venezia, al nascere del Quattrocento, anche in scultura più che mai infervorata del gotico fiorito, di cui, insieme con l'urna policroma per Iacopo Cavalli dell'ultimo dei Delle Masegne, Paolo di Iacobello, l'esempio più caratteristico è il monumento del doge Michele Morosini (morto nel 1382) pure a S. Zanipolo, in cui, per vivacità cromatica, si è associato anche il musaico a fondo d'oro e nel quale talune figure sembrerebbero di maestro tedesco. Infatti dimorano allora a Venezia molti artisti ultramontani, e gioverebbe ricercarne le opere per lo più di decorazione privata non fosse che per soffermarsi al delizioso frontone sopra il Ponte del Paradiso con la Madonnina graziosissima (1400) che si vuole di maniera francese.
Nicolò Lamberti, chiamato prima come architetto, e dal 1416 adoperato come scultore, sia pure che ripeta intorno all'alto finestrone di S. Marco l'ornato della Porta della Mandorla del duomo fiorentino, ritorna gotico egli pure, delizioso nel far trionfare al culmine della Basilica d'oro il Santo protettore e gli angeli graziosissimi che lo inchinano tra il fremere delle foglie decorative e i santi sui pinnacoli. Poiché immenso era il lavoro, fra il Palazzo e S. Marco, venne ad aiutare il padre anche Pietro Lamberti con Giovanni di Martino da Fiesole che, come soci fiorentini, segnano occultamente il capitello d'angolo di Palazzo Ducale, di minute graziosissime figure e apertamente coi loro nomi il monumento di Tommaso Mocenigo ai Frari. Grande incertezza di attribuzioni tormenta su questo periodo dell'arte veneziana, perché chi fa gran conto di Pietro Lamberti e gli attribuisce un vistoso patrimonio d'opere, chi dà la preferenza a Nanni di Bartolo detto il Rosso, attribuendogli il grande cassone in terracotta del Beato Pacifico ai Frari e il gruppo del Giudizio di Salomone, chi vorrebbe altri toscani seguaci del Ghiberti, chi di Iacopo della Quercia per i bellissimi nudi dei doccioni della basilica; v'è chi fida molto sull'intervento personale di Agostino di Duccio. Né vogliono esser lasciati indietro i Veneziani, primo Bartolomeo Bon, pronti ad accogliere la nuova eleganza toscana ma ad imitare con rude energia gli angeli ricciuti della lunetta celebrata dei Frari, nell'altare della cappella dei Mascoli a S. Marco. Meglio mantenere alle statue della Temperanza e della Fortezza della Porta della Carta il nome di Bartolomeo Bon che sta scritto sull'architrave e, se si ha da riconoscere di maestro toscano il gruppo del Giudizio di Salomone, bisogna dire che non poteva sorgere che a Venezia. Si sente quale cammino si è fatto in pochi decennî se pur prossimi al Quattrocento si devono ritenere i gruppi angolari del Palazzo Ducale: Noè e figlioli; Adamo ed Eva. Sorpassati i misteriosi Antonio e Paolo Bregno, pretesi autori del monumento al doge Francesco Foscari ai Frari, l'ultimo gotico, giungiamo senz'altro all'unico vero grande scultore a Venezia nel Quattrocento, ad Antonio Rizzo e alla sua Eva famosa. Si possono avvicinare ad essa solo le statue allegoriche della Carità e della Prudenza del monumento del doge Tron ai Frari, il primo che sorga come un mausoleo, col ritratto vivente del doge, tutte le altre derivano da modelli, disegni o ispirazioni del maestro ma sono, come i suoi portascudo (vedi l'Otello di Casa Ciran ai Carmini), creazioni tipiche fra le più belle di quella età e di grande significato il gruppo di S. Elena che dà il bastone al Generale da mar sul portale di S. Aponal. Pietro Lombardo di fronte al Rizzo non assurge quasi mai da decoratore squisitissimo (ricordo anche per le bellezze dell'ambiente i camini nelle stanze dei dogi Barbarigo a Palazzo) a potenza vera di scultore, e, abbia pure scolpito figure squisite, più volentieri si ricordano di lui tutti interi i monumenti che non le statue, nell'evoluzione del tipo toscano monumentale che egli porta da Firenze, da quello del doge Malipiero (morto nel 1472) a quello del Marcello (morto nel 1474) a quello trionfale, con le statue eroiche derivate dal Rizzo, del doge Pietro Mocenigo (morto nel 1476). A Firenze appartiene il Colleoni sul suo cavallo, del Verrocchio; ma non è piccolo merito di Venezia l'aver tramutata la fragile terracotta nel bronzo eterno facendolo fondere da Alessandro Leopardi che lo mise in tanto onore sul suo nobile piedistallo. Al Leopardi si attribuisce per l'insieme architettonico anche il monumento del doge Vendramin, la più raffinata espressione delle tombe dogali. Lo ornarono di rilievi e sculture più che Pietro Lombardo i suoi figli Antonio e soprattutto Tullio. La classicità veneziana risale con quest'ultimo alle statue greche; quella arcaica che teneva in bottega gli suggerì oltre a corpi acerbamente belli, una singolarità di rigide pieghe, forse troppo ripetuta. Egli crea prospettive policrome marmoree alle sue figurazioni, come ai Leoni e ai Miracoli di S. Marco nella scuola del Protettore a S. Zanipolo e nel reliquiario marmoreo della sacrestia dei Frari, e trae forme e scene deliziose da Giorgione. Non si può più oltre intendere ormai Venezia nelle altre arti, senza la pittura che vi è divenuta regina.
Il desiderio di ogni grande chiesa di avere una pala a similitudine di quella che il doge Andrea Dandolo nel 1345 (fatti legare alla gotica gli smalti di filigrana d'oro tempestati di gemme, provveduto per la custodia alla cassa pur allora dipinta da Paolo Veneziano coi figli Luca e Giovanni), aveva ridonata in pubblico onore, deve essere stato di grande incremento alla pittura a Venezia. Infatti la pittura vi nasce nel Trecento quasi come oreficeria.
Le ancone severamente bizantine di Paolo Veneziano che risentì dell'ultima esaltazione imperiale d'Oriente di cui sono prova i musaici del Battistero e della Cappella di Sant'Isidoro, opera questa volta di maestri fatti venire da Costantinopoli; le ancone immense e complicate di Lorenzo Veneziano dove nelle figure allungatissime eleganze gotiche senesi vanno congiunte alle bizantine, splendide nei fondi d'oro e nelle lumeggiature d'oro delle pieghe; le altre ancone uscite poi dalle botteghe di Donato e di Caterino poi di Iacobello di Bonomo; le tavolette chiuse dentro splendide cornici a pinnacoli sono opere di raffinata bellezza, ma pur sempre prodotti piuttosto d'industria, che d'arte. Manca a Venezia la grande pittura d'affresco, e la voga dei rivestimenti marmorei policromi o di fondi rossi e oro sugli edifici ne è per gran parte causa. Si fanno venire da Padova il Guariento (1365) per l'affresco del Paradiso di Palazzo, ripetuto tante volte come simbolo o emblema veneziano; e poi Gentile da Fabriano e il Pisanello per le storie del Barbarossa, nel gran salone del Gran Consiglio; per affrescare la cappella di S. Tarasio verrà a Venezia Andrea del Castagno.
Il risveglio primo alla pittura veneziana del Quattrocento, poco giovando le delicatezze delle ancone di Nicolò di Maestro Piero, è dato da Gentile da Fabriano. L'esempio del Fabrianese alligna e prospera subito in Iacobello del Fiore e più in Michele Giambono, che, anche musaicista nella cappella dei Mascoli a San Marco, grandeggia, se è proprio suo il San Crisostomo di S. Trovaso. Un tedesco, Giovanni d'Allemagna, unitosi col muranese Antonio Vivarini, crea capolavori, sempre nello stesso genere d'arte eminentemente decorativo, Lo stesso spirito si nota nelle prime opere di Bartolomeo Vivarini fratello di Antonio, splendido poi di vigoria mantegnesca e belliniana, ma sempre un po' nordico; in Quirizio da Murano; in Antonio da Negroponte (ancona di San Francesco della Vigna), e infine nelle ancone marchigiane di Carlo Crivelli veneziano. Jacopo Bellini, allievo diretto di Gentile da Fabriano, inizia, passati i primi decennî del Quattrocento, la grande arte decorativa. Il ritratto già con Iacopo Bellini entra nella pittura veneziana, in cui ebbe poi grandissima importanza come mezzo di aderenza al vero, e si estese dall'uomo alle cose, alle vedute di Venezia e della sua vita. L'opera di Gentile Bellini s'informa essenzialmente a tale realismo ritrattistico. Non deve farci meraviglia che su molti pittori veneziani della seconda metà del Quattrocento, ma soprattutto su Gentile Bellini e sugl'inizî di Giovanni, potente si faccia sentire l'influsso del Mantegna, nel quale per Venezia si riassume tutto quello che di rinnovamento era venuto anche da Firenze (Paolo Uccello, Andrea del Castagno), mentre altre influenze sono pur sensibili di Piero della Francesca e più tardi di Antonello da Messina, che a Venezia, nel 1474, aveva dipinto la famosa pala di S. Cassiano, poi dispersa, e aveva lasciato i tanti ritratti. Ma quello che il Giambellino apprese dal maestro siciliano egli trasformò in sé, come mostra trionfalmente nella grande pala musicale di S. Giobbe all'Accademia. Tutti gli altri maestri quattrocenteschi, e sono fra questi Alvise figlio di Antonio e terzo dei Vivarini, creatore di grandi ancone monumentali, ma che poi si accosta, col suo seguace il Basaiti, quasi vinto al Giambellino, e a Vicenza il Montagna, dal quale deriva, di tanto significato per Venezia, Cima da Conegliano, maestro dolcissimo anche nei paesaggi mattutini, grazioso anche nelle sue ingenue scene mitologiche, risentono degl'insegnamenti antonelliani; solo il maggiore Bellini se ne libera, portato più in alto dalla sua spiritualità, e prepara, anche nella visione ariosa del paesaggio e nel tono del colore, l'avvento della pittura nuova giorgionesca.
La bottega del Giambellino divenne negli ultimi decennî del Quattrocento centro di attrazione dei giovani pittori non solo di Venezia o delle provincie dominate ma anche d'altre. Ricordiamo: Vincenzo Catena di tanto nome al suo tempo; il Bissolo che pare più fortunato in provincia che a Venezia; Rocco Marconi che poi si perde dietro le nuove maniere; Giovanni Maria Pennacchi trevisano, che lasciò celebrate opere a Venezia, come Boccaccio Boccaccini di Cremona e Cristoforo Caselli detto Temperello a Parma, mentre l'altro parmigiano Filippo Mazzola e Niccolò Rondinello ravennate e Lattanzio da Rimini, che collaborò coi Bellini alle storie di Palazzo ducale, non lasciano nella Dominante sicuri ricordi. Sarebbe però ingiusto vedere solo il Giambellino, mentre pur tanto vale anche l'altra corrente derivata dal vecchio Iacopo, la più veristica, venezianissima con Gentile Bellini, quale ci appare nei grandi telarî di S. Giovanni Evangelista e anzitutto della famosa processione. Vi sono pure quelli: di Lazzaro Bastiani, creduto maestro or degradato a scolaro del Carpaccio, di Giovanni Mansueti che si proclama discepolo del Giambellino, ma è rude e piuttosto goffo, di Benedetto Diana, ricercatore fervente di tecniche ma fiacco d'anima sì che certo non meritava come fu allora di essere preposto al Carpaccio, che qui nella sua tela ritrae tutto Rialto ed è la più alta espressione di tutto quel movimento. La verità di Venezia veduta con spirito fiabesco porta Vittore a espressioni nuove di pittura aerea, luminosa, sintetica nel ciclo di Sant'Orsola e più ancora in quello di San Giorgio e di San Girolamo.
Se dal Carpaccio e dal vecchissimo Bellini il miracolo compiuto da Giorgione con la grande pittura di colore ci può sembrare preparato gradatamente, quanto la novità al solito restasse sul principio incompresa è provato dal disprezzo di Alberto Dürer, venuto a Venezia nel 1494 (e in Iacopo de Barbaris, poi passato in Germania, e in Marco Marziali trovò allora devoti seguaci) che ritornatovi nel 1505, dichiarava, fuor del vecchio Bellini, non esservi altro pittore che gli piacesse. Già allora Giorgione progettava le figure nude ardenti e morbide di viva carne, che dovevano dominare all'aperto sul Fondaco dei Tedeschi. Una sensualità raffinata dà allora alla pittura un nuovo potere musicale e nasce il quadro di paesaggio o di soggetto misterioso, e tanto sottile che non giova indagarlo, come la Tempesta e i tre Filosofi di Vienna. Difficile Separare l'opera di Giorgione da quella del primo tempo di Tiziano, sino all'Amor Sacro e Profano, se non fosse che il cadorino è sempre più vigoroso, più sonoro, più drammatico e a differenza del melanconico riserbo di Giorgione, ormai del tutto cinquecentesco.
Per quanto tutto sembri spontaneo nella pittura veneziana, Venezia non era tanto isolata dal rinnovamento italiano, e già per Sebastiano del Piombo si nota, ancor quando è a Venezia, prima del 1513, l'influsso di Michelangelo, e del pari Iacopo Palma il Vecchio, bergamasco, ha sentito la grande arte romana prima di giungere alla sua Santa Barbara che si credeva anteriore all'Assunta di Tiziano, ma è più facile ne sia derivata.
Ricordiamo, prima di passar oltre, fra i giorgioneschi più legati a Venezia il Previtali e il Cariani che molto trasse dal Palma e dal Lotto, e pure di derivazione bergamasca Bernardino Licinio. Più fini sono i bresciani, quali il Savoldo, che è quei che più avanti si spinge a interpretare lo spirito romantico del maestro, e il Romanino e il Moretto, giorgionesco anche nei ritratti, nonché Francesco Torbido veronese.
Ritornando a Tiziano e al volo della tavola immensa dei Frari, la prima sua databile (1518), se già allora egli non era ignaro di Michelangelo e della vòlta della Sistina, andò poi sempre appoggiandosi ai sopravvenienti manierismi e soprattutto a Giulio Romano despota a Mantova se non ai romanisti veneziani dei quali meritano ricordo Giuseppe Porta detto Salvieti, Battista Franco, Giulio Licinio. Ma Tiziano crea senza disegno, e sarà poi sempre il modo veneziano, con la densità degl'impasti, con le sovrapposizioni, con la forza improvvisa del tocco. Disvela una più alta umanità, sia che finga i trionfi degli dei o elevi gli uomini, pur ritraendoli crudamente quali erano, alla dignità storica del loro grado, e a non mai prima conosciuta nobiltà. Nella lunga vita, spinto continuamente a superarsi, non trovò rivali che gli contrastassero il cammino, tranne un momento, e limitatamente a Venezia, il Pordenone, Giov. Antonio de Sacchi, che s'impose con la grandiosità, alquanto brutale, delle sue figurazioni e suscitò numerosi seguaci, ma molto più altrove che dentro le Lagune. Non ebbe del pari fortuna, ma perché apparteneva a tutt'altro regno, Lorenzo Lotto, pittore squilibrato, che sin dall'inizio, forse senza nemmeno partire dall'antonelliano Alvise, cercò la sua educazione fuori di Venezia, sia pure amando Giorgione, ma per dilungarsi poi dietro altri miraggi. Pur dovendosi ammettere che tutta la pittura deriva nella prima metà del Cinquecento da Tiziano - né Paris Bordone, pur volendo, poté resistergli - si può a Venezia notare un gruppo di coloristi che nell'avviamento tizianesco serbano una loro singolarità di tinte più intense e profonde: è il gruppo formato da Bonifacio Pitati detto veronese, ma venezianissimo, da Andrea Schiavone, da Iacopo Bassano, e da cui, più che direttamente dalla bottega di Tiziano, conviene far derivare Iacopo Robusti il Tintoretto. La rapidità o prestezza degli abbreviamenti prospettici, la solidità possente delle figure, e quel colore profondo e vivo portano il Robusti subito al sommo nel primo e insuperato capolavoro del Miracolo di S. Marco. La luce venezianamente lo appassiona, diventa il dramma interno della sua vita, dentro agitata dall'ansia di giungere sempre a più alte mete. Quando gli fu fatto dire "colore di Tiziano e disegno di Michelangelo" il Tintoretto, dopo la crisi del Giudizio universale della Madonna dell'Orto, aveva superato l'uno e l'altro, con mezzi suoi che gli permisero subito di abbracciare e dominare mondi interi, come nella Crocifissione immensa di S. Rocco. Paolo Veronese, pittore esteriore e di superficie a confronto del Tintoretto, ma grande del pari per la parte sua, si può definire un classico, perché è chiaro, deciso, felice, come un antico. Venezia rivive in Paolo esaltata da sconfinata fantasia, mentre tutto è già barocco nei grandi soffitti decorativi, da quello di S. Sebastiano a quello del Trionfo di Venezia nel Gran Consiglio, di tale ardimento nel sotto in su, da dare il capogiro. E da Paolo derivano i Trionfi del Tiepolo.
Non poteva avere Venezia, nel difficile trapasso cinquecentesco, dono più provvidenziale di Iacopo Sansovino, venutole da Roma (1527), già fondato nell'architettura di Bramante da creare organismi struttivamente degni della risorta classicità, ma pronto per piacere ai nuovi signori ad accogliere anzitutto nella Zecca severa l'eredità del Coducci, a dar prova nella Libreria anche classicamente di leggiera, ornatissima eleganza, a sorpassare le regole nella Loggetta, per l'effetto pittoresco di fronte alla Porta della Carta. Il palazzo veneziano mantiene per lui i suoi elementi nella Ca' grande Corner (prefettura).
Del pari il Sanmicheli s'inchina a Venezia modificando la sua massiccia densità come si vede a Palazzo Grimani. Non sente invece Venezia il Palladio e vi tratta compiti e problemi eccezionali: quello della casa romana con l'impluvio e i tablini nel convento della Carità (Accademia) e vi crea il suo nuovo tipo di chiesa: San Giorgio e il Redentore, dentro, per nobiltà e bellezza, impareggiabili, fuori quanto di meno veneziano con quell'ordine unico di colonne colossali, abbia creato l'architettura a Venezia. Vincenzo Scamozzi, seguace del Palladio, si riattacca a Venezia e al Sansovino di cui realizza per tanta parte il progetto di andar sino al molo e di fiancheggiare tutta la piazza col motivo della Libreria.
Se dal Sansovino allo Scamozzi Venezia s'inchina ai grandi maestri dell'architettura, conserva però una schiera sua di costruttori, come Giovanni Antonio Rusconi, Antonio da Ponte, seguiti poi da Antonio Contini e da Bartolomeo Monopola, e i primi due sanno gagliardamente difendere Palazzo Ducale, quando, dopo l'incendio del 1577, il Palladio per poco non lo riduceva ad un suo magnifico palazzo vicentino. Iniziate dal Rusconi, condotte a termine dal De Ponte, sorgono saldamente romane le Prigioni, legate al palazzo col Ponte dei Sospiri, opera del Contino. Lo stesso Antonio da Ponte, dopo tanti vani progetti, volta solido e pratico il Ponte di Rialto, e il Monopola al principio del Seicento, completa, mettendovi quanto meno era possibile di suo, il cortile di Palazzo Ducale.
Segna con qualche originalità il primo passare del rude classicismo al barocco Alessandro Vittoria, autore del modello della cappella del Rosario a S. Zanipolo e che suggerì al Contini il progetto della facciata della cupola di S. Gerolamo, oggi Ateneo Veneto. Nato a Venezia da tagliapietre lombardi, di quelli che vi avevano rifatta veneziana anche la classicità, Baldassare Longhena è certo il maggiore architetto che vanti Venezia. Nessun edificio quanto la Salute sorge sin dalle radici, cioè dalla grande scalea, più intonato all'ambiente; nessun altro associa la perfetta forma architettonica alla ricchezza ornamentale e pittoresca. Seguace nei suoi primi palazzi della secchezza dello Scamozzi, il Longhena ben tosto riprende il partito venezianissimo della facciata a colonne, e, aderendo al Sansovino della Ca' Corner, lo ravviva in Palazzo Rezzonico e in Palazzo Pesaro. Nell'opera vastissima e stupenda per ogni genere costruttivo e decorativo (e solo una volta fu vinto, nel 1677, da Giuseppe Benoni triestino, nel progetto per la Dogana sul mare che è tanto bella da farci quasi rimpiangere che quel valente idraulico non abbia più spesso lasciato il suo ufficio per l'arte), il Longhena ottiene che Venezia svolga, esempio quasi unico in Italia, con piena indipendenza, il passaggio dal classico al barocco. Eccessi piuttosto decorativi che architettonici mostrano la facciata di S. Moisè (1668) del Tremignon, che riesce corretto invece nel prospetto di Palazzo Labia sul Campo S. Geremia, quella di Giuseppe Sardi di S. Maria del Giglio (1678-83), e, meno ridondanti, quella di S. Stae di Domenico Rossi da Marco e quella dei Gesuiti di G. B. Fattoretto. Anche agli Scalzi, a S. Salvador, alla Scuola di S. Teodoro il Sardi riesce meno fragoroso e sempre di solida ossatura classica. Con l'approssimarsi del Settecento, i Veneziani non tardano a riprendere in pieno il culto del Palladio.
Possiamo celebrarne un iniziatore nel modesto Andrea Tirali per la organica semplicità delle sue costruzioni come S. Vitale e i Tolentini e lo scalone a due rampe di Palazzo Farsetti e nel Cominelli, geniale nella facciata di palazzo Labia verso canale col fregio delle aquile. Ma sorge ben presto e domina, Giorgio Massari, per cui il Palladio rivive nella facciata dei Gesuati, meno freddo però, più denso e pittoresco, mentre quivi all'interno come alla Pietà, non si direbbe estranea qualche reminiscenza borrominiana con quelle cornici ben girate e ricorrenti, senza mai forti risalti, e la ricerca dell'eleganza di ogni particolare. Deriva dal Massari Bernardino Macaruzzi, autore della facciata della chiesa di S. Rocco. Con Giovanni Scalfaretto e il suo piccolo Pantheon di S. Simeon Piccolo (ma la cupola verde di rame è venezianissima), e col suo nipote, il Temanza, che rifà classica la Maddalena, con Giannantonio Selva, autore della prima Fenice, siamo in pieno stile neoclassico, precorrente i teorici della Rivoluzione e dell'Impero che nulla hanno da insegnare a Venezia. Vi manderà Napoleone Giuseppe Soli a guastare Piazza S. Marco. Geniale interprete dello stile impero in decorazioni architettoniche e per mobili è stato il Borsato. Del resto poco di notevole ebbe ad aggiungere in architettura l'Ottocento a Venezia.
Poiché certa freddezza accademica si era già fatta sentire a Venezia, ad esempio nelle statue del monumento di Benedetto Pesaro (morto nel 1503) sulla porta della sacrestia dei Frari, assai propizia doveva riuscire anche in scultura la grazia pittoresca del Sansovino che a Firenze aveva preparato modellini ad Andrea del Sarto e in scultura si era tenuto fedele a Leonardo da Vinci. Egli lascia a Venezia capolavori insigni, e, anche quando, come nei Giganti della Scala, l'opera gli è diminuita dai troppi e maldestri esecutori, non viene meno al grande effetto decorativo. Intorno a lui, una scuola di seguaci, fra i quali Danese Cattaneo, finissimo non solo nei busti, ma anche nelle statue, come in quel suo Apollo veramente luminoso (oggi nel cortile di Palazzo Pesaro) e Alessandro Vittoria da Trento che viene alla bottega del Sansovino (1543) avendo avuto qualche educazione in patria e con un nativo gusto nordico di ricerca di effetti d'ombra con approfondimenti plastici; e ne è prova la prima statuetta sua insuperata del Battista di S. Zaccaria. Natura complessa e varia, ma squisitamente veneziana, forte e nobile, a prescindere dai ritratti nei quali è insuperabile, conquistò siffattamente Venezia da esservi il dittatore di ogni cosa d'arte negli ultimi decennî del Cinquecento. Si fa valere in grandi opere decorative Girolamo Campagna veronese; gli è prossimo un altro veronese, Giulio del Moro; mentre provengono da Padova scolari del Sansovino, Francesco Segala e Tiziano Aspetti, grande questo ultimo solo nei bronzi. Durante il Seicento, la scultura vige a Venezia più che mai solo in funzione decorativa e gli scultori vanno associati secondo le costruzioni che ornano.
Così il gruppo numeroso che cedendo all'istinto decorativo è chiamato a dare maggior larghezza di volo alle membrature e persino alle aeree curve della Salute, dove all'esterno e all'interno su altri buoni scultori come Fr. Caprioli, Michele Ungaro, Tommaso Ruer, regna fantasioso, da caposcuola, il fiammingo Giusto La Corte. Altri forestieri: Arrigo Meyering, il decoratore di S. Moisè e il Bartel tedesco, del monumento colossale dei Pesaro ai Frari, i bolognesi Moli e Mazza e, verso la fine del Seicento, il genovese Parodi ben meritano di essere ricordati, con Francesco Penso Cabianca, con Bernardo Falcone di Lucano per i suoi bronzi intorno alla palla d'oro della Dogana. Un altro gruppo di scultori si raccoglie a dar fasto al mausoleo del Tireli per i Valier a S. Zanipolo; Pietro Baratta, Antonio Tarsìa, Giovanni Bonazza, autori anche delle statue dogali, e Mario Groppelli. Più avanti nel Settecento, altri Bonazza e parecchi Torretti gareggiano nelle storie della Vergine per la cappella del Rosario. Deriva dagli scultori in legno celebri, dopo il Brustolon, il Piazzetta, padre del pittore e Giovanni Marchiori elegantissimo nella chiesa di S. Rocco e nelle Sibille degli Scalzi. Si accosta al rococò nella morbida finitezza delle sue opere e nei riusciti bozzetti G. M. Morlaiter. Nell'ambiente arcadico veneziano, dove i gessi degli antichi servivano solo per ricerche di eleganza, come nei bronzi del Gai, e tuttavia agli scultori si era imposta la vigoria naturale e l'evidenza plastica del Piazzetta, Giuseppe Bernardi e G. Ferrari detti Toretti accolgono Antonio Canova, venezianissimo non solo nel Dedalo e Icaro, ma anche a Roma nei celebri ritratti delle tombe papali. Dopo gli scultori accademici di poco valore, come il Zandomenichi, la scultura veneziana è assorbita in quella italiana, benché certe delicatezze veneziane siano sentite dal Dal Zotto e uno scultore di molto vigore vi sia sorto col Borro.
Le formidabili eredità di Tiziano, del Tintoretto e di Paolo cadono sulle spalle anzitutto dei loro naturali discendenti: il nipote di Marco Vecellio, Carletto e Gabriele Caliari, Domenico Tintoretto; magistrale quest'ultimo nei ritratti. Fanno ad ogni modo pur sempre valere la magia decorativa e il tono caldo del colore nell'oro dei soffitti e delle pareti di Palazzo Ducale, Iacopo Palma il Giovane, talvolta, come ai Crociferi, di potenza veristica, i figlioli del vecchio Da Ponte, Francesco e Leandro, Andrea Vicentino, pittore, si può dire protocollare, della Serenissima, il Vasilacchi, detto l'Aliense, il Ponzone, il Peranda e, degno di nota, per la sua ariosa chiarità, Camillo Ballini. Qualche importanza fra gli ultimi cinquecenteschi va data a Damiano Mazza, dal quale deriva Alessandro Varotari, detto il Padovanino, tenuto come il primo dei secenteschi di qualche novità nelle sue grandi composizioni, ma che subito si sfiacca come Pietro Liberi.
Venezia, satura di tanta pittura, prima che tanti capolavori andassero ad arrichire le gallerîe di tutto il mondo, diventa allora la scuola dei pittori forestieri. Vi si fermano e lasciano opere che gioveranno al non lontano risveglio, il Lys tedesco, il Feti, e il genovese Bernardo Strozzi che più degli altri si fonde nell'ambiente e trae molti a sé. Giambattista Langetti, pur genovese, è a Venezia il migliore dei "tenebrosi"; e accanto a lui sono da ricordare il Foralesco, Sebastiano Mazzoni, il Zaniberti. Tiene, più avanti nel Seicento dopo il Renieri fiammingo, il primato a Venezia, Antonio Zanchi, poco gentile, ma robusto pittore e vi gode certa voga come prospettico, almeno per il suo fumoso soffitto di S. Pantalon, Gian Antonio Fumiani. Cominciano a dare qualche speranza di rinnovamento Andrea Celesti, e meglio ancora Antonio Bellucci e Antonio Molinari; ma a Venezia si procede incerti, per molte vie, fino a giungere all'accademismo così duro, anche nel colore, di Gregorio Lazzarini, che fu anche maestro del Tiepolo.
Ritorna a Venezia con Sebastiano Ricci una maniera vivace, luminosa, colorita che ha fortuna e si fa sempre più pronta e viva, giungendo da ultimo a squisitezza, che l'han fatta pensare persino iniziatrice del Guardi figurista. Da Sebastiano Ricci deriva direttamente Gaspare Diziani; mentre con qualche indipendenza, ma su quella stessa strada di piacevole arte signorile, va Iacopo Amigoni, fortunato all'estero anche come pomposo ritrattista, Gian Antonio Pellegrini, decoratore largo di soffitti anche a Parigi, di un dipingere singolarmente soffice e arioso. La rinnovazione vigorosamente costruttiva della pittura veneziana nuova si fonda su Giambattista Piazzetta. Dipendono strettamente da lui Giuseppe Angeli, Francesco Polazzo, Antonio Marinetti, detto il Chioggiotto, e molti fuori Venezia. Giambattista Tiepolo, forse aderendo al Piazzetta, forse rinnovandone personalmente le ricerche, si addentra anzitutto fra ombre e luci tempestose, e a studiare rapidità di scorci e di anatomie con esagerata esasperazione. Si vuole ora vedere per questa parte anche nel dalmata Federico Bencovich, tenebroso, un suo precursore. Deve molto anche allo studio del Tintoretto prima di essere tutto di Paolo. La sua fantasia è fondamentalmente barocca e, forse per ciò, concordava tanto meglio l'indimenticabile Volo della Santa Casa nella calda decorazione architettonica di marmi e di oro del Longhena agli Scalzi, che non gli altri suoi soffitti, ai Gesuiti e alla Pietà, sulle ampie e bianche superficie del Massari. Ha il Tiepolo sul Ricci e sul Piazzetta il grande vantaggio del frescante, del concepire e dell'eseguire pronto, largo, luminoso. Inesauribile nei contrasti e nei capricci, non senza caricatura, sa spesso essere più ardito e più raffinato dello stesso Paolo. Come delizia degli occhi o musicale sensualità coloristica, la pittura veneziana giunge col Tiepolo al sommo e per quella via non si può andare più in alto. Geniale continuatore del padre riesce Gian Domenico Tiepolo e ne provengono Francesco Zugno, Fabio e Giambattista Canal e Iacopo Guarana. Gli ultimi due frescanti inesauribili, come lo era stato, con molto successo anche fuori Venezia, il Crosato. Viene prossimo ai sommi fra i settecenteschi veneti, con certa indipendenza, Giambattista Pittoni (di famiglia carnica, come Nicolò Grassi, che ne sarebbe il maestro) ma che si giova in principio dell'imitare Francesco Solimena e poi si allarga a un fare morbido, tenerissimo nei colori, arcadico e rococò più di ogni altro veneto. Venezia settecentesca non si concepisce senza i ritratti incipriati di Rosalba, senza le scenette del piccolo maestro Pietro Longhi, cui giova, anziché nuocere, l'esser dimesso e alquanto ingenuo. Sono delizia di gallerie e di salotti le vedute austere di Marco Ricci, iridescenti di Michele Marieschi, arcadiche dello Zais e dello Zuccarelli. Antonio Canal è fedele fino allo scrupolo nel riprodurre le dilettose vedute di Venezia, eppure è tanta vigoria poetica in quella sua intensità di luce e tenuità di contrasti, nel gusto del taglio, nelle macchiette. Il vivo sole si annebbia nei suoi ultimi tempi e si fa rigore freddo di verità in Bernardo Bellotto, suo nipote, pur vedutista insigne. Appena gli sia permesso dal committente, la veduta è un pretesto per Francesco Guardi, è l'espressione di uno stato d'animo talora lirico scintillante, talora patetico, desolato. Come figurista in opere di grande decorazione come il soffitto a palazzo Labia e in modo eccezionale nelle fantasmagoriche storie di Tobiolo all'Angelo Raffaele, mostra che se troppo non fosse stato lo squilibrio e il disorientamento, Venezia avrebbe potuto avere in lui un pittore da vincere anche ogni altro francese del Settecento, tale è la magia del suo colore sfatto intriso di luce e del suo tocco rapido, balzante.
Col sopravvenire del neoclassicismo si può dire che la pittura veneziana finisca a Venezia, né certo l'Hayez né Natale Schiavone con le sue Veneri, né i romantici potevano riprendere la tradizione così lontana da quella che il mondo voleva e praticava sino alla metà almeno dell'Ottocento. I veneziani da Paolo al Tiepolo erano serviti d'esempio e d'incitamento al risveglio coloristico della nuova pittura francese e così seguendo gl'innovatori anche taluno dei veneziani come Giacomo Favretto, Giacomo Ciardi, vedutista, ed altri vennero a ricollegarsi un poco con la tradizione. Questo in quanto a pittura veneziana nella sua essenza e continuità. Che se invece si tratta di ricordare la pittura a Venezia come parte della pittura italiana nei suoi successivi svolgimenti sentendo la suggestione che deriva dall'ambiente unico e quanto mai favorevole, pittori come Vono, Milesi, Tito, Fragiacomo, Brass tengono con grande onore in essa il loro posto.
Arti minori. - Predominante a Venezia l'impiego del legno non solo per le navi (v. nave, XXIV, p. 346; gondola, XVI, p. 534) e le palificazioni di sostegno, ma anche per le travi usate costruttivamente, a tutto il Quattrocento, come architravi scoperte e sostenute da mensoloni intagliati a profili gotici (v. la Loggia Foscari a Palazzo Ducale e tanti cortili). Si usavano anche di legno bene intagliato le scale interne (Ca' d'Oro). Di legno i soffitti a carena di nave e dipinti nelle chiese gotiche (S. Stefano, S. Giacomo dell'Orio, S. Caterina) e nelle case a formelle di legno con rilievi dorati (Palazzo Soranzo a S. Polo, Stanze Barbarigo e Palazzo Ducale, Scuola grande di San Marco, Accademia), poi con altissimi cornicioni dorati intorno alle pitture come nella sala del Collegio (intagliatore Francesco Bello, 1577 c.) e nei grandi saloni di Palazzo Ducale (v. legno, XX, tav. CXX). La cornice intorno alle pitture, compie molta parte della sua evoluzione a Venezia. I cori a S. Zaccaria e ai Frari di Francesco e Marco Cozzi da Vicenza (1455-64), sono poi per lo più opere di forestieri nordici (S. Giorgio Maggiore). Dal seggio del Doge, del primo Cinquecento grande ricchezza di poltrone ornate e dorate nelle chiese (a S. Zanipolo, a S. Zaccaria, ecc.). Mobilio di ufficio, ancora a posto a Palazzo Ducale: del Cinquecento nel collegio, del Settecento in Pregadi. Nei mobili di casa per la tendenza a maggior lusso con rilievi e dorature e colori. Venezia adatta e segue i tipi comuni a tutta Italia. Speciale importanza viene al mobilio veneziano del Settecento dal gareggiare in grazia, senza copiarlo, col francese, e ha speciale gusto, anche nei mobili (piazza) la vera da pozzo dalle bizantine a quelle a cubo smussato del Trecento, poi a capitello ornatissimo (alla Ca' d'Oro quella di Bartolomeo Bon). Genere semplificato di musaico pavimentale il terrazzo alla veneziana con semine di porfido e verde antico, molto usato con bellissimi disegni nel Settecento. Lo stucco usato dapprima nella Sala delle quattro porte a Palazzo Ducale (1578) prende grande voga nel Sei e Settecento (palazzo Albrizzi) ma trattato quasi sempre da Lombardi. Di provenienza tedesca oppure di terraferma i ferri battuti e usatissimi i piatti di rame e di ottone (di rame battuto i fanali da galea); di ottone i leggii di parecchie chiese. La fusione del bronzo è appresa per tempo dai Bizantini e a imitazione delle porte bizantine di S. Marco si fondono quella firmata Bertuccius aurifex e datata 1300 e le altre. Specialità dell'Arsenale, le fusioni veneziane (esempio classico il Colleoni del Verrocchio fuso nel 1489 da Leopardi) riescono massicce e pesanti; così i Mori della Torre (1497), i pili di Piazza S. Marco dello stesso Leopardi (1500-05), l'altare della cappella Zen a S. Marco (1504-21); le vere da pozzo del cortile del de Conti (1556) e dell'Alberghetti (1559), fonditori di artiglieria dell'Arsenale. Perfette le fusioni in bronzo curate dal Sansovino, dalla porta della sacrestia di S. Marco al ritratto in tutta figura di Tommaso Rangoni sulla facciata di S. Giuliano, belle quelle dei busti del Vittoria. Venezia mantiene anche per ricchezza la specialità delle grandi fusioni, quali le statue sulla facciata di S. Francesco della Vigna di Tiziano Aspetti, quelle del Campagna sull'altare del Redentore e il gruppo del Cristo Morto del Roccatagliata (1633) a S. Moisè. Famosa l'oreficeria veneziana di derivazione bizantina, con l'opus veneticum o filigrana, dal sec. XII in poi. Subisce in seguito influssi toscani e germanici. Di più largo uso l'argenteria (provengono da Venezia nei secoli XII-XIII le tante pale d'argento: Cividale, Caorle, ecc.) conserva poi sempre anche nell'uso pratico rinomanza e credito. Risiedeva a Venezia la bottega degli Embriachi che in avorio, o meglio in osso, ornava cassettine e tanti altri mobili con storie cavalleresche. Il vetro è la grande arte minore di Venezia, anzi dell'Isola di Murano. Gli smalti del musaico e le conterie, già fabbricate nel sec. XIII offrono le grandi risorse dei colori e fanno sì che anche i vasi di vetro, sino al Quattrocento, siano fortemente colorati come pietre preziose e opachi. La grande arte li rende poi trasparentissimi, di tonalità tenui, aeree e di forma elegantissima. Da quella dei Barovier conosciamo come per parecchie generazioni famiglie di artisti si segnalassero nella difficile arte. Un esempio grandioso di vetrata dipinta delle fornaci muranesi dei primi anni del Cinquecento ci è conservato a S. Zanipolo. Il Briati ritrova (1736) il cristallo soffiato che può essere inciso e oltre alle bottiglie all'uso boemo con applicazioni d'oro, si hanno anche gli specchi incisi. I vetrai muranesi avevano già nel Cinquecento inventata una specie di vetro opalescente detto lattimo che nel Settecento fu perfezionato come falsa porcellana. Ma il ritrovato segreto della vera porcellana fu applicato a Venezia dai fratelli F. e G. Vezzi (1720-80) e da Geminiano Cozzi. Per la tessitura a Venezia già per tempo si accentrano prodotti di altre località, non solo per inoltrarli oltremare, ma prima per tingerli, essendo la tintoria in relazione con la produzione dei colori (si ricordi il rosso famoso dell'industria degli specchi). Poi grande incremento portano a Venezia (1309) i Lucchesi profughi tessitori di seta. Hanno grande fama come veneziani i prodotti più ricchi: le stoffe d'oro, il broccato rizzo e soprarizzo rilevato di fili d'oro e d'argento, il damasco traslucido, il velluto tagliato e controtagliato. Vi si fabbricano a prezzi meno proibitivi i broccatelli, i lampassi, ecc. Dell'arazzo qualche tentativo alla fine del Quattrocento (paliotto d'altare alla Salute). I ricami usatissimi e di ogni genere. Specialità anzi gloria di Venezia il merletto. Dal 1530 e per tutto il Seicento numerosissimi i trattati dedicati alle gentildonne con tavole di modelli preziosissimi, tutti stampati a Venezia. Si crea e si perfeziona allora il punto di Venezia a fuselli su tombolo o punto in aria. La miniatura di derivazione bizantina si svolge a fianco della pittura; e Venezia possiede, dal primo Trecento, la lunga serie databile delle promissioni ducali miniate, delle commissioni e delle mariegole. La stampa come arte, sino dagl'incunaboli ha Venezia fra i suoi centri primi e maggiori e prosegue con immensa, mirabile produzione sino a tutto il Settecento. Se non escono a Venezia i primissimi libri a figure essa ne vanta la serie più ricca e preziosa e nell'incisione in legno per il Polifilo (1499) tiene il primato. Sono fra le più grandi, in parecchi fogli, le stampe in legno tratte da disegni di Tiziano. Parecchi nel Seicento, e tutti nel Settecento, coi vedutisti, i più grandi pittori veneziani si dedicano all'acquaforte; e incisore dei primi è Marco Pitteri. Anche nella legatura dei libri si giova Venezia, per fastosa originalità, dei contatti con l'Oriente, e perfeziona la tecnica d'imprimere con dorature e colori, il cuoio. Ne deriva altra grande arte di lusso, proveniente dalla Spagna, già nel Cinquecento, e che diviene venezianissima soprattutto nel Settecento, per tappezzerie d'interni, del cuoio d'oro a fondo d'oro e d'argento, con fiori colorati.
Bibl.: Opere generali: F. Sansovino, Venezia città nobilissima, Venezia 1581, più usata l'ediz. Sansovino-Martinioni, venetia città nobilissima... con aggiunte fatte fino al 1663 da D. Martinioni, ivi 1663; G. Moschini, Guida per la città di Venezia, II, ivi 1815; A. Venturi, Storia dell'arte italiana, Milano 1901 segg., passim; P. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata dalle origini alla caduta della Repubblica, Bergamo 1922-25; H. A. Duglas, Venice on foot, Londra 1925; G. Lorenzetti, Venezia e il suo estuario, Milano 1926; P. Toesca, Storia dell'arte italiana, I: Il Medioevo: Torino 1927, passim.
Architettura e scultura: P. Selvatico, Sull'architettura e sulla scultura in Venezia dal Medioevo ai nostri giorni, Venezia 1847; J. Ruskin, The stones of venice, 2ª ed., Londra 1858-67; O. Mother, Geschichte der Baukunst und Bildhauerei Venedigs, Lipsia 1859-60; G. Lorenzi, Monumenti per servire alla storia del Palazzo Ducale di Venezia, Venezia 1869; La basilica di S. Marco in Venezia illustrata nella storia e nell'arte (importante la parte architettonica di C. Cattaneo), ivi 1877-1887; F. Ongania, Raccolte di vere da pozzo, ivi 1889; P. Paoletti, L'architettura e la scultura del Rinascimento in Venezia, ivi 1893; L. Planiscig, Geschichte der venezianischen Skulptur im XIV. Jahr., in Jahrb. d. kunsth. Samml. d. allerh. Kaiserh., XXXIII (1916), pp. 31-212; id., Venezianische Bildhauer der Renaissance, Vienna 1922; L. Marangoni, L'architetto ignoto di S. Marco, in Nuovo archivio veneto, 1933.
Pittura: M. Boschini, Le ricche miniere della pittura veneziana, Venezia 1674; descrizione di tutte le pubbliche pitture della città di Venezia (rinnovazione delle Ricche miniere di M. Boschini); ivi 1733; P. Saccardo, Les Mosaïques de Saint-Marc, ivi 1897; L. Venturi, Le orig. della pittura veneziana, ivi 1907; L. Testi, Storia della pittura veneziana, I: Le origini, II: Il divenire, Bergamo 1909 e 1915; Crowe-Cavalcaselle, A history of painting in North Italy (con aggiunte di Tancred Borenius), voll. 3, Londra 1912; C. Ridolfi, Le meraviglie dell'arte ovvero le pitture degli illustri pittori veneti e dello stato, Venezia 1648, ediz. in 2 voll., con note di von Hadeln, Berlino 1914-24; P. Muratoff, La pittura bizantina, Roma s. a. (1928); G. Fiocco, La pittura veneziana del Sei e Settecento, ivi 1929; O. Derraus, Die Mosaiken von San Marco in Venedig 1100-1300, Baden (presso Vienna) 1935.
Arti minori: Pasini, Il tesoro di S. Marco in Venezia, Venezia 1885; E. Molinier, Le Trésor de la Basilique de Saint-Marc, ivi 1888; G. Morazzoni, Il mobilio veneziano del '700, Milano 1927.
Biblioteche e istituti di cultura.
Biblioteche e archivi. - R. Biblioteca di S. Marco: v. marciana, biblioteca.
Biblioteca Querini Stampalia. - Fa parte, con la Galleria, della fondazione scientifica istituita per testamento (1868) da Giovanni Querini Stampalia, studioso e patriota (1799-1869), ultimo discendente del ramo Stampalia della grande e nota famiglia Querini (v.); che nel creare la fondazione, la dotò, oltre che dei libri, quadri e oggetti d'arte familiari, della sede e dell'intero suo patrimonio per l'accrescimento delle raccolte e per borse di studio, premî scientifici, ecc. La biblioteca, che per orario e per l'acquisto della suppellettile deve integrare l'opera degli altri istituti cittadini, possiede oltre 1200 volumi miscellanei di manoscritti, circa 20.000 opuscoli e 100.000 volumi, tra i quali un centinaio d'incunabuli; 2000 riviste, di cui 300 vive. Lo schedario è il primo in Italia di tipo "reale", per autori e soggetti in unica serie alfabetica. La biblioteca ha organizzato col proprio materiale interessanti mostre storiche, iconografiche e bibliografiche.
Archivio di stato. - Fu istituito nel 1815 da Francesco I con la riunione degli archivî della repubblica e dal 1822 ha sede nell'antico convento dei Frari. È diviso in tre sezioni: la prima comprende gli archivî della repubblica veneta a noi giunti; la seconda gli archivî dei governi che successero alla repubblica; la terza gli archivî dei notai di Venezia e del Dogado fino al 1830, e dei notai di Candia e di varie parti d'Italia e d'Europa. L'archivio ha una scuola di paleografia e diplomatica.
Archivio patriarcale. - Comprende l'archivio delle diocesi cessate (patriarcati di Aquileia, quindi Grado, Iesolo, Caorle, Torcello), l'archivio storico della sede vescovile, poi patriarcale di Venezia, fino al 1870, l'archivio moderno della curia: in totale, circa 4000 buste.
Istituti d'istruzione. - R. Istituto superiore di economia e commercio. - È detto "Ca' Foscari" dallo storico palazzo dove ha sede. Fondato nel 1868 (primo fra gl'istituti congeneri d'Italia), conserva il carattere di scuola universitaria autonoma; ha corsi speciali di magistero in economia e diritto e in ragioneria; conferisce anche la laurea in lingue e letterature straniere. È dotato di laboratorî e di un'ottima biblioteca, arricchita del dono dei libri di Francesco Ferrara.
Con la Scuola pratica di medicina e chirurgia Angelo Minich, che ha corsi per laureandi e laureati in preparazione all'esame di stato, e di perfezionamento per medici condotti, e con la R. Scuola d'ostetricia gli ospedali civili riuniti contribuiscono meritoriamente all'istruzione superiore. Qui anche l'istituto anatomo-patologico e la biblioteca scientifica Pietro da Venezia.
R. Accademia di Belle arti. - Incaricati nel 1724 dai Rifomatori dello studio della repubblica veneta, i collegi dei pittori e degli scultori (giá scuole dei Depentori e degli Scultori) avevano preparato un progetto per formare una regolare Accademia. Nel 1750 il senato concede ai Riformatori alcuni locali nel Fontego della Farina a S. Marco, perché i giovani vi si possano riunire per disegnare. Presidente della nuova accademia è G. B. Piazzetta. Lo statuto viene approvato nel 1755 dai Riformatori, che nominano presidente G. B. Tiepolo. Nel 1807 la Veneta Accademia di pittura divenne Accademia Reale di belle arti, sorella a quelle di Milano e Bologna, con le scuole di architettura, incisione, pittura, e scultura. Nel 1808 si trasferì negli edifici della ex-scuola della Carità, e ivi si raccolsero le opere d'arte delle soppresse chiese e conventi. Nel 1926, la scuola di architettura viene staccata e costituita in Regio istituto superiore.
Gallerie e Musei. - R. Gallerie dell'Accademia. - Ebbero storicamente il loro primo nucleo nei dipinti degli accademici dell'antica scuola al Fontego della Farina. Nel 1807 fu decretato che le opere d'arte provenienti dalle chiese e dai conventi soppressi fossero riunite presso l'accademia trasferita alla scuola della Carità. Ma l'effetto del decreto fu ritardato dagli appetiti dei Francesi, che asportarono qualche centinaio di quadri, oltre quelli già confiscati e trasferiti a Parigi, destinandone parte a Milano. I trasporti dei depositi demaniali all'Accademia cominciarono a compiersi dal 1812. Con la caduta di Napoleone, l'Austria rivendicò la maggior parte dei quadri asportati. Con i depositi demaniali, contendendo i dipinti a Parigi, a Milano e a Vienna stessa, in vario tempo, e con successivi lasciti e doni, a volte di intere quadrerie private, si formarono e svilupparono le Gallerie, che furono aperte nel 1817.
Esse hanno sede nei piani superiori del palladiano monastero dei canonici lateranensi, della dimezzata chiesa gotica della Carità, nel salone e nell'albergo della Scuola, ove ancora splendono il gran soffitto d'oro (1461), la pala di Giovanni d'Alemagna e Antonio Vivarini e la Presentazione di Maria del Tiziano. Rappresentano in meravigliosa unità lo sviluppo della pittura veneta. Vi si trovano le tele del Tintoretto provenienti dalla scuola di S. Marco, quelle del Carpaccio, Gentile Bellini, Mansueti con il ciclo dei Miracoli della reliquia della Croce provenienti dalla scuola di S. Giovanni Evangelista, quelle del ciclo di S. Orsola del Carpaccio, provenienti dalla scuola di S. Orsola. Fra le più notevoli opere singole, due Madonne di Iacopo Bellini, le pale per S. Giobbe del Carpaccio e di Gio. Bellini, la Madonna degli alberetti del Giambellino, il S. Girolamo di Piero della Francesca, il S. Giorgio del Mantegna, una Madonna del Tura, la Tempesta del Giorgione, la Cena del Veronese e capolavori del Tintoretto, dello Strozzi, del Tiepolo, del Piazzetta, del Guardi, di Rosalba Carriera, ecc.
R. Galleria Franchetti alla Ca' d'Oro. - La Ca' d'Oro, ormai rovinatissima all'interno, fu acquistata dal barone Giorgio Franchetti (1865-1923), che la riattò, e, dopo d'averla arricchita di insigni opere d'arte raccolte dovunque, la donò allo stato (1916). Le ceneri del Franchetti, riposano quivi, sotto un cippo. È uno splendido esempio di raccolta d'origine privata, in un decoro di tappeti antichi, arazzi preziosi, cassapanche, cornici e mobili. Fra le opere più significative: il S. Sebastiano del Mantegna, il ritratto del Brignole di Van Dyck, opere di Giambono, Filippino Lippi, Botticini, Signorelli, Gio. Bellini, Carpaccio, Tiziano, ritratti del Pontormo, del Tintoretto, di Alessandro Longhi e paesaggi del Guardi; il busto ritrovato nei lavori della Ca' d'Oro, forse rappresentante Marino Contarini, il dittico amoroso di Tullio Lombardi, busti del Vittoria, bronzi veneziani rarissimi, un ricco medagliere, deschi da parto e da nozze, il fanale da nave del Pisani, la scala di legno quattrocentesca già del palazzo Agella, il ssoffitto dorato già Gritti-Faccanon. Attigua alla Ca' d'Oro e con essa in comunicazione la raccolta di pittura straniera, specialmente fiamminga, già della R. Galleria dell'Accademia, sistemata in un piano del palazzetto Giusti.
R. Museo archeologico. - Deve la sua origine al lascito che il cardinale Domenico Grimani fece alla Serenissima nel 1523 delle sculture antiche di sua proprietà accresciuto prima da quello del nipote di lui, Giovanni Grimani, patriarca di Aquileia, nel 1586, e poi da altri successivi, fra cui piace ricordare quello dell'ambasciatore di Venezia a Costantinopoli e a Roma Girolamo Zulian (1796): così accanto alla sezione archeologica se ne venne formando una medievale e un bellissimo medagliere. Le raccolte archeologiche sono ora sistemate in alcune sale del Palazzo Reale: la parte medievale e moderna fu invece ripartita tra il Palazzo Ducale, l'Accademia, il Museo Correr e la Ca' d'Oro. Il museo archeologico, così come è oggi costituito, ha notevole importanza perché riflette nella sua parte essenziale il gusto di un gran signore del '500 quale fu il Grimani, il quale in un periodo in cui le preferenze andavano soprattutto agli esemplari diremo accademici o barocchi di molta arte romana, seppe riunire una serie di originali greci del V e IV sec. a. C.
Museo nazionale d'arte orientale "Marco Polo". - Ripete le origini dal principe Enrico di Borbone di Parma, conte di Bardi e dal suo viaggio del 1888-89 in Estremo Oriente, dove egli raccolse una ricchissima collezione d'oggetti d'arte e di curiosità. Morto il conte di Bardi nel 1906, la collezione fu messa in vendita e dispersa in parte nel museo di Boston, nel British Museum di Londra e in altri musei. Pur così dimezzata, essa rimaneva ancora la piu cospicua raccolta d'arte orientale in Italia, e divenne proprietà dello stato in conto riparazioni di guerra nel 1919, e fu ordinata, nel terzo piano di Palazzo Pesaro, in un museo inaugurato nel 1928. Contiene una ricca armeria, una mostra di pittura, con grandi paraventi (sec. XVII), molti kakemono e makimono giapponesi e cinesi dal Cinquecento ad oggi, e pannelli e libri di disegni, di cui alcuni di primissimi autori, una sala di oggetti di culto, una ricchissima raccolta di lacche, tessuti, giade scolpite, strumenti musicali, porcellane, ecc. Vi sono stati aggiunti pezzi dispersi nelle altre collezioni veneziane.
Galleria internazionale d'arte moderna. - Fu fondata dal comune nel 1897 in occasione della prima Esposizione internazionale d'arte a Venezia, e da questa trae il suo incremento, così da rappresentare nel modo migliore in Italia l'arte contemporanea europea, specialmente straniera con in più una notevole sezione dell'Ottocento veneto. È ora nel seicentesco palazzo Pesaro, lasciato al comune dalla duchessa Felicita Bevilacqua La Masa.
Civico Museo Correr. - Sorse per il lascito del nobil uomo Teodoro Correr (morto nel 1830), che lasciò alla città le sue ricche collezioni d'arte e di storia. Venne aperto al pubblico nel 1836, ed ebbe per prima sede la casa stessa del Correr, sul Canal Grande, a San Giovanni Decollato. Arricchitosi successivamente, fu trasferito nell'attiguo Fondaco dei Turchi e, nel 1922, passò nelle Procuratie Nuove di S. Marco (Palazzo Reale). Ha lo scopo di raccogliere, conservare ed esporre al pubblico ricordi dell'arte e della vita di Venezia repubblica, nelle sue espressioni più caratteristiche. Accanto al nucleo primitivo delle collezioni Correr, si formò una biblioteca pubblica, prevalentemente di storia dell'arte o di storia veneziana, ricchissima; si aggiunsero collezioni di manoscritti varî (Cicogna, Donà dalle Rose, Morosini-Grimani, Gradenigo, ecc.), collezioni del Risorgimento; incisioni, disegni, ecc. Sono a stampa i cataloghi della collezione numismatica Papadopoli delle monete e medaglie, targhette, ecc. Parte del materiale già posseduto dal museo è passato ora a costituire il Museo vetrario di Murano e la mostra permanente del '700 veneziano nel palazzo Rezzonico, sul Canal Grande. Notevoli fra i dipinti il Foscari attribuibo a Gentile Bellini, le Pietà di G. Bellini, Antonello da Messina, Tura, le Cortigiane di Carpaccio.
Ca' Rezzonico. - Costruita per i Bon e finita per i Rezzonico da Baldassarre Longhena e da Giorgio Massari, decorata con soffitti di G.B. Tiepolo, Gio. Crosato e Giac. Guarana, fu proprietà nell'800 di Elizabeth Barrett e di Robert Browning, che vi abitarono e morirono. Dal 1936 è adibita a museo del '700 veneziano, come sezione del Museo Corner. È un seguito di sontuose sale e stanze in due piani, arredate deliziosamente e ornate di pregevoli dipinti e sculture. Notevoli il mobilio scolpito dal Brustolon, mobili dorati e laccati, tappezzerie, la farmacia di S. Stin, i costumi; e, fra le opere d'arte figurativa, l'Allegoria nuziale, l'Allegoria delle Virtù e il soffitto Donà dalle Rose di G. B. Tiepolo, il Ridotto e il Parlatorio del Guardi, la serie degli affreschi di G. D. Tiepolo per la villa di Zianigo, i disegni dei Tiepolo, di P. Longhi e del Guardi, ecc.
Museo vetrario di Murano. - Fu fondato nel 1861 dall'abate Vincenzo d'arte. Di recente fu provveduto al riordinamento della raccolta in 10 sale riaperte al pubblico nel 1932. Vanta il Libro d'oro dei vetrai e loro mariegole, e fra i vetri più celebri la coppa Barovier (sec. XV).
Galleria Querini Stampalia. - Fa parte della fondazione omonima (v. sopra). Riordinata di recente, offre l'aspetto di signorile appartamento della fine del '700 con i suoi stucchi, mobili, tappezzerie, arazzi, oggetti, e con la ricca collezione di quadri appartenuti nella quasi totalità alla famiglia Querini-Stampalia. Notevoli fra i dipinti l'Incoronazione della Vergine di Catarino e Donato (1372), La Circoncisione di Gio. Bellini, la Giuditta giorgionesca, tavolette dello Schiavone, due ritratti incompiuti di Palma il Vecchio, una Madonna di Lor. di Credi e una dello Strozzi, il Querini del Tiepolo, e il Dolfin di A. Longhi; una collezione di 35 quadretti di P. Longhi comprendente le serie dei Sacramenti e della Caccia in valle, la Caccia in Laguna, la Famiglia Sagredo, la Lezione di geografia, ecc.
Il Museo e la Galleria del Seminario. - Nel seminario vi è un'importante serie di sculture; le epigrafi veneziane, nonché una preziosa collezione di dipinti raccolti in gran parte da Federico Manfredini a Firenze.
Vi notiamo l'Adorazione dei Magi, già alla Salute, di scultore romanico antelamico, sculture di Tullio Lombardo, del Bernini, busti del Vittoria, dipinti di Filippino Lippi, l'Apollo e Dafne dello Schiavone.
Esposizione internazionale d'arte della città di Venezia. - Ora chiamata semplicemente "La Biennale", è sorta nel 1895, per iniziativa di Riccardo Selvatico, coadiuvato da un gruppo di artisti e da Antonio Fradeletto, che ne fu il primo segretario generale, cui succedettero Vittorio Pica e Antonio Maraini. Dal 1895 al 1936 venti furono le esposizioni delle arti figurative aperte nella sede dei Giardini Pubblici, e vi si rivelarono e affermarono i migliori artisti viventi e si rievocarono e celebrarono i più illustri maestri scomparsi. Resta ad attestarlo la ricca raccolta dei Cataloghi in varie edizioni. Fino aI 1929 l'Esposizione rimase opera e merito del comune di Venezia. Quindi fu trasformata con r. decr. in ente autonomo. Ne è primo presidente il conte Giuseppe Volpi di Misurata. Da allora la Biennale estese il suo campo d'azione anche alle altre arti, cioè la poesia, la musica, il teatro, il cinematografo, organizzando per ognuna di esse, speciali manifestazioni.
Annesso alla Biennale è l'Archivio storico d'arte contemporanea, con lo scopo di raccogliere, coordinare e mettere a utilità degli studiosi tutto quanto in fatto di documentazione autografa, bibliografica e fotografica, si riferisca all'arte e agli artisti dei seccoli XIX e XX. Esso funziona in questo campo anche come ufficio d' infomazioni e di ricerche, e pubblica un bollettino, Le mostre d'arte in Italia.
Museo civico di storia naturale. - Fondato nel 1923 con le collezioni di proprietà comunale e con quelle del R. Istituto veneto, ha principalmente funzione di archivio documentario regionale (materiale adriatico e lagunare). Ha importanti collezioni ittiologiche, ornitologiche, conchiliologiche, anatomiche, etnografiche, ecc., e un'ottima biblioteca, con manoscritti e carteggi scientifici. Notevole la raccolta nilotica di Gio. Miani.
Museo storico navale. - Fondato nel 1923, ha sede nell'Arsenale e dipende dal Ministero della marina. I cimelî in esso raccolti, oltre a un gruppo di memorie navali della repubblica, si riferiscono alla storia delle varie marine regionali e a quello della marina italiana fino alla guerra mondiale compresa, con cimelî della marina austriaca, già nell'arsenale di Pola.
Istituti di cultura. - Reale Istituto Veneto di scienze, lettere ed arti. - Trae la sua prima origine dalla fondazione di un Istituto Nazionale, che nella costituzione data da Napoleone alla Repubblica Italiana nel 1802, sotto il Regno Italico fino al 1814 ebbe sede in Bologna; poi, sotto la dominazione austriaca, in Milano con sezioni a Venezia, Padova e Verona; infine (1838) Ferdinando I decretò due soli corpi accademici, a Venezia e a Milano. La prima adunanza dell'Istituto Veneto ebbe luogo il 1° marzo 1840. L'istituto, che consta di 40 membri effettivi, pubblica nelle serie delle Memorie e degli Atti lavori scientifici e letterarî; promuove studî e ricerche, bandisce concorsi a premio. Si occupò per primo, fra gl'istituti di cultura, del problema del Canale di Suez; si è fatto promotore di studî e ricerche sulla regione veneta e sulla storia della repubblica e s'è occupato dell'esplorazione archeologica e artistica dell'Isola di Creta, del rilevamento del tracciato delle vie romane nelle Tre Venezie, del problema lagunare. Ha una ricca biblioteca, con circa 3000 pubblicazioni periodiche e accademiche.
Ateneo veneto. - Creato con decreto del Regio Italico nel 1810, fondendovisi le vecchie accademie e società cittadine, ha per scopo di cooperare al progresso e alla divulgazione delle scienze, delle lettere e delle arti. Tiene riunioni culturali dei suoi soci; pubblica, dall'origine, una propria rivista, ha un corso di storia veneziana, ha istituito premî, possiede una biblioteca culturale e una circolante. Ha sede nell'ex-Scuola di S. Maria della Giustizia.
R. Deputazione di storia patria per le Venezie. - Costituita nel 1874, dirige, da allora, l'Archivio veneto, che già si pubblicava dal 1871 per cura di Adolfo Bartoli e R. Fulin; cura la pubblicazione dei Monumenti e della Miscellanea; ha sussidiato opere storiche, come la importantissima edizione dei Diarii del Sanudo. Dal 1921 è venuta estendendo la sua giurisdizione alla Venezia Giulia, a Zara e alla Venezia Tridentina.
Osservatorio geofisico del Seminario Patriarcale. - Fondato nel 1817, iniziò dal 1836 le regolari osservazioni meteorologiche e dal 1905 quelle sismiche, pubblicandone i risultati in un Annuario (1883-1903) e in un Bollettino mensile inserito negli Atti dell'Istituto Veneto.
R. Magistrato alle acque. - Per la legge 5 maggio 1907, riprendendo le funzioni dell'antica magistratura della repubblica, ha il compito di provvedere al governo delle acque pubbliche del Veneto, e ora delle Tre Venezie; vi adempie anche attendendo, mediante un suo ufficio idrografico, alla raccolta delle osservazioni idrografiche e meteorologiche e allo studio dei corsi d'acqua, della Laguna e del mare di Venezia: osservazioni e studî raccolti ed elaborati in Bollettini, Annali e in una serie di pubblicazioni di tali materie; tra cui le carte della Laguna e una raccolta di antichi scrittori d'idraulica veneta. Possiede un'importante biblioteca.
Istituto di studî adriatici. - Filiazione del Consiglio nazionale delle ricerche (1933), ha compiti soprattutto culturali e bibliografici per l'illustrazione dell'Adriatico sotto ogni aspetto. Ospita l'Osservatorio Vallivo del R. Comitato Talassografico: ed accoglierà l'acquario che sorge sotto gli auspici del Ministero dell'agricoltura.
Fra gli altri istituti di cultura sono da menzionare la Società medicochirurgica veneziana (1932), continuazione ideale della Veneta società di medicina sorta nel 1785, e fusa dopo varie vicende nel 1810 con l'Ateneo; l'opera Bevilacqua La Masa, fondata per soccorrere gli artisti giovani e poveri, e per mettere in rilievo i pittori nuovi mediante mostre annuali; l'Istituto veneto per il lavoro (1919), che promuove la produzione artigiana, la Scuola merletti di Burano (1872), il Circolo filologico (1900), l'Istituto fascista di cultura.
Fra gl'istituti si ricordano l'Istituto Cavanis delle scuole di Carità, fondato nel 1802 da Marcantonio Cavanis e da suo fratello Anton Angelo per la gratuita educazione cristiana della gioventù; il seminario patriarcale che, istituito nel 1579, ha sede dal 1817 in un edificio presso la Basilica della Salute, e possiede, oltre all'osservatorio geofisico, museo archeologico e pinacoteca, già accennati, una pregiata biblioteca di 8000 volumi; e la Congregazione armena dei padri mechitaristi di Venezia.
Fra gl'istituti stranieri sono da ricordare la Casa Romena "Nicola Jorga" fondata nel 1929 dall'Istituto di studî sud-est Europa di Bucarest, per compiere ricerche di storia romena negli archivî veneziani, agevolare gli artisti romeni nei loro studî di perfezionamento e favorire i rapporti tra le due nazioni; e l'Associazione culturale italo-polacca (1935).
Bibl.: Per la Biblioteca Querini-Stampalia: Accademie e biblioteche d'Italia, 1930, n. 5; E. Michel, in Rassegna storica del Risorgimento, 1935. Per l'Archivio di stato: Manuale storico-archivistico (a cura del Ministero dell'interno), Roma 1910, pp. 79-93; A. Da Mosto, L'Archivio di stato di Venezia, Indice generale, Roma; Annales Institutorum, ecc. (di prossima pubblicazione). Per gl'istituti d'istruzione: Annuario della R. Scuola superiore di commercio, 1918-19; D. Giordano, L'ospedale civile di Venezia, Genova 1926; T. Ortolani, Notizie storiche sull'Istituto, in Annuario del R. Liceo-Ginnasio M. Polo, 1923-1925. - Per le gallerie, musei, v. G. Fogolari, Le gallerie di Venezia, Milano s. a.; G. Valentinelli, Catalogo dei marmi scolpiti del Museo archeologico, Prato 1866; H. Dütschke, Antike Bildwerke in Oberitalien, V, Lipsia 1882, p. 28 segg.; G. Pellegrini, Descrizione della sezione classica del R. Museo archeologico di Venezia, 1911; Arndt-Amelung, Photographische Eizenlaufnahmen antiker Skulpturen, IX, Monaco 1920, nn. 2411-2646; C. Anti, Il r. museo archeologico nel Palazzo Reale di Venezia, Roma 1930; A. Dall'Acqua Giusti, L'Accademia e la Galleria di Venezia, Venezia 1873; G. Fogolari, L'Accademia veneziana di pittura e scoltura del Settecento, in L'Arte, 1913; N. Barbantini, La Galleria internazionale d'arte moderna a Venezia, Milano s. a.; G. Fogolari e U. Nebbia, La Ca' d'Oro, in Le Tre Venezie, 1927 e catalogo; G. Lorenzetti, Ca' Rezzonico, Venezia 1936; Pinacoteca Querini-Stampalia, catalogo, ivi 1925; A. Stella, Cronistoria della Esposizione internazionale d'arte di Venezia, 1895-1912, ivi s. a.; A. Lancelotti, Le biennali dell'anteguerra, Alessandria 1926; id., Le biennali del dopo guerra, Roma 1930; "La biennale di Venezia" (Storia e statistiche), Venezia 1933. - Per gl'istituti di cultura: La pref. all'Indice generale degli Atti dell'Istituto veneto, s. 8ª, I (Venezia 1896), p. iª degli Atti stessi; G. Pavanello, L'Ateneo veneto nel suo primo centenario, ivi 1912; V. Piva, L'osservatorio geofisico del Seminario patriarcale, ivi 1924.
Vita teatrale.
Soltanto sulla fine del sec. XVI, dopo Parigi, Londra, Madrid, sorse a Venezia un vero teatro in un edificio stabile per la commedia, nella corte detta Michiela, a S. Cassiano. Ben poco sappiamo di quello di legno costruito nel 1565 dal Palladio nell'atrio del monastero della Carità, per la compagnia degli Accesi, e d'uno a cui alludono documenti del 1580. Tuttavia fino dal 1508 il comico Cherea, cioè il lucchese Francesco de Nobili, e più tardi, sul '20, il padovano Ruzzante (Angelo Beolco) col fedele Menato, e ancora il buffone Zuan Polo col figlio Cimador, e quindi il Calmo e Antonio da Molino, detto Burchiella, recitavano commedie classiche e commedie "alla villanesca" e farse popolaresche nel noto convento dei Crociferi e nelle sale dei palazzi, a Venezia, a Murano, alla Giudecca.
Scherzi, buffonerie, mascherate si usavano da tempo nelle recite dei mariazzi e nelle momarie che seguivano ai banchetti nuziali; e forse in qualche momaria (forse d'origine greca, o francese, o propriamente veneziana) comparve per la prima volta la maschera del Vecchio o del Magnifico, che si chiamò poi Pantalone.
La più antica compagnia stabile d'istrioni, di cui si abbia notizia in Italia, si sa che si formò nel 1545 a Padova. Il governo veneziano avversò sempre i comici per lo loro sfrenata licenza, ma non poté impedire che il popolo si appassionasse sempre più agli spettacoli e che i teatri si moltiplicassero nel sec. XVII in ogni angolo della città: a S. Cassiano, dove per merito della famiglia Tron sorse un secondo teatro che fu detto Nuovo, a S. Salvatore (o S. Luca: famiglia Vendramin), a Sant, Angelo, a S. Moisè (Giustinian), ai Ss. Giovanni e Paolo (1638: Grimani), ai Ss. Apostoli (1649), a S. Samuele (1655: Grimani), a S. Giovanni Grisostomo (1678: Grimani) e altrove, fino al numero di 18: tutti nella caratteristica forma a ferro di cavallo, con più ordini di palchetti, così tipicamente veneziani. Durante una sola stagione se ne contarono aperti 8 a un tempo.
Nel carnevale del 1637 nel Teatro Nuovo, a S. Cassiano, si rappresentò con magnificenza di macchine e di scene l'Andromeda del Ferrari musicata dal Manelli. È questa una data memorabile, poiché Venezia offriva al mondo il primo esempio d'un teatro pubblico per l'"opera in musica", recente creazione del genio artistico italiano. I teatri musicali formarono un vanto della repubblica di S. Marco: quello di S. Giovanni Grisostomo coi suoi 162 palchetti intagliati e dorati, per ampiezza, per armonia, per bellezza di decorazioni, per ricchezza di scenarî, per fama di cantanti, per numero di rappresentazioni, mantenne per più di 60 anni il primato in Europa. Centocinquantaquattro palchi si contavano in quello dei Ss. Giovanni e Paolo, pure illustre, dove fino al 1680 trionfarono le musiche del Monteverdi, del Cavalli, dello Ziani; 150 in quello di S. Luca, caro al Legrenzi; 136 in quello di Sant'Angelo; 115 in quello, grazioso ma piccolo, di S. Moisè, che udì per primo l'Arianna del Monteverdi. A Venezia convenivano a gara i più eccellenti soprani, le virtuose più note, i comici più famosi d'Italia, per tutto il Seicento vi si ammirò una lunga schiera di maestri compositori; in sei decennî, vi si eseguirono più di 350 opere, mentre nei teatri popolari trionfava la commedia dell'arte.
Durante il sec. XVIII mutava il numero dei teatri e dei palchi. Su tutti continuava a dominare il S. Giovanni Grisostomo con le musiche del Pollarolo e del Lotti, mentre a Sant'Angelo si udivano le note del Vivaldi e, intorno al '30, quelle del Galuppi. Tuttavia l'opera seria decadeva, mentre aumentavano senza fine le pretese dei cantanti. Fin dal 1747 il glorioso teatro di S. Giovanni Grisostomo dovette accogliere una compagnia d'istrioni e per le opere in musica vide sorgere un altro teatro a S. Benedetto (1755). Ormai da tempo la vivace e feconda scuola napoletana aveva strappato a Venezia il primato musicale. Invano nel 1792, cinque anni prima della caduta della repubblica, si inaugurò a S. Fantino la Fenice, costruita dall'architetto Antonio Selva, perché gareggiasse coi nuovi grandi teatri di Napoli, Bologna, Milano.
Il S. Luca e il S. Samuele, in principio del secolo, rivaleggiavano nella commedia; ma le vecchie maschere e i vecchi e frusti scenarî cadevano sempre più nella monotonia e nella volgarità. Nel 1748 Girolamo Medebach costituì una nuova compagnia a Sant'Angelo per la riforma del teatro comico. Fra il 1748 e il 1762 Carlo Goldoni, prima a Sant'Angelo, poi a S. Luca, donò all'Italia le sue numerose opere. Sotto l'azione del Goldoni, Baldassare Galuppi, il Buranello, fu spinto a comporre le "opere giocose" che sparse oltralpi, per tutta l'Europa. E Antonio Sacchi il più grande attore del Settecento veneziano, recitando fra il 1761 e il 1765 col D'Arbes e col Fiorilli le Fiabe di Carlo Gozzi, fece rivivere d'un ultimo bagliore l'antico teatro dell'arte. Così finiva l'età gloriosa delle scene veneziane.
I teatri di Venezia, benché sottoposti all'autorità del Consiglio dei Dieci, appartenevano alle famiglie patrizie che li cedevano spesso a qualche impresario. Il governo s'accontentava di sorvegliarli per mezzo di confidenti, e reprimeva con severità ogni disordine. Di gran lunga più eleganti quelli d'opera per i quali il biglietto d'ingresso, fin da principio, fu di 4 lire venete (pari a L. 2 d'oro); ma per gli spettacoli minori il prezzo era della metà, e per la commedia d'un quarto, compreso il posto in platea. A quest'ultima, grata al popolino, di rado interveniva la nobiltà, prima della riforma goldoniana. I teatri di commedia si aprivano di solito nella prima settimana d'ottobre, quelli d'opera sulla metà di novembre: tutti si sospendevano durante la novena di Natale, per riaprirsi più solennemente la sera di Santo Stefano, fino alla Quaresima. Dopo la Pasqua, le compagnie comiche si spargevano nella cosiddetta terraferma, spingendosi talora a Genova e a Livorno. Durante la fiera dell'Ascensione (la Sensa) per 15 giorni si aprivano di nuovo i teatri d'opera, seria o buffa. A chi entrava in teatro, specialmente ai patrizî, era prescritto l'abito in maschera, ma nei palchi si calava dal viso il bauttino. Per la scarsa illuminazione la sala rimaneva immersa nella penombra, tolte certe solennità; nel sec. XVII non si accendevano che pochi lumi a olio sul proscenio, ma nel sec. XVIII molti palchi, adorni di specchi, si rischiaravano con candele. In platea vi erano scanni a pagamento.
Nel sec. XIX, spopolatasi e impoveritasi la Serenissima nella servitù straniera, scomparve ogni splendore dei teatri veneziani. Quelli di S. Cassiano e dei Ss. Giovanni e Paolo più non esistevano: il Sant'Angelo, in vista del Canal Grande, fu ridotto a magazzino e abbattuto; sull'area del S. Samuele sorse una scuola, a S. Moisè (Minerva) danzarono le marionette. L'ampio S. Giovanni Grisostomo s'intitolò Malibran, dal nome della celebre cantante, e, rifatto, servì per gli spettacoli popolari. Il S. Benedetto si chiamò Rossini. Quello di S. Luca, più fortunato, che vide i primi trionfi dei Rusteghi e delle Barufle chiozzotte, assunse il nome di Goldoni.
Tuttavia per lungo tempo durarono gli antichi ricordi. A Venezia il Vestri ricevette i primi applausi, a Venezia nacque e recitò Gustavo Modena. Un altro veneziano, Francesco Augusto Bon, scrittore e attore, teneva fede alla tradizione goldoniana. Così Luigi Duse, chioggiotto, nonno di Eleonora. Così, fra l'Otto e il Novecento Ferruccio Benini, il mirabile interprete di Giacinto Gallina, e il popolarissimo Emilio Zago, ultimo glorioso figlio del teatro veneziano.
Bibl.: Nella ricchissima bibliografia dei teatri veneziani scegliamo le opere più importanti: C. Ivanovich, Minerva al tavolino. Lettere con memorie teatrali di Venezia (1637-1687), Venezia 1688; [G. C. Bonlini], Le glorie della poesia e della musica contenute nell'esatta notitia de' teatri di Venetia ecc., in Venetia, s. a. [1731]; A. Groppo, Notizia generale de' teatri della Città di Venezia scritta l'anno 1776, Venezia 1766; [R. Arrigoni], Notizie ed osservazioni intorno all'origine ed al progresso dei teatri e delle rappresentazioni in Venezia, ecc., opus. per nozze, ivi 1840; Lianovosani [G. Salvioli], La Fenice, gran teatro di Venezia. Serie degli spettacoli dalla primavera 1792 a tutto il carnevale 1876, Milano 1878; L. Niso Galvani [G. Salvioli], I teatri musicali di Venezia nel secolo XVII (1637-1700), ivi 1878; T. Wiel, prefazione a I teatri musicali veneziani del Settecento. Catalogo delle opere in musica rappresentate nel sec. XVIII in Venezia (1701-1800), Venezia 1897; P. Faustini, Memorie storiche ed artistiche sul teatro "La Fenice", ivi 1902; P. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, II e III, Bergamo 1907 segg.; G. Orlandini, Origine del teatro Malibran, la casa dei Polo e la Corte del Milion, Venezia 1913; G. Pavan, Teatri musicali veneziani. Il teatro San Benedetto (ora Rossini), Catalogo cronologico degli spettacoli (1755-1900), con prefaz. di C. Musatti, ivi 1917; M. Nani Mocenigo, Il teatro "La Fenice". Note storiche e artistiche, ivi 1926.
Vita musicale.
L'importanza del centro musicale veneziano è stata riconosciuta grandissima - quali che fossero le vicende contingenti - da tutte le generazioni di artisti che si son succedute in ogni paese dal sec. XV al XIX. Non soltanto, infatti, Venezia ha in quei secoli accolto e compreso il fervore di ogni movimento musicale che si sia dato nella pratica europea, costituendone un centro d'assorbimento quale altre grandi città musicali (Roma, Firenze, Parigi, Monaco, Vienna, ecc.) non furono se non in dati periodi, ma - di più - essa ha impresso a quel fervore di vita (almeno fino a tutto il sec. XVIII) un potente impulso, per proprie tendenze estetiche, nettamente riconoscibile di momento in momento. E questo impulso si è concretato nell'arte di quella grande scuola musicale che appunto si dice "veneziana" e che comprende nel suo svolgimento due espressioni capitali: la polifonia vocale e strumentale della cappella di S. Marco (massima fioritura nella seconda metà del sec. XVI) e l'opera teatrale del sec. XVII, oltre a espressioni di gran valore anch'esse (le correnti puramente strumentali dall'organistica all'orchestrale: sec. XVI-XVIII, la musica chiesastica concertante del tardo sec. XVII e del XVIII, l'opera comica del sec. XVIII, ecc.) benché non strettamente isolabili in Venezia.
In tutto questo corso di tempo, dal 1400, specialmente, alle soste del 1800, musicisti d'ogni paese si dànno convegno a Venezia, chiamati o no alla cappella di S. Marco o di altre chiese (120 già all'inizio del sec. XVI), o al servizio della città - come avveniva specialmente ai sonatori di strumenti - e di Venezia assumono, insieme con gl'impegni, anche i tipici usi artistici. Quando ritornano ai loro paesi, nell'opera loro essi trasportano l'insegnamento di Venezia. Il centro di assorbimento diviene centro d'irradiazione, che soprattutto per i paesi germanici e slavi assume, dal tardo sec. XVI al tardo XVII, un valore storico cardinale.
A questa importanza musicale di Venezia giovavano, pur senza poterla spiegare totalmente, come è ovvio, le stesse condizioni storiche che giovavano al veneziano prestigio pittorico, architettonico, artistico in generale. La situazione geografica e i relativi svolgimenti economici e politici, che stringevano il rapporto di Venezia con il Levante e con l'Europa centro-orientale, possono essere poi presi in considerazione per ciò che concerne direttamente i fondamenti interni della vita musicale veneziana.
Le prime manifestazioni di questa vita sono infatti legate a quelle levantine, e gli usi, le pratiche sono comuni: si pensi, tra l'altro, alle comuni tendenze antifoniche del canto liturgico, al comune amore per il sostegno organistico (per il sostegno non solo ma anche, più, per l'effetto, per la magnificenza fonica). Gli organi sono vanto dei Veneti già nel sec. VI; nell'VIII Venezia è già in grado di fornire organari e organisti. E le testimonianze di questo amore alle pompose sonorità organistiche e strumentali in genere non si faranno che più frequenti da allora in poi, anche quando Roma o le Fiandre passano attraverso periodi antistrumentali. La Serenissima chiama strumentisti in gran copia e li unisce ai cantori o anche li fa suonare per loro conto. Alla fine del sec. XV le città vicine chiedono già a Venezia i suonatori di cui hanno volta per volta bisogno. Le famiglie patrizie, le case borghesi anch'esse non sanno rinunziare al piacere della musica, della strumentale non meno che della vocale. Intorno ai musici di professione si raccolgono amatori e dilettanti. Tra, quegli artisti si vedevano, tra l'ultimo sec. XV e il primo XVI, Matteo dall'Aquila, liutista, che nel 1505 pubblica un trattato d'intavolatura, lo Spinaccini, F. Bellamano, Franciscus Bossinensis (il Bosniaco), i liutisti e cantori al liuto, autori di Frottole, F. D'Ana, Marchetto Cara, M. Pesenti, Pellegrino Cesena, B. Tromboncino, Marchetto Mantovano, P. Aron, il celebre teorico, che a Venezia nel 1523 pubblica il suo Toscanello, Fr. da Lucca, Alvise Arciero, il Bilanzario, i francesi Pierre De Fossis e Jean Mouton (il maestro di A. Willaert).
In questo ambiente musicale, durante il sec. XV si veniva svolgendo, come nuova forma della precedente Ars nova (che a Padova ha con Marchetto, una fioritura importante), la vita d'una musica popolaresca per il tono, artistica per lo spirito e per le raffinate forme onde il popolo era visto e cantato, che era la Frottola. Questa breve composizione a leggiera polifonia d'indole spiccatamente melodica e animata da fresco slancio ritmico è, in fondo, una figura di Madrigale. Comunque, del Madrigale offre le artistiche premesse, dandone già gli spiriti di lirica vaghezza, di fremente sensuosità (tipica del Rinascimento) in scritture scevre da ogni pesantezza scolastica. Mentre questa corrente si avvia nella più vasta e complessa vicenda del Madrigale d'arte cinquecentesco, Venezia lavora anche e soprattutto nella Cappella di S. Marco. I musicisti, già s'è visto, sono gli stessi. La cappella di S. Marco, fino agli ultimi del sec. XV, è affidata un po' alla pratica dei migliori musici, a seconda delle evenienze, ma senza una vera e propria organizzazione. Con il 1491, a tale organizzazione si giunge: ne è un primo segno la nomina d'un "maestro di cappella" nella persona del De Fossis già dianzi citato. La cantoria ha d'ora in poi una salda costituzione, che le consente di disporre d'un organico sicuro, di una massa addestrata e secondo criterî unici, cui sempre nuovi elementi fornisce la "Schola puerorum". A questa cantoria s'affiancano gli organi, che a S. Marco rispondono a funzioni molto caratteristiche data l'importanza assegnata dai Veneziani all'effetto vocale-strumentale.
Con il nuovo maestro di cappella, Adrian Willaert, successo al De Fossis nel 1527, s'inizia, secondo gli storici tradizionali, la scuola veneziana. S'è visto, però, come l'arte musicale, anche se si prescinda dalla pratica per restringersi alla composizione, non fosse stata assente da Venezia neppure prima del 1527. Tutta la produzione frottolistica veneziana basterebbe da sola a dimostrarlo. Comunque, sta di fatto che, verso il mezzo Cinquecento, e cioè nel periodo willaertiano, la produzione specificamente "d'arte" si va intensificando e si vanno accentuando i caratteri distintivi d'una data scuola. Gl'ingegni che contribuiscono a questo rigoglio non sono tutti veneziani, e neanche tutti italiani: basterà citare - tra gli allievi del Willaert - un Cyprien de Rore. Ma - come s'accennava in principio - non soltanto questi ma anche lo stesso Willaert, tutti, chi più chi meno, subiscono l'influenza dell'ambiente: la frottola, il madrigale prewillaertiano infiltrano i loro spiriti - tra l'altro l'esigenza della chiara trasparenza polivocale - nelle musiche di questi ex-fiamminghi; il gioioso splendore di S. Marco e della Serenissima li esorta alla policromia vocale-strumentale; un nuovo slancio ritmico viene ad animare il loro discorso. Certo, però, non al Willaert né agli altri stranieri era riserbata la massima ascesa (che coincideva con la più acuta purificazione) dello stile cui si doveva dare il nome di "veneziano". Il cromatismo, la "spezzatura" dei cori (cioè l'antifonia tra una metà e l'altra della massa corale, ognuna appoggiata ad uno dei due organi "grandi"), saranno portati al loro finale scopo dai Veneziani: dai due Gabrieli, Andrea e Giovanni, i quali inoltre risolveranno finalmente, insieme con M. A. Cavazzoni, le sorti della musica strumentale, liberandole esplicitamente da quelle della vocale. Questo periodo willaertiano coincide del resto con il ritomo della Serenissima a quella prosperità che le guerre avevano interrotto e, per qualche tempo, allontanato. Il Cinquecento veneziano s'avvia al suo più opulento trionfo. Sono in questi tempi a S. Marco, per tacere delle altre cappelle (le quali a S. Marco offrono naturalmente le loro migliori energie), musicisti di fama europea, e dal Willaert in poi tale fulgore non farà che aumentare. La direzione della cappella passa successivamente da A. Willaert a C. de Rore (1563-64), G. Zarlino (1565-90), Donato (1590-1603), G. Croce (1603-9), G. C. Martinengo (1609-13) e finalmente a Claudio Monteverdi (1613-43). Tra i quali saranno notati specialmente i nomi dello Zarlino, il maggiore teorico del suo tempo e probabilmente di tutti i tempi, cui la scuola veneziana deve molto del suo consolidamento, del Croce, e - come si vedrà - del Monteverdi. C. de Rore non segnava orme profonde nella storia della Marciana, per la brevità della sua permanenza nella carica di maestro. Tra gli organisti di S. Marco, Annibale Padovano e Claudio Merulo ci ricordano la conquista definitiva della tastiera organistica, ormai aperta ad ogni ricerca espressiva e perfino al virtuosismo; Andrea Gabrieli, l'approfondimento delle nuove forme componistiche dedicate all'organo (canzone, ricercare, intonazione, ecc.) e - con il nipote Giomimi - il massimo sviluppo della polifonia vocale-strumentale. Così, alla fine del sec. XVI Venezia si trova in grado di rappresentare un centro d'irradiazione di importanza capitale. Alla sua scuola, impersonata specialmente nei due Gabrieli e poi nel Monteverdi, vengono musicisti d'ogni paese, tra i quali basterà ricordare H. L. Hasler, G. Grüber, L. Zacconi (il celebre teorico) e H. Schütz: "il padre della musica tedesca", che guarderà a Venezia come all'ideale patria di tutti i musicisti. Con il 1600 si può dire che i primi compiti storici della scuola veneziana - il coronamento del madrigale e della polifonia vocale-strumentale rigorosa e la definitiva conquista dei mezzi espressivi puramente strumentali - siano ormai assolti. A questo punto, Claudio Monteverdi riesce a trasferire gli stilemi di quella polifonia nell'edificio nuovo cui egli sta lavorando: a quello dello stile concertante che si svilupperà poi - in forme diverse - fino a J. S. Bach, e in cui egli intanto scopre il modo di rendere veramente musicale il nuovo "stile rappresentativo" che gli offrono i Fiorentini di casa Bardi. Vicino al Madrigale, ormai libero da ogni vincolo meramente contrappuntistico e avviato a un dialogo intensamente "drammatico" (tanto da ammettere l'esecuzione in forme teatrali), sorge il dramma musicale moderno: l'opera.
Così, per merito del Monteverdi e della scuola da lui fondata, Venezia si afferma nel nuovo genere musicale subito dopo i Fiorentini, conferendo ad esso - come già agli altri generi fino allora praticati - tutte le caratteristiche del suo proprio spirito. L'opera diviene, a Venezia, componimento largamente disegnato e colorito a mo' d'affresco. Al "recitar cantando" dei Fiorentini si alternano le salienze liriche dell'Arioso e - assai presto - dell'Aria. Il coro, che cade in ombra, è sostituito, nelle sue funzioni di volume e di colore, dall'orchestra, che si va non solo sviluppando ma anche raffinando come solo a Venezia era possibile. Il quadro generale dello spettacolo si amplia e si fa più complesso: accoglie scene di carattere contrastante, figure comiche insieme con figure eroiche, cerca di rispecchiare nel suo insieme il fervido movimento della vita moderna, e del resto passa ben presto dagli argomenti mitologici (cui i Fiorentini s'eran tenuti) agli argomenti storici, tratti dall'antichità classica e dalle civiltà orientali, avviandosi perfino ai cavallereschi. Una siffatta rappresentazione musicale si volgeva naturalmente (come quel dramma shakespeariano che tanto è ricordato da certe opere veneziane) a un ambiente parimenti vivo e complesso: quello che solo l'intera città poteva dare, con il suo popolo misto al suo patriziato e alla sua borghesia. Il teatro si apre dunque, per la prima volta, al pubblico. Le altre città seguiranno l'esempio veneziano non senza lungo indugio. A Venezia si comincia nel 1637, anno in cui s'inaugura il primo teatro pubblico: quello di S. Cassiano con l'Andromeda di F. Manelli da Tivoli su libretto di B. Ferrari. I teatri aperti dopo il S. Cassiano furono, in ordine di tempo, i seguenti: nel 1639, quello dei Ss. Giovanni e Paolo (opera d'inaugurazione: Delia, di P. Sacrati su libretto di G. Strozzi), e quello di S. Moisè (Arianna, di C. Monteverdi); 1641, il "Novissimo" (La finta pazza, di F. Sacrati); 1649 (Orontea, di M.A. Cesti); 1651, "S. Apollinare" (Oristeo, di P. F. Cavalli); 1661, "S. Salvatore" (Pasifae, del p. Castrovillari); 1670, "Ai Saloni" (Adelaide, di G. Riva); 1677, "S. Angelo" (Elena rapita da Paride, di D. Freschi); 1678, "S. Giovanni Crisostomo" (Vespasiano, di F. Pollarolo); 1679, "Canal Regio" (Ermelinda, di C. Saion) e "Alle Zattere" (Leandro, di F. A Pistochini); 1690, "Aliteri" (Gli amori fortunati negli equivoci, di diversi autori); 1698 "Santa Marina" (Il finto Esaù, di A. Pacelli); 1699, "S. Fantino" (Paolo Emilio, di P. P. Pignata); 1700, "Privato di S. Moisè" (Il vanto d'Amore, del Pignata). Di opere, questi varî teatri di Venezia ne allestiscono, nel solo sec. XVII (e cioè nel primo secolo di esistenza dell'opera) 356, di 72 compositori certi e di pochi altri rimasti sconosciuti. I nomi più illustri che ricorrono nella lista dei compositori sono: C. Monteverdi, P. F. Cavalli, M. A. Cesti, i quali, insieme con molti altri (P. A. e M. A. Ziani, A. Pollarolo, G. Rovetta, ecc.), costituiscono la gloria della scuola operistica veneziana del 1600, cioè di quella scuola che diede l'avvio e poi il massimo trionfo al teatro musicale barocco in Italia e fuori.
Se ne sono accennati, più sopra, i caratteri musicali e drammatici più costanti e distintivi. Ma l'opera barocca, nel suo tempo, significava un complesso artistico anche più vasto, implicando tutta una afflorescenza di arti teatrali, dall'interpretazione musicale e drammatica alla scenografia e a quel che oggi si direbbe "regia". Efflorescenza che, così ricca e proporzionata nel tempo stesso allo stile dell'opera, raramente si è poi data. E grandissima fu la diffusione dell'opera veneziana in Italia e fuori: in Austria, in Boemia, in molti paesi germanici l'opera è soltanto la veneziana, e da maestri veneziani o di veneziana scuola è diretta; come anche all'inscenatura badano scenografi e artisti della stessa provenienza. A Parigi, la prima opera rappresentata è di F. Sacrati, e poi, quando già spunta l'astro di G. B. Lulli, ancora si subisce - pure a dispetto della gente di teatro - la schiacciante autorità del nome di P. F. Cavalli. Nei paesi austriaci tedeschi, boemi, è particolarmente sentita, oltre quella del Cavalli, l'azione di M. A. Cesti e quella di A. Caldara.
Durante questo rigoglio di vita operistica, Venezia non lascia certo decadere le sue tradizioni chiesastiche né quelle correnti strumentali alla cui emersione essa aveva tanto contribuito: come sempre, la scuola di S. Marco è all'avanguardia in fatto di stilistiche musicali: essa va concretando, dal Monteverdi al Legrenzi, al Lotti, allo stesso Caldara, una sua altissima fioritura di musica sacra e religiosa vocale-strumentale in scrittura tipicamente "concertante"; fioritura, che dalle altre cui s'assiste nel barocco in altri paesi, si distingue per una costante tendenza alla purezza e alla trasparenza della scrittura, avversa alle iperboliche sovrapposizionì polifoniche ormai praticate a Roma e in Francia. In fatto di musica strumentale, Venezia continua - come s'è detto - a sviluppare gli elementi ch'essa medesima aveva proposti o comunque accolti agli albori della strumentalità pura: con il Legrenzi, con il Caldara, anche gli operisti collaborano a questi sviluppi, i quali si avviano al trionfo italiano dello stile concertante che recherà il nome di A. Vivaldi. E nell'organistica, lo stesso non veneziano G. Frescobaldi esprimeva, nel primo Seicento, sensi cui non erano estranee le premesse veneziane dei Padovano, dei Merulo, dei Luzzaschi.
Nel sec. XVIII, l'affermarsi di altre grandi scuole italiane, e - in generale - l'evoluzione assai rapida che si compie in sempre più vaste zone musicali d'Europa, rendono la posizione della scuola veneziana, specialmente dell'operistica, meno importante che non fosse stata la seicentesca. L'opera veneziana viene a subire l'influenza della napoletana, e si attua tra le due scuole una sorta di fusione, la quale non sarà però sufficiente a oscurare i caratteri tipicamente veneziani nel genere dell'opera comica. Mentre, però, nel Seicento lo stile veneziano, ancora puro, esercitava una assoluta autorità su qualunque maestro che a Venezia s'accostasse o per essa lavorasse, ora invece è Venezia che si trova ad accogliere e gradire il frutto stilistico di altre scuole. Così il suo teatro è alimentato d'ora in poi da sempre maggior numero di compositori non veneziani, pur conservando anche per essi un'importanza capitale come centro di attrazione. Venezia ha la sua opera seria veneto-napoletana, ha la sua singolare opera comica; per il resto si limita a consacrare la gloria dei maestri napoletani, toscani, tedeschi: accanto a B. Galuppi, l'esponente dell'opera comica veneziana, tutti i compositori che nel Settecento ebbero qualche rinomanza furono conosciuti a Venezia, per loro personale attività in quei teatri o per la rappresentazione di loro opere.
A tale intensità di pratica teatrale non mancano certo i varî elementi atti a sostenerla ed affinarla: Venezia, che era già un centro d'attrazione e di irradiazione dei grandi virtuosi d'istrumenti, lo è ora anche per quelli di canto. Ai suoi conservatorî (Ospedali, come eran chiamati per le loro attribuzioni benefiche), e cioè a quelli "della Pietà", "dei Mendicanti", "degli Incurabili", all'"Ospedaletto", possono tener testa soltanto i consimili istituti di Napoli e l'opera dei grandi maestri di canto bolognesi. La passione per il teatro di musica è infatti diventata anche a Venezia un po' troppo passione per il cosiddetto "bel canto", e al virtuosismo degli interpreti si va sommettendo l'interesse dei valori più propriamente componistici e drammatici. Ma in nessun luogo quanto a Venezia (se ne eccettuiamo Parigi) troviamo, d'altra parte, una così frequente e intelligente reazione di artisti e d'intellettuali (B. Marcello, l'abate Chiari, l'abate Casti, B. Asioli) contro il prevalere del cantante sulla musica drammatica e contro i diversi elementi del malcostume teatrale. A Venezia la vita concertistica, specie strumentale, manteneva a tal riguardo una funzione correttrice e moderatrice; e di concerti, specie in ambienti chiusi (conventi, case patrizie, ecc.) ce n'era anzi fin troppo, come si nota leggendo il Burney.
La grande corrente strumentale seicentesca che - come s'è detto - passa con A. Vivaldi nel Settecento, trova ancora a Venezia nuovi impulsi stilistici, come nel clavicembalo, o comunque rafforza quelli che giungono da Bologna, da Roma, da Torino, da Firenze, da Lucca, ecc. Nella clavicembalistica troviamo le forze più propulsive che in tale campo desse l'Italia, come si comprenderà ricordando i nomi dei principali esponenti di questa scuola veneziana: C. F. Pollarolo, B. Marcello, G. Platti, D. Alberti, B. Galuppi, G. B. Pescetti, G. A. Paganelli, F. Bertoni, F. Turini. Nella musica d'msieme (concerto grosso, concerto per solo e orchestra), quantunque più importanti delle veneziane comincino a diventare altre scuole italiane, troviamo comunque, dopo quello del Vivaldi, i nomi d'un Albioni, d'un Marcello e d'un Tartini. Le quali correnti strumentali rendono ragione, anche per loro conto, della vitalità che Venezia sa conferire, anche nell'opera e nella musica chiesastica, allo stile concertato che si vien facendo sempre più libero e dialogico, sempre più - cioè - vicino allo stile drammatico del teatro e della sinfonia dei cosiddetti "classici" che s'inoltreranno con L. Cherubini, L. v. Beethoven, G. Rossini, nel sec. XIX, e cioè preluderanno al romanticismo.
Al quale secolo XIX Venezia avvia più che non contribuisca durevolmente con forze proprie: il teatro ottocentesco non è veneziano. Si direbbe che il gusto musicale di questa città sia rimasto incerto, di fronte alle stilistiche dei grandi romantici d'Italia: le abbia comprese, ma non fatte sue proprie. Comunque, alcuni dei suoi gloriosi teatri rimangono ancora: il S. Benedetto, il S. Moisè, il S. Luca (uno nuovo se ne era fondato nel 1792: quella "Fenice", che una sua tradizione gloriosa si viene facendo nel corso stesso dell'Ottocento grazie al contributo dei maggiori operisti italiani).
Per questi teatri offrono infatti importanti primizie il Rossini (con la sua prima opera: La cambiale di matrimonio, S. Moisè 1810, e poi con Tancredi e Semiramide), V. Bellini (I Capuleti e i Montecchi e Beatrice di Tenda), G. Donizetti (con la sua prima opera: Enrico di Borgogna, S. Luca 1818), G. Verdi (Ernani, Attila, Rigoletto, Traviata, Simon Boccanegra), F. Morlacchi (Tebaldo e Isolina), P. Generali (I Baccanali di Roma), i fratelli Ricci (Crispino e la comare), De Ferrari (Pipelet), oltre al Meyerbeer che a Venezia confida nel 1817 Emma di Presburgo e nel 1824 Il Crociato. Nell'800 anche Venezia, come quasi tutti i centri italiani, vide stendersi un'ombra nei campi, già così lavorati dalle sue scuole nei secoli XVI-XVII e XVIII, della musica chiesastica d'arte e della musica strumentale. Ai nostri giorni, nel rinnovamento che da tempo si sta producendo in Italia, e che sembra ottenere per ora i migliori frutti proprio nella musica strumentale, è lecito pensare che la funzione di Venezia possa riassumere un'importanza capitale. Il rinnovamento odierno è infatti basato sul ripreso studio delle grandi tradizioni dei secoli XVI-XVIII, che allo spirito e alle possibilità di Venezia sono così grandemente e intimamente legate. Le sue ricchezze d'archivio - basti citare quelle della Marciana -, la sua scuola: quel Civico Liceo musicale B. Marcello che - fondato nel 1877 - oggi sta rinnovando le sue direttive e le sue energie, le sue associazioni culturali (Società B. Marcello, Accademia nazionale per la musica antica, ecc.), gli stessi suoi teatri (oltre la "Fenice", il "Malibran" e il "Rossini") possono offrire un quadro sufficiente per la nuova efficienza del centro musicale veneziano.
Bibl.: C. v. Winterfeld, I Gabrieli u. sein Zeitalter, Berlino 1834; F. Caffi, Storia della musica sacra nella già Cappella ducale di S. Marco in Venezia, voll. 2, Venezia 1854-55; L. N. Galvani, I teatri musicali di Venezia nel sec. XVII, Milano 1879; T. Wiel, I codici musicali Contariniani, ecc., Venezia 1888; id., I teatri musicali di Venezia nel settecento, ivi 1897; P. Molmenti, La poesia e la musica nell'antica Venezia, in Gazzetta musicale, 1900, p. 55; A. Solerti, Le rappresentazioni musicali di Venezia dal 1571 al 1605, in Rivista musicale italiana, 1902; G. Tebassini, L'anima musicale di Venezia, ibid., 1908; A. Bonaventura, Saggio storico sul teatro musicale italiano, Livorno 1913; Ch. van den Borren, Les débuts de la musique à Venise, Bruxelles 1914; G. Pavan, Teatri musicali veneziani, Venezia 1917; G. Benvenuti, La musica strumentale in S. Marco, in Istituzioni e monumenti dell'arte musicale in Italia, Milano 1932.
Letterattura dialettale.
Il dialetto veneziano (per il quale, v. venezie, tre: Dialetti), anzi "linguaggio" come dicevano i suoi scrittori, ebbe onore di lingua ufficiale dello stato, e sviluppo, per tutti gli usi civili e colti, paralleli a quello dell'italiano, con una espansione, dovuta ai commerci e alla dominazione veneta, che dalle Tre Venezie arriva a tutto il vicino Oriente marinaro. In realtà si potrebbe dire che Venezia sino alla fine della repubblica sia stata bilingue; ciò spiega la continuità della letteratura in veneziano, che spesso giunge a toccare l'eccellenza.
Al difuori del rilevante numero di documenti dialettali di carattere civile del sec. XIII, che diverrà grandissimo nel sec. XIV, si hanno già fra il Duecento e il primo Trecento molte opere dialettali schiettamente letterarie, delle quali non sempre è facile e sicura la determinazione della precisa provenienza; ma certamente veneziani sono il cosiddetto Lamento della sposa padovana, una versione dei Disticha Catonis, certo aforisma scolpito su una pietra sul fianco della basilica di S. Marco e qualche altra scrittura anonima.
Nella città e nella regione dove, nel Duecento, Martin da Canale scriveva in francese la sua Cronique des Veniciens, sorgeva a cavallo dei secoli XIII e XIV il fenomeno dei poemi franco-veneti (v. epopea, XIV, p. 127). Fenomeni in qualche modo analoghi si ebbero nel Quattrocento con l'italiano molto colorito di dialetto delle rime di Leonardo Giustinian e di più altre scritture anche di prosa, che scendono giù per tutto il Cinquecento, quando fioriscono, curiose forme d'ibridismo linguistico, le letterature stratiotesca, schiavonesca, bergamasca, nelle quali il dialetto veneziano accoglie forme e parole dei dialetti grecomodemi (v. molino, antonio da), slavi della Dalmazia (il più fecondo verseggiatore di tale linguaggio fu Giampaolo Liompardi veneziano, in arte Zuan Polo, o schiavonescamento Ivan Paulovichio) e bergamaschi, atteggiandosi a caricatura delle parlate dei mercenarî greci, dei marinai dalmatini e dei facchini o "bastasi" scendenti a Venezia dalle valli bergamasche. Non molto diverso è da considerarsi il fenomeno della lingua rustica, di cui Francesco di Vannozzo, padovano, e Giorgio Sommariva, veronese furono dei primi a servirsi.
I due grandi secoli della letteratura veneziana sono il '500 e il '700, e il fatto più importante di quella letteratura è il teatro. Quando La Mandragola e Il Candelaio non avevano potere di ravvivare e rinnovare il teatro nazionale, è proprio il teatro veneziano quello che mantiene e rinnova alle scene nazionali la maggior freschezza e originalità. Ciò avviene in alcune commedie veneziane e miste di Andrea Calmo, e, in qualche modo, in quelle del Ruzzante e dei suoi seguaci, che scrivono in lingua rustica veneta, con qualche personaggio di dialetto veneziano. Ma il miglior documento di questa corrente teatrale realistica è La Venexiana, d'autore ignoto del primo '500 (a cura di E. Lovarini, Bologna 1928), vivacissima pittura di costume e così assoluta rappresentazione d'amore da raggiungere un senso lirico.
Di quel brillantissimo e disordinato ingegno che è il Calmo, con realismi e finezze di vero poeta, sono documenti molto significativi, oltre al teatro, i Discorsi piacevoli, le Egloghe pastorali e le Rime pescatorie, mescolate di petrarchesco e di elementi personali, che naturalmente sfioriscono negl'imitatori. Lo spirito comico, che, se è proprio del popolo, lo è in particolar modo del veneziano, non solo promuove ora il teatro, ma colorisce di comicità tutta l'altra poesia e letteratura, ivi compresi molti dei moltissimi componimenti per la vittoria di Lepanto, dei quali ricorderemo solo l'Herculana di G. B. Maganza, autore di rime fra burlesche e satiriche in idioma rustico. Accanto al Maganza mettiamo Alessandro Caravia, pensoso spirito di ricco mercante, cui il poemetto dialettale La verra antiga de Castellani Canaruoli e Gnatti (1550), dedicato all'Aretino, procurò un processo del S. Uffizio per eresia protestante. Si preannuncia già qui il disfacimento dell'epica, cui serviranno gli stessi travisamenti dell'Ariosto fatti in dialetto veneziano da Benedetto Clario, dall'anonimo della Caravana, e in lingua rustica da altri. Ma nel Naspo Bizaro, in quattro canti, il Caravia fa, si può dire, quattro lunghe serenate amorose e gelose d'un Castellano a una Cate della contrada dei Birri, con l'aggiunta poi d'un pentimento per averla sposata. Nell'uno e nell'altro poemetto, singolare è il gusto di gonfiare con estro il già colorito linguaggio del popolo, e in sproporzionate immagini i suoi impetuosi sentimenti. Il Caravia è probabilmente autore anche della Caravana, raccolta di rime che si vogliono di varî e anonimi, e dove il linguaggio e il carattere del popolo sono ancora resi gustosamente nelle lettere di Nico Calafato dalla prigione. Gustose in questa raccolta anche alcune rime dove la mitologia dei poeti inamidati è parodiata con il portare Cupido e Venere sul piano borghese d'un bimbo insolente e di una madre senza criterio nell'educarlo.
Ma in quel genere di lirica che non ha per oggetto il popolo, Maffeo Venier, che passa abilmente da amorose delicatezze a forme di rude realismo, da garbate parodie a espressioni d'alta solennità, eccelle su tutti i poeti del Cinquecento veneziano. Egli dimostra nella sua poesia di avere, come nessun altro del '500, piena e misurata coscienza del proprio linguaggio dialettale come mezzo artistico.
L'opera che si suole citare come la più tipica del '600 è la Carta del navegar pitoresco di Marco Boschini, cioè una monotona enorme guida della pittura veneta. Accademismo, svenevolezza e oscenità sono i malanni della poesia del '600 veneziano, anche se qualche compenso si trovi nella stessa natura della poesia dialettale. Fra i moltissimi nomi di coloro che scrivono in versi, di qualche rilievo paiono quelli di Giovanni di Vicenzo Querini, che si vuol emulo a Maffeo Venier, di Dario Varotari, lezioso e impacciato, di G. Fr. Busenello, che imposta la sua innumerevole produzione dialettale su quella semplicità e facilità discorsiva un po' piatta, egualmente lontana dagli artifici popolareschi e dagl'impeti lirici, e su quella osservazione dei costumi, che si possono chiamare il preludio, non geniale ma non trascurabile, alla commedia del Goldoni e alla satira del '700. I famosi Ligamatti (1675) e Castigamatti (1683) di D. Dom. Balbi altro non appaiono che bolsi cavalli da tiro sotto il carro di una moralità senza poesia. Più gustoso in qualche particolare G. C. Bona, che, con lo pseudonimo di Gnesio Basapopi, veniva sfornando "quaderni", che, tolti rari tocchi di malizia, di tragicità forse più predicatoria che sentita, e di realismo e d'umorismo, riescono nel complesso poveri e faticosi. Con G. Ben. Perazzo Domenici e Tommaso Mondini comincia il Tasso a travestirsi da barcariol, ma mai nella versione veneta diviene veramente familiare ai gondolieri come qualche episodio della Gerusalemme in italiano. La lirica popolare ebbe, tra un profluvio di canzonette, un interprete brioso e musicale in Paolo Briti, detto il Cieco di Venezia. Nel 1680 cominciano a pubblicarsi le Tartane, pronostici per l'anno a cura del Gran Pescador di Dorsoduro, preludio agli Schiesoni settecenteschi, impostazione di un genere popolaresco, dove si parla di tutto (nella Tartana in Morea, del 1687, anno delle vittorie del Peloponnesiaco e della presa di Atene, si parla persino di strategia e di archeologia), ma in modo del tutto spedito e naturale.
Il '700 è per Venezia un secolo felice, complesso e ricco. La commedia, la satira, la lirica risposero con una facilità spettacolosa alla natura di questo popolo, che su m fondo di humour è insieme realîstico, caustico e gentile; e risposero insieme alle diverse e talvolta opposte correnti spirituali del tempo: scontentezza per gli antichi ordinamenti e per la decadenza morale, e insieme vita facile e spensierata. Nella commedia la Venezia del '700 diede all'Italia Carlo Goldoni. Fra la sua grande produzione, le commedie in veneziano non sono che undici, cinque in versi e sei in prosa, e sono fra le più celebri commedie di tutto il teatro. In molte altre commedie goldoniane il dialetto è promiscuo con l'italiano, come s'usava. Eppure si ha l'impressione che il dialetto sia sotto tutta l'opera del Goldoni, anche sotto al francese del Bourru bien faisant e dei Mémoires. Così il linguaggio della sua gente gli era non solo il mezzo più congeniale, ma addirittura un tono, quel tono di venezianità che, portato nella lingua, la farà scendere dalla caricatura e dalla leziosaggine verso la spontaneità e la naturalezza, preparando la strada al Manzoni. Il dialetto del Goldoni è mosso, vario, aderente ai caratteri e al mestiere, all'ambiente e all'animo; è portato sul teatro da un profondo amore e da un'intuitiva conoscenza, da cui nascono gli spunti musicali e felici di certe aperture di commedia.
Più colorito forse Carlo Gozzi, in cui il veneziano di alcuni personaggi fa uno spicco gagliardo fra l'italiano sostenuto e spesso in versi degli altri. Ma alla fine esso appare adoperato come in un giuoco puramente stilistico, perché non serve a creare veri personaggi, né ambienti spirituali. Piatto invece del tutto è il veneziano che assegna ad alcune parti delle sue commedie l'abate Chiari. Della produzione teatrale di altri molti che non furono in primo piano nella lotta impegnata per il teatro di Venezia, vale forse la pena di citare solo l'Anna Erizzo in Costantinopoli di Angelo Maria Barbaro (1726-1779), dramma giudicato di rarissima leggiadria, in cui trova sfogo certo estro satirico non alieno da volgarità.
Nella satira la pedestre fantasia oscena del Baffo sporca il suo dialetto. Angelo Maria Labia (1709-1775) un po' declama, un po' brontola contro la politica e il costume del tempo con una serietà senza sfogo, in un linguaggio spesso duro, e spessissimo su temi il cui interesse è scomparso con la cronaca; manca la poesia ai berneggiamenti di Gasparo Gozzi e del Seghezzi, più spregiudicato questo e più interessante per la malinconia che la miseria e la malattia creano sotto al suo riso; mediocri i ditirambi alla Redi di Lodovico Pastò su Fl vin friularo de Bagnoli e su La polenta, che è certo migliore del primo. Con la cresciuta cultura, era venuto il tempo anche delle imitazioni e delle traduzioni (Iliade, ancora Gerusalemme, canti del Furioso, Macheroniche di Merlin Cocai, il Bertoldo). Persino il primo che meriti il nome di poeta lirico dopo il Venier (d'altro stampo, si capisce), Francesco Gritti, è spesso imitatore, anche se, con la sua ironica festività e con l'estro, gustoso accoppiato a una scioltezza ritmica degna in anticipo del Giusti, rinnova la materia che prende a prestito negli Apologhi.
Ma era già il tempo dell'annacquamento del veneto con il toscano, e l'Arcadia per conto suo aveva lavorato ad ammollire spiriti non volgari. Sicchè un austero magistrato e traduttore in veneziano di Cicerone, come M. A. Zorzi (1703-87) si accontenterà del garbo mondano nei suoi molti Epigrammi e Canzonette sull'amore, e un medico padovano (morto nel 1804), come G. Giac. Mazzolà, canterà i Cavei de Nina in cinquecento sonetti (di cui solo cento editi nel 1785), notevoli per un giuoco spesso sapido nell'uso dell'immaginoso dialetto veneziano e per gli accostamenti più strani di serio e di faceto, come in un sorriso venezianamente burlevole della propria stessa tenerezza. Si è soliti prendere Antonio Lamberti come il rappresentante più tipico della lirica veneziana del '700. Ma il Lamberti visse così innanzi nell'800 (morì nel 1832) che egli segna piuttosto una svolta e la sua venezianità è d'altro stile che non sia stata finora quella della sua città e della sua letteratura. Il dialetto vi si snerva per un'estrema e arbitraria elasticità di linguaggio, dove il francesismo (e dal francese traduce) e il costrutto italianeggiante si mescolano alle ricercatezze dialettali; e la stessa struttura spirituale del dialetto diviene tenuissima nei suoi versi. Di veneziano c'è solo qualche tocco dolce, qualche grazia. E grazie importa dal Meli, che traduce. Insomma è spesso più venezievole che veneziano, con una vena di voluttà, ma spenta in ritenute languidezze, con il senso del quadretto, ma ridotto a un genere infaticabilmente pettegolo; musa la leggerezza, che si esprime in estrema facilità di parola e in grandissima musicalità di canto. Le sue cose migliori sono parte dell'Autunno campestre e La biondina in gondoleta, graziosa e maliziosa.
Ma non in questi nomi si esaurisce il Settecento veneziano. Si può dire che il verseggiare era divenuto un modo di parlare in pubblico, per mezzo di foglietti, ad ogni occasione, e che a nessun mediocre scriba si negava la musa vernacola. Delle satire anonime, di cui la città fu infestata, poco, artisticamente, si salva, e soprattutto, per curiosità e certa freschezza, ciò che tocca della moda e del costume. Né molto si salva della lirica divenuta anonima. Eccezione gustosa La Momoleta, scena di pettegolezzo degna del miglior Goldoni. (Per le villotte popolari e gli Schiesoni vedi sotto: Folklore).
Il sec. XIX non ha piccoli meriti in rapporto alla letteratura vernacola veneziana, e il meno appariscente, ma non il meno importante è d'aver iniziato lo studio del dialetto e della sua letteratura. Il dizionario padovano-veneziano del Patriarchi (1796) apre la serie, ma l'affermazione fondamentale si ha con il dizionario del Boerio (1829), cui collabora Daniele Manin, che due anni prima aveva parlato del dialetto veneziano dalla cattedra dell'Ateneo Veneto. Quanto alla letteratura, l'iniziatore delle raccolte è Bartolomeo Gamba. Particolare interesse è dato ai canti popolari da Angelo Del Medico e da D. G. Bernoni. A Cesare Musatti si debbono poi innumeri pubblicazioni sullo spirito del dialetto nei suoi modi di dire.
Ma la poesia del secolo s'inizia con un singolare spirito, quel Pietro Buratti, che passa per il principe dei satirici veneziani: poeta di varia ispirazione, giocosa, familiare, politica, le cui qualità non comuni furono guastate dalla vena d'una chiacchiera briosa. Il dialetto, il linguaggio, il ritmo gli rispondono in modo insuperabile, senza smancerie e ripieghi. Nessuno dei lirici veneziani dell'800 riprenderà la vastità d'impianto della sua lirica. Una certa vivacità di racconto si trova anche in Pietro Zorzi (anagramma: Pirro Teozzi); Pietro Pagello è ancora ricordato per una gentile e fortunata barcarola a George Sand; Iacopo Vincenzo Foscarini (1785-1864), nobile che si dà lo pseudonimo di Barcariol, ha serio gusto del dialetto e del popolo; ma già si sente che in lui il dialetto è usato solo per "sfogo de un amor municipal". Pure, se non bamboleggia in brindisi per nozze, ha una sua ingenua robustezza spirituale, senza forzatura come senza ala; e si leggono con simpatia certe sue generose se non vigorose invettive contro la patria vile. Affettuosi sensi patriottici e veneziani in parole poverelle ha anche Francesco Dall'Ongaro, nelle canzonette Alghe della laguna. I due nomi che più spiccano a metà dell'800 sono quelli del Nalin e del Coletti. Camillo Nalin ha linguaggio svelto, colorito e spiaccicatamente popolare in novellette scurrili, ma spiritose; la sua ricchezza di fantasia si riduce per lo più ad inventarî; ma ha mano facile a ritrarre. Giuseppe Coletti (1794-1867) è quello che interesserebbe di più conoscere; ma fece distruggere tutto morendo, comprese le aggiunte al Boerio, che, numerosissime, testimoniavano il suo amore al dialetto; che usa vivo, contemporaneo, gustoso. In quel poco che i suoi amici hanno conservato, si manifesta vivace, originale, curioso, macchiettista e vignettista. Giova citare la fantasia delle statue che si dànno convegno in piazza, "ottave balzane", e inedite naturalmente, di L. Ariosto, dove è vivacissima la descrizione dell'agitarsi della folla; romantico, non indegna, per estro, di star vicino al Prode Anselmo di G. Visconti Venosta.
Della seconda metà del secolo importa ricordare solo che Arrigo Boito da giovine combina in Basi e bote nient'altro che un grazioso scherzo musicale, e che Attilio Sarfatti schiarisce all'estremo il dialetto e ne stacca la grafia dalle forme tradizionali; mentre la lirica veneziana s'estenua nelle poche linde poesie di Riccardo Selvatico, dove la forma perfetta, sapiente di tutte le più probe esperienze, nasconde troppo il sentimento e lo devia verso il sorriso finale, per non cedere alla commozione (v. La regata e Venezia). Ma è proprio il Selvatico che fa riprendere alla letteratura dialettale veneziana la via del teatro.
Dopo quel glorioso periodo in cui il teatro veneziano si era identificato con il teatro nazionale, niente di nuovo esso ebbe a dare per tre buoni quarti di secolo. Non è a fare molto caso, in tale deserto, del fortunato tipo di Ludro, tre volte incarnato nel 1836-37 da Fr. Aug. Bon, personaggio che discende dall'imbroglione Arlecchino, con non so che di più canagliesco per essersi fatto di maschera uomo, e deve il successo più alle trovate su cui si fonda la sua azione, che non a ragioni d'arte, e d'altronde non interpreta Venezia. La ripresa fu solo nel 1871 con La Bozeta de l'ogio del Selvatico. Esperimento più che realizzazione, scritta con qualche vivacità, ma senza studio di caratteri, essa è una data soprattutto per lo stimolo che ne venne a G. Gallina, che fu il creatore del nuovo teatro veneziano. Ad esso il Selvatico diede ancora I recini da festa (1876), che con la loro dolcezza idilliaca, senza essere un grande raggiungimento, confermano quell'amore di Venezia che s'era fatto fermento del nuovo teatro. Convertito da una lettura del Goldoni, il Gallina seppe prenderne la lezione di semplicità e di verità umana, e insieme il consiglio d'interpretare il proprio tempo. Cosa che egli fece con un malinconico sorriso, che è come il tono del suo teatro. Non c'è in lui certo l'olimpico disinteresse che fa grande il teatro del Goldoni; egli parte dall'interno e s'incarna nel caso psicologico, secondo il nuovo spirito dei tempi, su cui hanno operato il romanticismo e le sue degenerazioni. La commedia si tinge di dramma. Ma dramma limitato; più che sociale, familiare e municipale; sicché la sua è commedia borghese d'affetti, come era di moda; ma, nei suoi limiti, a volte artisticamente perfetta, e, senza cavillare di possibili trasposizioni, veneziana. Veneziana non solo in qualche tipo, come il nobiluomo Vidal e Momolo, ma nel suo fondo spirituale e nel suo dialetto; vivi e veri, anche se più vicini di un tempo al comune fondo nazionale. Non sentirà invece il dialetto come necessità artistica il restante teatro dialettale dell'800, se pure generoso di passione veneziana, come quello di Gigi Sugana, o ripreso da tipi e quadretti veneti, come quello di Libero Pilotto.
Nel sec. XIX, compiutasi ormai la funzione storica di Venezia, si viene dunque esaurendo, pur nelle manifestazioni più nobili, l'uso del veneziano come linguaggio nazionalmente sentito e restringendo più propriamente a dialetto di una città. Insieme i dialetti delle singole città venete si svincolano, come uso artistico, dal predominio del veneziano, e si può dire nascano allora le letterature dialettali locali venete.
Il dialetto veneziano continua ad avere numerosissimi cultori nel secolo presente. Senza aver ritrovato sinora una voce suggestiva come il veronese, il triestino, l'istriano, la lirica s'è raccolta principalmente intorno al Sior Tonin Bonagrazia, periodico stampato dal 1885 al 1935. Gustosa eccezione le Ciacole de Bepi edite sul Travaso da Olindo Guerrini. In questo campo c'è persino qualche tentativo di dire in dialetto sensazioni e sentimenti estremamente rarefatti. Il teatro, per la necessità pratica di adattamento all'uso delle varie compagnie dialettali italiane, specialmente dopo la morte dei maggiori capocomici di compagnie veneziane, Benini e Zago, è servito con qualche garbo, ma con la rappresentazione discretamente generica, più che nettamente veneziana, della borghesia e del popolo. Il meglio pare raggiunto dalla delicatezza di Renato Simoni e dal brio di Gino Rocca.
V. anche venezie, tre: Letteratura dialettale.
Bibl.: Il dialetto veneziano fino alla morte di Dante Alighieri 1321, notizie e documenti editi e inediti raccolti da E. Bertanza e V. Lazzarini, Venezia 1891; Monumenti antichi di dialetti italiani, pubbl. da A. Mussafia, Vienna 1864; Collezione delle migliori opere scritte in dialetto veneziano, per cura di B. Gamba: Poeti antichi, voll. 2, moderni, voll. 12, Venezia 1817; Serie degli scritti impressi in dialetto veneziano, compilata e illustrata da B. Gamba, ivi 1832; Raccolta di poesie in dialetto veneziano, ivi 1845; D. Mantovani, Musa palustre, in Lagune, Roma 1883; R. Barbiera, Poesie veneziane scelte e illustrate, Firenze 1886; V. Malamani, Il 700 a Venezia, I: La satira del costume; II: La musa popolare, Torino 1891; F. Nani Mocenigo, Della letteratura veneziana del sec. XIX, Venezia 1901; A. Pilot, Antologia della lirica veneziana dal 500 ai nostri giorni, ivi 1913; L. Pagano, Poeti dialettali veneti del 700, ivi 1915.
Folklore.
La lunga durata della repubblica e la particolare costruzione della città valsero a mantenere le caratteristiche usanze veneziane, specie le feste, che furono una delle arti con cui la repubblica governò: nel 979 Orseolo I, facendosi monaco, lascia una somma allo stato per le feste pubbliche; la morte del penultimo doge, è dissimulata per non turbare il carnevale. I nobili assecondarono in questo lo stato e di nobili erano le festaiole "Compagnie della calza" (in auge nei secoli XV e XVI).
Nella festa de le Marie (una delle più antiche, cessata nel 1379 e ripresa di recente), la vigilia della Purificazione, dodici ragazze del popolo, vestite e ornate da famiglie patrizie, andavano processionalmente a sposarsi a S. Pietro di Castello, antica sede vescovile, e tornavano fino a S. Maria Formosa, dove erano i famosi casseleri, o fabbricanti di cofani nuziali. Celeberrima la festa della Sensa (Ascensione), con lo "sposalizio del mare" e la fiera in Piazza. Il carnevale aveva le celebrazioni dell'acquisto di Aquileia, i giuochi del giovedì grasso, l'uso della maschera (larva, volto, moreta, bauta: v. bautta), esteso ai pomeriggi d'autunno e ad alcuni giorni festivi; per le Ceneri, v'era il passeggio alle Zattere; a Mezza Quaresima si segava la vecchia. Per la Sagra di S. Marta, il 29 luglio, e poi tutti i lunedì per un mese: si cenava in barche parate, si ballava, si andava sul canale di S. Marta per i freschi o corso delle gondole sul tramonto, che sul Canal Grande cominciavano il secondo dì di Pasqua. Popolarissimi ancora nel sec. XIX i garangheli (cene) dei lunedì di settembre al Lido, per celebrare i quali le donne del popolo facevano una cassa comune: origine, forse, delle casse peote, una specie di banche sociali del popolo, ancora vive. Delle feste per i santi titolari delle parrocchie, rimane viva la fiera di S. Pietro a Castello. Dimenticati il Natale di Venezia (25 marzo), e persino le feste in cui s'inaugurava la moda della stagione (S. Stefano e Corpus Domini), sopravvivono però per S. Marco (25 aprile) il bòcolo (bocciuolo di rosa offerto dal giovane alla ragazza amata), la festa religiosa della Madonna della Salute, il 21 novembre, a ricordo della liberazione dalla peste del 1630-31 (ponte provvisorio su barche attraverso il Canal Grande, vendita di candelette e mangiate di castradina), e la celeberrima festa del Redentor, la vigilia della terza domenica di luglio, in ricordo della liberazione dalla peste del 1576 (ponte provvisorio su barche attraverso il Canale della Giudecca, fuochi artificiali sull'acqua, barche illuminate con palloncini, imbandite e con musica; le osterie aperte tutta la notte; passaggio al Lido, per assistere al levar del sole; Redentoreto, aggiunta alla festa del Redentore). Pittoresca è anche la benedizione delle barche da pesca, fatta nel bacino di S. Marco dal patriarca, per S. Pietro.
Il Ridotto, o casino di giuoco, che ora si riapre, fu con varia sorte aperto dal 1638 al 1774, raccogliendo tutta Venezia (i non nobili in maschera) intorno ai tavoli di faraone, basseta, biribisso, panfil. Molti furono nel'700 i casini di compagnia, o circoli, e non pochi i ridottini privati, di cui celebre quello della procuratoressa Venier al Ponte dei Bareteri. Nel '700 erano a caffè quasi tutte le botteghe delle Procuratie intorno alla piazza S. Marco: celebre l'ancora esistente Cafè Florian. Famosi luoghi di divertimento erano gli orti della Giudecca; di villeggiatura, le ville del Brenta e del Terraglio.
Gli esercizî ginnici conservarono al popolo e ai nobili l'attitudine alle fatiche della guerra. Fino dal sec. XIII v'erano a Venezia pubblici bersagli per il tiro alla balestra. Più tardi si servirono del bersaglio di S. Nicolò anche i bombardieri, riuniti in confraternita, per il cui altare a S. Maria Formosa Palma il Vecchio dipinse la. S. Barbara. Lungamente celebri, degenerate a volte, ma fonte di fierezza, furono le lotte e gare fra Castelani e Nicoloti, abitanti di diversi sestieri della città. La lotta con le canne d'India si vuole risalga al sec. IX; nel 1292 ha origine la guerra dei pugni. L'una e l'altra si combattevano per il possesso ideale di ponti, che erano allora senza sponde, e che ancora conservano l'impostazione per i piedi dei contendenti all'inizio della lotta. Anche gli arsenalotti gareggiarono nella moresca, specie di danza marziale o scherma collettiva con daghe senza punta e taglio, e nelle "Forze d'Ercole" (originarie del sec. XIII, durate fino all'800 e che oggi si cerca di ripristinare), piramidi d'uomini su un tavolato sostenuto da botti se in terra, o su peate (barche piatte) se in acqua, e persino sul taglio dei feri da prova ("prora") di due gondole, che facevano da contrappeso sollevando quasi verticale la poppa. Queste gare erano la parte principale dei divertimenti del giovedì grasso in Piazzetta, con lo svolo (iniziato forse nel 1568): cioè il volo, congegnato mediante corde e carrucole, di un ginnasta, da una barca del bacino alla sommità del Campanile, con acrobazie e impali sul leone dell'attico o sull'angelo della cuspide, e la discesa al palco dogale.
Antichissime erano anche le cosiddette "cacce": dei tori, durate fino al 1802, fra cani addestrati e buoi, guidati per corde alle corna o liberi, di cui uno era finalmente abbattuto con un solo fendente di spada; degli orsi, in cui i cani eran tenuti a guinzaglio e l'orso legato a catena; alle anitre, che consisteva nel tirare, passando di corsa sopra un ponte, il collo a un'anitra tenuta sospesa dall'alto con un laccio mobile. Celebre su tutte le gare popolari, e sempre viva la regata ("mettersi in riga"), che si vuol originata nell'anno 1300 dagli scafi dei balestrieri che si recavano al bersaglio del Lido per la gara della Sensa. Essa fu corsa poi anche da scafi di 50 remi, e anche con donne regatanti. Il percorso da varî secoli è quello del Bacino e del Canal Grande, alla fine del quale si gira il paleto e si torna fino alla machina, o padiglione galleggiante, eretto in volta de canal, dove i vincenti ricevono una bandiera (il quarto un porcellino). È tutt'ora di grande onore per un barcaiolo portar via bandiera, e gli antichi vincitori di regata erano soliti farsi ritrarre. La regata è resa più fastosa dal corteo delle bissone e d'altre barche, quali un tempo peate, margarote e balotine, e oggi la dodesona e la disdotona delle Società dei canottieri. Analogo percorso (Lido-Canal Grande-S. Lucia e viceversa) ha la gara di nuoto "Lord Byron", che ricorda le prodezze natatorie veneziane del poeta. Divertimenti di nobili furono in antico i tornei in Piazza S. Marco e le naumachie (celebre quella del 1529 nel bacino di S. Marco con l'assalto a un finto castello marino). Furono tenute cavallerizze ai Mendicanti e alla Giudecca (ora al Lido).
Tra le consuetudini relative alle nozze, dono dei compari alla sposa erano uova di gallina, agoraio e ditale, doni degli sposi, dittici amatorî d'avorio e più tardi coppe nuziali di Murano; dono della suocera, un monile di perle, che la sposa doveva portare per un anno intero. Se le nozze erano benedette in casa, seguiva ad esse il bacio dello sposo alla sposa fra l'incitamento degli invitati: basa, basa! Importante nel rinfresco di nozze la tola bianca, tavola di dolci, fra cui era dono del compare, un croccante, da cui doveva uscire un uccellino vivo. La fidanzata (novizza) andava in gondola, con gran seguito di altre barche, a far visita alle parenti monache. Se mancava l'assenso alle nozze, il bacio dato alla ragazza sulla porta della chiesa, o il taglio furtivo d'una ciocca di capelli, o il furto d'un gioiello, erano riti simbolici di nozze, cui i genitori della ragazza dovevano finire col piegarsi: mentre per il popolo bastava lo scambio di giuramento innanzi a testimoni per contrarre matrimonio. Ora rimane particolarità veneziana delle nozze la gondola ornata di fiori bianchi, la stessa gondola che più ornata di fiori e coperta di panni neri bordati servirà al mortorio. Dal quale, come la settecentesca figura del "cerone", o raccoglitore di sgocciolature di cera, si viene eliminando la figura del valletto che apre il passo in feluca e caduceo, retorico richiamo a Mercurio psicopompo. Scomparsi sono pure il còdega, che accompagnava con la lanterna chi usciva di notte; le bigolanti, e cioè le donne che, per attingere acqua ai pozzi pubblici, portavano le secchie appese a un bastone curvo in bilico sulle spalle. Ma le imbarcazioni a motore non hanno ancora fatto sparire i gondolieri, né i ganzeri, vecchi gondolieri che con un gancio accostano la barca alla riva.
La configurazione particolare della città dà origine a costumanze caratteristiche, con la sfangatura dei rii, e la collocazione in Piazza di passerelle (ponti) quando si ha l'"acqua alta". Superfluo ricordare i traghetti, gl'imbarcaderi dei vaporetti, le bricole poste a indicare le secche o infisse innanzi alle rive e ai palazzi, le gondole e le serenate dietro le barche illuminate "alla veneziana", la galleggiante, specie di palco su peate, illuminato e addobbato come sala da ballo, che a rimorchio di un vaporetto percorre il Canal Grande. Sono noti anche i nomi comuni di località (campo e campielo, rio, rio terrà, salizzada, fondamenta, borgoloco, ecc.); forse un po' meno i nomi proprî, spesso storpiature popolari (S. Stae "S. Eustachio", S. Trovaso "Ss. Gervasio e Protasio", S. Marcuola "Ss. Ermacora e Fortunato"). Caratteristici gli ultimi squeri, per la costruzione e la riparazione delle barche, e le cavane per le barche, aperte nelle fondamenta dei palazzi.
Nelle calli più popolari, a Castello, si vedono ancora sedute in fila innanzi alle porte, le impiraresse, che infilano con lunghi flessibili aghi di fil di ferro perline di vetro colorato, che sono uno degli aspetti più diffusi delle conterie veneziane, un prodotto che affianca l'industria muranese dei vetri soffiati e le altre industrie artigiane, dei merletti di Burano e al punto di Venezia, dei cuoridoro, degli argenti sbalzati e dei manini, smanigli d'oro di sottilissimo intreccio che meglio delle filigrane rappresentano l'arte dell'orefice veneziano, cui è affine quella del battiloro. Sono scomparse le furatole, venditrici ambulanti di fritti e altri cibi caratteristici, ma restano i venditori di folpi (polipi) e di "frutti di mare" (cape longhe o cape da deo, peoci, garúsoli, caragòi, granzèole, canóce); i fritolini (friggitori) vendono specialmente sangueto, figà a la veneziana, bígoli in salsa, bacalà mantecato, ecc. Specialità di Murano è il bisato su l'ara anguilla arrostita nel forno delle tempere delle vetrerie. Fra i dolci sono tipici di Venezia i baìcoli, le sbreghe, i zaleti, le fritole e le favete dei morti. La cucina delle case veneziane (p. es., quella che fu di Emilio Zago) è ricchissima di piatti di peltro e d'ottone e di recipienti di rame sbalzato. Fra le "arti che vanno per via" sono caratteristiche quelle del gua (arrotino), del conzacareghe (sediaro), dello strazzariol, del giardiniere e della fioraia ambulante, dei venditori di spighete (stringhe), con le loro cadenze e cantilene. Fra queste, tipiche sono anche quelle dei batipalo.
Non si può neppure immaginare Venezia senza i colombi, che hanno le loro pubbliche distribuzioni di grano a ore fisse in Piazza, ma ricevono becchime soprattutto da forestieri, che amano farsi fotografare in tale atto. Qui si svolge il liston, cioè il passeggio galante, che prima del '700 era a S. Stefano, e a vespro un sacerdote in cotta e stola accende ancora sul fianco di S. Marco il lumino a olio in espiazione della condanna del povaro Fornareto. Ma in Piazza o nelle Mercerie non s'incontrano più gli scialli (di tibet l'estate, di lana l'inverno) che stanno ancora a rappresentare l'antico e bel costume delle popolane, e che fu di vario colore un tempo e solo nel '700 si fissò nel nero; e sono dimenticati i vecchi pronostici, o piuttosto norme per portarlo: "chi porta el pizzo in banda, sposa un vedovo; chi porta el pizzo in do ponte, resta vedova".
Bibl.: G. Zompini, Le arti che vanno per via nella città di Venezia, Venezia 1785; G. Renier Michiel, Origine delle feste veneziane, ivi 1829; id., Venezia e le sue lagune, ivi 1847; G. J. Fontana, Occhiate storiche a Venezia, ivi 1854; E. Lundy, Misteri di Venezia, Milano 1858; A. Dal Medico, Tradizioni popolari venete, Venezia 1870; G. D. Bernoni, Preghiere popolari veneziane, ivi 1873; id., Credenze popolari veneziane, ivi 1874; id., Giuochi popolari veneziani, ivi 1874; G. Tassini, Feste, spettacoli, divertimenti e piaceri degli antichi Veneziani, ivi 1890; P. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, 7ª ed., Bergamo 1929; L. Roffaré, La repubblica di Venezia e lo sport, Venezia 1931; C. Musatti, Motti storici del pop. ven., ivi 1931.
I dominî veneziani "da mar".
Il piccolo grande mondo cosmopolita, che Venezia raccolse intorno al suo genio politico e sottomise al suo governo ripercorrendo i mari, servì a costruire quell'edificio formidabile più per potenza economica e politica che per estensione territoriale. Il dominio "da mar", che fu il primo obbiettivo dell'espansione, mosse lentamente dalla Dalmazia, risalì nell'Istria, e solo relativamente tardi discese, dopo la perdita di Ragusa, lungo il litorale albanese. La base del dominio territoriale marittimo anzitutto fu costituita nell'Adriatico, lungo la costa orientale, aggregando alle proprie dipendenze isole e città costiere per mezzo della protezione loro accordata, della difesa militare di terra e di mare, dei benefizî economici, prima di convertire, e in Istria e in Dalmazia, il governo in un dominio diretto. Infatti inizialmente rispettò gl'istituti amministrativi nazionali di queste terre e conservò anche quelli politici indigeni, fossero essi conti, giudici o priori, sotto il controllo di proprî funzionarî investiti feudalmente del grado di duca o conte a vita e con tale dignità esercitanti un potere personale. Erano in genere membri della famiglia ducale. Lentamente, ma inevitabilmente, con l'espansione del possesso territoriale doveva verificarsi tra il sec. XII e il XIII la trasformazione del carattere e della struttura del governo nei dominî adriatici, parallelamente al progredire della penetrazione nei dominî d'oltremare. Il processo doveva esser affrettato non solo dalla naturale evoluzione dello stato veneto, riluttante ad accogliere influenze feudali estranee al suo spirito, ma anche dalla contingenza delle guerre con il patriarcato del Friuli e con i principi austriaci, progressivamente privati delle zone costiere e ricacciati verso l'interno. Questo accadeva prima in Istria che in Dalmazia, dove si risentirono più tenacemente le sobillazioni ungheresi e croate, che facevano capo soprattutto a Zara, centro delle intermittenti sedizioni. Il governo delle due regioni poté tuttavia essere unificato sopra la base di un dominio diretto, sia politicamente sia militarmente, pur senza annullare le autonomie locali. La guerra degli ultimi anni del sec. XIII in Istria porse occasione al governo veneto di consolidare l'unificazione del reggimento della regione, bipartendo i poteri fra il capitano generale, residente a Capodistria, associato ai poteri di podestà, e il capitano generale del paisanatico, residente a S. Lorenzo, con compito essenzialmente militare (1304). Venezia mantenne nelle singole città il reggimento locale: mantenne il diritto statutario indigeno, ulteriormente integrato e modificato con l'applicazione della legislazione veneziana; mantenne gli organi istituzionali e amministrativi (podestà, consigli del comune, giudici, ecc.), chiamando però a reggere le cariche di diretta responsabilità politica, quale quella di podestà, patrizî veneziani. La designazione era fatta direttamente dal senato di Venezia; e sebbene inizialmente alcune delle città fossero restie a rinunciare a questo simbolo della loro autonomia, e tra le altre Pola, lottando fino all'estremo per difendere la loro prerogativa, quale prima quale poi, di buona o di cattiva voglia finirono tutte per rassegnarsi ad accettare i rappresentanti veneziani come segno tangibile della loro sudditanza. Sottoposte alla ferrea disciplina e all'inflessibile controllo podestarile veneziano, le città continuarono a vivere staccate l'una dall'altra nell'isolamento come ai tempi dell'autonomia comunale, con propria amministrazione e propria giurisdizione. S'aggiunga che la città, anche amministrativamente, era mantenuta separata dalla campagna, e mentre Capodistria (Iustinopolis) esercitava una funzione egemonica di fatto, se non di diritto, rispetto alle podestarie minori, il capitano residente a S. Lorenzo al Leme esercitava non solo funzioni di governo e controllo sopra le milizie dislocate per tutta la provincia, ma anche per la sua difesa, per il mantenimento dell'ordine, per la visita periodica, per l'appello in seconda istanza. Nel 1358 il governo della provincia fu sdoppiato, staccando dal capitanato di S. Lorenzo il territorio al nord del Quieto con sede a Grisignana; dopo l'occupazione di Raspo nel 1394, l'uno e l'altro fu sottoposto all'unico capitano messo a capo di quel castello; infine, conservando tal nome, nel 1511 trasferì la sede a Pinguente. I contatti commerciali, non meno di quelli politici, fra le terre istriane e quelle dell'opposta riva adriatica crearono e svilupparono una viva corrente d'italianità e uno scambio sempre più intimo di natura spirituale. Senza distruggere i tratti caratteristici della personalità delle popolazioni indigene, la "venezianità" penetrò profondamente negli usi, nelle abitudini, nel pensiero, nell'anima delle genti istriane, soprattutto di quelle costiere a più diretto contatto per via di mare con la dominante. Il periodo più prospero è quello anteriore alla Lega di Cambrai. Il dominio veneto nell'Istria fu martoriato durante quel tragico momento da lotte furiose, ma anche qui, come sia, da Aquileia a Gradisca, a Castelnuovo (Patto di Worms del 1521 e lodo di Trento 1535). Più gravi riuscirono sopra l'Istria le incursioni degli Uscocchi (profughi della Bosnia); sospinti dai Turchi, soprattutto con le loro azioni piratesche turbarono il libero svolgimento delle operazioni marittime. Anche più fatali riuscirono le pressioni turche e le loro scorribande, durante i secoli XVI e XVII. D'altronde se nei primi secoli, nell'economia veneziana e adriatica, l'Istria marittima ebbe maggior valore come territorio di scambio, sia per il rifornimento di prodotti naturali, sia per assorbimento e transito verso il continente delle importazioni provenienti dall'Oriente, quando nel sec. XVIII lo sviluppo dei porti di Fiume e Trieste, connessi al retroterra carsico e ungherese, esercitò decisiva concorrenza, l'economia naturale della regione istriana nella vita veneziana prevalse sopra quella commerciale. L'Istria, che si andava spopolando, fu, con attiva politica, da Venezia energicamente, se non sempre con fortuna, ripopolata.
Analoghi sono l'origine, lo sviluppo e l'evoluzione dello stabilimento del governo veneto nelle terre di Dalmazia e di Albania e nelle isole del basso Adriatico, in tempi successivi, con carattere di più stretta unità nella prima, meno nelle altre in armonia alla genesi del loro acquisto. L'aggregazione della Dalmazia al governo veneto è la più antica, per resistere e respingere dall'Adriatico la minaccia slava. Fu però anche la più malfida e la più lenta a realizzarsi con saldezza e unità di ordinamento. Le città dalmate avevano accettato di riconoscere l'alta sovranità veneta, per sfuggire alla sopraffazione slava e per riparare all'abbandono bizantino, con la condizione sottintesa non solo di conservare le autonomie locali, ma anche la propria indipendenza, appena incrinata dall'esistenza di un lieve riconoscimento formale di vassallaggio. Altro era l'intendimento veneziano, e fu fatto più impellente e più immediato dalle necessità dello sviluppo politico e giuridico marittimo. Fino dalla metà del sec. XII, la necessità di un controllo più rigoroso e di un rafforzamento dei vincoli di dipendenza, trasse il governo veneto per difesa dei suoi interessi e di quelli delle popolazioni, che avevano accettato la sua preponderanza, a rendere più stretti i rapporti di vassallaggio. Naturalmente questa evoluzione non poté attuarsi senza opposizione e senza resistenze. Zara ne fu il centro principale e, anche dopo le sottomissioni, stette a capo della rivolta armata, cooperando a spingere alla secessione Spalato, Traù, Belgrado. Il crisobolo costantinopolitano del 1085, accordando maggiori garanzie all'espansione veneta, non contribuì a dare ad essa maggior stabilità e sicurezza. L'influenza bizantina, specialmente a Ragusa, era tuttora, alla fine del sec. XII, ancora viva e attiva: e non meno che la minaccia normanna, ostacolavano e impedivano lo sviluppo di un ordinato e continuo governo veneziano in Dalmazia le pressioni croate e ungheresi, le quali interpolavano parentesi più o meno lunghe nel possesso veneziano delle città dalmate. Vero è che, tra la fine del sec. XII e il principio del sec. XIII, limitato in buona parte alla zona costiera, contrastato dall'insofferenza locale e dalle aspirazioni straniere, esso non era sorretto da robusto ordinamento né civile né militare. Le forze militari venete erano spedite a operare solo nei momenti di pericolo o più gravi, senza continuità e salda coordinazione; il governo civile veneto era assente. Qualche tempo prima che in Istria, la libera e spontanea unione della regione con il governo veneto fu trasformata in dominio diretto, successivamnte alla parentesi ungherese dal 1116 al 1118; tuttavia per tutta la prima metà del sec. XIII, mentre era ancor viva l'influenza bizantina e croata, il principio feudale non fu superato. Tra rivolte e sedizioni, tra alternative di sottomissioni e ribellioni, città e isole (Zara, Spalato, Traù, Belgrado, Arbe, Veglia), quando ancora Almissa, Cattaro e Ragusa non erano state tocche dal dominio veneto, erano sempre legate alla dominante dal fragile vincolo della fidelitas (affermato con il patto di Fano del 1149). Solo le elezioni dei magistrati locali erano sottoposte a conferma veneziana: essi erano conti e rettori d'origine feudale in persona di sudditi veneziani. Venezia nella seconda metà del secolo, non riuscendo a ottenere un'omogenea e solida unione politica nell'attività civile e militare, cercò di affrettare il processo di unificazione religiosa intorno alla chiesa di Zara: la elevò nel 1154 ad arcivescovato e dichiarò il suo titolare "Primate di Dalmazia", ma la sottopose con tutte le altre chiese, che facevano capo a Spalato, al patriarca gradense. Era buon avviamento all'integrale aggregazione auspicata con le robuste imprese militari, tenacemente combattute da tutti i governi ducali fino al tempo di Enrico Dandolo e della quarta crociata (1203-04). Allora a Venezia il problema dalmata fu posto più vigorosamente e audacemente affrontato non tanto con il riacquisto di terre vecchie (Zara, soprattutto) e nuove (quale Ragusa), ma anche con un assetto più organico. Conservando i vecchi nomi di conti, podestà e capitano, ai rispettivi uffici era attribuito uno spirito nuovo. Essi erano diventati diretti rappresentanti del governo, scelti fra sudditi veneti, essi e i loro collaboratori, assistiti da un consiglio fatto a somiglianza di quello del governo centrale. Non dominava ancora alcuna ambizione di espansione territoriale: ma la Dalmazia, più che l'Istria, era sentita come elemento necessario e integrante per la difesa e lo sviluppo della supremazia adriatica, per la salvaguardia di quel problema marittimo, che Venezia aveva risolutamente affermato come caposaldo della sua funzione politica. Eliminata la diretta influenza bizantina, restavano le continue minacce degli Ungheresi e degli Slavi, che ad ogni costo volevano giungere al mare e se non altro miravano allo sbocco tra la Narenta e la Cettina. La divisione in più dominî aveva favorito lo sviluppo di organismi autonomi: Venezia non aveva avuto nessun desiderio, come neppur più tardi in terraferma, di sopprimere gli organi locali, né di soffocare la fioritura del diritto e della legislazione indigena consacrata nelle consuetudini e negli statuti cittadini. Impose però sempre più rigidamente il proprio controllo, e alla metà del secolo l'amministrazione era ripartita fra il conte di Zara, assistito dai proprî consiglieri, il conte di Ragusa, il conte di Ossero, i podestà di Lesina (Farra) e di Brazza, il capitano e il castellano di Almissa. Il reggimento non aveva unità di comando, né politico, né militare, e forse da questa deficenza derivò la debolezza, che lasciò facile adito alla riscossa slava e ungherese. Solo di fronte al pericolo, nel primo scorcio del sec. XIV, rivolse più attivamente l'attenzione alla riorganizzazione con criterî unitarî della difesa militare. Nel 1346 riassettò l'arsenale di Ragusa; due anni dopo organizzò la difesa con l'istituzione del capitano generale a Zara, e tentò il concentramento del paisanatico a Scardona. Ma forse era troppo tardi: cullandosi nella speranza di poter diminuire le pressioni opponendo stato a stato o interponendo fra il proprio dominio e lo stato ungherese uno stato cuscinetto amico (quello dei Subic), non seppe prevenire l'assalto ungherese, che in ripetute occasioni dal 1346 al 1357 sgretolò la Dalmazia veneta. Venezia perdette ogni terra della regione; perdette, almeno tacitamente, il titolo di duca della Dalmazia; perdette anche, e questa volta definitivamente, Ragusa. La pace di Torino (1381) ribadì la perdita, che non fu riparata se non nel 1409, con la vittoriosa lotta contro re Sigismondo. Ammaestrata da tante esperienze, Venezia ebbe allora sicura nozione della necessità di mantenere ferreo controllo e unità di governo: alla pressione dell'elemento slavo cominciava a unirsi quella del turco, che in breve attraverso la Bosnia e l'Ungheria meridionale non tarderà a giungere fino alla Dalmazia, considerata chiave di vòlta del dominio Adriatico.
A questo aveva aperto la strada il governo bizantino con il crisobolo del 1085, favorendo l'espansione nella Dalmazia, ma anche verso l'Albania e più ancora con la concessione di stabilimenti mercantili per tutto l'impero. Il dominio dell'Adriatico non era fine a sé stesso: era una porta aperta per penetrare nel Mediterraneo, approdare in Africa e risalire all'una e all'altra sponda d'Oriente. Secondo questo metodico programma dal crisobolo del 1085 alla spartizione del 1204 fu un graduale, continuo instancabile lavoro di espansione che mosse dall'Adriatico, dove ebbe dei viaggi marittimi nel Mar Nero. La fisionomia di questo edificio è assai varia. I punti fondamentali, scaglionati lungo il cammino, e più prossimi, furono lentamente trasformati in possessi di diretto dominio; gli altri organizzati in stabilimenti commerciali, progressivamente abbandonando l'appendice territoriale, che inizialmente li suffragava. Da Durazzo per tutte le terre e i porti dell'impero si arrivava a Costantinopoli: dalla Sicilia a Gerusalemme e in Siria, prendendo parte attiva, nel sec. XI, diretta o indiretta, alle lotte normanno-bizantine e alle spedizioni crociate. Segno tangibile di questa partecipazione era lo sviluppo di nuclei coloniali più o meno organici, parallelo al progressivo avanzamento di penetrazione. Da un primo nucleo di residenti sorgeva la colonia retta o dagli stessi mercanti o da un ufficiale designato dal governo, talora anche assistiti da consigli, che arrivano ad assumere anche la più ampia fisionomia, sia pure in miniatura, degli ordinamenti patrî. Sono detti consoli, o baili o podestà: hanno sempre al fianco almeno due consiglieri o un giudice, talora anche, come a Costantinopoli o a Tiro, un consiglio maggiore e un consiglio minore e una corte di giustizia: Godono con tutti i sudditi residenti di foro privilegiato; amministrano la giustizia civile, quella commerciale, e, entro certi limiti, anche quella penale. La colonia beneficiava di esenzioni fiscali, beneficiava di una zona privilegiata ed esclusiva, costituita da una contrada o da un gruppo di contrade limitrofe, spesso protette da mura o da difese militari, con la casa di traffico, chiesa, piazza, pozzo, forno, stalle e con un'appendice territoriale per le colture; godeva anche di scali riservati e immuni nel porto, quand'anche non fosse riuscita a ottenere la proprietà di una parte del porto e dei diritti percepiti sopra di esso: così a S. Giovanni d'Acri, così a Giaffa, così a Gerusalemme. In tal guisa le colonie erano uno specchio esatto della vita della madrepatria in terra straniera, nei suoi ordini, nei suoi costumi, nella sua attività e anche nella sua espressione spirituale. E questa fisionomia, che perdura anche qualche tempo dopo, domina prima della quarta crociata, nei territorî riscattati dai crociati, alla vittoria dei quali Venezia aveva contribuito, esigendo dai conquistatori compenso di privilegi più che di possessi territoriali, o, per analogo motivo, nell'ambito delle terre dell'Impero greco. Stabilimenti di questo genere sorsero a Gerusalemme, a Giaffa, a Sidone, a Tripoli di Siria, ad Antiochia; a Damasco, e nel territorio greco, oltre che a Costantinopoli, che divenne sede e centro di tutto il movimento coloniale veneto in Oriente, a Filadelfia, a Rodosto, ad Adrianopoli, ad Almiro, a Soldaia, a Tana, a Tebe, a Lemno. Dopo la conquista latina di Costantinopoli, nel 1204, l'aspetto di questo mondo cambiò rapidamente. Mentre i vecchi stabilimenti a tipo giurisdizionale si cristallizzarono per scomparire lentamente, sorsero quelli conformati sopra una base territoriale; colonie dunque non soltanto commerciali, ma anche territoriali. Venezia fra i tanti e sì grandi acquisti, che il trattato di ripartizione del caduto impero a essa riservava, abbandonando i promessi dominî continentali, rivendicò senza esitanza quelli marittimi. Nel sec. XIII, ampliava la colonia costantinopolitana, ne riassettava l'ordine amministrativo e l'ordine politico sotto il governo di un capo (bailo) della madrepatria, e ne estendeva la giurisdizione nell'Asia Minore turca, nell'impero di Nicea e a Kiev, lottava per difendere e salvare i superstiti privilegi in Siria e in Palestina, da Gerusalemme a Damasco, a Tiro, ad Acri, ad Antiochia, a Beirut, a Gibelletto, a Tripoli. Nello stesso tempo ricostruiva, sul mare, un nuovo mondo coloniale più solido perché fondato su possessi territoriali. I Veneziani, nel corso del secolo, come del resto le altre nazioni cristiane, erano costretti a retrocedere dal continente asiatico verso le isole: sospinti dalla costa avevano trovato rifugio nell'Isola di Cipro, con i loro privilegi e i loro organi coloniali. Ma nel contempo, diffondendo stabilimenti commerciali nella piccola Armenia, ad Aleppo, a Laodicea, e più ad occidente, in Egitto, aveva provveduto a mantenere fra essi collegamento e coesione con l'assicurare una solida rete di comunicazioní appoggiata a quei possessi territoriali e marittimi, che aveva acquisiti con la fondazione dell'Impero latino. Alcuni furono di diretto dominio, quali l'isola di Candia; altri investiti a proprî sudditi, quali ai Sanudo a Nasso, ai Dandolo a Andros, ai Ghisi a Serifo e Chio, ai Barozzi a Santorino, ai Querini a Stampalia, ai Venier a Cerigo e Cerigotto, ecc., nelle altre piccole isole delle Cicladi e delle Sporadi, tra le quali primeggiarono i due ducati veneziani di Nasso e di Lemno; altri infine furono trasformati in stazioni militari e commerciali sotto la diretta e immediata sovranità e amministrazione veneziane, nei punti più strategici dell'Egeo, quando ancora quelli dello Ionio virtualmente assegnati a Venezia (Corfù, S. Maura, Leucade, Cefalonia, Zante) non erano entrati in possesso effettivo, come avvenne assai più tardi. Ma intanto Venezia poneva saldo piede a Modone e a Corone, alla punta della Morea, porti e castelli governati da un provveditore e da castellani con compiti militari; a Negroponte nell'Eubea, sottoponendo la città a governo di un bailo, con pari intendimento. Con questo sistema politico-militare l'Egeo era bloccato; lo dominava al suo ingresso Creta, ordinata e organizzata per la sua importanza politica, economica e militare come una seconda Venezia alle porte d'Oriente. Ebbe un duca in Candia, quale governatore generale; ebbe podestà e capitani e rettori nelle singole città; ebbe un consiglio maggiore e minore; ebbe un proprio patriziato. Tutto questo restando sempre nell'ambito della stirpe veneziana, e più ancora del patriziato lagunare, trapiantato nell'isola, per colonizzarla e dominarla. L'intraprendenza dei proprî sudditi, difesa da solide strutture di questo genere, non poteva essere scossa da parentesi sfortunate, come quella seguita alla rovina dell'Impero Latino (1263). Le terre dell'Egeo non andarono perdute, anche se temporaneamente la colonia costantinopolitana fu dispersa. Pochi anni dopo risorse, anzi trovò più potente cooperazione in quella di Salonicco. Tra le guerre furiose che si combattevano in Egeo e nel Bosforo fra Veneziani e Genovesi, sotto gli sguardi greci, fatti progressivamente sempre più disattenti, le forze di espansione non si allargarono sopra vaste estensioni; rimasero per buona metà del sec. XV sopra i territorî acquisiti, arrotondandoli, se mai, con aggiunte non grandi, ma significative, consolidandoli e rafforzandoli sì da assicurarne il valore difensivo e offensivo, contro la minaccia genovese. Mutato alla fine del sec. XIV e al principio del sec. XV l'aspetto dell'equilibrio mediterraneo, per la scomparsa delle forze italiane, per la crescente pressione delle forze catalane e iberiche, per l'apparizione del nuovo nemico del mondo cristiano, il Turco, ai Veneziani automaticamente s'impose la revisione di valori e programmi coloniali: estensione del dominio diretto, riscatto e assorbimento delle signorie feudali ancora superstiti all'ingiuria del tempo; allargamento dai possessi coloniali, anche nei dominî "da mar" e intorno ai capisaldi, che nella penisola greca proteggevano i traffici marittimi. Perciò fu deciso l'acquisto delle Isole Ioniche (Corfù), poste sotto il governo di un provveditore; fu occupata la prima zona albanese, intorno a Durazzo; fu poi ampliata l'occupazione lungo il Canale di Corinto, lungo l'Examilion, e nei punti vitali della Morea, a Nauplia, ad Argo, ad Atene, e infine nell'Isola di Negroponte (Eubea), specialmente dopo la caduta di Salonicco.
Per la loro natura e per la loro dislocazione, separato l'un dall'altro in piccoli frammenti, questi possessi non furono suscettibili di un reggimento unitario; per la varietà di funzioni godettero di organi apparentemente uniformi ma in sostanza disformi; per le necessità prevalentemente strategiche furono sottoposti a un regime militare, il quale non riuscì a realizzare unità di comando neppure in tempo di guerra, in occasione dell'istituziane di un provveditore generale (metà del sec. XV). Quando poi la potenza turca, penetrata addentro nel continente europeo e stabilitasi saldamente, con l'occupazione di Costantinopoli (1453) impresse diverso ritmo alla vita marittima, gli stabilimenti coloniali furono, se non spazzati via, gravemente mutilati e trasformati in agenzie commerciali, i possedimenti territoriali rapidamente conquistati dall'invasore. Per proteggere le proprie linee di traffico Venezia concentrò le difese avanzate nell'Isola di Cipro, annessa nel 1482, e ordinata a somiglianza di tutti gli altri dominî direttamente sottoposti; annetté Zante e Cefalonia; ma perdette ogni altro dominio nell'Egeo e sopra il continente greco, come aveva perduto Negroponte. Al momento del crollo questi possessi si erano dimostrati poco saldi. Colpa forse di deficiente organizzazione? di cattiva amministrazione? di fiacchezza di governo? di assenza di controllo? In verità con l'istituzione del periodico sindacato delle amministrazioni provinciali, e da tempo abbastanza antico, affidato a sindici e inquisitori, il governo aveva provveduto a mantenere un più stretto collegamento fra gli organi centrali e quelli periferici: ma questo non bastò mai a dare unità di governo alle provincie coloniali, a coordinarle, a fonderle in circoscrizioni organiche a larga base. Questa fusione si verificò, quando la funzione coloniale dei possedimenti era cessata, e le singole terre erano considerate membra di un organismo unitario in tutto salvo che al centro. Provveditori generali (Dalmazia e Istria), provveditori straordinarî (Albania e Isole del Levante), duca di Candia, con il suo tradizionale ordinamento, provveditore di Cipro, provveditore della Morea, raccolsero nelle loro mani negli ultimi secoli, e fino a che restarono in possesso di Venezia, questi territorî. Ma l'unità era raggiunta quando l'età migliore era trascorsa, e i Turchi non davano più requie.
Bibl.: M. Roberti, Le magistrature giudiziarie veneziane e i loro capitolari, Padova 1909, I; G. Heyd, Storia del commercio del Levante nel Medioevo, in Bibl. dell'economista, s. 5ª, X; B. Benussi, L'Istria nei suoi due millenni di storia, Trieste 1924; A. Tamaro, La Vénétie Julienne et dalmatique, Parigi 1919; G. De Vergottini, Lineamenti storici della costituzione politica dell'Istria nel Medioevo, Roma 1924-1925; G. Gerola, Monumenti veneti dell'Isola di Creta, Venezia 1914-1932; A. Andreades, L'administration financière et économique de Venise dans ses possessions du Lévant, in L'Acropole, I, i; R. Cessi, Venezia e l'acquisto di Nauplia ed Argo, in Nuovo arch. ven., n. s., xxx; A. Schaube, Storia del commercio dei popoli latini nel Mediterraneo sino alla fine delle crociate, in Bibl. dell'economista, s. 5ª, XII; B. Dudan, Il diritto coloniale veneziano e le sue basi economiche, Roma 1933.
La provincia di Venezia.
La provincia di Venezia (A. T.; 24-25-26) è una delle otto provincie del Veneto; confina a oriente e a sud-est con il Mare Adriatico per una lunghezza di 97 km.; sulla terraferma con le provincie di Udine, Treviso, Padova, Rovigo. Copre una superficie di 2455 kmq., di cui 552 costituiscono superficie improduttiva, pari al 22,5%, valore altissimo causato dalla grande estensione delle acque palustri e lagunari. Orla la provincia verso il mare la celebre Laguna, distinta in "Laguna viva" e "Laguna morta". Il terreno è pianeggiante, quasi sempre di origine alluvionale, quando si eccettuino cordoni litoranei (lidi) di formazione marina: la costituzione geologica è varla, passandosi dalle marne alle argille, alle sabbie e ai ciottoli; non infrequente una specie di conglomerato, noto col nome di caranto. Attraversano la provincia le sezioni inferiori del Tagliamento, della Livenza, del Piave, del Sile, del Brenta, dell'Adige: per impedire l'interrimento della Laguna si è provveduto in epoche diverse alla deviazione di parecchi corsi d'acqua. Grandiosa si è sviluppata l'opera redentrice della bonifica idraulica e integrale, su di una superficie complessiva di 1378,56 kmq. (la massima zona di bonifica è quella compresa fra il Piave Nuovo e la Livenza Viva con una superficie di 387,09 kmq.).
La provincia era divisa all'atto del censimento 1931 in 43 comuni: la sua popolazione è aumentata da 401.241 individui nel 1901 a 519.208 nel 1921, a 594.415 nel 1931, aumento in buona parte dovuta al grande centro di Venezia e al fattore naturale della eccedenza delle nascite sulle morti, che si mantiene eccellente, molto superiore a quella media generale del regno (1,6% nel 1910-12; 1,5% nel 1930-32). La popolazione sparsa per la campagna risulta molto numerosa, pari al 41% del totale.
La provincia presenta caratteristiche agricole salienti: diffusissimi i seminativi semplici (37, 1%) e con piante legnose (42,3%), specialmente per quanto riguarda il grano (550-600.000 quintali prodotti in media), il mais (1,2 milioni di quintali), la barbabietola da zucchero (1,7 milioni di quintali), i prati avvicendati (oltre 2 milioni di quintali di foraggio); notevole estensione presentano anche le colture legnose specializzate (5,2%) con vigneti (oltre un milione di quintali di uva), pescheti (200-250.000 quintali annui di produzione), gelseti (300-350.000 quintali di foglie); i prati e i pascoli comprendono il 3,3%; quasi assenti i boschi (1, 1%); estesi invece gl'incolti produttivi (11%): date le condizioni ambientali molto intenso è anche l'allevamento, che conta 101.044 bovini, 35.256 suini, 13.311 equini, 3894 ovini, 2797 caprini.
L'industria occupava 54.057 operai nel 1927, per il 72% concentrati nel solo comune di Venezia; hanno inoltre molta importanza Chioggia (3086 operai, occupati in prevalenza nella pesca e industrie relative); Mira (2187 addetti soprattutto nelle industrie chimiche e tessili: da ricordare la fiorente industria delle candele); San Donà di Piave (1731 operai, di cui 639 concentrati in un grande stabilimento tessile); Portogruaro (788 addetti; industrie chimiche e tessili).
Bibl.: Consiglio provinciale dell'Economia, L'attività economica della provincia di Venezia, anni 1924-1925, ivi 1926; anni 1926-1927-1928, ivi 1930; anni 1929-1930, ivi 1931; G. Bortolotto, G. Consolani, V. Valle, La bonifica integrale nella provincia di Venezia, ivi 1929; G. Consolani, Il passato e l'avvenire dell'allevamento bovino in provincia di Venezia, in Rivista di Zootecnia, 1931, pp. 177-198; cfr. pure G. Lasorsa, La ricchezza privata della provincia di Venezia, Padova 1934.