VENEZIA
Città del Veneto, capoluogo della regione, distesa tra le coste e le isole lagunari.In età romana V., come città urbanisticamente organizzata, non esisteva. La Regio X dell'Impero romano di Augusto era chiamata Venetia et Histria. Accanto al nome della regione (Venetia o Venetiae) il toponimo Venetia indicava in senso stretto una zona lagunare che terminava verso N-E con Altino e il Sile (Mazzarino, 1976). Di qui l'origine del nome V. alla città che nacque in ambito lagunare.Si suole distinguere, per il periodo altomedievale, tra Veneti e Venetici: i Veneti sono gli abitanti del Veneto anche prima dell'arrivo dei Romani, mentre venetico è l'aggettivo che si riferisce alla popolazione che, in fuga dal Veneto occupato dai Longobardi, si era rifugiata nel territorio lagunare sia costiero sia insulare (Pellegrini, in La Venetia, 1988). La proposta di Dorigo (1983) che il territorio occupato dalla laguna veneta, fosse, in età romana, terraferma centuriata ha suscitato qualche perplessità (Bosio, 1983-1984; Farinelli, 1984; Carile, in La Venetia, 1988).
Le origini di V. furono interpretate dai cronisti veneziani in chiave mitica: fondazione antica da parte dei Troiani, quasi in opposizione al mito di Enea, fondatore di Roma, e di Antenore, fondatore di Padova (Carile, Fedalto, 1978, p. 66ss.; Braccesi, 1984; Contributi, 1987; La Venetia, 1988) e sempre in chiave autonomistica. V. sarebbe stata indipendente fin dalle origini, cioè da quando sarebbe avvenuta la fuga della popolazione dal pericolo unno di Attila, intorno alla metà del 5° secolo. Una lettera del 537-538 indirizzata ai tribuni maritimi da Cassiodoro (Pavan, in La Venetia, 1988), prefetto del pretorio presso il governo goto, testimonia che attività di barcaioli, di pescatori e di salinari era svolta nell'area lagunare nella prima metà del 6° secolo. Questa zona avrebbe avuto nuovi insediamenti con l'arrivo della popolazione che cercava rifugio nelle sicure terre lagunari dalle invasioni dei Longobardi, dalla seconda metà del 6° alla prima metà del 7° secolo.Per i secc. 6°-8° non si può, dunque, parlare della città di V., bensì di vari centri venetici, meta degli esuli provenienti da singole città occupate dai Longobardi. Troppo schematica è la proposta che, insieme con la popolazione di una città, si sia sempre rifugiato nelle zone lagunari anche il vescovo della stessa. Il vescovo si sarebbe rifugiato da Oderzo (Opitergium) a Cittanova Eracliana, da Altino a Torcello, questo secondo passaggio sembra essere il più sicuro di tutti, mentre è dubbio quello da Concordia a Caorle (Caprulae), e appare problematico quello da Padova a Malamocco (Metamaucus). I dubbi più seri riguardano la cronologia della nascita di questi episcopati in territorio lagunare (Niero, in Contributi 1987).Alle migrazioni di popolazione, o di parte della popolazione, da città occupate dai Longobardi in territori ancora bizantini seguirono poi altre migrazioni per così dire interne, nell'area venetica, a vantaggio per es. della zona di Rialto da parte di popolazioni che avevano lasciato Cittanova, secondo la testimonianza, però tardiva, di Origo (Tozzi, Harari, in La Venetia, 1988, pp. 220-221), secondo la quale gli abitanti di Cittanova si stabilirono a Rialto e vi fondarono chiese e palazzi.Il centro del potere era lungo le coste lagunari: la prima sede dell'autorità della provincia bizantina fu Cittanova Eracliana. I territori costieri, non occupati o non ancora occupati dai Longobardi, furono le zone preferite per gli insediamenti dei fuggiaschi. Essi vi si insediarono riconoscendosi cittadini di una provincia bizantina, la cui autorità locale era, appunto, in Cittanova Eracliana. Lo spostamento del centro del potere a Metamauco (Malamocco), cioè sulla parte meridionale dell'isola del Lido, sul versante lagunare, avvenne nella seconda metà del sec. 8° e solo per qualche decennio, perché agli inizi del 9° la sede ducale venne trasportata, definitivamente, a Rivoalto (Rialto), cioè nell'area dell'od. Palazzo Ducale.I monumenti altomedievali sono certamente pochi, frammentari e spesso incerti per la loro datazione, ma forse sono sufficienti per affermare l'esistenza e di una continuità con il Tardo Antico locale e anche di contiguità figurativa tra terraferma occupata dai Longobardi prima e dai Carolingi poi e l'area lagunare immune dalle invasioni. I frammenti musivi recuperati in un'aula nell'area della cattedrale di Jesolo, l'antica Equilum, datati al sec. 6° (Cuscito, in Contributi, 1987) o al 7° (Dorigo, 1994, pp. 145-149), sono esempi di continuità linguistica e tipologica con i mosaici paleocristiani di Grado, perciò con monumenti della stessa provincia politica. Si tratta di mosaici del pavimento di un'aula, che non è stata il primo edificio cristiano in quel luogo; si sono infatti scoperti i resti di una chiesetta precedente, forse del sec. 5° (Dorigo, 1994, pp. 141-144). La seconda basilica, dedicata a s. Maria, divenne cattedrale nel sec. 9°, quando Equilum era divenuta sede episcopale. A non molta distanza da questo complesso, su cui sarebbe sorta poi la nuova cattedrale, fu innalzata la chiesa di S. Mauro, la cui pianta è conosciuta grazie ad alcuni scavi effettuati nel 1954: si tratta di una chiesetta quasi quadrata, a tre navate e tre absidi inscritte nel muro rettilineo di testata, con quella centrale a pianta rettangolare e le due laterali curvilinee all'interno. La proposta cronologica è dubbia per la mancanza di conoscenza dei resti archeologici: si ragiona soltanto sulla tipologia, che può rimandare a un'età molto alta, addirittura precedente alla seconda edizione della chiesa principale di S. Maria, cioè tra il sec. 6° e il 7°, oppure tra l'11° e il 12° (Dorigo, 1994, pp. 157-160).
Eraclea, cioè Cittanova Eracliana, dal nome dell'imperatore bizantino Eraclio, venne fondata nel 639 dai profughi di Oderzo, probabilmente non sulla terraferma ma su un'isola, oppure su un lembo di terraferma circondata da paludi e canneti (Tozzi Harari, 1984; La Venetia, 1988). Qui si sarebbe trasferito anche il vescovo di Oderzo. La città è andata completamente distrutta; già a partire dalla metà del sec. 15° vi fu soppressa la sede episcopale. Fu possibile l'individuazione dell'area della vecchia città grazie a particolari tecniche fotografiche aeree (Tozzi Harari, 1984; La Venetia, 1988). Lavori di scavo degli anni 1953-1954 misero alla luce le fondamenta di un battistero, che poi scomparvero nel nulla; due rilievi grafici (Dorigo, 1994) tramandano l'esistenza di un battistero a pianta circolare con nicchie, tipologicamente vicino a quello di Torcello.
Un altro centro importante di terraferma fu il complesso dell'abbazia di S. Ilario, nei pressi dell'od. Fusina (Lorenzoni, in Storia di Venezia, 1992; Storia di Venezia, 1994-1995, I). La famiglia dei Particiaci ebbe in questa zona proprietà terriere e qui fu costruita nel 784 una cappella. Nell'819 furono chiamati i monaci benedettini, che vi rimasero almeno fino alla prima metà del sec. 13°, quando si trasferirono in S. Gregorio di Venezia. Dell'antica abbazia non si hanno significativi resti archeologici, se non frammenti di mosaico pavimentale, qualche scultura (Venezia, Mus. Archeologico) e notizie di scavi effettuati nella seconda metà del sec. 19° (Raccolta degli scritti, 1880; Marzemin, 1912). Dalle fonti scritte si hanno queste poche conoscenze: l'819 è l'anno del passaggio della chiesa privata della famiglia dei Particiaci ai monaci benedettini di S. Servolo, mentre nell'883 è documentata la presenza di due chiese, dedicate a s. Ilario e a s. Benedetto.L'uso dei pavimenti musivi sembra essere stato piuttosto diffuso nell'Alto Medioevo veneziano: oltre a S. Ilario, dove si nota un grafismo accentuato con la perdita del senso del colore dei mosaici tardoantichi della zona, si hanno resti di tale tipo di decorazione nella cattedrale di Torcello, a S. Zaccaria e in S. Pietro di Castello, la cattedrale di V., fondata nella seconda metà del sec. 9°, con soluzioni figurative abbastanza semplificate, che si trovano anche nella terraferma longobarda e carolingia (Lorenzoni, 1994). Per quanto riguarda la scultura, si hanno esemplari che rimandano a tipologie paleocristiane, in parte reimpiegati in edifici successivi, come a Torcello (Polacco, 1988), e anche nella basilica di S. Marco, dove sono presenti anche lastre marmoree con stilemi chiaramente carolingi (Lorenzoni, in Le origini di Venezia 1981). Queste vennero poi riusate, con nuove sculture sull'altro lato, in occasione della riedificazione della basilica voluta dal doge Domenico Contarini (1043-1070; Zuliani, in Venezia e Bisanzio, 1974).La sede del potere, dunque, da Cittanova Eracliana passò prima a Malamocco e poi, definitamente, a Rialto, dove per Rialto si deve intendere un'area cittadina non più corrispondente all'attuale, essendo comprensiva anche della zona dell'od. complesso del Palazzo Ducale-basilica di S. Marco. All'inizio del sec. 9° Agnello Particiaco (o Partecipazio) trasferì a Rialto la sede del ducato, accanto alla quale sarebbe sorta poco tempo dopo la prima basilica dedicata a S. Marco; con queste scelte si può far iniziare simbolicamente la storia di V. (Carile, in Carile, Fedalto, 1978, pp. 236-237).
L'appropriazione del culto di s. Marco da parte dei Veneziani fu una scelta politica assai rilevante e significativa. Massenzio, patriarca di Aquileia legato a Carlo Magno e alla sua corte, nel sinodo di Mantova dell'827 chiese e ottenne che fosse ricostituita l'unità del patriarcato, ovviamente a suo vantaggio, con l'annullamento del patriarcato di Grado; questo avrebbe significato per i Veneziani avere un vescovo metropolita legato al Sacro romano impero, e ciò per loro era inaccettabile. Di qui lo stratagemma politico di recuperare il corpo di s. Marco da Alessandria, per farne simbolo di autonomia. Il trafugamento del corpo di s. Marco da Alessandria fu operazione politica e l'importante reliquia, quando giunse a V., venne depositata non nella cattedrale della città, bensì nel Palazzo Ducale, in attesa della definitiva sistemazione in una chiesa che fosse mausoleo marciano e insieme cappella ducale. Il sinodo di Mantova svoltosi nell'827, il trafugamento del corpo di s. Marco da Alessandria nell'828 (sul fatto poi che si sia trafugato veramente il corpo di s. Marco: Niero, in San Marco, 1993), e il testamento del doge Giustiniano Particiaco dell'829 (Cessi, 1942), con il quale atto egli disponeva, tra l'altro, che sua moglie costruisse in onore del corpo di s. Marco una basilica nel territorio di S. Zaccaria, sono gli eventi chiave di tre anni che segnano una svolta nella storia di Venezia.
Nell'829 potrebbe essere stata iniziata la costruzione della nuova chiesa in onore di s. Marco. Di che tipo di chiesa si sia trattato non è facile dire. Fino alla metà del sec. 20° l'unica ipotesi suggerita era quella che proponeva una chiesa a pianta basilicale, di tipo che poi fu definito esarcale (Fiocco, 1937-1938; Bettini, 1966a); Forlati (1951; 1958; 1975), sulla base di scavi effettuati all'interno dell'attuale basilica, propose che la prima chiesa di S. Marco avesse la struttura dell'attuale, cioè a croce con copertura a cupole. A tale conclusione pervenne esaminando le basi dei due pilastri che sorreggono l'arco innalzato tra la cupola dell'Ascensione e quella di S. Leonardo. Secondo Forlati le basi di questi pilastri sono costituite di pietre che hanno il taglio uguale a quello della torre di S. Ilario e del campanile di S. Marco: esse devono essere perciò assegnate al sec. 9°, come le altre due opere citate. L'ipotesi di Forlati fu accettata e fatta propria da Demus (1960), mentre suscitò qualche perplessità in Bettini (1961). Il discorso fu ripreso più tardi (Lorenzoni, 1983a; 1983b): si accennò alla difficoltà di riconoscere un taglio specifico di pietre del sec. 9°, ricordando il fatto che queste ultime venivano adoperate e riusate, ragione per cui non si può escludere che nel sec. 11° si potessero adoperare pietre già precedentemente usate. Come già notato da Bettini (1961), poi, la prima chiesa non sembra poter aver avuto le dimensioni dell'attuale, poiché quando si costruì quest'ultima si abbatté la vicina chiesa di S. Teodoro, che per lungo tempo coesistette con la prima S. Marco: se al momento della ricostruzione della cappella ducale si procedette all'abbattimento di un'altra chiesa, il motivo più esplicito potrebbe essere quello che si voleva ingrandire la nuova chiesa, occupando almeno una parte dell'area della chiesa abbattuta. Dorigo (1983) ha avanzato un'ipotesi del tutto innovativa rispetto alle precedenti. La sua proposta, articolata in modo piuttosto complesso, può essere riassunta così: l'attuale cripta della basilica di S. Marco non sarebbe nata come tale, bensì come il primo edificio marciano, quello commissionato da Giustiniano Particiaco nel suo testamento dell'829. Anche su questa proposta è stata avanzata qualche perplessità (Lorenzoni, in Storia di Venezia, 1992), alla quale ha risposto Dorigo (1993). Chi si è opposto nettamente all'ipotesi di Dorigo è stato Herzner (1985), il quale, a sua volta, ha suggerito una ben diversa ipotesi ricostruttiva, partendo dallo schema dell'attuale basilica: l'edificio sarebbe stato a tre navate con tribune, transetto, tre absidi e ampia cripta. A questa ipotesi si è opposto in modo esplicito Dorigo (1993; San Marco, 1993). Infine Warren (1990; Storia dell'arte marciana, 1997, I) ha suggerito una nuova proposta interpretativa: sarebbe struttura del sec. 9°, riusata nell'11°, buona parte della chiesa attuale e precisamente l'atrio, le navate della basilica con le tre absidi (la centrale sarebbe stata allungata nei lavori contariniani), una sola cupola, quella centrale, senza transetto, secondo uno schema tipologico mediobizantino. Questa ipotesi è stata messa in dubbio dall'intervento di Mainstone (in Storia dell'arte marciana, 1997, I).La prima S. Marco dovette avere un apparato decorativo che era sensibile ai modi c.d. carolingi: la testimonianza è offerta dai già citati plutei riusati in età contariniana.
La prima basilica di S. Marco nacque nel territorio del monastero di S. Zaccaria (Lorenzoni, in Storia di Venezia, 1992) e di fatto tra il Palazzo Ducale e la chiesa di S. Teodoro. Il Palazzo Ducale sorse qualche anno prima della fondazione di S. Marco; la testimonianza di Giovanni Diacono (Cronaca veneziana) è abbastanza precisa: Agnello Particiaco trasportò la sede ducale da Malamocco a Rialto e precisamente nel luogo dove sorge ancora oggi il Palazzo Ducale. Il cronista ricorda che il duca Agnello (810-827) fuerat fabricator del palazzo; secondo Dorigo (1983, p. 535) potrebbe trattarsi di un palazzo costruito in un castello precedente (Lorenzoni, in Storia di Venezia, 1992; Bortolozzi, 1997); per la chiesa di S. Teodoro (Lorenzoni, in Storia di Venezia, 1992) il documento più antico certo è del sec. 10°, mentre del 9°, e precisamente dell'819, è un documento che viene interpretato come riferito alla stessa chiesa (Lorenzoni, in Storia di Venezia, 1992; Dorigo, in San Marco, 1993). Quest'ultima venne abbattuta, come si è già notato, nel 1063, per la costruzione della nuova basilica marciana voluta dal doge Domenico Contarini. Dorigo (1983) ha suggerito l'ipotesi che parte della chiesa di S. Teodoro sia stata inglobata nella nuova basilica marciana e precisamente nella parte finale del braccio settentrionale del transetto (Lorenzoni, in Storia di Venezia, 1992; Dorigo, in San Marco, 1993; Zuliani, in Storia di Venezia, 1994-1995, I, p. 27).
La cattedrale, che rappresentando uno dei due centri del potere ha sempre un ruolo di primaria importanza nelle città medievali, a V. è stata emarginata: dedicata a s. Pietro Apostolo, nel sestiere di Castello, chiamata anche di Olivolo, fu fondata nel sec. 9° a opera del vescovo Orso, che ricordò nel suo testamento di aver fondato e consacrato la chiesa appunto di S. Pietro. Però il primo episcopato in V. risale all'ultimo quarto del sec. 8°, intorno al 775-776. Dunque se ci fu un vescovo dovette esserci anche una chiesa cattedrale prima di quella dedicata a s. Pietro: forse essa è da riconoscere nella chiesa dei Ss. Sergio e Bacco sempre a Olivolo (Lorenzoni, in Storia di Venezia, 1992). Della struttura medievale della cattedrale di S. Pietro è rimasto solo un frammento di mosaico pavimentale, in buona parte restaurato.Con il trasferimento della sede del potere da Malamocco a Rialto, nel Palazzo Ducale, e con la fondazione della basilica di S. Marco, si venne a creare, realisticamente e simbolicamente, il centro del potere veneziano. Fino all'inizio del sec. 9° si può parlare di federazioni di vari centri, con il 9°, invece, di una V. unitaria, che si reggeva su nuove economie mercantili a scapito di quella, pur sempre importante, dell'agricoltura. Alla fine del sec. 9° si creò una città presso Rialto: Giovanni Diacono informa che il doge Pietro Tribuno, nell'897, cominciò a costruire una città, il che potrebbe significare aver dato un assetto urbano alla zona che, come specifica lo stesso cronista, si estendeva da Castello e S. Maria di Zobenigo, all'inizio del Canal Grande. Attualmente mancano attestati archeologici di questo primitivo agglomerato urbano, noto unicamente dalla cronaca di Giovanni Diacono.Il sec. 9° sembra dunque essere stato quello della sistemazione urbanistica definitiva del potere nella zona dell'od. Palazzo Ducale, della nascita del mito marciano, in opposizione al tentativo di sottomissione della Chiesa di Grado ad Aquileia, della definizione di provincia bizantina, con il trattato franco-bizantino dell'814 per difendersi dalle ingerenze dei Carolingi che avevano tentato l'occupazione delle terre lagunari con Pipino, del consolidamento del potere ducale.La storia artistica di V. altomedievale, per quanto riguarda la basilica di S. Marco, continua con ipotesi che si basano su fonti scritte: nel sec. 10° la rivolta popolare contro il doge Pietro IV Candiano (959-976) portò all'incendio di parte del Palazzo Ducale e della basilica di S. Marco e il fuoco s'impadronì anche di molte case vicine al centro del potere. Il successore Pietro I Orseolo (976-978) procedette velocemente al restauro della basilica: probabilmente il fuoco aveva distrutto le parti alte, lignee. Pertanto forse non è esatto parlare di una seconda edizione della basilica marciana; l'intervento di Pietro I Orseolo fu di restauro, non di ristrutturazione totale (Demus, 1960, p. 69).
Il doge Domenico Contarini (1041-1071) fondò la nuova basilica dedicata a s. Marco prendendo a modello la chiesa dei Dodici Apostoli (Apostoleion) di Costantinopoli. La data tradizionale della fondazione è il 1063. I motivi della fondazione della nuova chiesa, in sostituzione di quella che era stata costruita nel sec. 9° e restaurata nel 10°, sono da ricercarsi probabilmente nell'ambito del potere ducale, in un momento di alleanza con l'imperatore d'Occidente Enrico III (1039-1056) e insieme di distacco dalla politica del patriarca di Grado, troppo legato a Roma. Contro il patriarca si affermava il culto di s. Marco nella Chiesa di stato di V., con un rimando tipologico significativo: Marco, infatti, non fu apostolo, ma in quanto evangelista venne parificato agli apostoli. Il riferimento all'Apostoleion di Costantinopoli è già documentato agli inizi del sec. 12° (Zuliani, in Storia di Venezia, 1994-1995, I, p. 21), ma questa attestazione non è esente da dubbi interpretativi. Non è chiaro se il riferimento alla chiesa dei Dodici Apostoli sia una scelta del sec. 11°, o se esso possa essere attribuito anche alla prima edizione della chiesa, cioè a quella del 9° secolo. Si ricordi che la chiesa presa a modello fu fondazione di Giustiniano, dunque del sec. 6°, che perciò può essere stata, per la sua cronologia, modello di una chiesa sia del 9° sia dell'11° secolo. Una possibile soluzione di questo problema deve tener conto delle ipotesi relative alla prima basilica marciana.L'od. basilica di S. Marco è quella fondata da Domenico Contarini e consacrata da Vitale Falier nel 1094. Lungo i secoli subì numerose aggiunte; è dunque opportuno almeno un accenno al suo aspetto verso la fine dell'11° secolo. Essa ha le absidi a E, una più grande centrale e due più piccole e arretrate laterali, il transetto, il naós a tre navate; il sistema di coperture è a cinque cupole, tre sull'asse centrale e una su ciascun braccio del transetto. Al centro si apre la cripta, che ripete l'icnografia di parte della stessa basilica: è stata interpretata come cripta del sec. 9° (Bettini, 1946; Demus, 1960), come basilica del 9° (Dorigo, 1983), e anche solo come cripta dell'11° (Zuliani, in Storia di Venezia, 1994-1995, I). Il braccio occidentale è preceduto da un atrio che è a forma di U, cioè abbraccia i tre lati del braccio stesso. In origine era soltanto sul lato ovest; poi, nel sec. 12°, si procedette a costruirne il proseguimento meridionale, probabilmente aperto e con la Porta da Mar; nel sec. 13° lo si completò con il braccio settentrionale. In origine il portico doveva apparire a due piani (Zuliani, in Storia di Venezia, 1994-1995, I, p. 27) e le cupole avevano il loro estradosso visibile all'esterno: pertanto la struttura dell'alzato era molto più bassa dell'attuale, dominata dalle grandi cupole esterne che con un sistema di carpenteria vennero costruite, nel sec. 13°, sopra le cupole originarie. Per avere un'idea della chiesa del sec. 11° si deve procedere a una totale spoliazione di tutto quell'apparato che, all'esterno, caratterizza la chiesa stessa: lastre marmoree, colonne, mosaici, sculture. Zuliani (1975; Storia di Venezia, 1994-1995, I; Storia dell'arte marciana, 1997, I) ha proceduto a un esame attento di quegli spiragli che permettono una ricostruzione dell'opera in esame; la struttura muraria dell'edificio contariniano era a mattoni a vista, come si vede ancora oggi all'esterno dell'abside maggiore. La facciata dell'atrio poi era caratterizzata da un modularsi articolato di nicchie con il semicatino a spina di pesce, da nicchie piatte e da semicolonne e semipilastrini a sezione varia. Si tratta di un modo assai raffinato di comporre la struttura muraria, che può essere apprezzata solo se vista da vicino. Questi elementi trovano precedenti anche in area bizantina, ma la novità marciana è il loro uso articolato in un complesso unitario (Zuliani, in Storia di Venezia, 1994-1995, I, pp. 34-36).
L'apparato decorativo della basilica marciana, che tradizionalmente viene chiamato contariniano anche se cronologicamente poté essere stato eseguito dopo la morte del doge fondatore (1071), comprende capitelli, lastre e fregi vari. Esso è stato studiato da Buchwald (1962-1964), che ha portato un contributo essenziale, e a lui si devono aggiungere per i capitelli l'intervento di Deichmann (in Deichmann, Kramer, Peschlow, 1981), e, in generale sui fregi, quelli di Richardson (1988), di Polacco (1991) e di Zuliani (in Storia di Venezia, 1994-1995, I). Nel suo complesso l'interno della basilica appare sostanzialmente diverso da quello originario: la decorazione a lastre marmoree delle pareti più basse e a mosaici nelle zone alte deve risalire a non prima della metà del sec. 12°, se si interpreta in modo estensivo il testo dell'iscrizione, del 1159, nella cappella di S. Clemente, che fa riferimento al lavoro di posa in opera di lastre marmoree (Lorenzoni, 1983b p. 431), sotto il dogado di Vitale II Michiel (1156-1172). Se si tratta di un'operazione che poteva coinvolgere tutto l'interno dell'edificio, si potrebbe connettere questa scelta con quella della decorazione complessiva delle parti alte a mosaico. Di una possibile e limitata fase ante 1159 potrebbe essere rimasta testimonianza nella scena della Deposizione dalla croce, di uno dei quattro pilastri della cupola centrale, ora in parte al Mus. della Basilica di S. Marco; il frammento, scoperto da Forlati (1955), ha avuto varie attribuzioni, da Bettini (1966b) che lo pone alla fine del sec. 11°, a Demus (1984) che lo colloca alla seconda metà del 12°, con vari passaggi intermedi (Zuliani, in Storia di Venezia, 1994-1995, I, p. 64; Dorigo, in Storia dell'arte marciana, 1997, II). Agli inizi del sec. 12° è stata attribuita la pittura murale con la Madonna orante (Dalla Barba Brusin, Lorenzoni, 1968), anche se ultimamente Zuliani (in Storia di Venezia, 1994-1995, I) ha ribadito una datazione intorno all'inizio dell'ultimo quarto del 12° secolo. È stata scoperta sotto le lastre marmoree del battistero (Forlati, 1963; Furlan, in Venezia e Bisanzio, 1974); da ultimo, Merkel (in Storia dell'arte marciana, 1997, II) ha pubblicato altri frammenti della stessa scena, ipotizzando una data intorno al 1125.Potrebbe risalire a un periodo anteriore alla data del 1159 anche la decorazione dell'abside e del portale principale di accesso alla basilica. Nella prima sono rappresentati i santi patroni, Marco, Ermagora, Pietro e Nicola, con la figura di Cristo in trono (Ödegaard, Sinding-Larsen, in Storia dell'arte marciana, 1997, II), nella parte alta, rifatta agli inizi del 16° secolo. Queste grandi figure di santi sono state variamente collocate tra la seconda metà avanzata del sec. 11° (Furlan, 1975) e la prima metà del successivo. Demus (1984) suggerisce una differenziazione tra le immagini dei ss. Pietro e Nicola, del sec. 11°, e quelle dei ss. Marco ed Ermagora, rifatte dopo l'incendio del 1106 che le avrebbe rovinate, mentre Polacco (1991) le ritiene tutte e quattro posteriori all'incendio del 1106. Le nicchie del portale maggiore presentano mosaici con la Vergine, gli evangelisti e gli apostoli; Demus (1984) che per questa decorazione ha visto un rapporto tra i mosaicisti, più di uno, attivi in questa parte del monumento e i maestri degli apostoli di Torcello, data il complesso dell'entrata marciana alla seconda metà del sec. 11°, mentre Polacco (in La Venetia, 1988; Polacco, 1991) conclude per una differenza non solo di mani, ma anche di tempo, attribuendo la parte superiore al 12° secolo. Dunque la Deposizione dalla croce e le decorazioni del portale maggiore e dell'abside potrebbero essere i nuclei musivi di una prima scelta iconografica, da datare tra la seconda metà del sec. 11° e la prima metà del successivo, opere realizzate o per lo meno guidate da maestranze bizantine, come già era avvenuto, intorno alla metà del sec. 11°, nella cattedrale di Torcello.Si sono cercati punti di riferimento in eventi straordinari più o meno distruttivi, l'incendio del 1106 e il terremoto del 1117, legando alcuni mosaici a una data anteriore o posteriore a questi anni. Rimane comunque difficile un esame particolareggiato e convincente dei mosaici marciani, non solo per la loro complessità quantitativa, ma anche per i restauri, le aggiunte e i rifacimenti protrattisi lungo i secoli, con la presenza di una sorta di cantiere sempre aperto (Andaloro, in Storia dell'arte marciana, 1997, II). La complessità della decorazione obbliga in questo caso a evidenziare i nuclei più rilevanti delle pitture medievali, a partire, dopo quelli già citati, dalla cupola orientale, dell'Emanuele. Cristo venturo è predetto dai profeti che, insieme con la Vergine, fanno da corona al Cristo nel clipeo stellato. Demus (1984) ha ritenuto che le figure dei profeti Geremia, Abdia, Abacuc e Daniele siano i resti della primitiva decorazione da datarsi alla fine del sec. 11°, mentre Polacco (in La Venetia, 1988) e Zuliani (in Storia di Venezia, 1994-1995, II), con diverse motivazioni, non hanno accettato questa distinzione; Zuliani ha anzi suggerito di invertire le precedenze, ipotizzando che le immagini dei profeti Geremia, Daniele, Abdia e Abacuc siano successive alle altre; Dorigo (in San Marco, 1990) accetta invece la proposta cronologica di Demus, prospettando una data piuttosto tarda, seconda metà del sec. 12°, per il rifacimento della cupola. Ma le differenze tra i vari gruppi di mosaici non sono necessariamente causate da differenze cronologiche, ma anche dai modelli assunti, soprattutto miniature (Demus, 1984), e dalla qualità delle botteghe operose in questo enorme cantiere. Una svolta stilistica chiara è offerta dalla decorazione della cupola centrale, con l'Ascensione, alla quale vanno connesse le decorazioni dell'arcone della Passione e della cupola occidentale, con la Pentecoste. Questa svolta stilistica potrebbe essere datata agli anni settanta del 12° secolo. Se si assume come uno spartiacque possibile la decorazione della cupola dell'Ascensione, si può verificare quali siano i mosaici che sono attribuiti prima di questa decorazione. Essi comprendono le decorazioni con Storie marciane delle cappelle di S. Pietro e di S. Clemente, le cupole del transetto con parti delle storie sottostanti, le Storie cristologiche sotto la cupola dell'Ascensione, quali l'Entrata in Gerusalemme, l'Ultima Cena e la Lavanda dei piedi.Negli anni settanta si provvide alla complessa decorazione della cupola centrale, forse di quella occidentale, e dell'arcone della Passione. La cupola più interessante è certamente quella dell'Ascensione, al centro del transetto e dell'asse principale, nella quale fu attivo un grande maestro che portò nuove suggestioni bizantine. Demus (1984) ha riconosciuto più maestri attivi nella decorazione di questa cupola, ma si può anche ritenere che spetti al capobottega la scelta delle novità linguistiche e che allo stesso si possa attribuire anche la decorazione dell'arcone della Passione. La cupola centrale ha al centro l'immagine di Cristo che ascende al cielo. Quindi è rappresentata la teoria degli apostoli, che, secondo Demus (1984), comprende anche le figure di Marco e Paolo, e la Vergine tra angeli. Alla base della cupola si aprono le finestre, tra le quali sono raffigurate sedici Virtù, ciascuna con un cartiglio recante alcune parole relative alla virtù stessa; sui pennacchi, infine, sono rappresentati i quattro evangelisti, ciascuno in una città (Niero, in San Marco, 1990, 129-142). La decorazione di questa cupola è caratterizzata da uno stile linearistico complesso e articolato, che agita le pieghe delle vesti, insiste su una frequente torsione dei corpi, con un'accentuazione coloristica certamente nuova rispetto ai mosaici precedenti. Questo scarto linguistico può essere stato determinato dalla presenza di artisti bizantini, sensibili ai modi documentati dalle pitture di S. Pantaleimone di Nerezi (Macedonia) del 1164 e che in Macedonia portarono a esiti sempre più accentuatamente dinamici, fino alle agitatissime raffigurazioni di S. Giorgio di Kurbinovo (1191). Dunque la cupola dell'Ascensione, per sua qualificazione stilistica, potrebbe essere datata alla seconda metà del sec. 12°, dopo Nerezi e prima di Kurbinovo, se si potesse ammettere e accettare una linea di cammino coerente, il che non è possibile. In ogni modo, una datazione di questa decorazione al tempo del dogado di Sebastiano Ziani (1172-1178) sembrerebbe abbastanza plausibile, il che potrebbe trovare una qualche conferma indiretta, ma significativa, nell'attività impegnata di questo doge.Il maestro, con collaboratori, che decorò la cupola dell'Ascensione dovette continuare il suo lavoro su uno degli arconi sottostanti, quello verso O, con le scene della Passione di Cristo, quali per es. la Crocifissione, le Pie donne al sepolcro e la Discesa al limbo, nelle quali si trovano gli stessi stilemi presenti nell'Ascensione. La grande decorazione della parte alta dell'asse principale si conclude con la Pentecoste della cupola sopra la navata. Demus (1984), premesso il fatto che si tratta di una decorazione restaurata in più occasioni e pertanto assai poco originale, la anticipa alla metà del secolo; successivamente a lui, sia Dorigo (in San Marco, 1990) sia Zuliani (in Storia di Venezia, 1994-1995, I) preferiscono porla in connessione più o meno diretta con la cupola dell'Ascensione.Approssimativamente entro la fine del sec. 12° dovette concludersi la decorazione della zona alta dell'asse principale, in cui si è individuato un tema che Niero (in San Marco, 1990, pp. 95-106) ha definito liturgico o ciclo della salvezza. Demus (1984) precedentemente aveva cercato di individuare possibili analogie tra la decorazione di S. Marco e quella, perduta con l'edificio, della basilica dei Dodici Apostoli di Costantinopoli. Accanto a questo tema salvifico, v'è quello agiografico, soprattutto con le Storie marciane (cappella di S. Pietro e di S. Clemente), da datare intorno alla metà del 12° secolo. Pur di età diverse, sono state fatte rientrare in questa categoria (Niero, in San Marco, 1990, pp. 69-78) le Storie della Vergine, di s. Giovanni Battista e di s. Isidoro.Al sec. 12°, pur con successivi interventi di restauro, va attribuito il grande pavimento della basilica, in opus sectile e opus tessellatum (Barral i Altet, 1985; Polacco, in Le porte di bronzo, 1990; Florent-Goudouneix, in San Marco, 1991; Farioli Campanati, in Storia dell'arte marciana, 1997, II), al quale si collega quello della chiesa dei Ss. Maria e Donato di Murano, finito nel 1141 (Rinaldi, 1994).Secondo le cronache, ai dogi Vitale II Michiel e Sebastiano Ziani spetterebbe l'ampliamento della piazza S. Marco. Si tende a riconoscere a Sebastiano Ziani questa iniziativa, che va vista in un progetto più ampio: il rifacimento di Palazzo Ducale e l'erezione, verso il molo, delle due colonne di granito con basi scolpite, ma ormai quasi illeggibili, colonne sulle quali sarebbero state poste le raffigurazioni di Todaro, cioè di S. Teodoro (Mariacher, 1947), e del leone di S. Marco (Il leone di Venezia, 1990; Scarfì, in Storia dell'arte marciana, 1997, III). L'ampliamento della piazza avvenne con l'interramento del canale Batario, che correva circa a metà dell'attuale piazza, a O del campanile, e con lo spostamento della chiesa di S. Geminiano alla fine della nuova piazza (Agazzi, 1991). L'ampliamento della piazza verso O, fino a raggiungere pressappoco le dimensioni attuali, può aver comportato modifiche sostanziali all'esterno della basilica marciana. La sua struttura a mattoni a vista, nella sua ricercata raffinatezza, poteva essere apprezzata se vista da vicino; pertanto, quando si procedette all'ampliamento della piazza, si dovette provvedere a caricare di valori visivi l'esterno dell'edificio: a partire, dunque, dall'ultimo quarto del sec. 12°, si iniziò quella lunga operazione di arricchimento di significato dell'esterno, con mosaici, lastre marmoree, colonne di vari marmi, sculture, operazione che poi si prolungò per secoli, ma che trovò nel Duecento una sistemazione esplicita anche con la creazione dei grandi estradossi delle cupole, che sono sorretti da un abile gioco di carpenteria, posando sull'impostazione delle cupole originarie, e ponendo anche dei problemi tecnico-statici (Bettini, 1946; Zuliani, in Storia di Venezia, 1994-1995, I); gli estradossi sono coperti da lastre di piombo, come si vede ancora oggi. Allo stesso doge Sebastiano Ziani è riferita la ristrutturazione del Palazzo Ducale: su parte dell'antico castello particiaco si sarebbero costruiti il palatium ad ius reddendum e, verso il molo, il palatium commune (Dorigo, 1983; Agazzi, 1991; Bortolozzi, 1997), i due palazzi sui quali a partire dal sec. 14° si sarebbe innalzato l'od. Palazzo Ducale. Con Sebastiano Ziani dunque cambiò lo scenario fuori e dentro S. Marco: il centro del potere veneziano, rinnovato o in via di rinnovamento, divenne nel 1177 luogo di un importante incontro politico internazionale. Sebastiano Ziani qui accolse l'imperatore Federico I Barbarossa e il papa Alessandro III.L'inizio del sec. 13° è segnato da un altro evento di eccezionale significato politico per V. stessa: la quarta crociata. Nel 1202 i Veneziani avevano organizzato i mezzi di trasporto e il vettovagliamento per effettuare la nuova impresa. I crociati giunti a V. non avevano i soldi necessari a pagare quanto dovevano ai Veneziani, che li convinsero a una prima diversione a Zara, il cui bottino sarebbe servito per pagare parte del debito. Seguì una seconda diversione dal programma originario: l'occupazione di Costantinopoli. Nell'aprile del 1204 i crociati entrarono nella capitale imperiale. V. era all'apogeo della sua potenza e cercava di essere la nuova Costantinopoli. Il bottino recuperato nella capitale imperiale fu ingentissimo e spesso di alto significato: basti pensare al Tesoro di S. Marco (Il tesoro di San Marco, 1971), che in buona parte ha tale provenienza. Sono giunti da Costantinopoli anche i quattro cavalli bronzei già nella loggia esterna della basilica e ora al Mus. della Basilica di S. Marco (Vlad Borrelli, in Storia dell'arte marciana, 1997, III), il gruppo dei Tetrarchi di porfido all'esterno della basilica e il busto, pure di porfido, del c.d. Carmagnola ora in Procuratoria di S. Marco (Tigler, 1995b), i pilastri 'acritani' lungo il lato meridionale, vicino a quella che era la Porta da Mar (Favaretto, in Storia dell'arte marciana, 1997, III), le colonne, ancora di porfido rosso e porfido verde e di altro marmo, poste sulla facciata della basilica, e ancora tre lastre marmoree della facciata, legate al Maestro di Ercole. E all'interno potrebbero derivare dal bottino le lastre di porfido rosso e verde dei due pulpiti, quello rosso riservato principalmente al doge, quello verde per le letture sacre (Minguzzi, 1991-1992; Lorenzoni, in corso di stampa), e gli smalti della parte superiore della Pala d'oro.Sopra l'altare maggiore è posto un ciborio sorretto da quattro colonne di alabastro, completamente decorate. Ciascuna colonna presenta nove registri, ognuno dei quali è scandito da una serie di nicchie. Il racconto comincia con le Storie, tratte dai vangeli apocrifi, dei genitori di Maria, Gioacchino e Anna, per giungere, attraverso le scene cristologiche, all'Ascensione al cielo di Gesù. Lo schema compositivo di fondo delle nicchie e la levigatezza traslucida delle singole sculture hanno indotto a suggerire un'origine antica, paleocristiana del sec. 5°, per queste colonne. Ma a una lettura attenta sembra si possano scorgere spie indicative della realizzazione del falso antico: il rapporto nicchia-scena è sentito dialetticamente, i personaggi sembrano spesso emergere dalle singole nicchie, superando il limite della stesse. Dunque è assai probabile che si sia voluto imitare l'Antico: in altre parole l'intenzione sembra essere stata quella di un revival paleocristiano, al fine di glorificare, in nome della tradizione antica, il nome di s. Marco (Polacco, 1987; Il tesoro di San Marco, 1994). Nel 1209, con il rinnovamento della Pala d'oro (Polacco, in Il tesoro di San Marco, 1994) si sarebbe posto mano al rifacimento completo del ciborio (sull'uso e sul significato del porfido verde: Lorenzoni, in corso di stampa), comprese le statue dei quattro evangelisti seduti, che si trovano nella parte alta del ciborio stesso, mentre recentemente è stata ribadita l'attribuzione ad Antonio Lombardo del Cristo risorto, la quinta statua tra i quattro evangelisti (Markham Schulz, in Storia dell'arte marciana, 1997, III). Ancora nell'ambito del revival paleocristiano sono da porsi i due pannelli scolpiti, ora inseriti nella muratura della cappella delle Reliquie nel Tesoro di S. Marco: la Traditio legis e il Cristo entro il clipeo sorretto da angeli. Nel primo caso si tratterebbe di una Traditio di significato diverso: la persona alla destra di Cristo non riceverebbe la Legge ma consegnerebbe un testo a Cristo, sarebbe cioè l'evangelista Marco che consegna il suo vangelo a Cristo. Ultimamente per queste due sculture si è proposto che si tratti di parti antiche parzialmente rifatte e adattate al culto veneziano nel Duecento (Kaiser-Minn, in Storia dell'arte marciana, 1997, III). Agli inizi del Duecento, dunque, in V., soprattutto nell'ambito dogale, si nota un chiaro ed esplicito revival classicistico, dove per classico s'intenda il Tardo Antico.Nei primi due decenni del secolo procedeva anche la decorazione musiva della basilica marciana. Sulla parete meridionale del naós si eseguì la scena continua dell'Orazione nell'orto. Essa è interessante anche da un punto di vista iconografico: il racconto, secondo Demus (1984), può essere letto sia da destra sia da sinistra, ma soprattutto si caratterizza quale esempio di altissima qualità di una scuola ormai specificatamente veneziana, che esce dalla tradizione che, qualche anno prima, aveva condotto alla realizzazione dei mosaici dell'Ascensione e della Passione. Per suggerire una cronologia, si può far riferimento a una lettera di papa Onorio III che nel 1218 chiese al doge veneziano Pietro Ziani (1205-1229) l'invio di mosaicisti per la decorazione della basilica di S. Paolo f.l.m. di Roma (Pressutti, 1888, p. 173, doc. 1019). Alcuni frammenti musivi della decorazione di questa basilica attestano la loro origine veneziana, con legami appunto con la scena marciana dell'Orazione nell'orto, che è stata pertanto considerata anteriore al 1218. Quest'ultima, opera di almeno tre diversi esecutori, secondo Demus (1984), fu probabilmente invenzione di un grande maestro che poi nella realizzazione si fece aiutare, come di consueto, da una bottega composita; si può dunque parlare di un grande e geniale maestro per l'Orazione nell'orto (Zuliani, in Storia di Venezia, 1994-1995, I) che, pur legato alla tradizione dei suoi predecessori in S. Marco, inventa nuove formule, suggerisce un uso più elaborato del colore, ma soprattutto compie un'operazione di sintesi nel racconto drammatico descritto: il gruppo degli apostoli addormentati l'uno sull'altro, la solitudine di Cristo, i colloqui con s. Pietro.Di qualche anno più tardi sono gli esempi del c.d. stile prezioso (Demus, 1984): si tratta di alcune icone che rappresentano, nel braccio occidentale, l'Emanuele a N e la Vergine orante a S, ciascuna tra quattro figure di profeti. Questo stile, pur affondando la sua origine nella tradizione bizantina, assume un carattere in qualche modo veneziano, ma in un modo diverso dall'Orazione nell'orto. In queste icone musive, la ricercatezza formale si fa più esplicita, attraverso un colore luminoso e una linea spesso esile, che tende a slanciare le figure. Nel contesto musivo duecentesco queste icone rappresentano un unicum, però sembrano aver avuto qualche influsso su talune opere di miniatura realizzate in ambito marciano, sulle quali è necessario almeno un cenno storico.Le ricerche di Mariani Canova (in Cattin, 1990; Storia di Venezia, 1994-1995, II) sulla miniatura veneziana hanno messo in evidenza i rapporti tra l'ambito marciano e la cultura del retroterra veneto e padano: un esempio è offerto dai tre passionari eseguiti per la basilica di S. Marco e ora alla Bibl. Naz. Marciana di V. (lat. Z. 356 [16°9]; lat. IX, 27 [2797]; lat. IX, 28 [2798]). La prima parte del primo codice presenta uno stile c.d. geometrico che ha la sua origine nell'area umbro-romana e diffuso anche in un ampio retroterra che si può definire in senso lato veneto-padano, da Bologna a Trento e a Padova nel sec. 12°; la seconda parte di questo passionario e gli altri due manifestano una tendenza a interpretare in modo più coloristico la tradizione dello stile geometrico. La parte forse più interessante è quella relativa alle aggiunte duecentesche del terzo passionario: tutto viene qui interpretato con una eleganza formale, sia del ductus lineare sia del colore, che induce al collegamento con lo stile prezioso dei mosaici marciani. Lo stesso autore dell'aggiunta del passionario appena considerato miniò il Commento al vangelo di S. Marco (Bibl. Naz. Marciana, lat. Z. 5°6 [1611]), opera assai più complessa delle precedenti aggiunte, ulteriore prova dello stile prezioso (Mariani Canova, in Cattin, 1990; Storia di Venezia, 1994-1995, II). Ma al di là di questo possibile legame con taluni aspetti della miniatura marciana della prima metà del Duecento, i mosaici dello stile prezioso non hanno avuto seguito.Pressappoco nello stesso giro di tempo, tra il secondo e terzo decennio del secolo, si diede inizio alla decorazione di un altro complesso musivo di grande interesse storico, quello dell'atrio, con temi tratti dall'Antico Testamento. Nel braccio occidentale la decorazione, da S verso N, comincia con la cupoletta della Genesi, seguono le Storie di Noè e la Torre di Babele, la cupoletta con Storie di Abramo, quindi la cupoletta con le Storie di Giuseppe. Alcune di queste scene possono aver avuto a modello miniature come quelle del c.d. Genesi Cotton (Londra, BL, Cott. Otho B.VI; Tikkanen, 1888). Si giunse così alla fine del braccio occidentale e qui furono interrotti i lavori, probabilmente in attesa del compimento del braccio settentrionale dell'atrio. Un'interruzione viene ipotizzata tra i venti (Zuliani, in Storia di Venezia, 1994-1995, II) e i trent'anni ca. (Demus, 1984; Dorigo, in San Marco, 1990); quindi si ebbe la ripresa dei lavori, che durarono fino al 1270 ca. con la decorazione del braccio nord, con altre due cupolette con Storie di Giuseppe e la cupoletta finale con Storie di Mosè. Dalla cupola della Genesi, dove le figure piuttosto grevi si affollano su tutto lo spazio a disposizione, si passa alla decorazione delle cupolette del braccio nord, dove le figure, linearmente più agili, si dispongono ai margini, lasciando libera la parte centrale, dominata da una sorta di rosone, che sembra di derivazione romana e che, qualche decennio dopo, si sarebbe trovato anche in S. Salvatore in Chora di Costantinopoli (Grabar, 1957).Tra tutte le porte dell'atrio e della basilica di S. Marco si isola, per la sua originale tipologia, quella centrale dell'atrio, che appare strombata con più archi, tre dei quali sono decorati da sculture. I battenti di questa porta sono stati considerati provenienti dalla chiesa di Santa Sofia di Costantinopoli, ma l'ipotesi appare inaccettabile (Mende, in Le porte di bronzo, 1990; Polacco, ivi; Iacobini, in Storia dell'arte marciana, 1997, III). Nella nicchia sopra la porta è collocato un gruppo marmoreo raffigurante il Sogno di Giuseppe (Zuliani, in Storia di Venezia, 1994-1995, I), letto anche come il Sogno di Marco. Nel semicatino tra il secondo e il terzo arcone v'è un mosaico ottocentesco: in origine vi era la scena della Parusía, cioè la seconda venuta di Cristo, per il giudizio finale. I tre archi sono scolpiti nel sottarco e nella fascia esterna con scene di non sempre facile interpretazione (Tigler, 1995). I due cicli del primo arco potrebbero rappresentare la lotta tra il bene e il male, in una sorta di età del caos anteriore alla nascita della civiltà. I Mesi e lo Zodiaco del secondo arcone potrebbero essere letti come segni della consapevolezza della successione temporale e della conoscenza delle stelle e delle loro influenze sull'umanità: si passerebbe così dal caos all'ordine, ancor più significativamente espresso dalla decorazione della fronte dello stesso arco, dove le Virtù e le Beatitudini possono essere assunte come segni di un passaggio dal processo di individuazione del senso del tempo e della scienza astrologica alla necessità dell'esistenza di una scienza morale. E infine il terzo intradosso, con i mestieri veneziani: un altro tipo di ordine, quello dell'operosità del popolo veneziano, segno di civiltà e di organizzazione dello Stato e anche di concordia sociale. Infine, sulla fronte i profeti, la cui presenza potrebbe connettersi con il mosaico della Parusía.Questa è solo una possibile chiave di lettura dell'insieme delle decorazioni degli arconi marciani, altre ve ne sono state, anche in tempi recenti (Quintavalle, in Storia dell'arte marciana, 1997, III). Altra caratteristica specifica delle sculture marciane è che esse erano dipinte: tracce di oro sono state individuate, tranne che nella rappresentazione degli incarnati e dei capelli (Lazzarini, Piana, 1988).
Per quanto riguarda la cronologia del complesso, la tendenza forse più accettabile è quella che mira a ridurre l'arco di tempo dell'esecuzione da un cinquantennio ca. a cavallo della metà del secolo (Demus, 1960) a un periodo molto più limitato, approssimativamente a un decennio ca., allo scadere della prima metà del secolo (Tigler, 1995). I termini estremi potrebbero essere questi: post 1220-1225, cioè dopo l'esecuzione dei primi mosaici dell'atrio, che potrebbero essere stati modelli per alcune sculture, e ante 1268, cioè prima della descrizione di Martino da Canal (Les Estoires de Venise). Ma è stato rilevato anche un altro punto di riferimento: il 1240, data del portale, o meglio di parte dell'od. portale del duomo della città dalmata di Traù, in Croazia (Tigler, 1997). Il suo autore, il maestro Radovano, avrebbe avuto a modello alcuni particolari del portale marciano, che pertanto dovrebbero essere stati eseguiti prima del 1240. Il tipo del portale dell'atrio marciano è stato definito da cattedrale (Zuliani, in Storia di Venezia, 1994-1995, I), con riferimento ai portali delle cattedrali dell'Ile-de-France; per quanto riguarda lo stile, si tratta di un intervento occidentale, pur, in qualche caso, con legami bizantini, ma ben diversificate appaiono le proposte in merito (Zuliani, in Storia di Venezia, 1994-1995, I; Tigler, 1995; Belemarić, in Storia dell'arte marciana, 1997, III; Quintavalle, ivi, III). Sia all'esterno sia all'interno dell'edificio si trovano alcuni archi inflessi di derivazione islamica (Demus, 1960; Lorenzoni, 1989).
Negli stessi anni in cui si stava completando la decorazione del braccio settentrionale dell'atrio si procedeva alla decorazione delle lunette della facciata; di originale è rimasta solo quella settentrionale, che prende il nome di S. Alipio, con alcune scene del Trafugamento del corpo di s. Marco. Sempre alla seconda metà del sec. 13° sono attribuite (Demus, 1984) le due scene che si trovano all'interno della basilica nel braccio meridionale del transetto, con la Preghiera per il ritrovamento del corpo di s. Marco e il Ritrovamento del corpo di s. Marco (c.d. miracolo del pilastro).All'esterno della basilica marciana sono presenti due altri complessi decorativi, a icone scultoree, che sono state attribuite alla bottega di un unico maestro definito da Demus (1960) il Maestro di Ercole. Sul lato nord della basilica ve ne sono cinque, rappresentanti Cristo e i quattro evangelisti; le due icone di Cristo e di S. Giovanni sono al Mus. Diocesano d'Arte Sacra, Lapidario Marciano. Secondo Kieslinger (1944) e poi Demus (1960) e Bettini (1961), queste icone avrebbero fatto parte di una iconostasi di S. Marco, del sec. 13°; Polacco (1975) suggerì l'ipotesi che esse decorassero la parte alta della loggia c.d. dei cavalli all'esterno della basilica stessa. Sulla facciata vi sono sei rilievi, qui fin dall'origine, come sembra documenti il mosaico della porta di S. Alipio, due con Storie di Ercole (uno di questi è al Mus. Diocesano d'Arte Sacra, Lapidario Marciano) e altri quattro con la Vergine orante, l'arcangelo Gabriele, S. Demetrio e S. Giorgio. Il nome di Maestro di Ercole deriva dal rilievo di Ercole con l'idra di Lerna e la cerva di Cirene della facciata della basilica, verso S. Sono qui rappresentate due delle Fatiche di Ercole, riunite in un'unica scena. Si tratta di un rilievo piuttosto basso, tutto intriso di un linearismo acuto che rende un senso di tensione, opera, secondo Demus (1960), di un maestro veneziano che interpretò liberamente il molto più classico rilievo con Ercole con il cinghiale di Erimanto e con lo spaventato Euristeo dentro una botte, rilievo che si trova all'estremità opposta della facciata, verso N. Quest'ultimo potrebbe essere un'opera tardoantica, forse bizantina, degli inizi del sec. 5°, o un'imitazione dell'Antico del 10° secolo. Le suggestioni classiche del secondo rilievo vengono liberamente interpretate dallo scultore del primo rilievo, che, pur partendo dall'esemplare bizantino, ne travalica il significato, con quella tensione lineare, quasi tagliente, che caratterizza lo stile di questo Maestro di Ercole. Un rapporto in parte analogo a quello notato tra questi due rilievi sembra esserci tra le due icone marmoree poste a fianco del portale maggiore, rappresentanti S. Demetrio e S. Giorgio. Il S. Demetrio appare opera bizantina, mentre il rilievo con il S. Giorgio ne è una copia fredda e appiattita. Delle altre due icone della facciata, che rappresentano la Vergine orante e l'arcangelo Gabriele, la prima ha certamente avuto come modello un esemplare bizantino, di antica tradizione, ma sicuramente ben conosciuto a V. ancora nel 13° secolo. Anche quest'opera è stata attribuita da Demus (1960) al Maestro di Ercole; l'autore dell'arcangelo Gabriele, invece, pur rifacendosi certamente a modelli bizantini, per quanto si può leggere in un'opera un po' rovinata dalle intemperie, sembra più sensibile ai modi gotici, per la fluidità e la morbidezza del panneggio, che al linearismo accentuato del Maestro di Ercole. Il significato simbolico della presenza di queste sei icone sulla facciata della basilica è stato ben approfondito da Demus (1960), che ha posto l'attività di questo maestro negli anni intorno al 1240, mentre Zuliani (in Storia di Venezia, 1994-1995, I), che attenua la sua rilevanza figurativa, propone la seconda metà del secolo.Verso la fine del Duecento, se non agli inizi del secolo successivo, si può datare una delle poche opere pittoriche su legno della basilica marciana: la Madonna allattante (in veneziano Madona de la late; Mus. della Basilica di S. Marco), che era collocata nell'atrio della basilica e poi, documentata nel sec. 16°, nella cappella di S. Teodoro. La cornice di questa icona presenta sui lati lunghi verticali tre santi per parte, sul lato superiore orizzontale, in buona parte perduto, frammenti di Cristo tra angeli, mentre il lato inferiore presenta un cornicione in prospettiva, che è elemento estraneo alla tipologia delle icone, nel senso tradizionale del termine. La scena principale è caratterizzata dalla presenza di una volumetria delicatissima, segnata da linee taglienti, come risulta assai esplicito nella definizione degli occhi; si è suggerita una derivazione pisana, pur con diverse sfumature (Garrison, 1949; Pallucchini, 1964; Bettini, 1968; Zuliani, in Venezia e Bisanzio, 1974; Zuliani, in Storia di Venezia, 1994-1995, I).Nella prima metà del sec. 14° furono commissionate per la basilica marciana due serie di antifonari, oggi all'Arch. di Stato (Procuratori de supra, Serie Chiesa, Reg. 113-118): una completa di cinque volumi e una ridotta a uno solo. Secondo una tradizione, questi antifonari sarebbero stati eseguiti nel 1318 (Marcon, in Cattin, 1990). Essi subirono varie traversie, che causarono la scomparsa o il danneggiamento di varie miniature, come la scena della Pentecoste, che fu in parte tagliata. Essa, pur nella sua frammentarietà, palesa chiaramente la conoscenza, da parte del suo autore, degli affreschi giotteschi della cappella degli Scrovegni di Padova (Mariani Canova, in Cattin, 1990). Un altro piccolo e rovinatissimo, quasi illeggibile, ciclo pittorico che sembra rimandare a prototipi giotteschi è l'affresco, con scene cristologiche (dall'Annunciazione alla Deposizione nel sepolcro) sulla volta dell'andito Foscari, che conduce alla porta del transetto sud della basilica di S. Marco dal cortile di Palazzo Ducale (Merzagora, Michieletto, 1978; Merkel, in Storia dell'arte marciana, 1997, II).La storia della basilica marciana si lega, intorno alla metà del sec. 14°, alla figura del doge Andrea Dandolo (1343-1354), che fu anche letterato, giurista e storico. A lui spetta il merito anche della ristrutturazione della Pala d'oro di S. Marco. Eseguita la prima volta nel 1105, dal doge Ordelaffo Falier (1102-1117), era stata ampliata nel 1209, sotto il dogado di Pietro Ziani, con l'aggiunta della sua parte superiore, caratterizzata soprattutto dalla presenza degli smalti grandi che rappresentano sei delle Dodici feste bizantine e S. Michele Arcangelo al centro, certamente di provenienza costantinopolitana, parte del bottino della quarta crociata. L'edizione dalla Pala, come oggi si vede, è quella ordinata da Andrea Dandolo, come si ricava dall'iscrizione incisa su due tavolette dorate, che si trovano nella parte inferiore dell'opera. Questa iscrizione è posta tra le figure della Vergine, del doge Ordelaffo Falier e dell'imperatrice bizantina Irene. Come è stato anche recentemente ribadito (Il tesoro di San Marco, 1994), in origine al posto della rappresentazione del doge doveva esservi quella di un imperatore bizantino, probabilmente di Alessio I Comneno (1081-1118), marito di Irene. Andrea Dandolo avrebbe fatto sostituire la testa dell'immagine imperiale con quella di Ordelaffo Falier, con l'aggiunta della scritta esplicativa del nome del doge, con il preciso intendimento politico di glorificare lo Stato del quale era il rappresentante, con la sua teoria del 'principe', artefice della felicità del suo popolo, il cui modello era Costantino, e del princeps di V., dominatore in Europa e padrone della Romània, che appariva come il nuovo Costantino (Cracco, 1976). Il complesso della Pala d'oro venne completato nel 1345, con la coperta dipinta, opera di maestro Paolo Veneziano (v.) insieme con i figli Luca e Giovanni. Va inoltre ricordato che Andrea Dandolo fu il committente di due decorazioni di mosaici marciani, quelli del battistero e della cappella di S. Isidoro. Nel battistero egli stesso fu sepolto in un monumento con epitaffio dettato da Francesco Petrarca, e fu l'ultimo doge a essere sepolto nella basilica di S. Marco. La cappella di S. Isidoro, invece, fu costruita dopo la famosa peste del 1348 e la decorazione fu completata l'anno seguente la morte di Andrea Dandolo (1354). Questi mosaici, legati direttamente o indirettamente ad Andrea Dandolo, manifestano chiaramente, sia per i colori brillanti e vivaci sia per l'acceso linearismo, un apporto che si definisce gotico.E ancora a lui spetta la committenza di parte dell'importante intervento della metà ca. del sec. 14° sul Palazzo Ducale. Dopo le ristrutturazioni del tempo di Sebastiano Ziani vi furono nel palazzo interventi anche importanti ma probabilmente limitati a parti singole. Intorno alla metà del secolo si procedette a una nuova ristrutturazione, a grandi linee l'attuale, a seguito della decisione di costruire una sala del Maggior Consiglio adeguata a ricevere tutti i consiglieri, che nel giro di ca. mezzo secolo erano aumentati, a varie riprese, da trecento a più di mille. Alla fine del 1340 si decise di costruire una grande sala al primo piano. È l'avvio della costruzione del nuovo Palazzo Ducale (Bassi, 1962), la cui costruzione e decorazione scultorea vennero attribuite a Filippo Calendario, che morì, impiccato, in quanto partecipe della congiura del doge Marino Falier, nel 1355. Questa vecchia attribuzione, ribadita recentemente da Wolters (1976; 1987), non è stata accettata, per es., da Lazzarini (1963) e recentemente da Puppi (in L'architettura, in corso di stampa): per costoro Calendario sarebbe stato soprattutto un mercante di pietre e marmi (Schuller, in L'architettura, in corso di stampa). E nella sala del Maggior Consiglio, tra il 1365-1368 intervenne Guariento di Arpo (v.) con il grandioso affresco del Paradiso, ridotto a pochi frammenti.L'ultimo intervento trecentesco significativo nella basilica marciana fu la costruzione della iconostasi principale, datata 1394, firmata dai fratelli Jacobello e Pierpaolo dalle Masegne (v.). Come fosse realizzata precedentemente la chiusura tra presbiterio e naós non è facile stabilire; ci sono state proposte varie, da Kieslinger (1944) a Polacco (1975), che hanno interpretato parte dell'iconostasi di S. Maria di Torcello come proveniente dall'iconostasi marciana di età contariniana, mentre successivamente lo stesso Polacco (1989a) ha proposto una soluzione diversa. Qualche anno dopo l'iconostasi marciana, il solo Pierpaolo portò a termine la grande finestra verso il molo del Palazzo Ducale: ormai si è già agli inizi del 15° secolo.
Domenico Contarini, il doge che ricostruì, a partire dal 1063, la basilica di S. Marco, qualche anno prima aveva dato l'avvio alla costruzione della chiesa del monastero di S. Nicolò di Lido. Di questo edificio, a tre navate, rimangono alcune colonne della navata destra, con capitelli, che rimandano a quelli del sec. 11° della cattedrale di Aquileia (Buchwald, 1966), e frammenti di mosaico pavimentale, dominato da elementi geometrici con qualche elemento zoomorfo. Nel 1940 si scoperse un frammento di affresco con la rappresentazione dell'Orazione nell'orto, purtroppo scomparso nelle vicende dell'ultima guerra mondiale.Certamente posteriore al S. Marco contariniano, perché ne ripete almeno in parte la tipologia, è la chiesa di S. Giacomo di Rialto (S. Giacometto), del sec. 12° (Dorigo, 1983, pp. 632-633). Di grande rilievo è il duomo di Murano dedicato a s. Maria e a s. Donato (Polacco, 1993), il cui mosaico pavimentale (con iscrizione con la data 1141) permette una datazione alla prima metà del 12° secolo. Il nesso coro-transetto rimanda a tipologie derivate dal S. Marco contariniano e in tale ambito va posto questo edificio, la cui abside è caratterizzata all'esterno da logge mentre l'interno presenta la decorazione dominata dalla figura della Vergine, che vi campeggia solenne, sul modello di quella della cattedrale di Torcello. Anche il duomo di Jesolo, ridotto a pochi ma significativi ruderi, rientra in questa discendenza dal S. Marco contariniano: a pianta a croce latina, con ampio transetto, vi sono stati ultimamente due tentativi di ricostruzione (Artico, 1977; Artico Giaretta, 1985; Dorigo, 1994, pp. 259-298). La struttura muraria, con nicchie di varia dimensione e tipologia, rimanda alle analoghe marciane (Zuliani, 1975).Anche la chiesa di S. Stefano di Caorle, già cattedrale, va vista nell'ambito degli edifici postcontariniani. La data del 1038 (Mareschi, 1988), citata per la consacrazione del duomo, non può essere accettata per l'attuale costruzione. La cattedrale del sec. 11° fu assai probabilmente restaurata, anzi rifatta probabilmente con il riuso di capitelli, forse già nel 12° secolo. Da ricordare l'originale campanile cilindrico, la cui tipologia è stata definita esarcale (Fiocco, 1937-1938).
Nella prima metà del Duecento anche a V. si insediarono i nuovi Ordini mendicanti, i Frati Minori e i Predicatori.Il doge Jacopo Tiepolo (1229-1249) nel 1234 donò ai Domenicani un appezzamento di terreno per costruirvi la chiesa dedicata ai ss. Giovanni e Paolo (S. Zanipolo). L'od. chiesa non sembra poter risalire a data così antica, se non forse per l'impianto generale.Per i Francescani, dopo sistemazioni transitorie, anche nel luogo dove sorse poi S. Francesco della Vigna, nel sestiere di Castello, si ha la fondazione di S. Francesco del deserto, in un'isola lagunare, donata ai Francescani, secondo una tradizione, da Jacopo Michiel nel 1233. Secondo un'altra tradizione, nel 1231 i Frati Minori avrebbero avuto un appezzamento di terra paludosa nella zona dove sarebbe nata poi S. Maria Gloriosa dei Frari (Gatti, 1992). Nel 1234 Giovanni Badoer donò un altro terreno contiguo e in questa zona già dal 1236 è documentata la presenza di una chiesa dedicata appunto alla Vergine. Nel 1250 si procedette alla costruzione di una nuova chiesa, che fu poi rimpiazzata dall'attuale, cominciata nel 1330. La seconda chiesa, del sec. 13°, era orientata, mentre l'attuale ha le absidi a O.Dunque si può prendere atto che in due zone lontane tra loro, com'era consuetudine, vi sono stati due importanti insediamenti conventuali, che nel secolo successivo avrebbero avuto una funzione anche urbanistica di notevole portata e inoltre sarebbero stati testimoni per secoli di committenze di prestigio artistico.Se del complesso duecentesco della seconda chiesa francescana di S. Maria Gloriosa dei Frari non è rimasta traccia della struttura architettonica, forse un'opera pittorica potrebbe risalire a quella edizione della chiesa: un crocifisso ligneo, recentemente scoperto sotto un'altra pittura moderna (Gatti, 1992). Si tratta di un crocifisso la cui tipologia sembra appartenere in qualche modo all'Ordine dei Frati Minori; è stato messo in connessione con il crocifisso di S. Eustorgio a Milano (Santini, 1994).S. Giacomo dell'Orio (Niero, 1990) è un'antica fondazione, risalente forse alla fine del sec. 10°, che, nella prima metà del Duecento (la data tramandata è 1225) fu completamente ricostruita. Successivi interventi, dal sec. 14° al 17°, ne modificarono l'aspetto, con aggiunte varie, ma alcune parti, come l'abside centrale, mostrano caratteri duecenteschi, per es. nella muratura scandita da lesene con archetti, che ripetono tipologie architettoniche più antiche per V., tranne ovviamente per le colonnine della parte alta, che sono invenzione di un restauro dell'inizio del Novecento. La pianta, così com'è possibile ricostruirla, presenterebbe un edificio a tre navate, con transetto, sulla cui estensione originale sono state proposte ipotesi diverse. Una tale pianta a croce latina sembra potersi rifare a modelli di tradizione marciana.Un'altra chiesa, che forse precede la ricostruzione di S. Giacomo dell'Orio, può essere menzionata a questo proposito: S. Nicolò dei Mendicoli. Anche questo edificio subì varie ristrutturazioni e aggiunte. I lavori di restauro degli anni dal 1971 al 1977 hanno individuato l'esistenza di resti di fondazione di un edificio altomedievale, resti che potrebbero forse riferirsi più che a una chiesa, a una costruzione difensiva. Anche questa chiesa si presenta, come la precedente, divisa in tre navate, con un'unica abside centrale e con transetto, che non esorbita dai muri perimetrali, sulla tipologia di altre chiese del 12° secolo.
Alla fine del sec. 13° è probabile che possano essere attribuiti gli affreschi della chiesa di S. Giovanni Decollato (S. Zan Degolà), recentemente ritornati in situ, nella cappella absidale di sinistra: l'Annunciazione, in origine sull'arco di trionfo della cappella stessa, è ora posta all'interno, dove si trova anche l'altra scena affrescata con Elena sotto un arco e i volti di quattro santi, mentre al centro della volta a crociera vi è l'immagine dell'Emanuele con i simboli degli evangelisti. Sono stati attribuiti a varie epoche, dal sec. 11° al 14° (Muraro, in Venezia e Bisanzio, 1974), ma soprattutto alla seconda metà del sec. 13°, per un legame con taluni aspetti della pittura serba degli anni intorno al 1260, per es. Sopočani, ma presentano anche taluni aspetti presenti nelle miniature dell'Epistolario di Giovanni da Gaibana (Padova, Bibl. Capitolare), datato 1259 e riconosciuto, per lo più, come opera di maestro veneziano (Bettini, 1968). Recentemente questo piccolo e notevole ciclo di affreschi, interessante sia per le caratteristiche manipolazioni dei volti sia per la spazialità assai aperta, è stato attribuito ai primi decenni del sec. 14° (Lucco, 1986), ma è stata anche ribadita la sua datazione alla seconda metà (Flores d'Arcais, in Storia di Venezia, 1994-1995, I) o verso la fine del sec. 13° (Zuliani, in Storia di Venezia, 1994-1995, I). Ancora alla fine dello stesso secolo va datata un'opera non certo di grande rilievo, la cassa della beata Giuliana, conservata al Mus. Correr. Realizzata per contenere le spoglie della beata Giuliana di Collalto, ha all'interno del coperchio le immagini dei Ss. Biagio e Cataldo e, di dimensione più piccola, quella della beata Giuliana in abito benedettino. Non è di grande pregio, ma interessante per la diffusione di tipologie di tradizione occidentale (Moretti, in Venezia e Bisanzio, 1974).
Nel sec. 14° da una parte, come si è notato, si realizza la grande operazione di sistemazione del Palazzo Ducale, e dall'altra vi è la grande affermazione degli Ordini mendicanti. Negli anni tra il 1330 e il 1333 si diede l'avvio alla ricostruzione delle chiese di S. Maria Gloriosa dei Frari e di S. Zanipolo; si deve aggiungere a queste due, le cui prime edizioni risalgono al secolo precedente, un'altra grande e nuova costruzione, S. Maria dei Servi.Per S. Maria Gloriosa dei Frari, la costruzione del nuovo edificio, che fu impostato con direzione E-O (facciata-absidi), contrariamente a quello duecentesco, iniziò nel 1330, con pianta a tre navate con ampio transetto e vasta abside centrale, fiancheggiata da tre absidiole per parte. La sua storia edilizia è assai dibattuta: sono problemi aperti quelli relativi alla datazione dell'abside centrale, della copertura a volte costolonate (sec. 15°) e della conclusione della parte verso la facciata, che risale ovviamente a una data successiva alla demolizione dell'ultima parte della chiesa duecentesca, operazione che dovrebbe essere stata effettuata nei primi decenni del sec. 15° (Dellwing, 1970; 1990; Iacobini, in Storia di Venezia, 1994-1995, I; Valenzano, in L'architettura, in corso di stampa). Si tratta in ogni modo di un cantiere assai rilevante, che si prolunga nel tempo per più di un secolo, per costruire una chiesa molto prestigiosa, che diventa esemplare del Gotico veneziano, insieme con la chiesa di S. Zanipolo, pur nella soluzione diversa di alcuni problemi strutturali. La ricostruzione della chiesa domenicana ebbe inizio nel 1333, e proseguì in parallelo con il cantiere dei Frari. Come la chiesa francescana, è a tre navate con ampio transetto, con una coppia di cappelle absidate a fianco dell'abside centrale; ai Frari esiste tuttora il coro quattrocentesco, che aveva anche la chiesa di S. Zanipolo. La sostanziale differenza tra le due basiliche mendicanti è data dallo sviluppo verticale che assume la chiesa domenicana, dove le volte a crociera non sono di muratura (contrariamente a quelle dei Frari), permettendo una soluzione più verticale del complesso, con una struttura appunto più leggera (Merotto Ghedini, in L'architettura, in corso di stampa).Le due basiliche, ben lontane tra loro, diventano un polo di attrazione urbanistica e, nella loro grandiosità d'impostazione, rivelano il grande prestigio anche politico assunto dai due Ordini mendicanti; ne fanno fede i numerosi monumenti funebri allogati in esse, soprattutto da quando i corpi dei dogi non poterono più essere sepolti a S. Marco (l'ultimo fu Andrea Dandolo).Un'altra chiesa mendicante di grande prestigio fu di certo S. Maria dei Servi, distrutta nel secolo scorso; oggi rimane soltanto il c.d. oratorio dei Lucchesi, che nacque annesso alla chiesa stessa, di cui sono avanzati pochi resti. I Servi di Maria giunsero a V. nel secondo decennio del sec. 14° e riuscirono ad avere sovvenzioni per la loro nuova fondazione, chiesa e convento. La posa della prima pietra della nuova chiesa avvenne solennemente nel 1318, ma i lavori procedettero assai a rilento se negli anni trenta si concessero varie grazie per sovvenzionare la nuova costruzione; negli anni sessanta la colonia dei Lucchesi a V. ottenne l'autorizzazione a costruire l'oratorio del Volto Santo, che venne consacrato nel 1376, adiacente al lato destro della chiesa, il che fa ipotizzare che per tale data il muro perimetrale dovesse essere già completato, almeno fino all'altezza dell'oratorio stesso. In questo oratorio lavorò il pittore trecentesco Nicoletto Semitecolo (v.). La costruzione della chiesa procedette assai a rilento e solo alla fine del sec. 15° essa venne consacrata. Purtroppo la perdita del monumento vieta un approfondimento della struttura: ci si deve attenere ai documenti scritti, che non sono sempre del tutto espliciti (Iacobini, in Storia di Venezia 1994-1995, I; Urbani, in L'architettura, in corso di stampa). Si trattava di un edificio grandioso a navata unica, secondo una tipologia abbastanza diffusa presso l'Ordine dei Servi di Maria.Una qualche eco della grande svolta operata da Giotto a Padova ha assunto recentemente un significato un po' più consistente, per es. con qualche miniatura e con gli affreschi dell'andito Foscari in S. Marco, citati sopra. Tra le opere più conosciute, e da tempo, sono le due Deposizioni, dalla croce e nel sepolcro, della cappella del SS. Sacramento (o Orlandini) nella chiesa dei Ss. Dodici Apostoli. Nella prima scena, più leggibile dell'altra, è documentata una qualche suggestione giottesca nella tipologia dei corpi dei personaggi, non certo nell'ambito della interpretazione dello spazio, che è ben altro nel Giotto della Cappella degli Scrovegni a Padova.La situazione culturale veneziana intorno alla metà del secolo è caratterizzata dalla presenza di Paolo Veneziano, in un equilibrio instabile tra bizantinismo paleologo e goticismo. Il suo insegnamento appare vivo, però con accenti del tutto personali, in Lorenzo Veneziano (v.). Dalla metà alla fine del secolo sono presenti a V. alcuni pittori, da Donato e Catarino Veneziano al più interessante Jacobello di Bonomo (v.) fino al poco conosciuto Jacopo Alberegno (v.), con il quale si chiude il secolo (Flores d'Arcais, in Storia di Venezia, 1994-1995, I).Per quanto riguarda la scultura si deve ricordare almeno Andriolo de Santi (v.), che con la sua bottega lavorò soprattutto in città della terraferma.L'architettura gotica civile, nei suoi esiti più famosi, come la Ca' d'Oro, è ormai storia del sec. 15° (Arslan, 1970; L'architettura, in corso di stampa).
Il Mus. Diocesano d'Arte Sacra, in S. Apollonia, conserva nel chiostro un'importante raccolta lapidaria di pezzi provenienti da S. Marco (Lapidario Marciano) e, al primo piano, di arte sacra, dove i pezzi medievali non sono molti né particolarmente significativi.Nella Gall. Giorgio Franchetti alla Ca' d'Oro vi sono poche opere medievali: da citare è il polittico con Storie di s. Bartolomeo, opera firmata e datata (1392) di Simone da Cusighe.Al Mus. Archeologico sono depositati i mosaici pavimentali altomedievali provenienti dal monastero di S. Ilario e varie sculture medievali (Polacco, 1980).Il Mus. della Basilica di S. Marco conserva, oltre ai cavalli della quadriga, già sulla loggia della facciata, frammenti musivi vari della decorazione marciana, nonché la Pala feriale, di Paolo Veneziano e dei figli Luca e Giovanni, firmata e datata 1345, la tavola della Madonna allattante, santi frammentari, affresco del sec. 12° proveniente dal battistero marciano.Il Tesoro di S. Marco offre una ricchissima raccolta di materiale prezioso (Il tesoro di San Marco, 1971).Nella Gall. dell'Accademia sono custoditi il polittico di Paolo Veneziano con l'Incoronazione della Vergine e Storie di Gesù e di s. Francesco, e la Madonna in trono e angeli; di Lorenzo Veneziano un'Annunciazione con quattro santi (opera firmata e datata 1371), lo Sposalizio di s. Caterina e santi (opera firmata e datata 1359), un'altra Annunciazione con santi e profeti (opera firmata e datata 1357) e due pannelli con S. Pietro (datato 1371) e S. Marco (firmato). Vi sono inoltre opere di Jacobello Alberegno, di Catarino Veneziano e altre attribuite genericamente a scuola veneziana del 14° secolo.Al Mus. Correr, nella quadreria, sono conservate alcune opere di pittura medievale: la cassa della beata Giuliana e alcune tavole di Paolo Veneziano e di Lorenzo Veneziano.Le collezioni della Fond. Cini sono costituite da raccolte di miniature (Toesca, 1958; 1968). Nel palazzo Cini a S. Vio si trova la raccolta d'arte dalla coll. Vittorio Cini, con opere per lo più toscane (Zeri, Natale, 1984).La Bibl. Naz. Marciana è ricca di codici miniati bizantini (Furlan, 1978-1981) e veneziani (per quelli provenienti dalla basilica di S. Marco: Marcon, in Cattin, 1990; Mariani Canova, ivi).
Agli inizi degli anni Sessanta, una missione polacca dell'Accad. delle Scienze di Varsavia ha eseguito alcuni scavi diagnostici a Torcello, con risultati interessanti: l'isola, dopo essere stata per i primi secoli dell'Impero romano luogo di ville dei patrizi di Altino, importante centro romano lungo la costa lagunare, sarebbe stata abbandonata e coperta da lente e costanti alluvioni, fino a che non divenne, nella prima metà del sec. 7°, ricettacolo dei profughi altinati. Sono stati scoperti anche resti di una fornace per il vetro, di età altomedievale (Leciejewitz, Tabaczynka, Tabaczynski, 1977). Appunto dalla prima metà del sec. 7° è storicamente documentata l'occupazione dell'isola da parte di abitanti di Altino, che nel 639 cadde in mano longobarda. Fa riferimento allo stesso anno l'iscrizione che è stata trovata nella cattedrale dell'isola (Pertusi, 1962), iscrizione che conferma la situazione politica delle terre lagunari in questo periodo: il riferimento è all'imperatore bizantino Eraclio, all'esarca ravennate Isacio, al magister militum Maurizio e l'occasione è la fondazione della chiesa di S. Maria Mater Dei. Questo edificio del sec. 7° potrebbe aver avuto le dimensioni dell'od. duomo di Torcello, senza le zone absidali; potrebbe essere stato a testata rettilinea, secondo l'usanza abbastanza diffusa a partire dal sec. 5°-6° nell'arco dell'alto Adriatico, come per es. la struttura del sec. 5° della cattedrale di Aquileia. Del complesso di questa prima edizione della cattedrale faceva parte anche il battistero, che si trovava di fronte alla basilica, e ora ridotto a qualche rudere. Doveva essere a pianta circolare, con nicchie, pertanto non secondo la tipologia più diffusa della pianta ottagonale. Di tale periodo altomedievale sono rimaste alcune sculture (Polacco, 1976). Dovrebbe risalire al sec. 9°, all'età del vescovo Deusdedit II, il rifacimento della basilica, che avrebbe comportato anche la costruzione del pavimento musivo che si vede ancora oggi al di sotto dell'attuale, tramite due piccole botole (Polacco, 1984).Nel sec. 10° Torcello è ricordata dall'imperatore bizantino Costantino VII Porfirogenito (913-959) come grande emporio (Castagnetti, in Storia di Venezia, 1992, pp. 579-580); evidentemente vi si era sviluppato un centro mercantile di qualche rilevanza. Agli inizi del nuovo millennio, Torcello sembra aver assunto una caratteristica diversa, diventando il centro religioso della famiglia degli Orseolo. Nel 1008 fu consacrato vescovo di Torcello Orso Orseolo, figlio del doge Pietro II. Quattro anni dopo Orso diventava patriarca di Grado e al suo posto a Torcello fu vescovo, fin oltre la metà del secolo, suo fratello Vitale. Nel 1008, Orso ebbe dal padre Pietro II i fondi necessari per la ristrutturazione della sua cattedrale, che era vetustate consumpta, secondo quanto ricorda Giovanni Diacono. L'od. basilica torcellana è, in buona parte, l'edizione della prima metà del sec. 11°; proposta questa coerente con la datazione alla metà ca. del sec. 11° della complessa decorazione musiva dell'abside centrale (Demus, 1969), della cappella alla fine della navata meridionale (Furlan, 1975) e della controfacciata (Andreescu, 1976).
Sulla struttura della precedente chiesa si intervenne a partire dal 1008, con un innalzamento dell'edificio, a partire dal livello del nuovo pavimento in opus sectile, con la costruzione delle absidi e anche della cripta, che ha una piccola abside e una cupoletta che esorbita dal piano del presbiterio, e che viene coperta dal c.d. sýnthronon, la scalinata del presbiterio che si conclude nella zona alta con la cattedra vescovile. Con Orso si progettò forse una chiesa più bassa dell'attuale, con decorazione absidale a pittura murale, come sembra stia a dimostrare qualche frammento pittorico di una teoria di apostoli, o di santi, apparso in una zona inferiore all'odierna decorazione, a mosaico (Nicoletti, 1975; Dorigo, 1983, p. 676; Polacco, 1984, pp. 53, 105; 1994a, p. 113). Questo primo progetto sembra sia stato aggiornato in itinere con uno nuovo, che prevedeva un presbiterio più alto con decorazione musiva, che si concluse intorno alla metà del secolo, con la Vergine Odighítria, la teoria di apostoli e l'immagine (rifatta in età moderna) di Eliodoro, il primo vescovo di Altino, nell'abside centrale, l'Annunciazione sull'arco di trionfo e, sopra quest'ultimo, l'Ascensione, di cui sono rimasti pochi frammenti al Mus. di Torcello (Andreescu, 1972; Venezia e Bisanzio, 1974; Polacco, 1978a; Il tesoro di San Marco, 1994); nell'abside meridionale è raffigurato Gesù tra angeli e i Dottori della Chiesa (Furlan, 1975), mentre sulla volta della cappella del Sacramento (o diaconico) si trova in mosaico l'Agnello entro clipeo sorretto da quattro angeli, datato ultimamente al sec. 12° da Polacco (Il tesoro di San Marco, 1994, p. 118); sull'interno della parete di facciata, infine, sono raffigurate la Crocifissione, completamente rifatta nell'Ottocento, l'Anastasi, la Déesis e il Giudizio finale (Andreescu, 1976).I mosaici di Torcello sono stati considerati frutto di un progetto unitario da datare alla prima metà del sec. 11°; entro la metà del secolo furono tutti eseguiti (Andreescu, 1976). Il problema più difficile da affrontare è quello relativo ai restauri, che probabilmente cominciarono a essere effettuati a partire dalla metà ca. del sec. 12°; forse a seguito di terremoti parte della decorazione rovinò e si dovette procedere al rifacimento dell'immagine della Vergine e delle teste di alcuni apostoli e anche di parte della decorazione dell'interno della facciata. Altri restauri furono eseguiti in svariate occasioni e in tempi diversi (Polacco, 1984). I mosaici originali sono stati considerati opera bizantina, e i loro autori sono stati avvicinati ai maestri operosi nel katholikón di Hosios Lukas, nella Focide, o alla scuola di Salonicco (Lorenzoni, 1994).La recinzione del presbiterio è formata da quattro plutei, due con pavoni e due con leoni affrontati tra volute di tralci e foglie. Sono stati attribuiti a maestranze veneziane del sec. 11° e potrebbero essere stati eseguiti per l'iconostasi della basilica marciana e poi qui trasportati e adattati quando si costruì, alla fine del sec. 14°, la nuova iconostasi marciana (Polacco, 1984). Alcuni dei capitelli nella navata sono assai vicini a quelli della basilica marciana della seconda metà dell'11° secolo. Buchwald (1962-1964) ha suggerito l'ipotesi di un intervento duecentesco, Polacco (1984) invece ha proposto che essi siano stati inseriti in occasione dei lavori di restauro provocati da terremoti nel 1105 e 1117, lavori eseguiti intorno alla metà del secolo. Vi è poi una terza ipotesi (Lorenzoni, 1983a; 1983b), che questi capitelli non siano di derivazione marciana: essi potrebbero essere gli immediati precedenti di quelli della basilica di S. Marco della seconda metà dell'11° secolo.Accanto alla cattedrale vi è un martyrium dedicato a s. Fosca. Tradizionalmente viene attribuito al sec. 12°, quale esito del cantiere marciano contariniano. La sua cronologia è stata anticipata all'età orseoliana (Lorenzoni, 1983a; 1983b; Storia dell'arte marciana, 1997, I): sarebbe opera del cantiere che ha ricostruito la cattedrale, facendo della Torcello della prima metà del sec. 11° il centro politico-religioso degli Orseolo. Accettando questa proposta, si dovrebbe ammettere a Torcello l'esistenza del più importante cantiere veneziano prima di quello contariniano, del quale potrebbe in parte essere il precedente non solo cronologico.Nel Mus. di Torcello sono conservati frammenti vari di scultura altomedievale: un'acquasantiera di marmo pentelico, attribuita al sec. 6°, con scritta greca; frammenti di mosaico provenienti dalla cattedrale di S. Maria, attribuiti alla decorazione dei secc. 11°-12°; due teste di angelo, attribuite alla decorazione del sec. 7°; una pala d'altare di argento dorato; una tempera su tavola attribuita ai primi anni del sec. 14° raffigurante Cristo Passo tra la Vergine, s. Giovanni e due angeli (Polacco, 1978b).
Bibl.:
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