VENEZIA
L'età di Federico II coincide con anni di speciale vigore per Venezia. Gli elementi che la caratterizzano sono da tempo consolidati e la statualità veneziana procede nel segno di un forte pragmatismo e di un'empiria che orientano sia le scelte ideologiche che i comportamenti concreti. Siamo in una fase che possiamo far partire dal 1143-1144, quando a fianco del doge appare per la prima volta un consilium sapientium e registriamo il termine commune Veneciarum. È evidente il collegamento con l'affermarsi delle istituzioni comunali in terraferma, ma in laguna l'esperienza del comune prende corpo in termini peculiari. Anche se molti degli elementi costitutivi sono gli stessi, il quadro complessivo rimane profondamente diverso. Basti pensare a come il vertice dell'apparato istituzionale sia rappresentato non da consoli cittadini o podestà forestieri eletti per tempi brevi, ma da un doge di nomina vitalizia, simbolo di un potere assoluto dal cui esercizio verrà peraltro sempre di più escluso, finendo col diventare il primo e il più controllato fra i sudditi.
Anche gli sviluppi duecenteschi scorrono all'insegna della continuità che si esprime tanto nell'attitudine ad assorbire e metabolizzare gli eventi (comprese le congiunture più esplosive), quanto nel timore dei passaggi traumatici e nell'abilità nel riportare le più forti tensioni all'interno di una struttura in cui gli elementi di stabilità la vincono su quelli di frattura e rivolgimento. Sul piano dei rapporti internazionali il Duecento si apre con la quarta crociata che, sotto tutela veneziana, dopo avere domato Zara ribelle e averla sottomessa alla supremazia di Venezia, si rivolge non verso la Terrasanta ma a Costantinopoli e porta nel 1204 alla costituzione dell'Impero latino d'Oriente, di cui il doge assume il titolo di "dominatore di una quarta parte e mezzo" (ossia di tre ottavi), e nella spartizione dei territori occupati ci si preoccupò soprattutto di acquisire zone utili al controllo dei mari e delle vie commerciali. Costantinopoli, Creta, Negroponte nell'Egeo, Modone e Corone nello Ionio, insieme alle basi adriatiche e a quelle nei territori crociati erano punti di coordinamento di un vasto impero coloniale per il quale in ambito storiografico si è parlato di "venetocrazia". Si trattava di una posizione di forte privilegio che sarebbe durata fino al 1261, quando la caduta dell'Impero latino vide comunque una riorganizzazione degli interessi veneziani, che valorizzò prima il ruolo di Acri, e successivamente quello del Regno armeno di Cilicia.
Alle fortune sullo scacchiere internazionale facevano riscontro, sul piano interno, gli aggiustamenti in ambito istituzionale. Nel 1207 la "legge di riforma costituzionale" promulgata dal doge Pietro Ziani dava nuova disciplina agli ordinamenti dello stato, accentuandone il carattere rappresentativo, riconfigurando anche il Maggiore e il Minor Consiglio. Da prima del 1223 opera il Consilium de XL, la Quarantia, in origine organo con funzioni consultive poi tribunale d'appello e vertice delle funzioni giurisdizionali. Forse già durante il dogado di Jacopo Tiepolo (tra il 1229 e il 1249) e comunque prima del 1255 inizia ad agire anche il Consiglio dei rogati: i pregadi, che la cultura umanistica ribattezzerà Senato. Intanto nel 1242 veniva riordinato lo ius proprium, con un'opera di consolidazione degli statuti. I cinque libri dello Statutum novum (integrati nel 1346 con il Liber sextus) sarebbero rimasti il fulcro di tutto il diritto veneziano fino al 1797, alla caduta della Serenissima Repubblica. Con la promissio ducale, almeno a partire dall'elezione di Enrico Dandolo (1192), si definivano gli obblighi che il doge doveva giurare di adempiere al momento dell'entrata in carica e nel succedersi delle promissiones è possibile seguire la continua riduzione delle prerogative personali del doge a favore della realtà impersonale dello stato.
Quanto agli equilibri interni, messa da parte l'immagine tradizionale di una società sostanzialmente senza conflitti, si devono altresì escludere le dinamiche più aspre, tipiche dell'esperienza comunale. La stessa modifica della funzione del doge quale punto di raccordo del gioco politico, specialmente nel 1229 (col passaggio dal dogado di Pietro Ziani a quello di Jacopo Tiepolo), non deve essere vista come un cambiamento troppo radicale. A parte l'assenza in Venezia di un vero partito del populus (così come furono di fatto assenti guelfi e ghibellini), in fondo troppo intenso e stretto restava l'intreccio fra il mondo del commercio e quello dei capitali di rischio, della rendita fondiaria e degli affari, delle cedole di debito pubblico e della cantieristica o della produzione primaria o delle manifatture, perché ci fosse veramente spazio per quelle frantumazioni del tessuto sociale che nel Duecento sono tra le fonti delle maggiori tensioni nell'Italia del comune. Lo stato veneziano riesce in linea di massima a porsi come efficace mediatore di interessi e tutto tende a stemperarsi in un sistema di consolidata robustezza.
Quanto poi alla politica federiciana, nel complesso non ebbe su Venezia l'impatto drammatico verificabile nel resto d'Italia e la repubblica lagunare anche in queste congiunture si mosse con empirico realismo, preoccupata sostanzialmente di essere il meno possibile toccata da quanto accadeva attorno, attenta a cogliere i vantaggi e a parare gli svantaggi che potevano presentarsi. Lo stesso Federico nell'ottica lagunare si presentava come uno tra i vari problemi più o meno gravi con i quali confrontarsi. In fondo si restava in linea con quanto già accaduto nel secolo precedente con Federico I. Altro genere d'attenzione occorreva semmai con personaggi come Ezzelino III da Romano (v.), pronto a mettere in piedi uno stato capace di premere alle spalle su Venezia e dunque avversario da contrastare con spietata durezza anche dopo l'uscita di scena dell'imperatore svevo.
Nei contrasti apertisi per la successione a Enrico VI, che avevano interessato mezza Europa, Venezia si era tenuta ai margini. Certo, nel 1209 il viaggio in Italia di Ottone IV di Brunswick offrì l'occasione per ottenere la conferma degli antichi privilegi imperiali, ma l'atto non comportò nessun impegno in conflitti in corso. Quando poi esplose lo scontro fra Ottone e il giovane Federico, Venezia assunse una posizione di neutralità, mantenuta fino alla vittoria dell'Hohenstaufen. A quel punto il doge non esitò a inviare allo Svevo una legazione che si fece confermare una volta ancora i tradizionali vantaggiosi patti.
La linea costante fu quella di mantenersi il più possibile estranei a questioni di cui si temevano i contraccolpi. Così: nessun contrasto con l'imperatore; ma quando nel 1226 il duca d'Austria, Leopoldo VI di Babenberg, chiese di passare sul territorio del dogado per recarsi presso Federico II, la risposta fu negativa, motivata dagli umori dei comuni e dai diffusi sentimenti antimperiali. Ciò non significò una scelta di campo, tanto che dall'imperatore si ottennero ancora favori e facilitazioni tariffarie nel 1230, mentre nel 1232 Federico II in persona si portò a Rialto ‒ viene detto ‒ per rendere omaggio alle reliquie marciane; il significato politico dell'abboccamento è tuttavia evidente, come lo è il senso delle nuove concessioni commerciali o dei privilegi a favore di istituti ecclesiastici locali. Ma la posizione veneziana non si modificò e, anzi, cominciarono a vedersi i prodromi di un passaggio aperto al fronte antifedericiano.
Il rafforzamento in atto della parte imperiale rischiava di alimentare un potere che si faceva pericoloso oltre che troppo vicino. Fra l'altro l'alleanza di Federico con Ezzelino da Romano, intervenuta dopo il pessimo esito dei contatti con Venezia nel 1232, complicava ulteriormente le cose. Venezia non scende ancora in campo; non aderisce alla rinnovata Lega lombarda, ma le era abbastanza chiaro chi occorreva favorire nel contesto che andava creandosi. Così nel 1237 a guidare i milanesi a Cortenuova ci fu come podestà Pietro Tiepolo, figlio del doge Jacopo, che in quell'occasione venne catturato dagli imperiali.
Gli interventi si fanno più concreti. Nel 1240 si ebbero la presa di Ferrara, inutilmente soccorsa da un presidio imperiale, e la spedizione navale in Puglia a cui Federico reagì con l'impiccagione di Pietro Tiepolo. Tuttavia non possiamo sicuramente annoverare Venezia tra gli avversari più duri dell'imperatore. Si può invece stabilire un'equazione: l'impegno antimperiale di Venezia è misurato sulla capacità di reazione che gli avversari di Federico II sapevano esprimere. Non deve allora sorprendere l'apparentemente improvviso cambiamento di politica maturato nel 1245, quando, dopo avere partecipato al concilio di Lione convocato da papa Innocenzo IV e conclusosi con la scomunica e la deposizione dell'imperatore, i rappresentanti veneziani trattano con lui un accordo. A quel punto la fortuna dello Svevo appariva (non a torto) in fase calante. Forse già sul viale del tramonto le sue mire egemoniche, divenivano meno pressanti le ragioni per contrastarlo, magari per distruggerlo aprendo la via a nuovi imprevedibili equilibri.
Tutto sommato la condotta veneziana corrisponde a una visione delle vicende italiane attentissima e preoccupata ma, per certi versi, abbastanza esterna, con un coinvolgimento assai diverso rispetto a quello degli altri protagonisti della penisola. Il conflitto in atto tocca delicatissimi aspetti ma non i gangli vitali del complessivo sistema (non soltanto territoriale) veneziano. Insomma, a differenza delle altre entità politiche italiche, che nel conflitto si giocano tutto o quasi, Venezia muove le sue pedine anche su altri scacchieri, nell'Adriatico, nei Balcani, in Dalmazia, nel Levante, nei rapporti con i saraceni, sui mercati di mezza Europa, con una collocazione particolare, non marginale né all'Oriente né all'Occidente. Il tempo di nuovi equilibri non avrebbe tardato molto a giungere, ma negli anni ultimi della forte presenza imperiale in Italia il grande Federico II è soltanto uno fra i molti problemi con cui occorre misurarsi.
Fonti e Bibl.: a parte i riferimenti alla realtà veneziana usualmente presenti nei lavori dedicati a Federico II, si rimanda in generale a G. Ortalli, Venezia nel secolo di Federico II. Modelli statuali e politica mediterranea, "Atti dell'Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti. Classe di Scienze Morali, Lettere ed Arti", 157, 1998-1999, pp. 409-447. Ancora in parte utile il vecchio lavoro di A. Baer, Beziehungen Venedigs zum Kaiserreich in der Staufischen Zeit, Innsbruck 1888. V. poi le sintesi di G. Cracco, Società e stato nel medioevo veneziano, Firenze 1967; R. Cessi, Venezia nel Duecento: tra oriente e occidente, Venezia 1985; G. Rösch, Venezia e l'impero. 962-1250. I rapporti politici, commerciali e di traffico nel periodo imperiale germanico, Roma 1985 (ediz. orig. Venedig und das Reich. Handels- und verkehrpolitische Beziehungen in der deutschen Kaiserzeit, Tübingen 1982); Id., Der Aufstieg Venedigs zur Handelsgroßmacht (1204-1255), in Europas Städte zwischen Zwang und Freiheit. Die europäische Stadt um die Mitte des 13. Jahrhunderts, a cura di W. Hartmann, Regens-burg 1995, pp. 311-327. Per la cronachistica veneziana utile per il periodo cf. L. Capo-G. Arnaldi, I cronisti di Venezia e della Marca Trevigiana dalle origini alla fine del secolo XIII, in Storia della cultura veneta, I, Dalle origini al Trecento, a cura di G. Arnaldi, Vicenza 1976, pp. 387-423. Per l'evoluzione degli assetti giuridico-istituzionali, v. la sintesi di G. Zordan, L'ordinamento giuridico veneziano. Lezioni di storia del diritto veneziano, Padova 1980. Anche per l'indicazione delle fonti utili allo studio del periodo, è preziosa la bibliografia di Id., Repertorio di storiografia veneziana. Testi e studi, ivi 1998.