Veneziani fuori Venezia
Seguire le sorti dei Veneziani fuori Venezia, fuori della loro città e provincia, non è compito facile: poche sono le notizie che possediamo, e per di più sparse. Esse si trovano disperse in documenti di carattere commerciale, in patti e crisobolli imperiali, in racconti di cronache e storie, in vite di santi ed in atti di vario genere.
Seguendo i mercanti veneziani da una regione, da un mercato o da un porto all'altro non risulterà, fin verso l'inizio del XIII secolo, un quadro particolareggiato delle loro condizioni di vita, delle loro attività quotidiane, dei loro problemi; piuttosto uno schizzo, comunque abbastanza chiaro, per far conoscere il ruolo di questo ceto veneziano, che pose le basi dell'affermazione della città in questa sua prima fase d'espansione non solo commerciale ma anche politica.
Veneziani fuori Venezia furono soprattutto commercianti e marinai, chierici-notai, non pochi fuorusciti ed esiliati politici, mercenari, legati ed ambasciatori del governo ducale, ma anche poeti, scrittori e donne maritate; ancora, ma in misura minore, ufficiali, rettori o governatori o impiegati del governo veneto, e anche qualche artigiano. Alcuni si trattenevano fuori sede per breve tempo, quello necessario a svolgere la loro attività commerciale o di diverso genere, altri si assentavano per periodi più lunghi per varie ragioni; ma col tempo un numero sempre crescente di Veneziani si installò definitivamente fuori della propria patria andando a risiedere in città, porti e mercati del mondo mediterraneo.
Durante la seconda metà del secolo VIII mercanti veneziani frequentavano centri commerciali dell'Italia settentrionale da Aquileia a Mantova, Cremona e Pavia, arrivando fino a Roma, ed alcuni risiedevano a Ravenna e nella Pentapoli. Durante il secolo IX le loro attività commerciali si estendevano dall'Istria al Friuli, fin oltre Ravenna e Pesaro, Fano ed Ancona, poi a Padova e Ferrara e a tutto il Regno.
Ben più importanti per Venezia furono però i rapporti con l'Impero bizantino. Il legame con l'Impero, basato su una secolare tradizione politica, aprì ben presto ai mercanti e marinai porti e mercati orientali; dal secolo X in poi i Veneziani furono al primo posto nel commercio fra Oriente ed Occidente. Verso la metà del secolo X Liutprando, vescovo di Cremona, non solo trovò dei Veneziani nell'esercito bizantino, ma vide anche numerose navi di San Marco nel porto di Costantinopoli. Nel 992 vennero per i mercanti e marinai veneziani a Bisanzio giorni ancora migliori grazie ad un crisobollo imperiale che confermava vecchi privilegi, e garantiva maggiore sicurezza conferendo loro una posizione privilegiata rispetto agli altri mercanti italiani (1). Nel 1082 l'imperatore Alessio I Comneno concedeva un nuovo crisobollo che fu alla base della potenza veneta in Oriente. L'atto enumerava porti e città, tutti su costa, dalla Siria all'Asia Minore, dal Mar di Marmara al Mar Jonio, dove i mercanti di San Marco potevano vendere e comperare liberamente ogni specie di merce. Fra i centri del commercio visitati dai Veneziani primeggiava però Costantinopoli, che era non soltanto la meta preferita dei commercianti e marinai, ma la dimora stabile, oramai, di un certo numero di loro mercanti ed armatori. Fra i pochissimi documenti che conosciamo per l'XI secolo, ben cinque quietanze e contratti furono emessi a Costantinopoli, decisamente molti in confronto agli altri centri; in linea con ciò è il crisobollo del 1082 che conferma come un numero relativamente importante di Veneziani risiedesse nella capitale dell'Impero. Nel 1082 venivano concessi ai Veneziani un quartiere sul Corno d'Oro che si estendeva dalla Porta Ebraica a quella della Vigla, con magazzini ed officine, tre scali marittimi nonché un forno nei pressi della chiesa della colonia. Dell'amministrazione del quartiere veneziano nulla è noto, ma è certo che il doge non vi mandava un suo rappresentante e che il quartiere si trovava sotto la giurisdizione imperiale; i Veneziani venivano considerati non più estranei come nel crisobollo del 992, ma quali "recti duli imperii mei", cioè soggetti all'imperatore bizantino. Non sappiamo quanti fossero i Veneziani che risiedevano nella capitale bizantina e nella colonia, e nulla è noto della loro vita quotidiana, se non che commerciavano in tutto l'Impero e fuori di esso, e che alcuni vi risiedevano in permanenza con le loro famiglie (2).
Anche in altri porti e mercati si erano già stabiliti mercanti veneziani. Fra i primi è da menzionare Durazzo, inizio e sbocco della Via Egnazia: qui il loro numero doveva essere consistente, poiché verso la fine del 1081 l'imperatore Alessio I affidava ai Veneziani la difesa della città, e l'imperiale scrittrice Anna Comnena notava, probabilmente esagerando, che Veneziani ed Amalfitani formavano la maggioranza della popolazione. Scoraggiati dalle sconfitte dei Bizantini essi avrebbero aperto le porte ai Normanni; una cronaca normanna, per di più, attribuiva la caduta di Durazzo al tradimento di un Veneziano, un certo Domenico (Orseolo?). Col crisobollo del 1082 i Veneziani ottenevano anch'essi a Durazzo un quartiere, dove fu loro concessa fra l'altro la chiesa di Sant'Andrea con tutte le entrate eccetto quelle riservate per l'armamento delle navi. I pochi documenti rimasti confermano come anche Tebe fosse allora un centro fiorente, soprattutto importante per la produzione della seta. Vi trafficavano nel 1072 un certo Giovanni Baruzzo e nel 1073 Giovanni Lissando da Luprio (3).
Mercanti e marinai veneziani si volsero anche verso i porti e i mercati del mondo arabo. Per il periodo fino alle crociate sono le fonti occidentali e bizantine e non quelle arabe a darci in merito qualche informazione. Troviamo fra esse gli editti degli imperatori bizantini contro il commercio di schiavi e contro quello di armi e materiale che poteva essere usato a scopi bellici: come quelli di Leone V (813-820) e di Giovanni Zimisce (969-976), ambedue poi applicati dai dogi veneziani. Al momento dell'arrivo di un'ambasciata bizantina a Venezia nel 971, nel porto si trovavano tre navi veneziane dirette due a el-Medhia e una a Tripoli; accertato che non avevano un carico proibito, fu loro permesso di partire. Mercanti e marinai veneziani visitavano anche porti e mercati in Libia e Tunisia, quest'ultima da più di un secolo e mezzo. Tripoli viene ancora menzionata nel 1083, allorché un certo Ripaldo Fiorentino di Venezia affida al fratello Domenico, in procinto di partire per quel porto, la somma di 100 lire veneziane.
Il commercio, molto spesso quello di contrabbando, col mondo arabo, nonché il trasporto di pellegrini in Terra Santa furono dunque, fin dagli inizi, importanti; ma rimasero limitati ai porti marittimi, dove i commercianti ed i marinai veneziani si fermavano apparentemente solo per sbrigare i loro affari, non per risiedervi, e neppure per trattenersi più a lungo (4).
A recarsi fuori dalla loro città per un periodo più o meno breve non erano solo mercanti, ma anche marinai e capitani. Sappiamo poco di loro; ci sono pervenuti alcuni nomi di capitani, "naucleri", che ricordiamo a titolo d'esempio: Leo Aurifice e Gosmirus de Molino che comandarono navi in viaggi d'affari da Venezia per Tebe nel 1072 e 1073, Dominicus Sparessus per Corinto nel 1088. I tre figurano anche come testi nelle rispettive quietanze. Nel 1088 Dedo Colbani comandava una nave che da Costantinopoli effettuava un viaggio in Schiavonia, cioè in Dalmazia (5). S'imbarcavano sulle navi anche chierici che nei porti in cui c'erano chiese, come a Costantinopoli e Durazzo, si occupavano del benessere spirituale dei loro compatrioti, e se necessario fungevano anche da notai. Entro la fine dell'XI secolo troviamo notai solo a Costantinopoli: un certo Flabianus (1031?) e un certo Johannes (1088) ambedue presbiteri e notai, mentre Beraldus (1022) è solo "presbiter" (6).
Non solo commercianti e capitani, marinai e notai s'allontanavano da Venezia per mare e per terra verso porti e mercati più o meno lontani (per periodi brevi o non), nell'esercizio della loro attività; anche altri Veneziani, benché in numero assai minore, uscivano da Venezia con vari incarichi e compiti. Nunzi e ambasciatori dei dogi visitavano le corti degli imperatori occidentali e bizantini o di altri regnanti, principalmente per garantire ai concittadini sicurezza nei paesi dove commerciavano.
Dall'84o in poi il rinnovo di patti da parte degli imperatori tedeschi nonché la cura per ottenere nuovi privilegi venivano affidati ad ambascerie, composte in linea di principio da un rappresentante del clero e da uno o due laici. Al rinnovo dei patti presero attiva parte, nell'883, Lorenzo vescovo, Virgilio e Leone; nell'891 Domenico, presbitero e cappellano del doge, Maurizio e Vitale; nel 925 Domenico vescovo di Malamocco e Stefano Coloprino; nel 927 Giovanni Flabanico e Stefano Coloprino; nel 983 Pietro Mauroceno, monaco, Badoario Noheli e Pietro Androdi, tribuno, e nel 992 Marino Diacono e Giovanni Orseolo. I dogi si preoccupavano anche di rafforzare la propria posizione politica nel governo di Venezia, per cui potevano recarsi personalmente in missione diplomatica, come per esempio nell'805 Obelerio e Beato alla corte di Carlo Magno, o più spesso inviavano, in qualità di ambasciatori, i propri figli. Così giunsero alla corte bizantina: nell'814 Giustiniano, figlio del doge Agnello, per rendere omaggio al nuovo imperatore Leone V; nell'820 Agnello, nipote del sopranominato doge, accompagnato dalla moglie bizantina Romana, per salutare il nuovo imperatore Michele II; nel 912 Pietro Badoario, figlio del doge Orso, che al ritorno fu fatto prigioniero dai Serbi e consegnato a Simeone di Bulgaria e liberato solo grazie all'abilità dell'arcidiacono Domenico, il futuro vescovo di Malamocco. Nel 934 fu a Costantinopoli Pietro Candiano, figlio del doge Pietro II, poi lui stesso dal 942 doge, e probabilmente all'inizio degli anni '90 del secolo X Maurizio, figlio del doge Tribuno Menio, che preparò il terreno per il noto crisobollo del 992. Delle ambasciate alla corte imperiale in Occidente ricordiamo quelle di Ottone, figlio del doge Pietro II Orseolo, a Ferrara nel 998, dove salutava il suo imperiale padrino Ottone III, e nel 1004 a Verona, dove era di passaggio l'imperatore Enrico II sceso in Italia per farsi incoronare.
Degli ambasciatori imparentati coi dogi ricorderemo Vitale IV, patriarca di Grado dal 978 al 979, figlio di Pietro IV Candiano e zio del nuovo doge Vitale Candiano, inviato dal doge in missione diplomatica alla corte di Ottone II. Accadeva anche che ambasciatori, pur essendo parenti del doge, incontrassero delle difficoltà, per cui era fra l'altro previsto nei patti imperiali che non potessero essere trattenuti e che dovesse essere loro consentito il libero ritorno in patria. Tale fu il caso di Badoario, fratello del doge Giovanni II Parteciaco: mentre si recava nell'881 a Roma dal papa, per trattare l'acquisto di Comacchio, fu preso prigioniero a Ravenna dal conte Marino di Comacchio.
Ambasciatori o messi - "misi" e "nuntii" nelle fonti - erano per lo più membri della famiglia ducale o d'influenti e illustri famiglie della città come i Parteciaci, Badoari, Candiani, Orseoli, Morosini, Coloprini, nonché, quasi sempre, un ecclesiastico veneziano. Di questi ultimi, incaricati di speciali missioni, il più noto fu certamente Giovanni diacono: verso la fine di giugno del 1000 era a Como e Pavia per informare Ottone III della vittoriosa spedizione in Dalmazia, e verso Pasqua del 1001 si recava a Ravenna per organizzare la segretissima visita dell'imperatore, che egli poi accompagnò personalmente dal monastero di Pomposa al palazzo ducale a Venezia e al ritorno (7).
Orso Badoario e Maurizio Morosini appaiono avvocati del doge e del governo ("ducis et palatii") in cause riguardanti possessi terrieri, per esempio, a nome del doge Pietro II Orseolo, l'uno nel 996 a Verona, in una controversia col vescovo di Belluno; l'altro nel 998, per la stessa causa, per ben due volte (8).
La fama di cui godettero gli ambasciatori della Repubblica per la loro conoscenza delle situazioni politiche, l'abilità diplomatica e la padronanza delle lingue in epoca più tarda, aveva profonde radici. Lo provano gli inviti di regnanti stranieri a Veneziani per favorire la partecipazione alle loro missioni diplomatiche. In un'ambasceria inviata da Svatopluk di Moravia nell'874 a Farkheim, per concludere la pace coll'imperatore Lodovico, c'era un certo "Johannes presbiter de Venetiis", che quindi conosceva lo slavo e che fu poi inviato a Roma nell'879 per deporre contro Metodio e la sua innovazione liturgica. Circa un secolo più tardi Ottone il Grande inviava un Veneziano, Domenico, a capo di una ambasciata a Costantinopoli, col compito di chiedere la mano della principessa Anna, figlia di Romano II, per suo figlio, il giovane re Ottone II. Anche i patriarchi di Grado inviavano messi; a titolo di esempio ricordiamo il diacono Pietro, che rappresentò il patriarca Orso alla sinodo lateranense del 1027. Da ricordare è anche Domenico Marango, patriarca di Grado, che nel 1051 era stato legato papale a Benevento e nel 1703 partecipò ad una missione papale a Costantinopoli per trattare la questione dell'accordo fra le due chiese (9).
Pochissimi sono ancora, in questa prima epoca d'espansione veneziana, gli amministratori o delegati del governo ducale con sedi fisse fuori della città di Venezia. A Capodistria vi era dal 997 un "homo" del doge; nel porto di Treviso dal 1000 in poi un castaldo veneziano con poteri giudiziari e tributari, e forse per un certo tempo erano presenti a Comacchio dei giudici installativi dal doge Giovanni II Parteciaco (881-887). La maggior parte di essi dovevano però essere amministratori dei beni appartenenti ai dogi, ai patriarchi o ad altri Veneziani fuori delle lagune venete. Forse venivano da Venezia anche quei "fideles" che secondo il trattato del 933 dovevano giudicare in Istria i coloni degli appezzamenti appartenenti a Veneziani. Quanto alle numerose terre che questi ultimi possedevano nel Veneto, in Romagna e altrove, su quelle del patriarcato di Grado certo si trovavano nel 974 degli amministratori insediativi dal patriarca; è tuttavia probabile che ve ne fossero anche in molti altri luoghi (10).
Rarissime sono nelle fonti le notizie su Veneziani, artigiani, ecc., fuori della loro patria; sono tuttavia di un certo interesse. Fortunato, patriarca di Grado durante il primo quarto del secolo IX, famoso per la sua avventurosa attività politica, inviava nell'819 al principe croato Ljudevit, in piena ribellione contro i Franchi, artigiani, "artifices et murarios", specializzati nella costruzione di fortezze. Veneziano, o forse solo residente a Venezia, era il presbitero Gregorio, famoso costruttore di organi, la cui abilità fu nell'826 molto apprezzata alla corte di Aquisgrana (11). Risulta anche che verso la fine del secolo X maestranze veneziane avessero costruito una torre nel bellunese. A Verona poi troviamo, fra i testimoni del placito del 998 sulla controversia veneto-bellunese, un Giovanni veneziano, detto Doneo, medico, sul quale però non sappiamo purtroppo null'altro (12). Fra gli artigiani veneti rientra un Giovanni da Venezia che nell'XI secolo costruì la chiesa di S. Maria in Cosmedin a Roma. Nello stesso secolo due nobili veneziani, Marco e Sebastiano, fondarono presso San Leonardo, non lungi da Limoges, un monastero: dopo un incendio (1102) pare che la chiesa sia stata ricostruita con una grande cupola sul modello di S. Marco (13).
Rimane ancora una categoria di Veneziani che abbandonava la patria, in linea di massima per sempre: le donne che si sposavano fuori città. Pochi sono i casi noti, e tutti si riferiscono alla classe dominante a Venezia. Felicita, figlia del doge Orso I (864-881), sposò Rodoaldo, figlio del duca Giovanni di Bologna. Izella, figlia di Pietro II Orseolo, sposò in Croazia Stefano, figlio del re Surigna. Fra le molte straniere sposate a Venezia e quindi divenute veneziane va ricordata Waldrada, sorella del marchese Ugo di Toscana e nipote dell'imperatore Ottone I, moglie del doge Pietro Candiano (959-976), cui portò in dote grandi proprietà fondiarie in quel di Loreo e Ferrara. Quando nel 976 il doge venne massacrato assieme al figlioletto ed ai suoi fedeli, Waldrada poté fuggire e cercò rifugio con Vitale, figlio di prime nozze del doge e patriarca di Grado, alla corte dell'imperatore tedesco, del quale era cugina. Nel 976 finalmente furono regolati a Piacenza i rapporti fra la dogaressa vedova ed il doge Pietro Orseolo, e Waldrada rimase fino alla morte in esilio (14).
Non pochi Veneziani abbandonarono o dovettero abbandonare per ragioni politiche la propria patria, per periodi più o meno lunghi, in qualità di fuorusciti ed esiliati, e anzi alcuni morirono in esilio. Turbolenze politiche scossero Venezia fin dagli inizi del IX secolo. Partigiani di Bisanzio o dei Franchi, dogi o ribelli, vescovi o nobili, fuggivano da Venezia o vi rientravano vittoriosi e trionfanti: il doge Maurizio e suo figlio Giovanni, cacciati nell'804, morirono esiliati sulla Terraferma. Fortunato, patriarca di Grado dall'803, dopo essersi molte volte ritirato su territorio franco, finì col cercar rifugio nell'820 presso la corte bizantina, e morì poi nell'825 esiliato nel suo monastero di Moyenmoutier. Cristoforo, vescovo di Olivolo, fu dall'803 esule assieme al patriarca Fortunato in Francia, e ivi tradusse in latino l'Acatisto, famoso inno bizantino in onore della Vergine. Obelerio e Beato, dogi dall'804 all'811, furono ostaggi a Costantinopoli, e Obelerio cadde nell'830-831 sul lido di Pellestrina nel tentativo di recuperare il potere. Giovanni, secondogenito del doge Agnello (811-827), fu esiliato a Zara e a Costantinopoli, fu doge dall'829 all'836, ma dovette anche lui cercar rifugio, anche se solo per qualche mese, fuori Venezia; alla fine, vittima di una congiura, si ritirò in un convento presso Grado. Nell'864 venivano esiliati gli assassini del doge Pietro Tradonico, membri delle aristocratiche famiglie veneziane dei Gradenigo, Candiano, Faliero, Coloprino, Flabanico e di altre. Pietro III Candiano esiliava il figlio omonimo per aver congiurato contro di lui, ma lo richiamava nel 959 perché gli succedesse quale doge. Dopo l'uccisione del doge Pietro IV Candiano nel 976, la sua vedova Waldrada, come detto, abbandonava Venezia per sempre, mentre il figlio del doge, Vitale, patriarca di Grado, riusciva presto a rientrare nella sua sede. Ancora, quando verso la fine del secolo X la vita politica in Venezia fu violentemente scossa dalle lotte fra le famiglie dei Morosini e dei Coloprini, questi ultimi, esuli politici sotto la guida di Stefano (che morì in esilio a Pavia), poterono rientrare a Venezia solo grazie all'energico intervento dell'imperatrice vedova Adelaide, anche se le lotte famigliari continuarono, caratterizzate da sanguinose ribellioni e stragi. Movimentata fu anche la vita degli ultimi Orseolo: il doge Ottone III, cacciato nel 1024, riprendeva il potere per breve tempo, ma finì poi col cercare rifugio alla corte bizantina da dove, per quanto ancora una volta richiamato al dogado, non riuscì a rientrare, morendo per una improvvisa malattia lontano dalla patria, durante il viaggio verso Venezia; Domenico, forse nipote del grande Pietro II, fallito il tentativo di imporsi quale doge, fuggì a Ravenna mentre veniva eletto Domenico Flabanico, a sua volta richiamato dall'esilio; Pietro, anche lui nipote del gran doge Pietro II, fuggì in Ungheria, nel paese della madre, dove divenne re nel 1041; deposto, ritornò sul trono, ma nel 1046 fu fatto prigioniero dagli insorti e acciecato.
Unico è il caso del doge Pietro I Orseolo, il quale, uomo devoto e religioso più che personaggio politico, rinunciò al dogado, e nella notte fra il 1o e il 2 settembre del 978 volse per sempre le spalle alla patria città. Accompagnato da Guarino, l'erudito abate del monastero di San Michele di Cusan nella diocesi di Perpignano, da Giovanni Morosini, più tardi abate del monastero di San Giorgio Maggiore, e da Giovanni Gradenigo, Pietro fuggì nella massima segretezza da Venezia e si ritirò nel monastero di Cusan, dove visse quale monaco per quasi venti anni una vita pia e devota (15).
Ricordiamo ancora brevemente gli anonimi ma numerosi fuggiaschi, sudditi del doge, servi e ancelle, schiavi e pure malfattori che cercavano fuori delle lagune venete una migliore situazione economica e sociale, e che in base ai patti con gli imperatori tedeschi dovevano venir restituiti alla patria; inoltre i mercenari veneziani nell'Impero bizantino, di cui parla Liutprando, che dovevano aver un ruolo di una certa importanza per il loro numero, ma soprattutto quali abili marinai (16).
I rapporti di Venezia col Regno italico rimasero nel secolo XII stretti e regolari, basati sia sui "pacta" imperiali sia su molti altri trattati commerciali grazie ai quali i mercanti veneziani erano in condizione di raggiungere (salvo situazioni eccezionali), senza problemi, i porti ed i mercati dell'Italia nord-orientale. Su Veneziani che vi avessero residenza più o meno stabile sappiamo ben poco. Giudici veneziani e rappresentanti del dogado risiedevano in alcuni dei centri per garantire il rispetto degli accordi e la sicurezza degli interessi della patria.
In Istria, Pola, nel 1145, mise a disposizione di un rappresentante permanente del dogado una casa nel porto, e forse dal 1195, dopo un sollevamento fallito, il doge cominciò ad inviarvi ogni anno un podestà; e Capodistria, fedele suddita di Venezia, otteneva nel 1182, con l'istituzione di uno scalo privilegiato per il sale, una galera veneziana stazionata in permanenza nel porto, con il compito di far osservare le norme della vendita del sale; ancora a Capodistria, forse a partire dalla fine del secolo, veniva inviato un podestà veneziano come a Pola. Nel territorio del patriarcato di Aquileia, forse già dal 1162, risiedeva un "vicedominus", al quale erano sottoposti i concittadini nel patriarcato e che tutelava i diritti finanziari del doge. Ferrara non era solo la meta di numerosi mercanti veneziani: il dogado vi aveva possessi e feudi, la cui amministrazione era dal 1204 affidata ad un castaldo, più tardi "vicedominus", veneziano, ivi residente. Nella Pentapoli Fano si sottomise nel 1141 a Venezia, e un delegato del doge redasse, quale giudice arbitrale, il patto di pace; la città si obbligava inoltre a far giudicare le questioni controverse tra Veneziani e Fanesi da un giudice inviato dal doge (17).
Mercanti veneziani mostrarono un notevole interesse per l'Italia meridionale, per la Sicilia, ma molto di più per la Puglia, da dove esportavano vettovaglie o nei cui porti facevano sosta in rotta per Bisanzio o il Levante. Li troviamo già prima del dominio normanno in porti pugliesi e soprattutto a Bari con cui Venezia concluse nel 1122 un trattato commerciale, poi più numerosi verso la metà del secolo XII: tanto che molti a Venezia, temendo nel 1177 un intervento contro i loro numerosi parenti che si trovavano in Puglia con grandi quantità di merci e molto danaro, pregarono il doge di venire incontro alle richieste dei rappresentanti normanni. Che molti Veneziani risiedessero per un certo tempo nelle città pugliesi è molto probabile, ma per il secolo XII non vi è notizia di quartieri o colonie. Il primo esempio documentato di consoli veneziani in Puglia è del 1231, al tempo di Federico II; nei documenti si incontrano "nuntii", ambasciatori e messi in missioni speciali (18).
In Sicilia erano attivi soprattutto mercanti genovesi e pisani, ma non mancavano neppure i Veneziani. A Palermo doveva esserci una loro colonia di una certa importanza, cui Ruggiero II concesse nel 1144 di riparare una chiesa, devastata dai Saraceni, che fu dedicata a san Marco. Nel 1195 l'imperatore Enrico VI confermò agli "yconomi, sindici et procuratores" dei Veneziani residenti a Palermo, Marco Bembo e Riccardo Tommasini, il possesso della chiesa; non è noto se questi rappresentanti veneti avessero anche competenze giudiziarie (19).
Per Venezia, rivolta ormai quasi del tutto verso il Levante, era della massima importanza la costa orientale dell'Adriatico, poiché lungo di essa passava la rotta marittima che la univa con Bisanzio e il Levante, l'aorta della vita economica della città. Il primo passo era stato compiuto sottomettendo nell'anno I000 le città dalmate (20); nel corso del XII secolo la politica adriatica del governo ducale si basava su trattati conclusi con le varie città e con il Regno normanno; in Dalmazia, invece, la preoccupazione non era soltanto di assicurarsi privilegi commerciali, ma anche di rafforzare un diretto controllo sui maggiori centri costieri.
Mercanti veneziani frequentavano relativamente poco i mercati dalmati, che offrivano solo modesti vantaggi economici; forte sul mare, Venezia riuscì nel corso del secolo XII - in lotta con i re ungheresi - a ottenere successi che le permisero di rafforzare le sue posizioni in due zone importanti della Dalmazia: nei comuni delle isole del Quarnero, ad Ossero, Arbe e Veglia, e a Zara. Il governo ducale vi insediò quali suoi diretti rappresentanti nobili veneziani, o legò a sé, con precisi accordi, i signori locali. Non si sa con precisione in che modo venisse delegata la funzione di conte, ma sembra certo che a Venezia i conti erano considerati funzionari ducali, tanto quelli veneziani quanto quelli di origine locale. Le potenti famiglie della città lagunare, soprattutto quelle i cui membri occupavano le più alte cariche e in primo luogo quella ducale, cercavano di rafforzare il loro potere politico ed economico e la loro influenza sociale, anche creando per sé solide basi, fuori Venezia.
Agli inizi della seconda metà del secolo XII furono insediati quasi contemporaneamente ad Ossero, Arbe e Zara i primi "comites" veneziani. Il primo conte di Ossero che con certezza era veneziano appare in un documento del 1166 (o 1168), ed è Leonardo, uno dei figli del doge Vitale II Michiel (1156-1172). In quel periodo, probabilmente nel 1167, Leonardo sposò una principessa serba, figlia di Desa "gran zupano" della Rascia, che era fuggito nel 1166 alla corte ungherese, contribuendo così a migliorare i rapporti fra Venezia e l'Ungheria. Leonardo fu attivo anche sul piano diplomatico, dato che nel 1174, stando al Dandolo, fu inviato ambasciatore a Costantinopoli.
Nel 1174 Rogerio Morosini, figlio di Domenico, allora conte di Zara, era stato no-minato conte di Chissa e forse dell'isola di Pago, che era "de jure et pertinencia nostra nostrique ducatus"; e nel 1185 i Morosini ottennero tutta la contea di Ossero e Pago. Nel 1199 Rogerio fu podestà di Pola e pare abbia ricevuto vasti possessi nell'agro polese. Nel 1200 era ancora conte di Ossero e nel 1205 fu legato di Venezia presso Baldóvino di Fiandra, imperatore di Costantinopoli.
L'isola di Arbe ottenne con privilegio del 28 giugno 1166 dal doge Vitale Michiel di poter proporre quattro nobili arbesani: fra questi il doge avrebbe scelto il conte del luogo; altre soluzioni erano previste soltanto in caso di litigio o disaccordo. Quanto questo sistema fosse vantaggioso per Venezia e per le sue grandi e potenti famiglie lo prova il fatto che ben presto, forse già nel 1167, conte di Arbe divenne Niccolò, figlio del doge Vitale II Michiel (1156-1172) e fratello di Leonardo conte di Ossero. Niccolò sposò poi una principessa ungherese, figlia del re Stefano III.
Nel corso del XII secolo Venezia mostrò un particolare interesse per Zara, e il governo ducale concentrò le sue forze per assicurarsi il possesso di questa così impor-tante città, fortezza e porto. Contro Zara fu inviata nel 1152 una forte armata, sotto il comando di Domenico Morosini, figlio dell'omonimo doge (1148-1156). Una volta sottomessa la città, il Morosini ne divenne il primo conte veneziano, e restò al potere, nonostante ripetute sollevazioni, fino al 1180-1181. La forza del conte poggiava anche sulle sue ricchezze, che conosciamo solo in parte: nel centro della città di Zara possedeva una casa con torre, tutto l'androne con i suoi diritti e un'altra casa coi suoi allodi.
Il tentativo del 1203 di controllare Zara con un presidio installato nel castello del Malconsiglio, sull'isola del Lazzaretto o Ugliano, fu di breve durata: solo nel 1205 Venezia poteva rinviare a Zara un conte, Vitale Dandolo, quello stesso patrizio veneto, cioè, che stava a capo delle navi, e che costrinse la città a chiedere la pace. Con lui fu inviato un arcivescovo, nella persona di Leonardo abate di San Felice in Venezia.
Poche sono le notizie riguardanti i diritti e le funzioni dei "comites" veneziani nelle città dalmate: essi presiedevano in giudizio e, come a Veglia, dovevano essere responsabili della difesa della città e dell'isola o distretto (21).
Le poche notizie concernenti la Dalmazia centrale e meridionale confermano la linea generale della politica ducale verso le città della costa orientale dell'Adriatico.
Dopo i tragici fatti del 1171 nell'Impero bizantino, una flotta veneziana in navigazione per Costantinopoli sottomise Ragusa. Prima di riprendere il viaggio i Veneziani distrussero una parte delle mura e la torre imperiale della città e vi insediarono quale viceconte Rainiero Ziani; questi, però, già nel 1172 rientrava con la stessa flotta a Venezia. Passarono alcuni decenni prima che un altro conte della Serenissima governasse a Ragusa: nel 1205 il patriarca Tommaso Morosini, in viaggio per la capitale del giovane Impero latino, sottometteva la città, e nel 1208 è attestato quale conte veneziano Lorenzo Quirini (22).
Per Cattaro non sono conosciuti conti veneziani ma non è senza interesse annotare che una fonte russa, ancora inedita, nomina per l'anno 1200 Lauro Zan, "veneticus", conte di Cattaro per grazia del signor Stefano, grande župano, e dei suoi figli. In quel periodo la città si trovava sotto il dominio di Vukan, re della Dioclea, figlio del grande župano serbo Stefano Nemagna, come è provato, fra l'altro, da alcuni atti contemporanei, per cui la formulazione è abbastanza strana (23).
Col crisobollo del 1082 iniziava per Venezia un'era di espansione economica e politica destinata a caratterizzare tutto il secolo XII, quando furono poste le fondamenta di un impero coloniale. I mercanti veneziani erano sempre più numerosi nei mercati e nei porti bizantini: si fissavano per periodi ormai lunghi o in modo definitivo anche fuori di Costantinopoli; allargavano di continuo il loro campo d'azione; visitavano nuovi centri non solo lungo la costa ma anche all'interno ed il volume degli affari aumentava. Nel contempo, i rapporti umani spesso peggioravano.
La continua espansione e le ricchezze dei mercanti veneziani e il loro spesso arrogante e superbo comportamento, la crescente dipendenza economica e militare di Bisanzio da Venezia e dalla sua flotta approfondirono i malintesi e i contrasti, che si estesero anche sul piano politico. Malgrado la prudente e circospetta politica del governo ducale, i rapporti fra Impero e Venezia divennero sempre più tesi. La frattura finale, le cui conseguenze sono ben note, ebbe luogo il 12 marzo 1171 (24).
In base ai documenti privati pubblicati nell'ultimo cinquantennio concernenti il commercio veneziano nei secoli XI e XII e ai crisobolli imperiali è possibile tracciare un quadro approssimativo dei centri che i mercanti veneziani visitavano e in cui si trattenevano per periodi più o meno lunghi oppure stabilmente.
Le colonie veneziane nell'Impero bizantino non erano molte, ma importanti. In primo luogo Durazzo, all'uscita dall'Adriatico ed all'inizio della Via Egnazia. Come abbiamo visto, Veneziani vi risiedevano già prima del 1082 e certamente la colonia si rafforzò dopo i grandi privilegi ottenuti. Da Durazzo, dove possedevano la chiesa di Sant'Andrea (doveva essere la chiesa del quartiere), i mercanti di San Marco potevano raggiungere i centri commerciali dell'interno della penisola balcanica. Corinto era un mercato di primaria importanza per una vasta regione, comprendente tanto la Grecia centrale quanto il Peloponneso. I Veneziani vi dovevano essere numerosi a giudicare dai molti documenti privati; della loro chiesa di S. Niccolò fu priore, verso la metà del secolo, Leonardo.
A sud di Corinto, nel cuore del Peloponneso, nel luogo dell'antica Sparta, si trovava Lacedemonia, da dove mercanti di San Marco esportavano soprattutto olio a Venezia, Alessandria e all'interno dell'Impero bizantino. Molti Veneziani vi si trattenevano per affari a lungo ma non vi avevano un quartiere vero e proprio. Tebe era uno dei centri più visitati dai mercanti veneziani, probabilmente per la sua produzione di bellissime stoffe e preziose sete. La famiglia Michiel vi possedeva dei terreni; il ricco mercante Vitale Voltani vi inviò, all'inizio degli anni '6o del secolo XII, da Costantinopoli, per due anni, Marco Betani quale suo rappresentante commerciale; un Veneziano ivi residente viene citato davanti a un tribunale nel 1166; alcuni vi fanno testamento. Il quartiere aveva una chiesa, dedicata a s. Niccolò, che nel 1159 era retta dal priore Giovanni Rustico. La colonia era piuttosto numerosa, visto che nel 1171 molti furono i Veneziani allora imprigionati e molte le merci confiscate. Uno dei porti e centri commerciali maggiori con una numerosa colonia veneziana era Almiro, mentre la vicina Demetriade scompare del tutto dai documenti del XII secolo. Ad Almiro il numero dei mercanti occidentali, veneziani e altri, era, lo conferma Beniamino di Tudela, molto grande, e nel 1171 questi fuggirono su venti navi venete che si trovavano allora nel porto. I Veneziani vi possedevano beni, case e terreni, e fra i possessori figura anche il monastero di S. Giorgio Maggiore con la chiesa di S. Giorgio: suoi priori furono verso la metà del secolo Bosone e Marco Zulian; la colonia veneziana aveva anche altre chiese e numerosi magazzini. Tessalonica, per grandezza la seconda città dell'Impero e mercato balcanico e internazionale di prim'ordine - quale è descritta verso la metà del secolo nel Timarione, composizione satirica dell'epoca -, viene elencata in tutti i privilegi imperiali a favore di Venezia, ma ben pochi sono i documenti privati relativi ai negozi che i Veneziani vi svolgevano. Ci doveva però essere una loro colonia, poiché verso la fine del secolo viene divisa la massa ereditaria di un Veneziano, residente nella città e ivi morto, mentre un altro Veneziano, anche lui ivi residente, figura in una quietanza come teste per un pagamento avvenuto con ritardo. L'esistenza di un quartiere è confermata dalla richiesta dei Pisani di ottenerne uno come l'avevano i Veneziani e in parte da Eustazio, arcivescovo di Tessalonica: nel 1185 costui menziona un quartiere latino addossato alle mura all'interno della città. Forse c'era un quartiere veneziano anche a Crisopoli, sulla Via Egnazia, comunque è certo che i Veneziani vi avevano case o abitazioni poiché da loro fu ospitato un mercante genovese derubato. Sulla costa europea del Mar di Marmara, a Redesto, sbocco della Tracia ricca in grani, vi era fuori le mura una colonia veneziana con una chiesa di Maria Vergine. Qui si conservavano pesi e misure che furono verso la metà del secolo causa di litigio fra i Veneziani ivi residenti; la chiesa fu retta verso la metà del secolo da Domenico Babilonio. A Redesto c'era inoltre una chiesa di San Giorgio, che si trovava presso il fondaco veneziano.
Quartieri veneziani si trovavano dunque in alcune città costiere della penisola balcanica, mentre all'interno ve ne erano forse uno o due. Adrianopoli era fin dall'XI secolo meta dei mercanti di San Marco e un certo numero di loro vi risiedeva, poiché verso la fine del secolo XII era previsto che prestassero servizio in caso di guerra nella flotta imperiale. Nella città si trovava il monastero latino della Vergine Maria, che manteneva ottime relazioni con quello di S. Giorgio Maggiore, e probabilmente Venezia vi aveva un quartiere, che si estendeva forse fuori le mura ma la cui esistenza non è documentata con sicurezza. Lo stesso vale per Filippopoli, la odierna Plovdiv in Bulgaria, sulla via militare da Belgrado a Costantinopoli; lì si trovava un borgo nobile latino fuori le mura per cui non è da escludere che in esso si trovassero anche Veneziani, mercanti o mercenari.
Il Mar Nero rimase chiuso ai mercanti occidentali e quindi anche ai Veneziani fino alla quarta Crociata; e in Asia Minore il numero dei Veneziani doveva essere minimo, eccetto forse in parte verso la fine del secolo XII lungo la costa fra Costantinopoli, Filadelfia e Abido. In quest'ultimo luogo, che dominava la rotta marittima attraverso i Dardanelli e nel quale si trovava uno dei più importanti punti doganali bizantini, era insediata una numerosa colonia veneziana con una chiesa dedicata a s. Niccolò, presbitero della quale era, verso la fine del secolo, Marco Albani. Filadelfia era spesso visitata da mercanti veneziani, alcuni dei quali vi dovevano risiedere per un certo tempo anche se non con dimora fissa, poiché, come quelli di Adrianopoli e Abido, dovevano in caso d'emergenza servire nella flotta imperiale (25).
Per l'importanza che aveva per i Veneziani, Costantinopoli superava tutti gli altri centri dell'Impero bizantino. Che la capitale fosse centro politico, amministrativo e religioso della massima portata è più che evidente, ma lo era anche dal punto di vista economico, quale centro di produzione e soprattutto quale mercato internazionale; era, inoltre, una città grande e ricca, come dice Odo di Deuil: Costantinopoli, gloria dei Greci, ricca per fama ma ancor di più per i beni: "Constantinopolis, Graecorum gloria, fama dives et rebus divitior".
Il quartiere che i Veneziani avevano a Costantinopoli e che era stato loro concesso dall'imperatore Alessio I fu notevolmente ampliato da Manuele I, dal quale la comunità ottenne con crisobollo del 1148 nuovi terreni, "ergasteria", cioè botteghe e manifatture, magazzini nonché uno scalo marittimo; nel 1188 poi, furono loro concessi da Isacco II, a titolo di risarcimento per i danni subiti nel 1171, i quartieri dei Tedeschi e dei Francesi con i relativi scali marittimi.
Il governo ducale non aveva ancora elaborato strutture amministrative per i quartieri veneziani della capitale bizantina e degli altri centri, per cui non inviava sul luogo, salvo in parte in Dalmazia e negli stati crociati, suoi rappresentanti permanenti. Ricorreva a misure di carattere transitorio. Conservava per sé, sotto il suo controllo, solo parte del quartiere, l'embolo, cioè il portico, ove si svolgeva l'attività commerciale, e gli scali, e li affittava poi a terzi. Per esempio, verso la metà del XII secolo, a sette "boni homines" veneziani, cioè a Pietro Zusto, Andrea Zeno, Michele Barbamaiore, Pietro e Giovanni Tanoligo, Pancrazio Zorzi e Gratone Dandolo, per quattro anni. Così pure nel 1195-96 un appezzamento di terreno era affittato a Giovanni da Canal, ma la maggior parte del quartiere fu concessa ai monasteri veneziani di S. Niccolò del Lido e S. Giorgio Maggiore, e al patriarca di Grado. Cittadini veneziani privati possedevano inoltre terre, case ed "ergasteria" tanto nel quartiere quanto fuori di esso (26). Al centro del complesso di beni ecclesiastici si trovava una chiesa che dipendeva. dall'ente religioso della madrepatria, che vi inviava regolarmente un rettore o priore. A Costantinopoli la chiesa di S. Marco dipendeva da S. Giorgio Maggiore; nel corso del secolo XII essa fu retta da Pietro Gradonico, monaco e rettore; poi da Pietro da Molin; poi ancora, negli anni '8o, dal priore Domenico, cui succedettero Paolo Sagredo, prete, monaco e priore, e quindi Pietro Fuscareno e Domenico. La chiesa di S. Niccolò ebbe come rettori verso la fine del secolo Domenico Contarini, Domenico Baffo (o Basso), Giovanni Balbo e Giovanni Signolo, mentre della chiesa di Santa Maria "de Embolo" conosciamo un solo priore, il prete "Buctus". Nel 1131 l'arcivescovo di Lemno donò a S. Giorgio Maggiore, nella persona di Pietro, monaco e priore di S. Marco in Costantinopoli, l'oratorio di S. Biagio sull'isola suddetta, di cui in epoca più tarda fu priore il presbitero Romano. Abbiamo già incontrato alcuni priori di chiese veneziane a Corinto e Redesto, ad Abido, Almiro e Tebe, per cui pare evidente che l'organizzazione così strutturata legava le colonie e gli insediamenti veneziani in "Romania" con gli enti ecclesiastici corrispondenti in Venezia, e attraverso essi, anche se non direttamente, col governo ducale.
I priori svolgevano in primo luogo un'attività religiosa e spirituale che per i Veneziani, i quali erano di rito latino ma risiedevano in terra ortodossa, doveva avere un ruolo abbastanza importante. Essi avevano però anche altri compiti: amministravano i beni delle loro chiese (ove spesso venivano depositati pesi e misure, che i mercanti veneziani usavano dietro pagamento, e pure talvolta le merci, oppure, in caso di rottura del contratto, il capitale e gli interessi spettanti al finanziatore) ; fungevano abitualmente da notai. In particolare i priori erano depositari dei beni di Veneziani morti fuori dalla loro patria fino a che il processo riguardante l'eredità non avesse avuto luogo. Essi erano dunque gli unici rappresentanti veneziani che garantissero una certa continuità nell'amministrazione dei quartieri situati nell'Impero bizantino (27).
Quando i legati e gli ambasciatori dei dogi venivano nell'Impero e vi espletavano la loro attività di giudici, lo facevano nelle forme usuali in Venezia: la loro era una "publica curia" e "boni homines" fungevano da assessori; assieme emettevano la sentenza. Quando non vi erano legati a Bisanzio i "boni homines" agivano da soli. Questa situazione cambiò in parte verso la fine del secolo XII, allorché compaiono giudici veneziani residenti a Costantinopoli con competenze però abbastanza ristrette. Uno dei primi giudici fu Pietro Fuscareno, in carica nel 1186, cui fecero seguito Enrico Delfino, Marco Martinaccio e infine Bonifacio Sulmulo. Allorché un legato ducale si trovava nella capitale i giudici gli erano sottoposti, ma in questo caso il tribunale aveva delle competenze più vaste. Grandi ed estesi erano i beni del comune veneziano a Costantinopoli, e per questo venivano inviati nella capitale i procuratori sui redditi comunali, come quel Giovanni Barastro della contrada di Santa Margherita che troviamo verso la fine del secolo XII (28).
I legati del governo ducale avevano in primo luogo compiti diplomatici, per cui la loro ingerenza negli affari interni della colonia veneziana aveva un carattere secondario o sporadico. Però la loro influenza sulla vita della colonia doveva essere abbastanza significativa, per la loro posizione sociale, la loro forza economica e quindi per il loro influsso politico più che per le loro competenze amministrative e giudiziarie. I nomi dei legati e ambasciatori del governo veneziano confermano con evidenza a quale ceto sociale appartenesse la maggioranza di essi. Basti ricordare, per avere un'idea, i nomi dei legati inviati alla corte bizantina per trattarvi il rinnovo dei crisobolli. Non conosciamo quelli che vi si recarono nel 1126; nel 1147 lo fecero Domenico Morosini e Andrea Zeno. A partire dal 1172, dapprima Sebastiano Ziani e Orio Mastropietro, ambedue più tardi dogi, poi il Magister Pasquale, vescovo di Equilo e conoscitore del greco, e Manasse Badoario; successivamente Leonardo Michiel, conte di Ossero, Marino Michiel e Filippo Greco, e infine Enrico Dandolo e Filippo Greco. Nel 1184 di nuovo Enrico Dandolo accompagnato da Pietro Ziani e Domenico Sanudo. Davanti all'imperatore Isacco II si presentarono nel 1187 Pietro Michiel, Ottaviano Quirino e Giovanni Michiel e nel 1189 Pietro Cornario e Domemico Memo, ambedue nel 1198-1199 procuratori di San Marco; nel 1197 il doge Enrico Dandolo inviava quali legati Enrico Navigaioso e Andrea Donato, le cui istruzioni sono le uniche conservatesi per il secolo XII. Nel 1198-1199 furono a Costantinopoli dapprima Rainerio Zeno, figlio del doge, e Marino Mastropietro; poi Enrico Navigaioso, Andrea Donato e Benedetto Grillioni ed infine Pietro Michiel e Ottavio Quirino, noti per la loro prudenza, i loro consigli e la loro sapienza retorica (29). Eccezione fatta per uno o due legati, tutti appartenevano a famiglie dell'aristocrazia veneziana, tutte fortemente interessate al commercio con l'Impero bizantino. Non possiamo in questa sede seguirle tutte nelle loro attività in Oriente, ma uno spoglio di documenti privati del secolo XII riguardanti le famiglie Ziani, Badoario e Greco conferma, fuori di ogni dubbio, quanto intenso fosse il connubio fra politica ed economia nella Venezia dell'epoca. La famiglia Ziani era una delle più ricche e potenti della città, e il grande storico dell'economia veneziana Gino Luzzatto ne ha descritto magistralmente l'ascesa (30).
Fin verso la prima metà del secolo troviamo i Greco a Corinto, Almiro, Costantinopoli nonché in generale in "Romania "; durante la seconda metà del secolo i Badoario trafficavano a Costantinopoli, ad Almiro, a Tebe, ad Alessandria e a Corinto; anche Manasse Badoario, che fu legato nel 1172, Si dedicava al commercio e lo troviamo nel 1174 ad Alessandria, mentre era invece stato nel 1171 giudice a Venezia, e nel 1184 legato del doge ad Acri. Analoga è la situazione per quasi tutte le altre famiglie aristocratiche, dagli Zeno ai Cornario, ai Memo e Donato, ai Mastropiero e Morosini, ai Dandolo (31).
Il periodo compreso fra gli anni '3o e '70 del secolo XII resta quindi l'epoca più caratteristica e indicativa per l'attività commerciale veneziana. Si è già visto fino a che punto la maggior parte dell'aristocrazia cittadina fosse interessata e partecipasse, in forma più o meno diretta, ai commerci; tale ampia quota del patriziato, del resto, importante soprattutto per la sua influenza più che per il suo peso numerico, certamente non costituiva l'intero ceto mercantile. Anche un gran numero di Veneziani di umile origine, infatti, dalle attività mercantili modeste, i cui nomi appaiono spesso solo in questa epoca, partiva per i mercati e porti del Levante e dell'Impero bizantino e vi si fermava più o meno a lungo trafficando, vendendo e comprando merci di diverso genere a Venezia, Costantinopoli, Almiro, Corinto ed altri centri; talvolta questi Veneziani pure richiedevano o concedevano prestiti finanziari. Seguirli tutti è impossibile; può risultare invece utile, a titolo di esempio, presentare più da vicino alcuni di loro nelle attività economiche, finanziarie e commerciali che svolsero.
Il più noto fra essi è certamente Romano Mairano la cui carriera è stata già più volte ricostruita, sempre sulla base dei documenti conservati nell'Archivio di S. Zaccaria. Romano Mairano era di modestissime origini; i suoi genitori e parenti non si erano mai occupati di commercio o per lo meno non appaiono mai nei documenti dell'epoca. Negli anni '50 del XII secolo commerciava nell'Impero bizantino con il fratello Samuele e aveva il proprio centro di affari in Costantinopoli. L'attività in un primo tempo era ancora di modesto volume e limitata ai mercati bizantini della capitale, di Almiro, Sparta, Smirne; un decennio più tardi, pur rimanendo Costantinopoli la base delle sue attività commerciali, Romano Mairano aumentò la mole delle imprese e allargò il suo campo di attività. Le sue navi toccavano non solo nuovi porti bizantini, fra i quali quelli dell'isola di Creta e della Tessaglia, ma anche i porti ben più interessanti del regno di Gerusalemme, Antiochia, Tiro, Acri, e soprattutto di Alessandria d'Egitto. Egli era spesso capitano delle navi che trasportavano le sue merci, che erano peraltro di frequente di sua completa o parziale proprietà. Fra esse ve ne fu una famosa per grandezza e superficie di vele, chiamata "Kosmos ". Le sue attività economiche erano molteplici: affittava per esempio le case che possedeva nella capitale, ma ben più cospicuo affare fu la concessione fattagli dal patriarca di Grado, Enrico Dandolo, zio del famoso doge, di riscuotere i ricchi redditi dei beni (e ogni altra entrata) che il patriarcato possedeva nell'Impero bizantino. La strage del 1171 colpì gravemente anche Romano Mairano, anche se con la sua grande nave egli riuscì a salvare se stesso, parte delle proprie ricchezze e anche un buon numero di compatrioti. Non perse però coraggio e si rivolse verso altri, in parte nuovi, mercati e porti. Fino alla fine del secolo i documenti confermano la sua presenza ad Alessandria, in Siria e Palestina, nuovamente a Costantinopoli e Abido, a Almiro e Kitros (l'antica Pidna), a Zara e in Puglia. Interessante è, come testimonianza dello spirito d'intraprendenza di Romano, un suo viaggio commerciale ("taxegio") nel 1177 a Ceuta e Bugia; anche se non fu finanziariamente un successo, il viaggio certo mostra l'ampiezza delle vedute e lo spirito d'iniziativa di questo membro del ceto mercantile veneziano. Alla fine del secolo XII al posto di Romano nei documenti commerciali privati appare il figlio Giovanni (32).
Non meno interessante è la figura del mercante Dobramiro Stagnario. Egli era di origine ancor più umile di Romano Mairano, essendo uno schiavo affrancato da Pietro Stagnario, di cui prese allora il cognome con testamento del 1125. Negli anni seguenti lo troviamo a commerciare nel Levante fra Sparta e Alessandria, Corinto e Costantinopoli, probabilmente con buon esito, poiché suo figlio Pancrazio ne continuò l'attività concentrandosi, pare, su Costantinopoli e Corinto. Anch'egli, come tanti altri, subì un serio contraccolpo nel 1171, ma si rifece presto trafficando nell'Italia meridionale, in Egitto e in Siria. A lui successero i figli Giovanni, Domenico e Zaccaria, che si rivelò il più efficace e che, alla fine del XII secolo e durante i primi decenni del XIII, condusse ottimi negozi a Venezia, Padova e in Terraferma ma soprattutto a Costantinopoli, e che dopo la fondazione dell'Impero latino si arricchì notevolmente assumendo anche cariche politiche (33).
Un altro tipo di famiglia mercantile è rappresentato dai Voltani. Verso la fine dell'XI secolo Vitale era un rispettabile cittadino di Ammiana. Suo figlio Pancrazio commerciava verso la metà del XII secolo nell'Impero bizantino. La famiglia si era poi trasferita a Venezia, nella contrada di Santa Maria Formosa, e suo figlio Vitale, cui fu evidentemente dato il nome del nonno, seguì le orme paterne e dalla metà del secolo in poi sviluppò da Costantinopoli un'efficace rete di affari soprattutto nei mercati bizantini da Smirne a Tebe, da Sparta a Corinto, ma anche in Siria. Tanto si svilupparono i suoi negozi in Grecia che vi inviò per due anni Marco Betani come amministratore della sua succursale di Tebe. Colpito anche egli probabilmente dalle confische del 1171 riappare attivo già nel 1175-1176 a Tebe, quindi inaspettatamente presto, e con ottimi risultati, poiché nel 1185 finanzia con 250 iperperi Pietro Morosini per un "taxegio" per mare e per terra fra Tebe, Venezia, Durazzo, Corinto e Costantinopoli. Per quanto il centro dei suoi affari fosse nuovamente nell'Impero bizantino egli commerciava anche altrove, fra l'altro ad Aquileia e nei mercati pugliesi (34).
Questi mercanti veneziani, grandi e medi, tanto quelli di modeste origini, quanto quelli che provenivano dall'aristocrazia, facevano affari soprattutto con e nell'Impero bizantino: Romano Mairano ebbe per lungo tempo la base del suo commercio a Bisanzio, ma trafficava in tutto il Mediterraneo, dall'Italia all'Egitto e alla Tunisia; gli Stagnario e in particolare i Voltani concentravano quasi esclusivamente le loro attività nell'Impero pur non trascurando altri mercati. Comune a tutti era la mancanza di ambizioni politiche, anche se rimanevano spesso in stretto contatto d'affari con le più illustri e ricche famiglie aristocratiche della città.
C'erano poi i mercanti "piccoli", quelli che cercavano fortuna fuori Venezia in vario modo e per vie diverse, dei quali è rimasto qualche documento che li mostra nella loro modesta e spesso temporanea attività. I Pantaleo erano una famiglia relativamente antica, stimata e rispettata a Venezia e a Bisanzio. Nel XII secolo alcuni suoi membri, Pietro, Giovanni, Vitale, Leonardo, Avorlino, figuravano in vari documenti rilasciati a Costantinopoli, Sparta, Corinto quali testi, mediatori e avvocati. Si erano creati una posizione anche quali attivi commercianti, per esempio di olio a Sparta, ma anche fuori dell'Impero. Allorché infatti morì a Tiro Vitale Pantaleo, detto Malvicino, suo nipote Giovanni dovette venire espressamente da Bisanzio per regolare l'alquanto contestata eredità (35). I Bagesso erano all'inizio del XII secolo una famiglia di Ammiana, luogo in cui possedevano parecchi immobili. Uno di essi, Giovanni, figlio di Orso, entrò nel 1040 in "compagnia" con Vitale Voltani per negozi da svolgersi a Costantinopoli, ma perdette tutto allorché fu catturato dai Saraceni (36). E mentre Vitale Voltani continuava a trafficare, i Bagesso scompaiono dalla documentazione. E probabile che Giovanni Bagesso si fosse rivolto al Voltani, poiché ambedue provenivano dalla stessa località, contando sulla sua esperienza e conoscenza dei mercati bizantini. Un altro veneziano, Giovanni Mauro Bucca (Boccanegra?), perse probabilmente all'inizio degli anni '40 tutto o gran parte del suo avere in un naufragio nelle acque di Rodi, e questa è l'unica sua menzione nei documenti. Il capitano, "nauclerus", era Domenico Salomone, appartenente ad una famiglia veneziana benestante, che possedeva terre e case, un membro della quale fu presbitero e notaio, ma che era anche legata al mare e al commercio, poiché troviamo, oltre a Domenico, nel 1170 Vitale a Corinto quale teste (37).
Per molti la catastrofe del 1171 dovette essere stata fatale. Ricordiamo così, fra i mercanti dai mezzi piuttosto limitati, Giovanni Cristiano, che si trovò in quel momento ammalato a Sparta dove gli furono confiscate certe quantità di olio, e un certo Domenico Barbaromano, che a Costantinopoli perse non solo il guadagno della merce venduta ma anche quello di una parte della nave di sua proprietà che aveva venduto poco prima (38).
Non tutti i Veneziani che si occupavano di commercio nell'Impero bizantino erano mercanti; alcuni vi andavano per apprendere il mestiere, altri, soprattutto i meno benestanti, si mettevano al servizio di commercianti che avevano già fatto fortuna. Abbiamo prima incontrato Marco Betani, che rimase al servizio di Vitale Voltani per due anni a Tebe. I Betani erano abbastanza abbienti; li troviamo infatti a Venezia a prender crediti ma anche per partecipare al commercio con una nave che da Costantinopoli partiva in "taxegio" per Creta e Alessandria; ad Almiro inoltre possedevano delle terre. Ricordiamo ancora che in un documento del 1197 appare un certo Sambati, "homo" di Giovanni Barbo, che doveva, quale suo rappresentante o forse fattore, incassare per lui un prestito fatto nel 1170. Non meno interessante è un contratto del 1170 con cui Domenico de Auricia si pose al servizio di Romano Mairano per un periodo di sei anni, accettando, fra l'altro, di essere inviato o lasciato ovunque Romano lo trovasse opportuno (39).
Senza dubbio il gruppo più numeroso di Veneziani presenti nell'Impero bizantino era formato da mercanti e loro aiutanti, fattori, servi, ecc., e da marinai. Mancano le fonti per poter elaborare una statistica; si può però calcolare approssimativamente che durante i primi tre, quattro decenni del secolo XII (a parte gli anni II22-II26), il loro numero andò lentamente aumentando; verso l'infausto 1171 la cifra doveva avvicinarsi ai 20.000 (come testimonia la Historia Ducum Veneticorum) (40), dei quali 10.000 solo a Costantinopoli; la fine del secolo, probabilmente dopo il 1183-1184, vide una ripresa, ma senza più raggiungere il livello anteriore al 1171 prima della IV Crociata. Difficile è anche dire quanti fossero i Veneziani negli altri centri quali Corinto, Tebe, Durazzo, Almiro, Tessalonica, Redesto; ma dagli scarsi documenti che si sono conservati non c'è alcun dubbio che la maggior quota di essi era concentrata nella capitale dell'Impero e che probabilmente si avvicinava al numero sopra citato. Da non dimenticare che la cifra della loro presenza era importante anche dal punto di vista del governo comunale, poiché in casi di emergenza essi venivano fatti rientrare dalla "Romania" (41).
La maggior parte dei mercanti e marinai veneziani non aveva però dimora stabile nell'Impero; essi vi passavano il tempo necessario per i loro affari, talvolta si trattenevano tutto l'inverno se erano arrivati tardi in autunno, poiché all'inizio della stagione fredda non si navigava. Pochi sono infatti negli atti privati, e soprattutto alla fine del secolo XII, gli "habitatores", i residenti a Costantinopoli, Durazzo, Tessalonica, Almiro in confronto alla stragrande maggioranza che risiedeva in contrade veneziane, nei "confinia" dai ben noti nomi, ma anche a Torcello, Ammiana, Malamocco, Chioggia, Caorle e altre località lagunari.
Una categoria speciale di "latini" nell'Impero erano i "burgenses", persone, cioè, che avevano perso la "cittadinanza" originaria ed erano legate all'imperatore da un giuramento di fedeltà e che erano, dunque, divenute suoi sudditi. Per i Veneziani pare che i due termini, "habitator" e "burgensis", si confondessero in uno. Costoro, come del resto anche altri Veneziani, abitavano fuori del quartiere "nazionale" (42).
Tutti gli altri Veneziani rimasero sottoposti, malgrado le concessioni e i privilegi ottenuti, alla giurisdizione imperiale per tutta l'epoca precedente la IV Crociata. Per quanto grandi fossero i privilegi commerciali, finanziari e doganali, e per quanto nel crisobollo del 992 e poi, in un solo caso, nel crisobollo del 1198, fossero definiti "extranei", i Veneziani rimasero per tutto il periodo qui considerato "recti duli imperi mei", cioè soggetti all'imperatore bizantino. Questa definizione appare nei crisobolli del 1082, 1126, I 147 e 1148, ma viene confermata nella sostanza anche in quelli del 1187, 1189, e 1198, nei quali i Veneziani vengono definiti "servientes utiles Romanie" o si parla della loro "fides et servitium", tutti termini feudali che esprimono, spesso solamente in teoria, la loro dipendenza dall'imperatore bizantino (43). Da ciò derivò per i Veneziani nell'Impero la mancanza di sicurezza legale che fu per il governo del Comune, verso la fine del secolo XII e agli inizi del XIII, uno dei più importanti moventi della sua politica nei confronti dell'Impero bizantino.
Mercanti e marinai, sacerdoti e notai, legati e messi non erano i soli Veneziani a svolgere la loro attività sul territorio bizantino. Nel corso del secolo XII assunsero una certa importanza anche i mercenari, i marinai che servivano su navi bizantine, soprattutto come rematori. Ciò ebbe luogo soprattutto durante il regno dell'imperatore Manuele: nel 1150 entrò in servizio nella flotta imperiale Gonzo da Molino della Contrada di Sant'Eustazio; verso la stessa epoca, durante la guerra con i Normanni, altri Veneziani prestarono servizio sulle galere bizantine in base a un accordo fra il doge e l'imperatore. Al servizio imperiale si trovavano anche galere veneziane completamente equipaggiate, nel 1150 ben tredici. Da notare è, però, che in confronto a Pisani e Genovesi il numero dei mercenari veneziani era molto modesto, forse anche perché in base ad accordi i Veneziani nell'Impero dovevano servire solo in determinati casi nella flotta imperiale.
Ancor più evidente è la sproporzione fra gli uni e gli altri se si considerano le loro attività corsare. I Veneziani si diedero alla pirateria nelle acque bizantine soprattutto dopo il 1171, non solo contro navi imperiali, ma anche contro quelle genovesi e pisane. Tutto ciò, pare, fu di breve durata. Mentre il governo bizantino era costretto a intervenire spesso presso i comuni di Pisa e Genova per protestare contro i loro cittadini dediti alla pirateria, non sono note lagnanze nei riguardi di Venezia. Ciò si potrebbe in parte spiegare con la posizione altamente privilegiata di cui i Veneziani godevano nell'Impero (44).
Poco si sa sui rapporti culturali fra Venezia e Bisanzio. Mercanti e marinai non avevano ambizioni letterarie, ma in generale dovevano conoscere quel tanto di greco, soprattutto popolare, che serviva per i loro affari. Così nel 1150 Stefano Capello di Mazzorbo si riferisce a una "cartula grecae [sic> scripta" con cui provava l'acquisto di terre, case ed edifici ad Almiro (45). E più che probabile che quanti si trattene-vano più a lungo nei centri bizantini conoscessero meglio la lingua e servissero spesso da interpreti o mediatori ai nuovi venuti e ai meno esperti, ma non ci sono documenti che lo confermino espressamente.
Qualche letterato è tuttavia noto. Cerbano Cerbani, chierico veneziano, autore della Translatio mirificis martyris Tsidori a Chio insula in civitatem Venetam, fu per qualche tempo al servizio dell'imperatore Alessio I, forse quale interprete, e, dopo la sua morte, alla corte del figlio Giovanni II. Allorché quest'ultimo fece difficoltà ai Veneziani per il rinnovo del crisobollo del 1082, Cerbano dovette fuggire da Costantinopoli. Durante la fuga arrivò all'isola di Chio, dove ebbe luogo il ritrovamento delle spoglie di sant'Isidoro che poi, nel 1125, furono trasportate a Venezia. Poco dopo l'arrivo delle reliquie in laguna, Cerbano compose la Translatio. Fu poeta e letterato di un certo rilievo e buon conoscitore del greco. Il nome era veneziano, poiché nel 1075 fu patriarca di Grado Domenico Cerbani; un Pietro Cerbani firmò nel 1090 un atto di donazione, e nel 1125 Vitale Cerbani figurò quale teste nell'atto di manomissione di quel Dobramiro che poi prese il nome di Stagnario. Pare che più tardi Cerbano emigrasse in Ungheria. Da ricordare è anche "Jacobus Veneticus" o "Jacobus clericus de Venetia", letterato e traduttore di Aristotele, di Alessandro di Afrodisia e di altri commentari aristotelici, che prese parte alla disputa costantinopolitana del 1136 fra Niceta, arcivescovo di Nicomedia, e Anselmo, vescovo di Havelberg, assieme con altri dotti sulla questione della processione dello Spirito Santo (46). Unico è il caso di Dositeo, monaco del monastero di Studion a Costantinopoli, di origine veneziana e figlio di un certo Vitilino. Era amico dell'imperatore Isacco Il (1185-1195), al quale aveva predetto l'ascesa al trono. Allorché prese il potere, Isacco lo nominò patriarca di Gerusalemme e nel 1191 lo elevò al seggio patriarcale di Costantinopoli contro l'opinione di molti alti prelati. Ma lo scandalo era troppo grande e l'opposizione troppo forte, per cui Dositeo perse presto l'alto seggio (47).
Sono due i momenti culminanti dei rapporti fra i Veneziani, che abbiamo seguito nelle più importanti fasi della loro espansione soprattutto economica, e le autorità bizantine, e mettono in evidenza l'aspetto psicologico-politico delle loro relazioni. Il primo è nel 1171, anno della cattura dei Veneziani e della confisca dei loro beni in tutti i centri dell'Impero, l'altro è nel 1204, anno della prima caduta dell'Impero bizantino in cui Venezia ebbe parte preponderante o perlomeno di grande rilevanza. Qui parleremo solo del primo avvenimento chiedendoci appunto come i Bizantini vedessero i Veneziani, cosa ne pensassero, come li giudicassero, che cosa rinfacciassero loro. Tralasciamo l'altra faccia della medaglia, certo non meno interessante, come cioè fossero visti dai Veneziani i Bizantini e il loro governo, cosa ne pensassero e come li giudicassero.
Nelle opere ascritte all'imperatore Costantino VII Porfirogenito, compilate nella prima metà del secolo X, la regione veneta viene descritta e se ne fa in parte la storia; ma solo dopo il crisobollo del 1082 e la I Crociata, cioè dopo che i contatti divennero più frequenti e il numero dei Veneziani nell'Impero cominciò a crescere (e sempre più nel corso del XII secolo), i rapporti fra Bizantini e Veneziani occuparono un posto importante nella letteratura bizantina. Anna Comnena, figlia di Alessio I e scrittrice intelligente e ben informata, aveva ottima conoscenza del ruolo dei Veneziani nell'Impero; è lei l'unica a fornire, sia pure in riassunto, il testo greco del crisobollo del I082. Anna condanna in termini generici l'avidità dei Veneziani, ma apprezza il loro ruolo e il loro valore anche se legati alla difesa dei propri interessi. L'imperiale scrittrice offre una obiettiva valutazione dell'importanza dei Veneziani per Bisanzio, tanto sul piano economico quanto su quello dell'aiuto militare prestato dalla loro flotta a difesa dell'Impero.
A mano a mano che i Veneziani entravano nella vita interna bizantina, accumulavano ricchezze, imponevano i loro usi, si comportavano da nuovi ricchi e in modo sfacciato, cresceva il malumore e aumentava il malanimo e l'odio in larghi strati della popolazione bizantina. Basti ricordare il cruciale anno 1171, che trovò profonda eco negli scritti di Giovanni Cinnamo e di Niceta Coniate, i due più grandi storici bizantini del secolo XII, tralasciando altri testi quali per esempio i proemi dei crisobolli imperiali, contenenti lodi per i Veneziani. Cinnamo fa quasi la storia dei rapporti fra Venezia e Impero con poca simpatia per i Veneziani, giustificando in pieno l'operato dell'imperatore Manuele I. Dei Veneziani dà un quadro poco lusinghiero: in seguito alle concessioni ottenute dall'imperatore Alessio I essi si sono smisuratamente arricchiti e sono diventati superbi e insopportabili e "usavano trattare come servi perfino i cittadini, e non solo coloro che sono i più popolari, ma anche chi era insignito della dignità di sebasto [alta dignità bizantina> ed era giunto anche a maggiore grandezza fra i Romei". I Veneziani avevano violato gli accordi, si erano uniti alle donne bizantine e vivevano nelle loro case come gli altri cittadini, fuori dalle zone assegnate a essi dagli imperatori.
Niceta Coniate da parte sua descrive la regione veneta, ne delinea la storia remota passando però presto allo scenario contemporaneo. Definisce i Veneziani uomini del mare, mercanti come i Fenici, un popolo temerario, astuto e capace di tutto. I Bizantini li avevano accolti poiché avevano avuto bisogno del loro aiuto in una guerra marittima. Come sciami di api gli "Eneti" avevano cambiato la loro città con Costantinopoli, donde si disseminarono ovunque nell'Impero. Conservarono solo il vecchio nome, ma per il resto divennero compatrioti dei Bizantini, potenti e numerosi. Avendo acquistato grandi ricchezze divennero così presuntuosi e sfacciati che non solo erano prepotenti verso i Bizantini, ma non tenevano in alcun conto né gli ordini né le minacce dell'imperatore (48).
Non è il caso di addurre tutti gli altri casi di malintesi, dispute, zuffe e conflitti non solo fra Veneziani e autorità e popolazione bizantina ma anche con i Pisani e Genovesi nell'Impero; essi culminarono nel saccheggio del quartiere veneziano di Costantinopoli(49). Ricordiamo solamente che verso la fine del secolo XII le relazioni fra Venezia e Bisanzio migliorarono in parte a livello governativo (fatto sottolineato anche da Niceta Coniate), ma ben poco alla base: esse sfociarono per i Bizantini nella catastrofe del 1204.
Mercanti veneziani avevano mostrato fin dal secolo IX un interesse per i mercati della Siria e probabilmente anche della Palestina, certamente, però, un interesse non così grande come per quelli dell'Impero bizantino. Ottennero, probabilmente, il loro primo privilegio da Goffredo di Buglione nel 1100 e nel 1110 conclusero un altro accordo, in base al quale i Veneziani ricevevano da Baldovino I in Acri una parte di una strada "rugae platea", chiamata da allora in poi "vico dei Veneziani", posta sulla riva del mare; avevano inoltre due chiese, consacrate una a san Demetrio e l'altra a san Marco, una torre, cisterne, ben 14 case con magazzini, negozi e stanze.
Nel 1124, dopo la caduta di Tiro, fu stretto il "pactum Warmundi"(50). Questo documento, fondamentale per la posizione dei Veneziani nel Regno di Gerusalemme, fu così chiamato dal nome del patriarca che fungeva da reggente in attesa del re prigioniero. In base a esso furono concessi ai Veneziani ampi privilegi commerciali, un terzo della città e del suo territorio, una via, una piazza, una chiesa, un bagno, un forno, un mulino, il diritto di usare i propri pesi e misure. Re Baldovino II, liberato dalla prigionia, ratificò nel 1125 il trattato concluso tra il patriarca Warmundo e Venezia, ma fece aggiungere una clausola con cui si richiedeva ai Veneziani di assicurare un certo numero di armati per la difesa della città. I Veneziani a Tiro non si occupavano solo di commercio, alcuni possedevano piantagioni di canna da zucchero, ben irrigate da un sistema che esisteva già da lungo tempo, e un mulino per macinarla. Vi avevano organizzato inoltre la tessitura di tele, che venivano poi trasportate in Occidente sulle loro navi (51).
Oltre che a Tiro e ad Acri i Veneziani avevano quartieri a Giaffa e Sidone, e in base all'accordo del 1123 avevano in principio diritto a un quartiere con mercato, chiesa, bagno e forno, nonché a uno scalo riservato alle proprie navi in ogni città del Regno. Queste colonie e "communitates" erano un corpo straniero nel Regno, che aveva un ordinamento feudale, mentre i Veneziani erano solo obbligati a fornire un numero d'armati a difesa di Tiro in proporzione al terzo della città che era in loro possesso.
La popolazione delle prime colonie era in misura predominante mobile, anche se le soste dei mercanti erano talvolta abbastanza lunghe e duravano tutto l'inverno. I quartieri erano per loro, qui come altrove, punti di appoggio nei porti e le franchigie doganali assicuravano loro una posizione privilegiata nel commercio. Nei quartieri i mercanti e marinai veneziani incontravano i loro compatrioti; spesso abitavano assieme a loro nelle stesse stanze e negli stessi edifici, e così sostituivano le loro lontane famiglie e i vicini, poiché le strutture sociali e materiali - quali il forno o il bagno - assomigliavano nelle colonie a quelle della madrepatria; potevano usare lo stesso dialetto e i notai compilare le transazioni in termini commerciali a loro ben noti. Verso la fine del secolo XII il numero dei Veneziani stabilmente residenti nelle città costiere del Regno aumentò ed ebbe inizio una nuova fase nella vita dei loro quartieri, per cui fu stabilita anche dal punto di vista legislativo una differenza fra i mercanti veneziani viaggianti e quelli stabilitisi nel Regno di Gerusalemme.
Poche sono le informazioni riguardanti l'organizzazione amministrativa delle colonie. Legati del doge e "boni homines" sul posto gestivano l'amministrazione ufficiale e privata, e a partire dal XIII secolo a capo di esse si trovarono dei baili. I tribunali erano situati dentro il quartiere per esempio a Tiro, Acri o Berito, e nelle loro competenze rientrava la giustizia minore, civile e penale. Soggetti alla giurisdizione veneziana rimasero, in base all'accordo del 1123, anche gli Ebrei e i Siriani residenti nel quartiere di Tiro. I Veneziani erano responsabili per la pubblica sicurezza delle colonie e per il regolare espletamento delle attività commerciali. La comunità possedeva edifici pubblici quali chiese, bagni, forni, logge, macelli, ma anche case e botteghe che venivano affittate allorché navi e convogli arrivavano con merci da Venezia.
Col tempo i residenti nelle colonie acquistarono proprietà rustiche, "casalia", nei dintorni delle città; altri tennero interi villaggi e borghi, che comprendevano campi, orti, vigneti, piantagioni di canna da zucchero, di olivi e fichi. I Veneziani non si dedicavano di persona all'agricoltura bensì davano le loro terre a mezzadria o ad alcune condizioni a contadini siriani e nei possedimenti di una certa importanza mettevano propri castaldi, "gastaldiones". Questi Veneziani erano dei veri e propri coloni stabilitisi definitivamente fuori della madrepatria, e nei documenti commerciali dell'epoca accanto alle loro firme recavano l'attributo "abitante in Acri" o "abitante in Tiro". Alcuni vi restarono per generazioni: così s'incontra un Pietro Morosini, abitante in Acri nella seconda metà del secolo XII, suo figlio Giacomo stabilitosi a Tripoli e suo nipote Nicolino nuovamente ad Acri. Pietro possedeva ancora qualche proprietà a Venezia, ma è probabile che i suoi discendenti abbiano venduto tutto e si siano trasferiti definitivamente in Oriente. Tipica della colonizzazione veneziana dell'epoca è la presenza di altre famiglie aristocratiche veneziane nei porti levantini, dove trafficavano o investivano nel commercio. Durante la prima metà del XII secolo s'incontrano membri delle famiglie Michiel e Falier in generale in Siria, e in particolare a Tiro e Acri, e nella seconda metà si trovano dei Dandolo, Ziani, Contarini ad Acri e Tiro. Ricordiamo ancora Domenico Acontano, che nel 1184 amministrava i beni di San Marco a Tiro e che più tardi fu bailo della città (52).
Le chiese erano, come nell'Impero bizantino, principalmente dedicate ai santi della sede metropolitana: così San Marco in Tiro, a Acri e a Berito. A Tiro la chiesa veneziana rimase fuori dall'organismo ecclesiastico del Regno. Da Venezia vi venivano inviati un parroco, "plebanus", "piovan", e altri sacerdoti, e ciò fu causa, non solo a Tiro, di continue frizioni con le autorità ecclesiastiche locali. Ad Acri la chiesa di San Demetrio fu riconosciuta come chiesa parrocchiale del quartiere e quella di San Marco come cappella.
Dopo la catastrofe di Hittin, del luglio 1187, Ascalona, Giaffa, Sidone, Berito e Cesarea si arresero a Saladino. Solo Tiro rimase in mano ai crociati, difesa fra l'altro anche dai Veneziani; allorché nel 1190 Acri fu riconquistata, ai Veneziani furono restituite, secondo la cronaca del Dandolo, le loro case e la chiesa di San Marco, e nel 1197, riprese le città costiere, essi riebbero i loro antichi possessi.
Colonie veneziane si trovavano oltre che nel Regno di Gerusalemme anche nella Contea di Tripoli e nel Principato di Antiochia. Nella città di Tripoli, che possedeva un ottimo e sicuro porto, alcuni Veneziani risiedevano già da tempo, poiché in un documento del 1117 il conte Ponzio donò alla chiesa di San Marco una casa vicino al porto.
Più importante per i Veneziani era il Principato di Antiochia, che aveva sulla costa un buon porto, chiamato porto di San Simeone, dove i Veneziani possedevano un fondaco. Dai privilegi concessi da Boemondo I, Tancredi, Boemondo II e Raimondo, tutti confermati nel 1183 da Boemondo III, apprendiamo che i Veneziani possedevano ad Antiochia una fattoria con loggia, case ed un giardino, e avevano un tribunale per i concittadini residenti nel Principato. A Laodicea, allorché era ancora in mano dei principi di Antiochia, i Veneziani avevano un quartiere con chiesa, bagno, forno e fondaco, ma anche quando la città cadde sotto il dominio arabo essi continuarono a risiedervi.
Nel Regno dell'Armenia Minore Jacopo Badoer, inviato dal doge Enrico Dandolo, aveva ottenuto nel 1201 a Mamistra, l'antica Mopsuestia, un quartiere con chiesa, fondaco e una casa comunale, nonché facilitazioni doganali e privilegi commerciali (53). Mercanti veneziani avevano visitato fin dall'VIII e IX secolo i porti dell'Africa settentrionale, in primo luogo Alessandria d'Egitto. Questa rimase durante tutto il secolo XII il loro porto e mercato preferito, il "forum publicum utrique orbi", il mercato dei due mondi, dove le merci più pregiate confluivano dall'Oriente, dall'India e dalla Cina nonché dall'Africa, mentre dall'Occidente i Veneziani introducevano prodotti rari nel mondo arabo. Verso la metà del secolo furono organizzate le "muduae" da Venezia per Alessandria, ma mercanti veneziani (fra essi s'incontra spesso nei documenti Romano Mairano) partivano anche dai porti bizantini, soprattutto da Costantinopoli, per Alessandria. Alcuni vi dimoravano per periodi più lunghi, qualcuno vi morì. Dopo i nefasti avvenimenti del 1171 nell'Impero bizantino i rapporti della Serenissima con l'Egitto assunsero ancor maggior importanza, e il numero dei Veneziani vi aumentò sensibilmente; centro veneziano era il fondaco, confermato in un documento del 1173; era raro invece che Libia, Tunisia e Marocco fossero loro meta. Il viaggio di Romano Mairano a Bugia e Ceuta fu infatti un'eccezione (54).
Concludendo, si potrebbe riassumere nel seguente modo: la stragrande maggioranza dei Veneziani che per varie ragioni uscivano dalla loro città era dedita al commercio o era al suo servizio. Erano quindi mercanti e loro aiutanti, capitani e marinai, notai e sacerdoti, che troviamo sparsi un po' dappertutto. Tuttavia anche i legati del doge e gli amministratori vari fuori Venezia avevano in linea di massima compiti legati alla politica mercantile del governo veneziano. Pochi i letterati e gli uomini di cultura, i prelati, gli artigiani, i gruppi di mercenari, i fuorusciti ed esiliati che abbandonavano per sempre o per breve tempo Venezia.
Nei primi secoli i Veneziani erano attivi soprattutto nell'Italia settentrionale, nell'arco che si estende dall'Istria alla Pentapoli, ma già nel X secolo si volsero verso Oriente, in primo luogo verso l'Impero bizantino, e nell'XI anche verso il Regno di Gerusalemme e l'Egitto, lasciando ad altri i vecchi mercati che non vennero però abbandonati.
Nell'Impero bizantino i Veneziani presero sotto controllo gran parte della vita economica, arrivando al potere politico nel 1204; nell'Adriatico posero le basi della loro egemonia marittima, primo gradino verso quella sul Mediterraneo orientale. L'attività dei Veneziani fuori Venezia è parte integrante della storia veneta: la loro presenza sui mercati e nei porti del Levante, le loro ricchezze che confluirono in laguna, l'esperienza commerciale e tecnica acquisita, furono infatti uno dei pilastri su cui poggiò la potenza economica e militare della Repubblica di San Marco durante il Medioevo e la sua esistenza per lunghi secoli (55).
1. Il testo del crisobollo del 992 in Documenti relativi alla storia di Venezia anteriori al Mille, a cura di Roberto Cessi, II, Secoli IX-X, Padova 1942, pp. 135-137. L'edizione critica in Agostino Pertusi, Venezia e Bisanzio nel secolo XI, in AA.VV., La Venezia del Mille, Firenze 1965, pp. 155-160 (pp. I 17-160) e il commentario, pp. 123-128; Wilhelm Heyd, Histoire du commerce du Levant au moyen-âge, Leipzig 19362, pp. 96-97, 112- 115; Gino Luzzatto, L'economia veneziana nei suoi rapporti con la politica nell'alto medioevo, in AA.VV., Le origini di Venezia, Firenze 1964, pp. 157- 158 (pp. 141-166); Ralph Johannes Lilie, Handel und Politik zwischen dem byzantinischen Reich und den italienischen Kommunen Venedig, Pisa und Genua in der Epoche der Komnenen und der Angeloi (1081-1204), Amsterdam 1984, pp. 1-8.
2. Silvano Borsari, Il crisobollo di Alessio I per Venezia, "Annali dell'Istituto Italiano per gli Studi Storici", 2, 1970, pp. 113-114 (pp. 111-131), per cui non ci possono più essere dubbi sulla data anche se per l'anno Io82 sono stati ancora recentemente espressi per esempio da Paul Lemerle, Cinq études sur le XIe siècle byzantin, Paris 1977, p. 306 n. 117. V. ora soprattutto Silvano Borsari, Venezia e Bisanzio nel XII sec. I rapporti economici, Venezia 1988 (Miscellanea di studi e memorie. Deputazione di Storia Patria per le Venezie, 26), pp. 1-16 e Appendice I, pp. 135-138. Il testo del crisobollo è conservato solo nella versione latina, edito in Urkunden zur iilteren Handels- und Staatsgeschiehte der Republik Venedig mit besonderer Beziehung auf Byzanz und die Levante vom neunten bis zum Ausgang des fiinfzehnten Jahrhunderts, a cura di Gottlieb L.F. Tafel e Georg M. Thomas, I, 814-1205, Wien 1856, pp. 51-54, ma cf. la riedizione critica di S. Borsari, Il crisobollo, pp. 122-131; un riassunto in greco in Anne Comnène, Alexiade, Texte établi et traduit par Bernard Leib, I, Paris 1943, pp. 54-55, A. Pertusi, Venezia e Bisanzio, pp. 124, 128 e 139-142; R.J. Lilie, Handel und Politik, pp. 8-22.
3. R.-J. Lilie, Handel und Politik, pp. 184-187, 210-213; Heinrich Kretschmayr, Geschichte von Venedig, I, Gotha 1905, p. 162; Jadran Ferluga, Tebe bizantina quale centro economico nel XII secolo, "Rivista di Bizantinistica", I, 1991, pp. 19-29.
4. Maria Nallino, Il mondo arabo e Venezia fino alle Crociate, in AA.VV., La Venezia del Mille, Firenze 1965, pp. 163-181.
5. Documenti del commercio veneziano nei secoli XI XIII, a cura di Raimondo Morozzo della Rocca - Antonino Lombardo, I, Roma 1940, nrr. 12, 13, 17 e 18.
6. Ibid., nrr. 7, 17 e 2.
7. H. Kretschmayr, Geschichte, pp. 56, 61, 103, 107, Io8, 118-I19, 128, 130, 132-135.
8. Documenti relativi, II, pp. 149 e 165.
9. Agostino Pertusi, Cultura bizantina a Venezia, in AA.VV., Storia della cultura veneta, I, Dalle origini al Trecento, Venezia 1976, pp. 336-338 (pp. 326-349); H. Kretschmayr, Geschichte, pp. I12 e 147.
10. Documenti relativi, II, pp. 57 e 97; Gerhard Rösch, Venezia e l'Impero, 982-1025. I rapporti commerciali e di traffico nel periodo imperiale germanico, Roma 1985, pp. 226-227.
11. H. Kretschmayr, Geschichte, pp. 63, 78, 427. 12.
12. Documenti relativi, II, pp. 166, 170, 173. Forse era stato fatto venire nell'anno 1060-1061 nel monastero femminile di San Benedetto a Spalato Domenico, monaco veneto, che vi avrebbe insegnato la regola (Ivan Ostojić, Relations entre la Venise rnédievale et les monastères bénédictins en Croatie, in AA.VV, Venezia e il Levante fino al secolo XV, 1/2, Firenze 1973, pp. 584-585).
13. Pompeo G. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, I, Trieste 1973 (rist. Bergamo 1927-1929 7), p. 278 n. 3 e p. 279 n. 1.
14. H. Kretschmayr, Geschichte, pp. 113, 115, 117, 137, 431; Documenti relativi, II, pp. 99-104. Cf. Gherardo Ortalli, Venezia dalle origini a Pietro II Orseolo, in AA.VV., Storia d'Italia, diretta da Giuseppe Galasso, I, Longobardi e Bizantini, Torino 1980, pp. 412, 414-416, 423 (pp. 339-438).
15. H. Kretschmayr, Geschichte, pp. 54-56, 61-63, 82, 117-118, 123-125, 144-146, 148-149 e le relative note; P.G. Molmenti, La storia di Venezia, I, pp. 59-61.
16. G. Rösch, Venezia, pp. 30-31 e 102. Quanto fossero apprezzati i Veneziani quali marinai sembra provarlo il vano tentativo di Roberto il Guiscardo di arruolare prigionieri veneziani nella marina normanna (H. Kretschmayr, Geschichte, p. 164).
17. Roberto Cessi, Storia della repubblica di Venezia, Firenze 1981, Pp. 154-155, 158-159; G. Rösch, Venezia, pp. 89, 91, 108, 111, 163-164, 166-167, 179 n. 162, 192-193, 197, 232, 250, 254-255.
18. Francesco Carabellese, Le relazioni commerciali fra la Puglia e la Repubblica di Venezia dal secolo X al XV. Ricerche e documenti, Trani 1897, pp. 10 e n. 4, 11, 31; Adelchi Zambler - Francesco Carabellese, Le relazioni commerciali fra la Puglia e la Repubblica di Venezia dal secolo X al XV, Trani 1898, pp. 127-129, dove è anche edito il trattato fra Bari e Venezia del 1122.
19. David Abulafia, The Two Italies. Economic Relations between the Norman Kingdom of Sicily and the Northern Communes, London - New York - Melbourne 1977, pp. 76-83, 135, 142-149.
20. Jadran Ferluga, L'amministrazione bizantina in Dalmazia, Venezia 1978, pp. 191 ‒201.
21. Silvio Mitis, Storia dell'isola di Cherso-Ossero (476-1409), "Atti e Memorie della Società Istriana di Archeologia e Storia Patria", 37, 1925, pp. 129-136; Giuseppe Praga, Storia della Dalmazia, Padova 1954, pp. 83, 85-86, 88; Nada Klaić - Ivo Petricioli, Zadar u srednjem vijeku, Zadar 1976, pp. 165-167, 174, 181; Ludwig Steindorff, Die dalmatinischen Stiidte im 12. Jahrhundert, Köln-Wien 1984, pp. 81-87, 110, 112 n. 7, 121, 130, 174, 159, 169; Nada Klaić, Povijest Hrvata u razvijenom srednjem vijeku, Zagreb 1976, pp. 44, 47-49.
22. Josip Lučić, Povijest Dubrovnika od VII stoljeca do godine 1205, "Anali Historijskog Odjela Centraza znanstveni rad Jugoslovenske Akademije", Supplement 2, 13-19, 1976, pp. 95-112, pagine dedicate ai rapporti di Ragusa con l'Italia e Venezia; L. Steindorff, Die dalmatinischen Städte, pp. 136, 140.
23. Codex diplomaticus regni Croatiae, Dalmatiae et Slavoniae, a cura di Tadija Smičiklas, II, Zagrabiae 1904, nr. 318; Duèan Sindik, Pontifikal Kotorske biskupije u Lenjingradu. Prethodno saopõstenje, "Istorijski časopis", 31, 1984, pp. 64-65. Ringrazio il collega Sindik dell'Istituto storico di Belgrado per avermi messo a disposizione il testo da lui copiato a Leningrado del giuramento di Lauro Zan. Cf. per Cattaro anche L. Steindorff, Die dalmatinischen Städte, pp. 143-144 e n. 87.
24. Per le relazioni bizantino-venete dalla fine dell' XI secolo al 1204, v. i capitoli corrispondenti di W. Heyd, Histoire; Adolf Schaube, Handelsgeschichte der romanischen Völker des Mittelmeergebietes bis zum Ende der Kreuzzüge, München-Berlin 1906; H. Kretschmayr, Geschichte; Gino Luzzatto, Storia economica di Venezia dall'XI al XVI secolo, Venezia 1961 e Freddy Thiriet, La Romanie vénitienne au Moyen Âge. Le développement et l'exploitation du domain colonial vénitien (XIIe-XVe siècles), Paris 1959. Inoltre utilissimi gli articoli di Silvano Borsari, Il commercio veneziano nell'Impero bizantino nel XII secolo, "Rivista Storica Italiana", 76, 1964, pp. 982-1011; Id., Per la storia del commercio veneziano col mondo bizantino nel XII secolo, "Rivista Storica Italiana", 88, 1976, pp. 104-126, e Id., Venezia e Bisanzio, capp. I e III, pp. 1-29, 63-106. In particolare per gli avvenimenti del 1171 cf. fra l'altro Enrico Besta, La cattura dei veneziani in Oriente per ordine dell'imperatore Emanuele Comneno e le sue conseguenze nella politica interna ed esterna del comune di Venezia, "Antologia Veneta", I, 1900, pp. 35-46, 111-123; John Danstrup, Manuel I's Coup against Genoa and Venice in the Light of Byzantine Commerciai Policy, "Classica et Medievalia", 10, 1949, pp. 195-219; R.J. Lilie, Handel und Politile, pp. 489-493, 305 e n. 76, 528 e ss.
25. V. in ultima linea R.J. Lilie, Handel und Politi., pp. 145-221, con abbondante documentazione per ogni centro; ora anche Oldřich Têma, Der Handel der Venezianer in der Romania vor 1204: eine Ergänzung der Belege, "Jahrbücher der österreichischen Byzantinistik", 37, 1987, pp. 205-2I2.
26. Horatio F. Brown, The Venetians and the Venetian Quarter in the Close of the XII Century, "Journal of Hellenic Studies", 40, 1920, pp. 68-88; Melchiorre Roberti, Ricerche intorno alla colonia veneziana in Costantinopoli nel secolo XI, in AA.VV., Scritti storici in onore di Camillo Manfroni, Padova 1925, pp. 137-147; Chryssa A. Maltezou, Il quartiere veneziano di Costantinopoli (Scali marittimi), "Thesaurismata", 15, 1978, pp. 30-61; M.E. Martin, The Chrysobull of Alexius I Comnenus to the Venetians and the Early Venetian Quarter in Constantinople, "Byzantinoslavica", 39, 1978, pp. 19-23; Peter Shreiner, Untersuchungen zu den Niederlas sungen westllcher Kaufleute im byzantinischen Reich des r1. und 12. Jahrhunderts, "Byzantinische Forschungen", 7, 1979, pp. 177-182 (pp. 175-191); R.J. Lilie, Handel und Politik, pp. 222 n. 1 e 230; Silvano Borsari, L'organizzazione dei possessi veneziani nell'Impero bizantino nel XII secolo, in AA.VV., Studi albanologici, balcanici, bizantini e orientali in onore di G. Valentini, Firenze 1986, pp. 191-193 (pp. 191-204); v. anche Id., Venezia e Bisanzio, al capitolo Gli insediamenti veneziani nella città bizantina, pp. 31-61, tanto per il quartiere veneziano a Costantinopoli quanto per quelli negli altri centri.
27. Raymond Janin, La géographie ecclésiastique de l'Empire byzantin, I, 3, Paris 19692, pp. 571-573; S. Borsari, L'organizzazione, pp. 193-201.
28. Nuovi documenti del commercio veneto nei secoli XI-XIII, a cura di Raimondo Morozzo della Rocca - Antonino Lombardo, Venezia 1953, nr. 48; S. Borsari, L'organizzazione, pp. 201-204.
29. Urkunden, I, pp. 107, 150-154, 178, 206-207, 249, 273-274. Cf. inoltre H. Kretschmayr, Geschichte, p. 473.
30. Gino Luzzatto, Les activités économiques du patriciat vénitien (XIe-XIVe siècles) , in AA.VV., Studi di storia economica veneziana, Padova 1954, pp. 129-132; ma cf. ora Silvano Borsari, Una famiglia veneziana del Medioevo: gli Ziani, "Archivio Veneto", ser. V, 110, 1978, pp. 27-53; inaccessibile mi è rimasta Irmgard Fees, Reichtum und Macht im mittelalterlichen Venedig. Die Familie Ziani, Tiibingen 1987 (Bibliothek des Deutschen Historischen Instituts in Rom, Band 68) che comunque segnalo.
31. S. Borsari, Per la storia, pp. 107-108, 121, 123; per i Badoer cf. Marco Pozza, I Badoer. Una famiglia veneziana dal X al XIII secolo, Abano 1982; per i Dandolo Alvise Loredan, I Dandolo, Varese 1981.
32. Reinhard Heynen, Zur Entstehung des Kapitalismus in Venedig, Stuttgart - Berlin 1905, pp. 86-120; Gino Luzzatto, Capitale e lavoro nel commercio veneziano dei sec. XI e XII, in AA.VV., Studi di storia economica veneziana, Padova 1954, pp. 108-116. Per Romano Mairano, Dobramiro Stagnario ed altri mercanti veneziani nell'Impero cf. ora S. Borsari, Venezia e Bisanzio, al capitolo Figure di mercanti, pp. 107-132 e Appendice II, pp. 139- 156 (Documenti).
33. S. Borsari, Il commercio veneziano, pp. 991-995.
34. F. Thiriet, La Romanie, pp 47-48.
35. Documenti del commercio veneziano, I, pp. 17, 42, 65, 88, 126, 385, e Nuovi documenti del commercio veneto, pp. 8, 16, 33.
36. Documenti del commercio veneziano, I, p. 79.
37. Ibid., I, pp. 16, 81, 83, 166, 219 e 316.
38. Ibid., I, pp. 313 e 338.
39. Ibid., I, pp. 149, 159, 229, 314, 332; Nuovi documenti del commercio veneto, p. 10.
40. M.G.H., Scriptores, XIV, a cura di Henry Simonsfeld, 1883, p. 78.
41. Cf. P. Schreiner, Untersuchungen, pp 182-184; R.J. Lilie, Handel und Politik, pp. 290-292.
42. Ioannis Cinnami Epitome rerum ab Ioanne et Alexio Comnenis gestarum, a cura di August Meineke, Bonn 1836, p. 282; S. Borsari, Il commercio veneziano, p. 997 e n. 57; R.J. Lilie, Handel und Politik, pp 295-298, 549 n. 31.
43. S. Borsari, Il commercio veneziano, p. 984 e n. 8; Roberto S. Lopez, Foreigners in Byzantium, "Bullettin de l'Institut Historique Belge de Rome", 44, 1974, pp 341-352; P. Schreiner, Untersuchungen, pp 184-189; R.J. LiliE, Handel und Politik, pp. 47-49.
44. I. Cinnami Epitome, p. 286; Documenti del commercio veneziano, I, p. 98; W. Heyd, Histoire, p. 238; Camillo Manfroni, Storia della marina italiana dalle invasioni barbariche al trattato di Ninfeo, Livorno 1899 (ristampa 1970), pp. 262-263; S. Borsari, Il commercio veneziano, pp. 1009-1010; R.J. Lilie, Handel und Politik, pp. 304-306, 634-635 e 638.
45. Nuovi documenti del commercio veneto, p. 10; Agostino Pertusi, Venezia e Bisanzio: 1000-1204, "Dumbarton Oaks Papers", 33, 1979, p. 16 (pp 1-22).
46. Urkunden, I, p. 59; Documenti del commercio veneziano, I, p. 49; A. Pertusi, Cultura bizantina, pp. 339-345.
47.Nicetae Choniatae Historia, a cura di Jan A. van Dieten, Berlin-New York 1975, pp 405-408; Louis Halphen, Le rôle des Latins dans l'histoire intérieure de Constantinople à la fin du XIIe siècle, in AA.VV., Mélanges Ch. Diehl, I, Paris 1930, pp. 144-145.
48. Paolo Lamma, Venezia nel giudizio delle fonti bizantine dal X al XII secolo, "Rivista Storica Italiana", 74, 1962, pp. 460-479.
49. Cf. Wilhelm Heyd, Le colonie commerciali degli italiani in Oriente nel Medio Evo, I-II, Venezia-Torino 1866-1868: I, pp. 25 n. I, 27, 40 ss., 42 n. 2, 53, 54, 75.
50. Urkunden, I, pp. 79-89; per gli altri privilegi veneziani nel Regno di Gerusalemme, nella Contea di Tripoli e nel Principato di Antiochia nonché nella Piccola Armenia v. anche Urkunden, I, sub anno. Breve ma ottima lista dei privilegi in John L. La Monte, Feudal Monarchy in the Latin Kingdom of Jerusalem Iroo to 1291, Cambridge, Mass. 1932, Appendix D.
51. Oltre all'articolo di Joshua Prawer, I veneziani e le colonie veneziane nel Regno latino di Gerusalemme, in AA.VV., Venezia e il Levante fino al secolo XV, 1/2, Firenze 1973, pp. 625-656 (studio fondamentale), v. anche G. Luzzatto, Storia, pp. 16-20 e Marie Luise Favreau-Lilie, Die Italiener im Heiligen Land (abilitazione dattiloscritta, Kiel 1983), di cui l'autrice mi ha mandato il riassunto. Per ciò la ringrazio cordialmente.
52. J. Prawer, I veneziani, pp. 639-642.
53. W. Heyd, Le colonie commerciali degli italiani, pp. 248-251, 261-264, 274-275, 285-290, 299-300 (cf anche la n. 50).
54. Documenti del commercio veneziano, I, pp. 134, 247; W. Heyd, Le colonie commerciali, II, pp. 169 ss.; H. Kretschmayr, Geschichte, pp. 364-365, 502.
55. Cf. fra l'altro Roberto Cessi, Venezia e l'espansione coloniale mediterranea, "Ateneo Veneto", n. ser., 2, 1965, pp. 109-129; Michel Mollat - Philippe Braunstein - Jean-Claude Hocquet, Réflexions sur l'expansion vénitienne en Méditerranée, in AA.VV., Venezia e il Levante fino al secolo XV, 1/2, Firenze 1973, pp. 515-539, interessante anche se breve la conclusione di H. Kretschmayr, Geschichte, pp. 380-381.