VENTIMIGLIA
– Vasto e articolato lignaggio dell’aristocrazia siciliana, di origine ligure, radicato principalmente nel territorio montano delle Madonie con ininterrotta continuità dal XIII al XIX secolo.
Il trasferimento in Sicilia di esponenti della famiglia ligure è probabilmente da mettere in relazione con il flusso di immigrazione legato ai rapporti della dinastia normanna con quella dei marchesi Aleramici; nell’area di insediamento dei primi Ventimiglia funzionò originariamente da attrazione il dominio della contessa Adelaide, nipote del marchese di Monferrato e moglie di Ruggero I il Gran conte.
Nel corso del XIII secolo si registrano prima sporadiche presenze di Ventimiglia nell’area madonita (un Oberto, per esempio, figura come corsaro a Cefalù nel 1239), poi il definitivo insediamento in quei luoghi, con Enrico (morto nel 1300), mentre un parente di questi, Ottone, si radicava nel trapanese assumendo il cognome Del Bosco e dando vita a un ulteriore ramo familiare destinato pure a una lunga continuità.
I nomi dei primi Ventimiglia che compaiono in Sicilia sono all’origine della tradizione onomastica del ramo siciliano della famiglia, mantenuta nel corso di sei secoli, che riprende da un lato quella del ramo ligure con i numerosi Enrico, Ottone, Guglielmo, Filippo, Oberto, Guido, dall’altro quella delle famiglie Candida e Craon (vedi infra) con gli Aldoino e i Ruggero.
Enrico sposò Isabella de Candida, secondogenita di Aldoino, conte di Ischia e signore di Geraci (per discendenza dai normanni Craon, imparentati con la dinastia regia normanna), e di una discendente della famiglia dei Cicala, signori di Polizzi e di Collesano.
Enrico ebbe un ruolo di primissimo piano nella politica di re Manfredi, rivestendo le cariche di capitano generale in Italia (1258) e di vicario della Marca (1259-60); nel 1258 fu investito delle Petralie con il grande feudo di Bilici (e i suoi estesi seminativi), di Gratteri e della foresta regia di Caronia, disegnando il nucleo di un dominio territoriale coincidente con l’area montana delle Madonie, ricco, oltre che delle risorse boschive e cerealicole citate, di sbocchi marittimi (Termini, Roccella, Cefalù, Tusa) e di rilevanti centri abitati (Geraci, Castelbuono, San Mauro, Tusa, le due Petralie, Gratteri, Gangi, Monte Sant’Angelo, Castelluzzo). Tale dominio era destinato a una continuità secolare durata – con diverse vicende di smembramenti e ricomposizioni – fino al XIX secolo.
A partire da quel nucleo, nel corso della seconda metà del XIII secolo Enrico estese il suo controllo su un’area ancora più vasta, coincidente con la diocesi di Cefalù; dei beni di questa Chiesa, la maggiore detentrice di terre e diritti nell’area madonita, egli si appropriò, sfruttando le benemerenze acquisite presso la corte regia. Occupò Tusa con la sua tonnara e usurpò i pascoli nell’entroterra della città vescovile. Il rapporto egemonico instaurato con il potere ecclesiastico che insisteva sull’area madonita è pure testimoniato da una sorta di patronato esercitato sulla Chiesa cefaludense. Con la fine di Manfredi e l’avvento del regime angioino Enrico seguì la sorte dell’aristocrazia ghibellina strettamente legata alla dinastia sveva: le difficoltà politiche sono segnalate da un processo nel 1266 che lo obbligò al risarcimento del vescovo di Cefalù per le usurpazioni e culminò nel 1271 con l’esilio e la confisca dei beni. Giunto alla corte di Pietro III d’Aragona, fu fra i nobili siciliani esuli che spinsero il re d’Aragona a intervenire in Sicilia assumendone la corona, successivamente alla rivolta antiangioina del Vespro (1282), alla quale probabilmente contribuirono.
Il ritorno in Sicilia coincise per il figlio di Enrico, Aldoino, con lo sbarco nell’isola di Pietro d’Aragona dopo il Vespro del 1282 e la fine del dominio angioino (Ventimiglia figura nella cerchia dei maggiori nobili al seguito del re, fra i fideiussori di Pietro per il progettato duello di Bordeaux con Carlo d’Angiò), mentre Enrico tornò nell’isola solo dopo l’incoronazione di Federico III (1296).
Nel nuovo ordine del regno indipendente, il figlio di Aldoino, Francesco (morto nel 1338) raccolse il frutto del sostegno dato dagli avi alla nuova dinastia regia, ottenendo il titolo di conte di Geraci – e conservando pure quello comitale di Ischia tenuto dai predecessori – e la carica di maior camerarius, indicativa dell’importanza che il conte rivestiva a corte. Sul piano politico e militare Francesco fu tra i maggiori protagonisti delle vicende del nuovo regno siciliano e della guerra contro gli angioini di Napoli. Fu inviato in missione diplomatica presso papa Giovanni XXII; s’impegnò nella guerra armando delle galee; fu tra i più influenti consiglieri del sovrano, annoverando fra i propri alleati e seguaci esponenti di primo piano dell’aristocrazia, quali gli Antiochia e i Rosso.
Nel 1315 sposò Costanza, la figlia del conte di Modica Manfredi Chiaromonte, dalla quale non ebbe eredi; la ripudiò per legarsi con Margherita Consolo. Il ripudio accrebbe l’inimicizia della fazione chiaromontana (il conte di Modica aggredì Francesco per le strade di Palermo), e si sommò alla rivalità politica per il controllo della corte regia, nella quale Ventimiglia prevaleva, facendo esiliare l’avversario.
I domini comitali si erano intanto arricchiti e consolidati: attraverso il legame matrimoniale di una figlia con la famiglia Siracusa, Francesco Ventimiglia aveva acquisito l’importante centro di Collesano (Palermo); aveva poi assorbito parte dei domini della Chiesa di Cefalù, il cui vescovo nel 1321 era costretto a cedere al conte la rocca fortificata di Pollina; inoltre, aveva incluso nei domini comitali – per vie non documentate – altri luoghi abitati e territori contigui ai possessi originari (Gangi, San Mauro, Fisaula, Castelluzzo) e aveva infine attuato una politica di espansione e riorganizzazione del territorio controllato, attraverso l’acquisizione di centri esterni all’area centrale della contea. Montemaggiore fu ceduto ai Filangeri in cambio di Sperlinga, a est di Gangi; Pettineo, a est di Tusa, fu acquistata dai San Basilio; Regiovanni, sul versante meridionale, fu invece usurpata al demanio regio nel 1330. Il dominio ventimiliano assunse l’aspetto di un compatto nucleo territoriale che faceva perno sulla grande valle centrale dove, concentrando gli abitanti dei casali circostanti, veniva fondata Castelbuono, munita di un possente castello, che diveniva la nuova residenza della famiglia.
Negli anni successivi, tuttavia, si accese un’analoga rivalità con la famiglia emergente dei Palizzi, alleati di Chiaromonte, che godevano del favore del nuovo sovrano Pietro II e provocarono la condanna come traditore di Ventimiglia. Francesco fu assediato a Geraci dagli armati del re e morì tentando la fuga. La contea fu confiscata e rimase in mano ai rivali politici fino al 1354.
Prima della tragica fine il conte aveva proceduto alla successione del nucleo centrale del patrimonio: dal nucleo della contea veniva scorporato un vasto territorio facente capo a Collesano (comprendente l’abitato di Gratteri, il castello di Monte Sant’Angelo e la foresta di Caronia), eretto pure in contea, e affidato al secondogenito Francesco; il primogenito Emanuele ereditava invece la contea di Geraci.
Accanto alle vicende dei maggiori esponenti del lignaggio vanno considerate pure quelle dei numerosissimi figli del primo conte, che radicarono la famiglia in aree attigue alla contea (Sinagra, Resuttano, Regiovanni, Sperlinga, Ciminna); in luoghi più lontani (Ucria, Buscemi) figuravano come signori altri esponenti del lignaggio. L’inizio del Quattrocento avrebbe visto il consolidamento di tali nuclei minori, alcuni dei quali erano destinati a durare fino all’epoca moderna. Inoltre, nel corso del XIV secolo, Enrico Ventimiglia nella Sicilia occidentale controllava l’importante centro di Alcamo, con il titolo di conte.
I figli di Francesco entrarono in possesso dell’eredità paterna solo nel 1354, quando lo schieramento politico che faceva capo a Blasco Alagona prevalse a corte sulla fazione dei Palizzi e dei Chiaromonte, avversaria dei Ventimiglia. Benché il primogenito Emanuele fosse in possesso del nucleo più antico dei domini paterni, Francesco II (morto nel 1391) si rivelò il più dinamico esponente del lignaggio: ereditò il titolo di maior camerarius; avviò una politica di concentrazione del patrimonio familiare, facendosi cedere dal fratello gli importanti territori delle Petralie e di Bilici, e acquisendo perfino l’eredità dei castelli del ramo ligure della famiglia; riprese l’alleanza con i Rosso, insieme ai quali tentò di instaurare il dominio sulla città di Messina. Pur contando un numero inferiore di abitati rispetto a quella di Geraci, la contea di Collesano sommava un reddito superiore. La posizione strategica e patrimoniale del conte Francesco appariva dunque più salda di quella del fratello e questo rifletteva le gerarchie di eminenza politica fra i due. La posizione di forza di Francesco si consolidò ancora quando alla morte del fratello gli subentrò nel titolo e nei domini, giungendo a controllare uno dei più estesi possessi territoriali dell’isola.
La posizione egemone nell’area delle Madonie si rafforzò con l’acquisto del casale di Isnello dalla famiglia Abbate (1377), che estromise un rivale dal cuore dei propri domini. Era però soprattutto verso i grandi patrimoni della Chiesa di Cefalù e verso le città demaniali che si indirizzò l’azione di Francesco. Controllando sempre più strettamente la stessa persona del sovrano, il conte ottenne le cariche regie di governo sull’importante centro di Polizzi; estese il controllo militare sulla città vescovile di Cefalù, dove peraltro era da tempo insediato; infine, ottenne l’infeudazione del centro di Termini, sbocco portuale per il grano prodotto nei suoi domìni (1371). Con un atto simile a quello del padre, costrinse poi il vescovo di Cefalù alla cessione del porto fortificato di Roccella (1385), acquisendo così il completo controllo del litorale centrosettentrionale dell’isola, dal quale otteneva pure la licenza di esportare enormi quantità di grano esenti da diritti doganali.
Quale esponente di punta di una delle fazioni Francesco partecipò alla stipulazione della pace fra i magnati dell’isola, che sanciva la divisione in due sfere d’influenza del regno e delle sue istituzioni (1362). Alla morte del sovrano, quando il vicario Artale Alagona decise di associare al governo gli altri esponenti della maggiore aristocrazia, assunse pure il titolo di vicario (1378). Alla sua morte il dominio madonita era al massimo della sua espansione; per disposizione testamentaria, esso veniva nuovamente diviso fra i figli Enrico (Geraci) e Antonio (Collesano), mentre al terzogenito Cicco, in un primo tempo diseredato, andava l’importante feudo di Regiovanni. Francesco, tuttavia, intendeva consolidare il grande dominio territoriale, istituendo una rigida linea di successione che prevedeva anche l’eventuale successione reciproca fra i due rami comitali. Tale indirizzo, come pure le strette relazioni matrimoniali ripetutamente allacciate fra i diversi rami del lignaggio, costituì per secoli la strategia familiare dei Ventimiglia, garantendo la conservazione del cospicuo patrimonio.
Il conte di Collesano Antonio (morto nel 1415) mostrò maggiore statura e iniziativa rispetto al fratello, mirando esplicitamente a svolgere nel regno il medesimo ruolo del padre ed ereditando la carica di vicario del regno. In previsione dell’intervento progettato dalla corte aragonese in Sicilia (1392), imbastì una fitta rete di trattative con la corte regia di Barcellona – intenzionata a porre sul trono siciliano il futuro erede della Corona aragonese, Martino –, con l’obiettivo di riceverne promessa della conferma dei possessi feudali e di molte usurpazioni degli anni precedenti. Con il nuovo sovrano tuttavia Antonio entrò presto in conflitto: la forzata rinuncia al controllo dei centri demaniali tenuti in rettoria e il generale ridimensionamento dell’influenza sulla politica del regno ne determinavano una posizione di incerta fedeltà. Antonio avviò di nuovo una politica di potenza, centrata sulla concentrazione del patrimonio familiare e sul compattamento della signoria madonita attorno alla propria contea, anche a danno del fratello conte di Geraci: assunse a nome degli eredi del fratello Cicco il possesso di feudi nel territorio di Polizzi; comprò dal consanguineo barone di Sinagra il feudo di Casalgiordano; si appropriò dei diritti fiscali di Pollina e San Mauro, nei domini del fratello; riuscì infine a ottenere la restituzione del feudo Fisaula, separandolo dalla contea di Geraci. Privato dopo il 1396 del controllo diretto sui centri demaniali il conte non cessò tuttavia di condizionarne la vita politica ed economica: all’ostilità dei fedeli della Corona rispose con il blocco dei rifornimenti granari di Cefalù finché il capitano regio non fu costretto ad allontanarsi; in seguito assalì militarmente la città e la devastò. Il ruolo eminente della famiglia è d’altronde testimoniato in quegli anni dall’acquisizione di importanti posizioni nella gerarchia ecclesiastica e in quelle civili: un Giovanni Ventimiglia divenne infatti arcivescovo della grande diocesi di Monreale (1418-49), mentre il fratello Federico assunse importanti cariche nell’amministrazione del regno.
L’azione di Antonio, tuttavia, provocò da un lato un forte indebitamento e dall’altro la sua rovina politica: nel 1408 una (peraltro dubbia) inchiesta avviata dai nemici del conte presenti a corte si concluse con l’accusa di complotto contro il re e con l’incarcerazione a Malta. La prigionia durò fino alla morte del conte, attorno al 1416, nonostante la mobilitazione di gran parte dell’aristocrazia siciliana che ne chiedeva la liberazione e l’appoggio della regina vedova Bianca. L’ambiguo adoperarsi della seconda moglie Elvira Moncada, vide il cedimento di Antonio all’insistente richiesta di questa di diseredare il figlio di primo letto Francesco a favore prima del figlio Enrico, e dopo la morte di questi, della figlia Costanza.
Dai due matrimoni di Antonio, con Margherita Prades e con Elvira Moncada, erano infatti nati rispettivamente i figli Francesco e Giovanni, Enrico e Costanza. Dopo la morte di Enrico, una complicata vicenda politica e familiare gestita dalla potente contessa Elvira portava a prevedere la successione di Costanza nella contea di Collesano. Il matrimonio di questa con il cavaliere valenzano Gilabert Centelles (1413), nel quadro della politica regia di fusione dell’aristocrazia siciliana con quella iberica immigrata, sottraeva la contea di Collesano ai Ventimiglia, anche se Francesco e i suoi discendenti rimasti signori di Gratteri, non cessavano di rivendicarne il possesso, mantenendone il titolo.
Il giovane epigono dei conti di Collesano, anzi, con l’appoggio di altri esponenti della famiglia, si opponeva orgogliosamente in armi alla perdita dei domini, ma l’atteggiamento dei viceré del nuovo sovrano Ferdinando I d’Aragona imponeva il rispetto delle conclusioni della Gran Corte di giustizia sui diritti del Centelles su Collesano. L’erede di Costanza, Antonio Centelles Ventimiglia era destinato a grandi fortune con re Alfonso V nel primo Quattrocento: come molti altri membri della famiglia sosteneva il re nella campagna per la conquista di Napoli, nella quale acquisì grandi benemerenze e il titolo di conte di Catanzaro. Successivamente, ribellatosi in Calabria, subì la confisca della contea siciliana, che fu staccata definitivamente dai patrimoni della famiglia.
All’inizio del XV secolo, mentre il ramo dei conti di Collesano perdeva la posizione di rilievo, per quello di Geraci si avviò una rapida ascesa che portò la famiglia al vertice delle gerarchie sociali e politiche del regno. Durante la sua lunga vita Giovanni (morto nel 1475), figlio di Enrico, realizzò un’enorme fortuna, collegata innanzitutto all’intensissima attività militare, condotta su tutti i fronti in cui re Alfonso V il Magnanimo si impegnò fra gli anni Venti e Cinquanta del secolo (nel 1420 in Corsica, nel 1421 nel Napoletano, nel 1427 contro Marsiglia, nel 1433 a Gerba, nel 1435-41 e dopo il 1445 ancora nel Napoletano, nel 1444 e nel 1458 in Epiro e in Grecia), spesso in posizione di comando delle truppe e della flotta aragonese e spesso con notevoli successi (come contro lo Sforza e nella battaglia di Troia del 1441). La sua carriera di condottiero lo portò a sfilare come comandante dell’esercito regio accanto ad Alfonso nella trionfale entrata a Napoli nel 1443. Tali successi e la stretta vicinanza con il sovrano gli valsero una posizione di assoluta eminenza nella politica del regno: ricoprì le cariche di regio camerario (1421), di ammiraglio (1423), di ammiraglio della camera reginale (1430) e infine di viceré di Sicilia, nello stesso anno. Sempre in posizione di massimo rilievo nell’entourage di Alfonso, fu ambasciatore alla corte pontificia (1435), luogotenente regio in Puglia (1441), fra i testimoni della Pace di Lodi (1454) e assunse il governo del regno di Sicilia citra Pharum (Napoli), ottenendo anche la contea di Montesarchio nel regno continentale. Della preminenza politica di Giovanni beneficiarono pure i figli Antonio e Ferdinando, che divennero rispettivamente ammiraglio e provveditore ai castelli regi.
I servigi prestati ad Alfonso, che compresero pure il sostegno finanziario alla Corona attraverso consistenti mutui, valsero a Giovanni la fiducia anche dei successori: mentre Giovanni II d’Aragona gli confermava i beni e le prerogative in Sicilia, Ferrante lo apprezzò come uno dei maggiori consiglieri, fino ad affidargli la reggenza a Napoli insieme alla regina Isabella (1460).
La straordinaria carriera di Giovanni aveva raggiunto il culmine dell’eminenza politica e sociale già nel 1436, quando Alfonso V gli aveva conferito il titolo di marchese di Geraci, attribuendogli pure il raro privilegio di mero e misto imperio ed elevandolo al primo posto nelle gerarchie nobiliari del regno siciliano.
Il rango marchionale, che gli valeva il ruolo principale nel braccio baronale del Parlamento, corrispose a un intenso impegno nel fondare una forte identità del lignaggio attraverso la valorizzazione della capitale del marchesato, Castelbuono, nella quale promosse l’immigrazione, intervenne con miglioramenti urbanistici, investì in azioni di mecenatismo, fino a farne la sede non solo della residenza marchionale, ma anche il luogo di un prestigioso cenotafio familiare, la cappella di S. Antonio, dove un lungo epitaffio dell’umanista Lucio Marineo Siculo rievoca dettagliatamente le imprese di quello che si presentava ormai come il capostipite della famiglia. Di particolare importanza simbolica fu pure il trasferimento nel centro marchionale della preziosa reliquia di s. Anna, oggetto di amplissima venerazione e motivo di rafforzamento del prestigio della città e della famiglia marchionale. Sempre sul piano della celebrazione simbolica dell’eminenza dei Ventimiglia, Giovanni intensificò pure la politica di mecenatismo – seguita poi dai successori – favorendo l’intervento di artisti e artigiani di vaglio, che decorarono riccamente chiese e residenze nei centri della contea.
Il ruolo di massimo esponente dei Ventimiglia condusse Giovanni a intensificare i rapporti con gli altri rami del lignaggio, specie con i potenti baroni di Sperlinga, fino al punto di ipotizzare la successione nel marchesato per il nipote Giovanni Guglielmo, in un momento di forti dissapori con il figlio Antonio (morto nel 1480), che invece ne raccolse l’eredità – non senza contestazioni – alla morte del padre.
Il nuovo clima politico maturato con re Ferdinando II, che intendeva ridimensionare le posizioni raggiunte dall’aristocrazia siciliana nei decenni precedenti, in cui i sovrani erano stati larghi di concessioni (è di questi anni l’avvio della contestata inchiesta sulla legittimità dei titoli feudali commissionata al maestro notaio della Cancelleria Giovan Luca Barberi), non fu favorevole ai successori del primo marchese. Se Antonio proseguì la tradizione paterna di impegno militare nel Napoletano e ricevette l’importante carica di capitano generale (1480), il figlio Enrico (morto nel 1487) fu invece protagonista di numerose torbide vicende di vendette familiari, di scontri fazionari e di soprusi nei confronti del vescovo di Cefalù; nominato capitano d’armi per la difesa di Palermo, entrò pure in contrasto con il Senato cittadino; infine intese regolare con un duello una questione dotale che lo opponeva allo zio Pietro Cardona. La congiunzione fra questi atteggiamenti turbolenti e la crisi finanziaria del marchesato, che aveva portato ancora una volta alla cessione di importanti membri – Pettineo, Castelluzzo e i redditi di San Mauro – e all’insolvenza del pagamento del donativo regio, diedero occasione al potere regio di colpire duramente il potere di Enrico: in un primo tempo fu sottratto al marchese il mero e misto imperio sui domini, mentre dei commissari regi venivano inviati a Geraci per recuperare il debito accumulato. Infine, nel 1485, incriminato per il duello illegale di pochi anni prima, Enrico fu bandito dal regno, condannato a morte e il marchesato venne confiscato; riuscito a fuggire dal regno, morì in esilio.
Fu anche grazie al prestigio della famiglia raggiunto dalle imprese del primo Giovanni che il figlio di Enrico, Filippo (morto nel 1497), nel 1490 rientrò in possesso del marchesato, privato però dell’importante scalo di Roccella; segno della diminuita familiarità con i vertici del regno furono però la mancata restituzione della carica di ammiraglio, che era ormai appannaggio della famiglia, e soprattutto il rigore con cui i viceré imposero al marchese una enorme compositio; ciò fu l’inizio di una pesante crisi finanziaria che avrebbe travagliato il marchesato per diverse generazioni, portando già all’epoca di Filippo alla cessione di membri importanti quali Pettineo, Castelluccio, Tusa e Pollina.
Un parziale recupero dell’eminenza dei Ventimiglia venne con il successore Simone (v. la voce in questo Dizionario), marchese dal 1502 al 1544: recuperò il privilegio di mero e misto imperio profittando delle necessità finanziarie di Carlo V, ottenne prestigiose cariche militari (il comando delle truppe regie nel Val di Noto), riuscì a riscattare le terre alienate dal padre, giunse perfino ai vertici della politica, divenendo nel 1525 e nel 1541 presidente del Regno, carica durante la quale mostrò grande iniziativa nel promuovere lo sviluppo dei banchi pubblici. Dovette tuttavia confrontarsi con le difficoltà nel rapporto con la Corona derivate dall’inchiesta di Barberi e dalla grave crisi politica del 1516 che lo vide schierarsi contro il viceré Ugo di Moncada.
Con i successori di Simone, Giovanni (morto nel 1553) e Simone (morto nel 1560), l’identità dei Ventimiglia si arricchì ulteriormente di una caratteristica che aveva già costituito un tratto importante per la fama del primo marchese Giovanni. Al tradizionale impegno nella politica del regno, Giovanni affiancò la fama di scienziato: gravitando – come altri predecessori – su Messina, dove ricoprì la carica di stratigoto della città, entrò infatti in relazione con il matematico e astronomo Francesco Maurolico; Simone ne seguì le orme, occupando la stessa carica messinese, comandando la difesa contro le incursioni turche, partecipando alle vicende militari del tempo (combatté a San Quintino), ma conquistandosi anche la fama di dotto. Durante il suo governo, tuttavia, la crisi finanziaria del marchesato lo costrinse a far ricorso all’indebitamento con banchieri locali e genovesi, che investivano lucrosamente nelle finanze dissestate dei proprietari fondiari. La diminuita importanza dei Ventimiglia si manifestò in quell’epoca con la concessione del primo titolo ducale, superiore a quello marchionale, a Pietro de Luna, signore di Bivona.
Il figlio di Simone, Giovanni (morto nel 1619, per il quale si veda la voce Geraci, Giovanni Ventimiglia in questo Dizionario) ereditò ancora in quantità minore i domini paterni nel 1560 sotto la tutela dello zio Carlo, barone di Regiovanni. Il peso enorme dei debiti e delle ipoteche impose una durissima politica di alienazioni che interessò ancora Castelluzzo, Pollina, dei feudi a San Mauro e a Gangi, il prestigioso ma ormai marginale hosterium di Cefalù; fu pure necessario il ricorso a mutui da parte dell’universitas di Castelbuono e infine l’ingabellamento dell’intero marchesato. Se però in alcuni casi Giovanni fece ricorso a banchieri genovesi, in altri poté contare sul soccorso degli altri rami della famiglia (i baroni di Ciminna e di Regiovanni) e infine (1600) sull’opportunità di affidare il marchesato alla Deputazione degli Stati, con il conseguente sollievo finanziario. Il frutto di tale politica fu il recupero di un certo equilibrio, che consentì a Ventimiglia di tornare in primo piano sia come personaggio di grande influenza nella politica del regno sia come esponente di una dinastia prestigiosissima.
Presidente del regno e ripetutamente membro della Deputazione di questo, trascorse lunghi periodi di residenza a Palermo, svolgendo un ruolo di estremo rilievo nei Parlamenti, nei quali, con il suo prestigio, riusciva a rappresentare per delega numerosissimi esponenti della nobiltà; fu anche stratigoto a Messina, che difese dalle incursioni turche, e capitano d’armi nei valli di Noto e Demone. Nei domini madoniti si impegnò a fondo per rappresentare un potere familiare di alto prestigio, con interventi edilizi e urbanistici sul castello e sull’abitato di Castelbuono, promuovendo l’impianto dei domenicani nel centro madonita, celebrando con enorme fasto il recupero della reliquia-simbolo – il teschio di s. Anna – che era stato trafugato. Durante i soggiorni a Palermo, pur in contrasto con il Senato cittadino (che giunse perfino a fare arrestare in massa), si dedicò alla fondazione della confraternita per il riscatto dei prigionieri in Barberia, destinata a diventare un importante centro di potere. Nella capitale del regno, Giovanni poté pure entrare in contatto con i più importanti ambienti culturali, attraverso i quali giunse a stringere rapporti con Torquato Tasso, che gli dedicò delle canzoni celebrative.
Il recupero di una statura politica e di una cospicua posizione di prestigio culminò nel 1595 con il conseguimento del titolo di principe di Castelbuono, che Ventimiglia affiancò a quello di marchese di Geraci, pur mostrando di preferire quest’ultimo, più significativo nel richiamare l’illustre tradizione familiare.
La morte senza discendenza diretta del principe Giovanni condusse al passaggio del principato al cugino Giuseppe (morto nel 1620), il cui padre aveva acquisito il solido possesso di Regiovanni, frutto dello scorporo trecentesco a favore di uno dei figli del secondo conte Francesco. Dopo il figlio Francesco (morto nel 1647) una serie di difficili passaggi successori coinvolse fra 1647 e 1698 molti figli cadetti di quel ramo (Giovanni, Francesco Rodrigo, Giovanni, Blasco, Ruggero); il titolo marchionale giungeva nel 1698 a un Girolamo e al figlio Francesco nel 1707 (si noti la ricorrenza onomastica dei nomi familiari fino a quest’epoca). I principi del XVII-XVIII secolo (Francesco, Giovanni, Luigi Ruggero, Giovanni Luigi e Luigi Ruggero, principi fra 1707 e 1812) appaiono ancora potenti e prestigiosi, ricoprendo importanti cariche politiche (Francesco e Giovanni furono deputati del regno, Francesco vicario generale) e militari (ancora Francesco difese Palermo dall’incursione barbaresca nel 1637, Giovanni fu capitano generale della cavalleria del regno) e ricevendo onorificenze di rilievo (il secondo Giovanni, v. la voce in questo Dizionario, fu grande di Spagna e, con i Savoia, gentiluomo di Camera e poi principe del Sacro Romano Impero), ma le persistenti difficoltà economiche imposero nuovi scorpori e cessioni (per esempio la redditizia Tusa).
I mutamenti profondi nella politica e nelle gerarchie sociali del regno, nel quale ormai il massimo titolo nobiliare era inflazionato, mostrano dunque negli ultimi secoli di esistenza della dinastia una sensibile perdita di rilievo e di centralità.
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