verba dicendi
I verba dicendi (espressione grammaticale latina che significa alla lettera «verbi del [o di] dire», analoga ad altre come verba iubendi «verbi del comandare») sono ➔ verbi che indicano azioni o processi legati all’attività verbale, come chiacchierare, dire o parlare.
Poiché la lingua è il principale e più articolato mezzo di comunicazione di cui gli esseri umani dispongano, i modi in cui sono lessicalizzate le sfumature della produzione di messaggi linguistici sono molto numerosi, anche per la facilità con cui azioni genericamente semiotiche ma non specificamente linguistiche possono venir riassorbite in quel novero per via di ovvie estensioni metaforiche. Ad es., verbi come aggiungere o sottolineare non nascono come verba dicendi e hanno accezioni primarie del tutto indipendenti, ma sono comunemente usati in enunciati che designano azioni linguistiche (il testimone aggiunge di non avere mai incontrato l’imputato), anche in costruzioni tutt’altro che tipiche dal punto di vista sintattico (il foglietto sottolinea che il medicinale non è adatto agli asmatici, con il soggetto di un verbo transitivo, usato come verbum dicendi, riferito a un’entità non umana e inanimata).
Sotto il comune denominatore del «dire», molto semplice e al tempo stesso molto generico, l’insieme dei verba dicendi risulta perciò poco agevole da suddividere dal punto di vista semantico. Una possibile classificazione, suggerita da De Mauro (1994), distingue i verba dicendi secondo il loro valore principale:
(a) verbi che indicano attività genericamente comunicative e semiotiche (là dove tali attività siano espresse linguisticamente): comunicare, esprimere, segnalare, significare;
(b) verbi che designano modalità fonetiche del dire: balbettare, bisbigliare, borbottare, gridare, mormorare, sbraitare, strillare, sussurrare, tartagliare, urlare, vociare;
(c) verbi che designano modalità semantiche o testuali del dire: chiacchierare, conversare, dialogare, discorrere, elencare, esclamare, nominare;
(d) verbi distintivi di modalità illocutive del dire: si tratta appunto dei cosiddetti verbi illocutivi (o performativi; ➔ illocutivi, tipi), che non descrivono né constatano qualcosa bensì realizzano con mezzi linguistici un’azione, eventualmente anche dotata di conseguenze extralinguistiche di tipo giuridico: assolvere, augurare, benedire, calunniare, chiedere, dichiarare (vi dichiaro marito e moglie), giurare, maledire, sfidare, scommettere, scusarsi;
(e) verbi dello scrivere: annotare, appuntare, copiare, digitare, redigere, ricopiare, scrivere, stampare;
(f) verbi ermeneutici (o forse meglio metalinguistici), che designano attività preliminari o ancillari alla comprensione di un testo, perlopiù scritto: compitare, dettare, pronunciare, sillabare.
A questa ricchezza di verbi che significano il «dire» (nota ancora De Mauro 1994) si contrappone, in italiano, come in varie altre lingue del mondo, una relativa scarsità di verbi che significhino invece l’«udire» e in particolare l’udire riferito a parole. Peraltro, la suddetta abbondanza dipende in buona parte da lessemi di origine e ambito d’uso colti, laddove nel parlato comune dire e parlare, rispettivamente al 4° e al 16° posto tra i verbi più frequenti in italiano (LIP 1993), si dividono gran parte delle funzioni dei verba dicendi. Di questa divisione vi sono anche indizi grammaticali, ad es., nelle sovrapposizioni strutturali che producono enunciati non standard come mi ha parlato che ... Un elenco dei verba dicendi più frequenti non supererebbe comunque la quindicina: accennare, affermare, chiacchierare, chiamare, dire, esporre, fare (come introduttore di un discorso diretto: v. oltre), gridare, negare, parlare, ripetere, rispondere, strillare, tacere, urlare.
I verba dicendi italiani sono tutti verbi transitivi (➔ transitivi e intransitivi, verbi) o inergativi (➔ ergativi, verbi). Pur tenendo conto della varietà più volte ricordata, la loro struttura argomentale (➔ argomenti) può essere sintetizzata come segue:
(a) un argomento che esprime il soggetto del verbum dicendi, dotato di tratti semantici agentivi, ed è l’unico argomento obbligatorio: Bianca dice le preghiere, Bianca parla;
(b) un argomento che esprime l’oggetto nozionale del verbum dicendi, il quale può essere rappresentato da un complemento oggetto (Bianca dice le preghiere), da un complemento preposizionale (Bianca parla di Zebedeo), da una frase completiva o infinitiva di varia forma (Virginia ha promesso che vincerà oppure Virginia ha promesso di vincere) (➔ completive, frasi; ➔ infinitive, frasi), ma è comunque dotato di una proprietà semantica non priva di conseguenze sintattiche: l’oggetto di un verbum dicendi non rappresenta un referente definito, come potrebbe essere un qualsiasi oggetto della realtà, bensì un referente linguistico, un enunciato;
(c) un argomento che esprime i partecipanti all’evento, attraverso sintagmi preposizionali che variano a seconda del verbo reggente: Anna espone la sua tesi agli studenti, Anna chiacchiera con Giancarlo.
Tutti gli argomenti (b) e (c) possono ovviamente apparire sotto forma di ➔ pronomi: Bianca le dice, Bianca ne ha parlato, Anna espone loro la sua tesi, ecc.
Questa struttura generale viene realizzata in maniera diversa dai vari verba dicendi. Come accade per tutti i verbi transitivi, anche per i verba dicendi transitivi l’argomento oggetto può essere omesso nel caso di usi assoluti, soprattutto quando l’aspetto dell’azione è durativo e non puntuale (il Piave mormorava; sto telefonando), ma non solo in quel caso (ha confessato). Più rilevante è l’assenza dell’espressione dell’oggetto con quei verba dicendi che focalizzano il proprio significato non sul messaggio ma sulle sue modalità fonetiche o semantiche (v. sopra): sbraitare, tartagliare, vociare; per questi verbi la costruzione transitiva è rara e marcata in alcuni casi (sbraitano improperi, tartagliava parole senza senso), affatto impossibile in altri (*i manifestanti vociano le loro proteste). Ancora, numerosi verba dicendi transitivi sono costruiti bensì con un complemento oggetto che però esprime il destinatario dell’azione linguistica e non il suo prodotto: accusare, apostrofare, chiamare, elogiare, nominare, pregare, rimproverare, sgridare.
I verba dicendi possono essere suddivisi in base al comportamento delle frasi subordinate che essi reggono in qualità di verbi principali. Poiché la sintassi dei periodi complessi è strettamente legata al significato dei singoli verbi, ci limiteremo qui a esemplificare sui verba dicendi più tipici.
Le subordinate oggettive (➔ completive, frasi; ➔ oggettive, frasi) rette da dire possono essere indifferentemente frasi esplicite rette dalla congiunzione che o infinitive implicite introdotte dalla preposizione di nel caso che il soggetto delle due frasi sia lo stesso (1 e 2), mentre è necessaria – come per gli altri verbi – la costruzione esplicita nel caso che la subordinata abbia un soggetto diverso dalla principale (3 e 4). La costruzione con l’infinito non preposizionale (5 e 6) è possibile, oltre che con dire, anche con altri verba dicendi, ma risulta oggi marcata e virtualmente ristretta allo scritto molto formale:
(1) Vito dice che sta bene
(2) Vito dice di star bene
(3) Vito dice che Maria sta bene
(4) *Vito dice di Maria star bene
(5) Vito dice Maria star bene
(6) Vito afferma/dichiara Maria star bene
Oltre che oggettive, i verba dicendi possono reggere anche subordinate soggettive (➔ soggettive, frasi), nel caso che essi siano usati in forma impersonale:
(7) si dice che Maria stia bene
(8) si mormora che i soldi siano già finiti
(9) nella tesi si afferma che i dialetti siano corruzioni dell’italiano.
Com’è naturale, i verba dicendi sono il principale strumento col quale introdurre esplicitamente la citazione di enunciati. Il ➔ discorso riportato, sia diretto sia indiretto, può essere introdotto da tre tipi di verbi, tutti collegati in qualche misura con la significazione di azioni linguistiche (cfr. Mortara Garavelli 1995).
Il primo tipo è costituito dai verba dicendi in senso proprio, quelli che significano un atto di produzione linguistica:
(10) Amleto afferma: «C’è del marcio in Danimarca»
(11) Amleto afferma che c’è del marcio in Danimarca
Il secondo tipo di introduttori è costituito dai verbi che significano la ricezione di atti linguistici:
(12) ho sentito: «Domani sto chiuso»
(13) ho sentito che domani sta chiuso
Spesso questi verbi si accompagnano all’infinito di un verbum dicendi del primo tipo, che costituisce così l’introduttore vero e proprio:
(14) l’ho sentito dire: «Domani sto chiuso»
(15) ho sentito dire che domani sta chiuso
Il terzo tipo di introduttori è costituito da verbi epistemici come pensare, riflettere, ricordare, sospettare, che significano azioni linguistiche nel senso lato di azioni, eventi o processi verbalizzati mentalmente e non concretamente:
(16) poi ho pensato: «Tanto domani sto chiuso»
(17) poi ho pensato che tanto domani sto chiuso
Altri verbi, per funzionare da introduttori, devono sottintendere un atto linguistico che accompagni l’azione effettivamente significata dal verbo:
(18) si disperava [dicendo]: «Che male!»
Non tutti i verba dicendi possono però introdurre ogni tipo di discorso riportato. Ad es., la funzione di introdurre il discorso indiretto è preclusa ai verba dicendi transitivi che esprimono all’oggetto il destinatario dell’azione linguistica: accusare, apostrofare, rimproverare, ecc. (v. sopra). Con questi verbi, che non possono reggere una completiva oggettiva, il discorso indiretto deve essere introdotto da un sintagma contenente un altro verbum dicendi appropriato:
(19) lo dicevo che quella ministra è un’incapace
(20) *l’ho interrotta che è un’incapace
(21) l’ho interrotta dicendole che è un’incapace
Nella storia di molte lingue si riscontra un’evoluzione che da un verbum dicendi porta alla nascita di un segnale di citazione (ingl. quotative o quote marker): cfr. ad es. nel creolo a base inglese parlato in Giamaica:
(22) Ruoz-dem tel im se a Klaris mash di pat
«Rose e altri le hanno detto che è stata Clarice a rompere il vaso»
dove la forma se, derivata dall’inglese say, non ha più funzione di verbo ma è si è specializzata appunto come segnale di citazione. Un’evoluzione del genere è presente anche nell’italiano parlato, specialmente popolare (cfr. Lorenzetti 2002), come si vede dagli esempi seguenti, tratti da conversazioni registrate a Roma (23 e 24) e Firenze (25):
(23) una ragazza m’ha detto dice «guarda ...»
(24) allora alla stazione fa dice «ma io ero ...»
(25) molte donne mi hanno chiesto «guarda Gary dice guarda noi purtroppo abbiamo dei problemi ...»
Gli indizi dell’avvenuta specializzazione di dice sono la presenza di altri verba dicendi, che lo rendono ridondante in funzione di verbo pieno (m’ha detto, fa), e la perdita dei tratti grammaticali di accordo: in (25) il soggetto plurale molte donne non comanda l’accordo di dice (che infatti non appare come *dicono) proprio perché questo non è più un verbo bensì un introduttore di discorso diretto riportato.
LIP 1993 = De Mauro, Tullio et al. (a cura di), Lessico di frequenza dell’italiano parlato, Milano, ETAS libri.
De Mauro, Tullio (1994), Intelligenti pauca, in Miscellanea di studi linguistici in onore di Walter Belardi, a cura di P. Cipriano, P. Di Giovine & M. Mancini, Roma, Il Calamo, 2 voll., vol. 2º (Linguistica romanza e Storia della lingua italiana. Linguistica generale e Storia della linguistica), pp. 865-875.
Lorenzetti, Luca (2002), Sulla grammaticalizzazione di “dice” nell’italiano parlato, in Roma et Romania. Festschrift für Gerhard Ernst zum 65. Geburtstag, hrsg. von S. Heinemann, G. Bernhard & D. Kattenbusch, Tübingen, Niemeyer, pp. 211-221.
Mortara Garavelli, Bice (1995), Il discorso riportato, in Grande grammatica italiana di consultazione, a cura di L. Renzi, G. Salvi & A. Cardinaletti, Bologna, il Mulino, 3 voll., vol. 3° (Tipi di frasi, deissi, formazione delle parole), pp. 427-468.