Verdi
Viva V.E.R.D.I.
Giuseppe Verdi, l'Italia e l'Europa
di Quirino Principe
27 gennaio
In tutte le parti del mondo si celebra il centenario della morte di Verdi. A Parma, alla presenza del presidente Ciampi, si inaugura il Verdi Festival, con la Messa di Requiem diretta da Valery Gergiev nel Duomo. Il Requiem è eseguito anche a Berlino da Claudio Abbado, a Milano da Riccardo Muti e ancora a Roma, a Trieste, a Madrid e a Zurigo, mentre a Busseto va in scena l'Aida per la regia di Franco Zeffirelli. Per tutto il 2001 i principali teatri lirici italiani e stranieri propongono opere verdiane, mentre si moltiplicano iniziative editoriali e convegni di studio per approfondire il grande ruolo ricoperto dal musicista nella cultura italiana ed europea.
Tre considerazioni fondamentali
Nell'anno in cui ebbe inizio l'unificazione politica d'Italia, il musicologo livornese Abramo Basevi (1818-1885) pubblicò il suo grande saggio verdiano che fu in assoluto, nel mondo, il primo libro dedicato a Giuseppe Verdi (Studio sulle opere di Giuseppe Verdi, Tipografia Tofani, Firenze 1859). Le parole che chiudono quel libro sono, di conseguenza, il primo grande tentativo di trarre una conclusione, ancorché provvisoria, dall'esperienza di un compositore vivente, già al culmine della gloria ma dal quale si attendevano sviluppi imprevedibili. È significativo che l'autore sia stato uno studioso dall'orizzonte culturale europeo, acuto conoscitore della musica tedesca e incline a privilegiare l'arte dell'armonia e del contrappunto rispetto alla plastica ispirazione melodica, punto di forza degli operisti italiani. "L'Italia aspetta dal Verdi tutto il possibile miglioramento nella musica drammatica; ma gli domanda altresì una scuola che la protegga dalla decadenza, altrimenti inevitabile, dell'arte in cui ella ebbe, per tanto tempo, il primato. Consideri il Verdi che l'artista non vive presso i posteri solamente per la memoria delle Opere che lascia loro, ma ancora, e più degnamente, per quelle generazioni di discepoli, i quali in ogni età vanno perpetuando, con animo riconoscente, la gloria del loro maestro".
Il voto espresso dallo studioso toscano era chiaroveggente e, almeno a rovescio, profetico. Quella conclusione vale oggi come chiave interpretativa e, per così dire, come reagente. La possiamo adattare a tre considerazioni fondamentali. Basevi prese in esame, nel suo libro, il lavoro artistico di Verdi fino al 1857, ossia le opere teatrali da Oberto ad Aroldo: in mezzo si collocavano, con particolare rilievo, Nabucco, I Lombardi, Rigoletto, Il trovatore, La traviata, Les Vêpres Siciliennes, il primo Boccanegra, tutti lavori che segnarono conquiste decisive nella drammaturgia musicale europea e si alternarono a opere che hanno lasciato un segno assai più debole o non ne hanno lasciato affatto. Nel 1857 Verdi era quarantaquattrenne ed era giunto alla metà esatta della sua esistenza terrena destinata a prolungarsi per 88 anni. Se però consideriamo l'arco creativo del compositore e trascuriamo i pochi lavori che precedono Oberto, dobbiamo partire dal 1839, l'annata di quella prima opera teatrale. L'ultima composizione verdiana, lo Stabat Mater, è del 1897. Quel primissimo libro su Verdi valuta dunque 18 anni di attività; ne sarebbero seguiti altri 40. In termini astratti, il Verdi del 1857 potrebbe essere considerato un grande maestro che avesse percorso soltanto il primo tratto del suo itinerario artistico e si preparasse a entrare nella fase centrale e più viva, avendo a disposizione molto tempo ancora per condurre a perfezione il proprio stile conquistato nel periodo culminante di creatività. Ma in termini concreti e reali, nel 1857, anno pur funestato dall'insuccesso del primo Boccanegra, Verdi aveva raggiunto esiti altissimi e definitivi, introducendo
nel teatro d'opera novità inaudite, e realizzando, con la cosiddetta 'trilogia popolare' del 1851-53, proprio quelle qualità europee e moderne di drammaturgo musicale la cui assenza gli rimproverarono a lungo musicisti come Hector Berlioz, Eduard Hanslick e Hans von Bülow (più tardi gliela contestò Richard Strauss, conquistato soltanto da Falstaff, mentre Gustav Mahler gli riconobbe subito quelle doti; Richard Wagner, invece, mantenne un'assoluta reticenza sul maestro italiano). Eppure, è vero che negli anni a venire, tra il primo e sfortunato Boccanegra e Falstaff e più oltre fino ai Quattro pezzi sacri, attraverso quegli esemplari unici che sono Don Carlos, Aida, il Requiem, Otello, Verdi toccò la qualità assoluta del capolavoro immune dalle 'rozzezze' che molti musicisti europei individuavano in Rigoletto o nel Trovatore o nella Traviata: insomma, del capolavoro perfetto, in cui nulla potrebbe essere soggetto a un giudizio riduttivo. La seconda considerazione riguarda il tema specifico della conclusione di Basevi, il quale si domandava, nel 1859: riuscirà, Verdi, a creare intorno a sé una scuola? Avrà allievi, continuatori? Soprattutto, sarà Verdi l'artista cui la storia riconoscerà il merito di avere rinnovato non soltanto il proprio lavoro individuale d'artista ma tutto il teatro musicale italiano, anzi, tutta la musica italiana, restituendole l'antico primato sulla civiltà musicale d'Occidente del quale restano segni indelebili, in ambito universale, nella definizione dei generi e delle forme musicali, nella stessa terminologia adottata, su modello linguistico italiano, in tutte le nazioni? In verità, su quest'ultimo e più importante aspetto Verdi fu esplicito: ormai vecchio, parlando di Wagner (ne parlava spesso, in antitesi alla già menzionata reticenza del compositore tedesco su di lui) ed esprimendo altissima ammirazione per la sua arte, egli dichiarò che tuttavia la musica di Wagner era un grande dono concesso dal destino al popolo tedesco, mentre agli italiani era connaturata la tradizione musicale italiana, quella grandissima del passato, di Monteverdi e di Palestrina. "Se noi italiani vogliamo rinnovarci - egli aggiunse - non c'è che una via: ritornare all'antico, e al nostro antico". Altrettanto certo è che Verdi non fece nulla, in pratica, per creare le premesse effettive di un rinnovamento diffuso e tale da mettere radici. Non creò una scuola intorno a sé, non costituì un gruppo organizzato di giovani musicisti come invece volle fare Wagner dando vita alla 'Bayreuther Kanzlei', il cui animatore fu Engelbert Humperdinck. Ebbe un unico allievo, il parmense Emanuele Muzio (1825-1890), che fu fiero di tale privilegio. A parte questi dettagli biografici, Verdi quasi non ebbe imitatori o eredi del suo stile, e a malapena si può parlare di due o tre epigoni verdiani (compositori, si badi, di grande talento) citando Amilcare Ponchielli o Alberto Franchetti, mentre resta problematico il rapporto tra lo stile di Arrigo Boito musicista e quello del maestro. È esistito un wagnerismo che si è prolungato, con innumerevoli varianti e sfumature, fino alla Seconda guerra mondiale (Humperdinck, Eugen d'Albert, Max von Schillings, Hans Pfitzner, Ferruccio Busoni, Vincent d'Indy, Ernest Reyer, César Franck, Anton Bruckner, per non parlare di Gustav Mahler e Richard Strauss), mentre non è esistito un 'verdismo'. Per incredibile che possa sembrare, data la grandissima incidenza nel gusto e nelle tendenze culturali dell'Italia postunitaria, Verdi fu un compositore che concluse in sé stesso la propria esperienza. Il fenomeno di maggior rilievo nella musica teatrale italiana tra il 1890 e il 1940, ossia la 'giovane scuola' detta impropriamente 'verismo musicale' (da Mascagni a Giordano, da Cilea a Puccini) è quanto di più estraneo a Verdi si possa immaginare. Eppure, l'unicità di Verdi - così come in poesia l'unicità di Leopardi, da Verdi ammiratissimo - è proprio essa un'energia che contrassegna una civiltà musicale. È un connotato tipicamente italiano: uno o due grandissimi protagonisti, senza che esista la vera grandezza di una pleiade, di un contesto, di una fioritura memorabile. Una terza considerazione è indiretta. Non nasce dal preciso oggetto della conclusione di Basevi, ma si legge tra le righe. Nel 1859, alle soglie dell'unità d'Italia (il libro del musicologo livornese uscì nel gennaio di quell'anno, tre mesi prima che avesse inizio la Seconda guerra d'indipendenza), un italiano colto che prendesse in considerazione il lavoro compiuto da Verdi fino al 1857 non poteva non domandarsi: chi e che cosa è Verdi per l'Italia, per noi italiani, per la nostra cultura, per il nostro spirito nazionale? Ce lo domandiamo, oggi, anche noi. C'è una dicotomia fondamentale: la formula vulgata secondo cui Verdi sarebbe l'aedo del Risorgimento è in realtà molto dubbia. Certo, il compositore prese partito a favore dei moti d'indipendenza, e in varie occasioni. Merita citazione la lettera che egli scrisse da Milano, il 21 aprile 1848, a Francesco Maria Piave, a proposito delle Cinque Giornate: "Onore a questi prodi! Onore a tutta l'Italia che in questo momento è veramente grande! L'ora è suonata, siine pure persuaso, della sua liberazione. È il popolo che lo vuole: e quando il popolo vuole non avvi potere assoluto che le possa resistere. [...] Sì, sì, ancora pochi anni forse pochi mesi e l'Italia sarà libera, una, repubblicana. Cosa dovrebbe essere? Tu mi parli di musica! Cosa ti passa in corpo? [...] Non c'è né ci deve essere che una musica grata alle orecchie delli Italiani del 1848. La musica del cannone!". Parole sonanti: ma il maestro, al di là del loro tono tagliente, non partecipò affatto, neppure in forme indirette, alla Prima guerra d'indipendenza, e in gran parte del 1848 soggiornò all'estero, soprattutto a Parigi. Una circostanza quanto meno curiosa: Verdi amava molto soggiornare a Napoli, e malgrado la dichiarazione di fede non soltanto indipendentistica ma anche unitaria espressa nella lettera a Piave non pose ostacoli a un'operazione destinata a esaltare il regno delle Due Sicilie e la dinastia borbonica. Sappiamo che il celebre coro da Ernani, "Si ridesti il leon di Castiglia", era divenuto da alcuni anni, insieme con l'ancor più celebre "Va pensiero" da Nabucco e con il coro dai Lombardi "O Signore, dal tetto natìo" (ricordato, come musica "che tanti petti ha scossi e inebriati", da Giuseppe Giusti in Sant'Ambrogio), uno dei più amati fra i 'canti patriottici' di ascendenza verdiana al di là delle intenzioni di Verdi. L'entusiasmo e le non troppo mascherate allusioni si scatenavano in particolare sulle parole "Siamo tutti una sola famiglia". Ebbene, proprio nel 1848 Verdi non si oppose al desiderio di un modesto poeta napoletano, Michele Cucciniello, che volle adattare la musica del coro da Ernani a versi esaltanti re Ferdinando II di Borbone, facendone una sorta di inno nazionale intitolato La patria. Era ancora il tempo in cui Ferdinando II si atteggiava a re costituzionale e mostrava di consentire a un progetto d'indipendenza italiana nel quadro di una federazione di sovrani: una condotta politica che durò poco. In ogni caso, la 'patria' di cui parla l'inno è il reame borbonico, non la patria italiana "libera, una e repubblicana" auspicata nell'aprile di quell'anno da Verdi in singolare coincidenza con l'ideale mazziniano, non con la forma istituzionale che si sarebbe realizzata tredici anni più tardi grazie all'opera di Cavour e di casa Savoia. Non mancano altri suggerimenti di natura indipendentistica nelle opere di Verdi fino al 1857. I più vivaci, frequenti ed espliciti sono nell'opera patriottica per definizione, La battaglia di Legnano, che ebbe la prima esecuzione in una Roma pronta a inaugurare la brevissima stagione repubblicana e mazziniana. Si pensi soltanto al coro iniziale, "Viva Italia! Sacro un patto / tutti stringe i figli suoi". In Macbeth, proprio alla vigilia del 1848, i profughi scozzesi piangono la "patria oppressa". Sia chiaro: nella musica in quanto tale non c'è alcunché di 'patriottico'. Sono scelte dei librettisti: tuttavia, non possiamo non riconoscere che esse furono accettate e probabilmente favorite dal compositore. Undici anni dopo ebbe luogo la Seconda guerra d'indipendenza. Verdi vi partecipò, come al solito, in spirito e da lontano. Una testimonianza è la lettera di Giuseppina Strepponi a Cesarino De Sanctis (21 maggio 1859), mentre il compositore e la sua compagna si trovavano a S. Agata, nel territorio dell'allora ducato di Parma. "Tutto si prepara per far di questa guerra una guerra di giganti. Verdi è serio, grave, ma calmo e fidente nell'avvenire. Io sono certamente più inquieta, più smaniosa, ma io sono donna e di un temperamento più vivo". Nel febbraio 1859 andò in scena a Roma Un ballo in maschera, e fu in quei giorni (non prima!) che fu inventato il famoso acrostico "Viva V.E.R.D.I." ossia "Viva Vittorio Emanuele Re D'Italia". Non pare proprio che il maestro abbia avuto qualche responsabilità in tale invenzione.
Insomma, un artista molto presente nelle vicende del processo indipendentistico e unitario, ma personalmente appartato, come chi guarda con compiacimento ma lascia fare ad altri. In verità, il significato autentico del rapporto tra Verdi e l'Italia del secolo 19° è culturale, non politico. Si può dire che Verdi abbia riassunto in sé, con un lavoro immane, la rappresentatività di un romanticismo italiano difficile a individuarsi, secondo le dimensioni che le poetiche romantiche ebbero in Europa, nell'ambito della letteratura italiana. Il teatro musicale di Verdi fu il vero teatro italiano, il teatro tout court, e compensò l'assenza o la modesta presenza di una drammaturgia non musicale, tanto più modesta se la paragoniamo a ciò che fu il grande teatro romantico europeo.
È significativo che proprio alla drammaturgia europea, da Shakespeare a Schiller, a Hugo, l'arte verdiana debba le premesse dei suoi capolavori. Non basta: le opere di Verdi furono anche sostitutive e rappresentative di un grande genere letterario, il romanzo, glorioso e fertile in Europa, e in Italia limitato a poche opere eccellenti ma, quanto a livello di qualità, isolate: i romanzi di Manzoni, di Grossi, di Nievo, poiché il resto non può reggere il confronto con la grande narrativa europea. Per queste ragioni, possiamo affermare che Verdi fu il nodo centrale della cultura italiana nell'Ottocento. Ebbe questa funzione anche per la duplice natura sociale del suo lascito artistico che fu nello stesso tempo alto e vulgato, colto e popolare.
Il secolo verdiano
Le tre considerazioni, nate dalle parole di uno studioso intelligente e culturalmente agguerrito come pochi in Italia verso la metà del 19° secolo, sottintendono un caso d'insolita longevità, che fu soprattutto longevità creativa. Ma la vita di Verdi non fu soltanto lunga. Colpisce anche la sua collocazione strategica lungo il fluire del tempo. Dei quattro protagonisti che resero grande nel mondo il teatro musicale italiano dell'Ottocento, Bellini lasciò l'Italia e l'Europa, morendo prematuramente nel 1835, quasi esattamente come le aveva trovate nascendo nel 1801, almeno sotto l'aspetto politico e territoriale. Nel corso della sua vita emerse una grande novità tecnica, la ferrovia, ma Bellini non ne vide lo sviluppo in Italia, e quando morì non era ancora sorta la prima linea ferroviaria italiana, il tronco Napoli-Portici (1839). Non conobbe la fotografia, inventata da Louis Daguerre nel 1837. Donizetti, nato nell'anno in cui Bonaparte cancellò la Repubblica di Venezia cui apparteneva la sua natìa Bergamo (1797), morì nel fatale 1848, senza che la sua mente turbata potesse cogliere il senso di quegli eventi. Rossini, nato nel 1792 quando in Italia l'antico regime era intatto, visse tanto a lungo da vedere realizzate le aspirazioni risorgimentali, ma lo raggiunse, a Parigi, un riflesso indiretto della grande trasformazione politica, verso la quale egli ebbe sempre un atteggiamento mutevole e sostanzialmente scettico e poco entusiasta. D'altra parte, scomparso nel 1868, Rossini non conobbe le novità clamorose del 1870-71: la fine del potere temporale dei Papi e l'annessione di Roma alla nuova Italia, la fine della millenaria Germania feudale e la nascita di un Impero tedesco unitario, quel primo esperimento di regime comunista che fu la Comune di Parigi. Negli ultimi decenni della sua vita le conquiste della scienza e della tecnica raggiunsero livelli di prim'ordine e prepararono il mondo in cui sarebbe vissuto l'europeo del Novecento, ma Rossini si sentì estraneo e addirittura ostile: gradì molto la fotografia, ma odiò visceralmente i treni. Fra i quattro protagonisti, Verdi fu l'unico ad avere la fortuna (o la sfortuna) di allungare lo sguardo verso il futuro. Nato durante il regime napoleonico, vide tutto ciò che né Bellini, né Rossini né Donizetti avevano potuto conoscere. Negli ultimi trent'anni della sua vita, l'Italia divenne una (modesta) potenza coloniale; si alleò con l'Austria - nemico storico - e con la nuova Germania nella Triplice; accolse l'istruzione elementare obbligatoria e gratuita grazie alla legge Coppino; fu percorsa dal fenomeno irredentistico, premessa alla Prima guerra mondiale; si avviò verso l'industrializzazione che più tardi avrebbe radicalmente trasformato la società e il territorio. Nell'ultimo decennio della vita di Verdi la scienza e la tecnica produssero novità fino a poco prima impensabili: l'automobile, l'aeroplano, il cinematografo, il fonografo, la telegrafia senza fili da cui si sarebbe sviluppata la radio. La telefonia e l'illuminazione elettrica, già nate da qualche tempo, si estesero sempre più all'uso privato. In Europa, negli anni Novanta del 19° secolo, stavano nascendo nuove scuole letterarie e si rivelavano nuovi scrittori destinati a connotare di sé il secolo venturo: Thomas Mann, Marcel Proust, James Joyce, Hugo von Hofmannsthal, Rainer Maria Rilke, Italo Svevo, Luigi Pirandello. Artisti come Edvard Munch, Gustav Klimt, Claude Debussy, Igor Stravinskij, nell'arco ascendente della propria vita creativa, incrociarono l'estrema senilità dell'autore di Nabucco, e ciò rende il senso della relatività del tempo. Anche la pura e semplice cronologia offre all'esistenza terrena di questo artista della musica e del teatro un segnale simbolico: la vita di Verdi si addentrò, per alcuni giorni, nel 20° secolo.
L'avvento di Verdi nella musica italiana cadde in un periodo di attesa: in un periodo relativamente vuoto di grandi personalità. Quando il compositore ventiseienne si rivelò con Oberto nel 1839, Bellini era morto da quattro anni, Donizetti era al culmine dei suoi trionfi ma entrava in una condizione personale di crisi e già avvertiva i primi segni della malattia che lo avrebbe portato alla tomba, Rossini viveva a Parigi e nel 1829 aveva chiuso, con Guillaume Tell, la propria carriera teatrale. Spontini viveva a Berlino e scriveva opere tedesche. Si aveva la sgradevole percezione che il primato italiano nel genere operistico fosse prossimo al tramonto: acquistavano fama crescente gli operisti francesi, ed era imminente, in Germania, una rivelazione parallela a quella di Verdi in Italia: l'avvento wagneriano. Nel 1836, dando alle stampe il suo piccolo libro Filosofia della musica, Giuseppe Mazzini lo dedicò ignoto numini: al giovane ignoto "che forse in qualche angolo del nostro terreno, s'agita, mentr'io scrivo, sotto l'ispirazione, che ravvolge entro sé il segreto di un'epoca musicale" (Filosofia della musica, in Scritti editi ed inediti, Edizione Nazionale, Imola 1910, vol. VIII, p. 120). È vero che, poche pagine dopo, Mazzini, pur senza identificare il giovane ignoto, tenta un nome a titolo puramente esemplificativo: Gaetano Donizetti. Ma l'anno di edizione dell'opuscolo mazziniano e il tono delle parole sembrano nascondere un significato di cui l'autore era inconsapevole, e se pieghiamo l'auspicio ad altra direzione ne avvertiamo, mediato e segreto, un valore profetico. Si può parlare di un'epoca musicale legata al nome di Verdi, non di Donizetti; si può definire l'Ottocento il 'secolo verdiano' nella musica italiana, e Verdi l'espressione di maggiore rilievo che abbia agito, in quel secolo, nella cultura e nell'anima popolare degli italiani. La longevità del compositore favorisce una simile identificazione.
Verdi italiano ed europeo
Una lettura intelligente del teatro verdiano, da Massimo Mila a Marcello Conati, da William Weaver a Julian Budden, coglie dunque nel segno se vede nelle opere di Verdi il vero romanzo moderno che, a parte rari esempi e due o tre capolavori, mancò all'Italia del 19° secolo. Ma è un romanzo italiano, o in stile italiano? Rappresenta l'Italia non come Flaubert rappresenta la Francia, bensì come Tolstoj è rappresentativo dell'anima russa, ossia in maniera forte e fortemente connotata, a rischio di un eccesso di tipizzazione? Cominciamo a rispondere affermando che gli italiani saranno pure diversissimi da regione a regione, e tuttavia convergono proprio negli aspetti essenziali sui quali Verdi costruì la sua drammaturgia: l'individualismo (Macbeth, Simon Boccanegra, Otello per il personaggio di Iago, Falstaff), le passioni irrefrenabili (Il trovatore, La forza del destino), la prevalenza del privato sul pubblico (Don Carlos, Aida), l'odio e la vendetta (I Lombardi, Rigoletto), la suscettibilità e il senso dell'onore offeso (Un ballo in maschera, Stiffelio poi divenuto Aroldo, ancora Otello), il gusto per l'intrigo (Nabucco, Les Vêpres Siciliennes, ancora Simon Boccanegra), la faziosità (I masnadieri, I due Foscari, inevitabilmente ancora Simon Boccanegra), il senso forte e tragico della sessualità (Ernani, Luisa Miller, La traviata). Anche le opere abitualmente ricondotte a un verdiano amor di patria (I Lombardi, Les Vêpres, Attila, La battaglia di Legnano) si nutrono in realtà, come drammaturgia forte e dai contrasti in aspro rilievo, di quel moto dell'animo a sua volta fortissimo che è la faziosità. Nella musica, che è l'elemento primario in misura schiacciante malgrado i pregi poetici superiori riconoscibili in alcuni libretti (di Piave per La traviata, di Boito per Otello e Falstaff), tutto questo si addensa intorno ai topoi prediletti: il contrasto tra due cori all'inizio di un'opera (che scompare definitivamente dopo Simon Boccanegra), il sinistro sussurro del traditore, il tremolo degli archi che nelle opere del tardo stile - disinvoltamente definito 'terza maniera' - si affina in saliscendi cromatici, il monologo solitario del potente o del reietto (sia esso "Plebe, patrizi, popolo" nel secondo Boccanegra o "Credo in un Dio crudel" in Otello o "Ella giammai m'amò" in Don Carlo[s]), la cadenza evitata in fortissimo dopo una tenebrosa rivelazione, gli effetti onomatopeici come il temporale di Rigoletto, in cui l'avvicinarsi della tempesta è reso con i mezzi minimi di un coro a bocca chiusa che sale e scende lungo un tratto di scala cromatica, la maledizione (in Boccanegra) o l'invettiva (nel Trovatore) che è 'preparata' da una pausa inquietante e da una minacciosa fanfara, oppure, come nell'aria di Azucena "Condotta ell'era in ceppi", da una figura ritmica energicamente puntata la cui indicazione dinamica è sempre forte o fortissimo. Quanto al senso religioso e cattolico della tradizione italiana, Verdi agnostico e scopertamente anticlericale fino all'irrisione e alla parodia liturgica (l'irriverente "Domine, fallo casto" in Falstaff, il ritratto in nero dell'Inquisitore in Don Carlos realizzato con spaventosi salti intervallari in discesa a picco), gli dà corpo e forma soprattutto in momenti di meditazione privata o, se collettiva, appartata e umbratile: tali sono "La Vergine degli angeli" nella Forza del destino, il "Miserere" nel Trovatore, l'"Ave Maria" in Otello e la meno celebre e non meno bella preghiera di Giselda, "Salve Maria", nei Lombardi. Si noti come questi momenti di preghiera abbiano quasi sempre il loro centro poetico in una figura femminile, e del resto nel teatro verdiano c'è un evidente primato morale della femminilità. La donna, in Verdi, è quasi sempre fragile e ardimentosa, nobile e spirituale (lo è, più che mai, la traviata Violetta), e quasi sempre è condannata a morire, a sacrificarsi (Giovanna d'Arco, Gilda, Leonora, Violetta, Luisa, Aida, Desdemona...): anche questo aspetto della drammaturgia, ricco di allusioni alla figura materna sia carnale sia trascesa in prefigurazione della Mater Dei, è molto italiano, e a un compositore del 19° secolo non era necessario essere 'credente' per condividerlo ed esaltarlo. Qui Verdi non si accontenta dei pur efficacissimi tremoli degli archi, ma mostra una conoscenza dell'antica polifonia italiana che smentisce i luoghi comuni sulla sua lacunosa preparazione tecnica e dottrinale. Può essere segnalato, infine, uno stilema che Verdi conquistò gradualmente, fino a compiacersene con la massima frequenza nelle opere tarde. Lo vediamo nascere con evidenza se confrontiamo, nel caso di due versioni successive della stessa opera, la stesura precedente e quella più matura, e i due Boccanegra sono l'esempio eminente. Ci riferiamo al 'canto su una nota sola' in cui la melodia cancella ogni spigolo e anche la minima ondulazione e si appiattisce in una linea, mentre una straordinaria elaborazione armonica genera un continuo mutamento di colore e di luce. Il battito della mezzanotte nell'ultima scena di Falstaff è la rasserenante sublimazione di questo modulo compositivo.
Se tale è il Verdi italiano, non meno vistosi sono i connotati europei del compositore. Verdi, non soltanto nella fase matura e più esperta della sua creatività, ma ancora agli esordi, conquista o intuisce o indovina la grande musica tedesca, francese, russa del tardo Ottocento, e raggiunge simili risultati da solo, senza passare attraverso il gioco di 'influenze' e di assimilazioni su cui qualcuno, ancora oggi, s'interroga vanamente. È tutta un'inventiva autogena, che possiamo seguire un passo dopo l'altro, quella che dà ai cori femminili di Nabucco un'aura alla Berlioz (Roméo et Juliette), che fa cantare Amelia nel I atto del secondo Boccanegra in modo da prefigurare Saint-Saëns o da evocare Schumann. In Don Carlos e in Otello esistono modulazioni che potremmo rintracciare in Musorgskij. Un capitolo a sé sono i 'verdismi' riconoscibili nelle sinfonie di Mahler e in altre composizioni sinfonico-vocali del compositore austro-boemo, ma qui si tratta di una vera influenza che Verdi esercitò sulla musica mahleriana, dal momento che Mahler amò Verdi e ne diresse molte volte le opere, in particolare Aida. Si tratta di stilemi legati a passi specifici nell'uno e nell'altro compositore, ma anche di una più vasta e organica concezione della drammaturgia musicale, che in Mahler, cui non si deve alcun lavoro teatrale, è latente e implicita. Il lamento di Violetta dinanzi a Germont padre risuona nel I tempo della Quinta Sinfonia di Mahler, e il lugubre squillo della tempesta di Otello ritorna, identico, nel finale della Terza Sinfonia, così come le battute orchestrali successive al comando di Amneris, "Radames qui venga!", spuntano nella seconda parte di Das klagende Lied, là dove il narratore prepara il sinistro prodigio dell'osso che canta una lugubre vicenda di assassinio. Quanto al confronto più delicato, quello tra Verdi e Wagner, è indubbio che molto di wagneriano nella drammaturgia dell'ultimo Verdi esista, e probabilmente il maestro italiano ne era consapevole, ma si tratta ancora e sempre di conquista autonoma, di un convergere in piena indipendenza. In ogni caso, è stupefacente come il cupo commento dei corni nel registro grave durante l'aria 'della gelosia' cantata da Ford nel II atto di Falstaff, uno stilema divenuto gradualmente familiare a Verdi e derivante dalla logica interna alla sua propria maturazione stilistica e poetica, rievochi la scena di Siegfried in cui l'eroe uccide il drago. Potremmo continuare, poiché la materia è sovrabbondante. Non si tratta di assimilazione, di 'resa' al wagnerismo o ad altri nuovi valori estetici. Si tratta degli esiti di una lunga metamorfosi, proporzionale alla longevità artistica. Pochi compositori europei si sono trasformati con tanta evidenza. Se una catastrofe dovesse sommergere la civiltà occidentale, e se fra alcuni secoli gli studiosi di una risorta civilizzazione esaminassero i reperti del passato, e le partiture di Verdi venissero nelle loro mani, probabilmente essi, confrontando le pagine di Oberto o di Ernani con quelle di Otello e di Falstaff, escluderebbero che si possa parlare di un unico compositore. Parlerebbero, ragionevolmente, di due musicisti omonimi, forse padre e figlio, senior e iunior.
La vita e le opere
L'infanzia e gli studi
Alle nove della mattina del 12 ottobre 1813, Carlo Verdi, proprietario di una taverna alle Roncole, frazione di Busseto nel territorio di Parma, e di un piccolo terreno che coltivava personalmente, si recò all'ufficio anagrafico di Busseto per segnalare che sua moglie Luigia Uttini aveva dato alla luce un figlio, Giuseppe Fortunino Francesco. Il giorno prima il bambino era stato battezzato nella chiesa parrocchiale di San Michele Arcangelo alle Roncole. Il registro battesimale, che attesta la data dell'11, reca le parole "natum heri vespere", che sono state all'origine di dubbi sulla vera data di nascita. A quell'epoca, la durata del giorno era compresa tra due tramonti. Verdi nacque dunque non domenica 10, bensì sabato 9 ottobre 1813, festa di san Donnino, patrono locale. Egli celebrò sempre il 9 ottobre come proprio compleanno, pur conservando qualche incertezza. È doveroso ricordare che alcuni biografi, fra cui Carlo Gatti e Massimo Mila, non sono d'accordo con questo dato e indicano come giorno di nascita domenica 10. Il territorio parmense, che sotto il regime napoleonico non apparteneva al Regno Italico, era allora parte dell'Impero Francese, con la denominazione di Dipartimento del Taro. Se il registro parrocchiale usa la lingua latina, gli atti anagrafici di Busseto sono scritti in francese fino al 1814, e il figlio di Carlo e Luigia Verdi è annotato come "Joseph Fortunin François". Nell'aprile 1814, caduto il regime napoleonico, le truppe russe invasero la zona compiendo saccheggi e uccisioni. Si dice che Luigia abbia salvato la vita al figlio di sei mesi nascondendosi con lui tra le braccia nel campanile della chiesa di San Michele, dove il piccolo Giuseppe era stato battezzato.
La prima educazione musicale di Verdi fu precoce e approssimativa, in gran parte autodidattica. Nel 1817, a quattro anni, egli cominciò a prendere lezioni di italiano, latino e musica da Pietro Baistrocchi, il vecchio e modesto organista delle Roncole. Sul fascino che la musica, anche quella malissimo suonata nella chiesa parrocchiale, esercitava sul bambino, esistono vari aneddoti. Si narra che a sette anni d'età il piccolo Giuseppe servisse messa durante una funzione alle Roncole e che l'ascolto dell'organo lo distraesse dai suoi doveri. Un prete, don Giacomo Marzini, lo redarguì e, urtandolo sgarbatamente, lo fece ruzzolare sui gradini dell'altare. Il piccolo Giuseppe, secondo la narrazione aneddotica, gli avrebbe gridato in dialetto: "Dio 't manda 'na sajetta!". Di fatto, otto anni dopo, il 14 settembre 1828, un fulmine cadde sul santuario della Madonna dei Prati e uccise don Giacomo Marzini e altre cinque persone. Secondo alcuni studiosi che danno credito anche alla parte aneddotica di questa vicenda (in particolare due francesi, Marcel Moré nel 1954 e Martine Cadieu nel 1969), la tragica conclusione dell'episodio avrebbe lasciato il segno nell'animo del quindicenne Verdi, e ciò motiverebbe il terribile rilievo che ha sempre la maledizione nella drammaturgia verdiana, soprattutto in Rigoletto e in Simon Boccanegra.
Quasi a consolare il bambino del torto subìto sui gradini dell'altare, nel 1820 il padre gli comperò una spinetta usata. Il piccolo Giuseppe s'impadronì presto della tastiera e poco dopo fu in grado di sostituire spesso Baistrocchi all'organo di San Michele. Morto Baistrocchi nel 1823, Verdi, a dieci anni, divenne il suo successore. In quello stesso anno cominciò a frequentare il Ginnasio di Busseto: fra i suoi maestri di grammatica e retorica, il principale fu don Pietro Seletti, buon grecista ed epigrafista.
Nell'autunno 1825 cominciò a prendere lezioni di musica, a Busseto, da Ferdinando Provesi (1770-1833): finalmente un ottimo maestro. Fu sotto la sua guida che Verdi cominciò a presentarsi come autore. Nel 1828, a quindici anni, compose pagine vocali e strumentali per la Società Filarmonica di Busseto. Nel 1831, diciottenne, decise di risiedere stabilmente a Busseto: il suo sogno era allora, forse, quello di diventare il più importante musicista della cittadina emiliana, di mettere su famiglia in quell'ambiente ristretto e rurale ma dotato di circoli culturali e di una buona biblioteca, abitato da qualche studioso locale di buona lega, e di conquistarsi un'esistenza tranquilla, agiata e rispettata. Nella decisione di lasciare la casa delle Roncole agirono forse i rapporti non idillici con il padre. Prese alloggio in casa di Antonio Barezzi (1787-1867), facoltoso commerciante di vino e spezie e distillatore di liquori. Carlo Verdi si serviva da lui per rifornire la sua taverna alle Roncole. Barezzi era appassionato dilettante di musica: suonava diversi strumenti a fiato fra cui, benino, il flauto, e aveva fondato la Società Filarmonica di Busseto di cui era presidente ed entusiastico animatore. Grazie a Provesi, direttore artistico della Filarmonica, il giovane Verdi venne a contatto con Barezzi. Tenne alcuni concerti di pianoforte in casa sua, vi fece eseguire musiche proprie già scritte per la Filarmonica. Su invito del padrone di casa, che aveva per lui un affetto paterno, si stabilì presso quella famiglia il 14 maggio 1831 e cominciò a dare lezioni di pianoforte e di canto alla figlia maggiore di Barezzi, Margherita (1814-1840). La simpatia tra i due giovani fiorì presto in amore. Barezzi acconsentì al fidanzamento, ma da padre avveduto volle che il futuro genero fosse un musicista vero, non un musico di campagna dotato di qualche talento. C'era un dislivello sociale. Saggiamente, Barezzi non lo vide come un ostacolo ma decise di colmarlo in primo luogo culturalmente: il resto, rispettabilità e censo, sarebbe venuto dopo. Era indispensabile che Giuseppe studiasse al Conservatorio di Milano. Carlo Verdi, messo a parte del progetto, inoltrò al Monte di Pietà e d'Abbondanza di Busseto la richiesta per una borsa di studio. L'Ente concesse un sussidio annuo di 300 lire austriache, ma soltanto a partire dal 1° novembre 1833. Non si poteva aspettare tanto a lungo. Barezzi garantì al Monte di Pietà che avrebbe provveduto lui stesso al mantenimento del giovane per un anno, fino alla data da cui sarebbe decorso il sussidio. Verdi partì per Milano, prese alloggio in casa di Giuseppe Seletti, nipote di don Piero e professore di latino al Ginnasio Comunale, e il 22 giugno 1832 sostenne l'esame di ammissione al Conservatorio. Dovette suonare il pianoforte e presentare alcune sue composizioni. Antonio Angeleri (1801-1880), insegnante di pianoforte e capo della commissione esaminatrice (gli altri membri erano Gaetano Piantanida, docente di composizione, e il celebre violinista e compositore Alessandro Rolla), trovò che la posizione delle mani sulla tastiera era tutta sbagliata: il candidato avrebbe dovuto mutare impostazione, ma a 18 anni d'età ciò era quasi impossibile. Nel verbale, trasmesso al censore del Conservatorio (carica corrispondente all'odierno direttore) Francesco Basili (1767-1850), Angeleri scrisse, a proposito delle composizioni, che "applicandosi esso [Verdi] con attenzione e pazienza alla cognizione delle regole del contrappunto potrà diriggere [sic] la propria fantasia che mostra di avere, e quindi di riuscire plausibilmente nella composizione". Prosa incerta, ma giudizio onesto e anzi illuminato. Non poteva essere ammesso al Conservatorio un diciottenne cui un modesto maestro come Baistrocchi aveva rovinato la posizione delle mani; Provesi era stato un insegnante molto migliore, ma si era trattato di un organista, non di un pianista. Angeleri, pianista di prim'ordine, formò allievi illustri come Adolfo Fumagalli e Vincenzo Appiani: non gli si poteva chiedere indulgenza. Quanto al giudizio sulle composizioni, non era affatto scoraggiante. Inoltre, il regolamento poneva il limite d'ammissione ai quattordici anni d'età, e per giunta il candidato era cittadino straniero. Ma Verdi, respinto, subì la bocciatura come un oltraggio e un'ingiustizia, e se la legò al dito per tutta la vita, serbando contro il Conservatorio di Milano rancore e amarezza fino alla tarda età.
Barezzi non si perse d'animo. Circondò Verdi di affetto, e decise che egli continuasse a vivere a Milano studiando privatamente con un insegnante rinomato e consigliato da Rolla all'amareggiato giovane: Vincenzo Lavigna (1776-1836). Da lui, Verdi prese lezioni private fino al giugno 1835. Lavigna apprezzò l'allievo, ne lodò i progressi e nel 1834 lo fece partecipare come maestro al cembalo a un'esecuzione dell'oratorio Die Schöpfung di Haydn che si tenne il 12 e il 16 aprile al Teatro dei Filodrammatici. Rinfrancato, nel luglio 1835 Verdi ritornò a Busseto, dove diresse molti concerti della Filarmonica e cominciò a comporre l'opera Rocester, poi abbandonata. Il 4 maggio 1836 sposò Margherita Barezzi. Gli sposi abitarono a Busseto nel Palazzo Tedaldi. In novembre, Verdi compose un Tantum ergo per tenore e orchestra. Il 26 marzo 1837 nacque la primogenita Virginia. L'11 luglio 1838 nacque il secondogenito Icilio (i nomi di entrambi i bambini furono scelti dalle pagine della tragedia Virginia di Vittorio Alfieri). Ma Virginia morì improvvisamente poco dopo, il 12 agosto, a sedici mesi. In quell'anno, l'editore Canti di Milano pubblicò una raccolta di liriche vocali di Verdi, Sei romanze per canto e pianoforte, primo esempio di un genere che il compositore coltivò per tutto l'arco della vita, lasciandolo però in seconda linea.
I primi successi
Il 6 febbraio 1839 i Verdi si stabilirono a Milano, e forse il buon Barezzi presentì che l'irrequieto giovane gli portava via per sempre Margherita e che, per quanto riguardava l'amato genero, quello era il distacco del frutto dalla pianta. La coppia con il piccolo Icilio prese alloggio in un modesto appartamento adiacente alla dimora di Giuseppe Seletti, in contrada San Simone al Carrobbio (oggi via Cesare Correnti). Verdi ebbe la fortuna di entrare in contatto con l'impresario della Scala, Bartolomeo Merelli (1794-1869), il quale gli propose un'opera: non l'ormai abortito Rocester, bensì Oberto conte di San Bonifacio, una trama legata all'epoca e all'ambiente di Ezzelino e Cunizza da Romano, nel 13° secolo, su libretto di Temistocle Solera (1816-1878). È probabile che Verdi abbia utilizzato per la partitura la musica già scritta per Rocester. Mentre si preparava la rappresentazione, il 22 ottobre 1839 morì a quindici mesi il piccolo Icilio. Oberto andò in scena alla Scala domenica 17 novembre 1839, ottenendo un caloroso successo. Merelli propose a Verdi un contratto: tre nuove opere in due anni. Già si profilava quel periodo di durissimo e soffocante lavoro che Verdi avrebbe poi definito "gli anni di galera".
Gli effetti si videro presto. La vita di Verdi divenne quella di un produttore di lavori teatrali, con un ritmo tale che, ultimato l'uno, già si doveva iniziare il prossimo, e talora le fatiche si accavallavano. Tutto questo, con l'aggravante di nuove sventure familiari. Merelli propose subito un soggetto serio, Il proscritto, che a Verdi non piacque: l'impresario lo passò al compositore tedesco Otto Nicolai, che allora stava costruendosi una carriera tutta italiana, e a Verdi suggerì questa volta un'opera comica, Un giorno di regno, una trama legata alla figura di Stanislao I Leszczynski, re di Polonia spodestato. Il testo di Felice Romani (1788-1865), già librettista abituale di Bellini, era tratto dalla commedia Le faux Stanislas (1808) di Alexandre-Vincent Pineux-Duval. Verdi cominciò a lavorare all'opera al principio del nuovo anno, ma la sua vita fu turbata da un gravissimo lutto: il 18 giugno 1840 morì Margherita per un'encefalite. Verdi concluse il lavoro all'opera buffa in uno stato di profonda depressione. In agosto, inaugurandosi la stagione operistica, fu rappresentato alla Scala con grandissimo successo Il templario di Nicolai. Poche settimane dopo, sabato 5 settembre 1840, con la stessa compagnia di canto e sempre alla Scala, andò in scena Un giorno di regno e fu un insuccesso catastrofico. Non vi furono repliche. Sembrava la fine di ogni speranza: distrutta la vita familiare, troncata la carriera di musicista d'opera, Verdi, incline alle soluzioni radicali, fu tentato di farla finita per sempre con il teatro musicale, considerandolo non adatto alla sua indole. Si presentò a Merelli e gli propose di annullare il contratto. Merelli rifiutò, mise in cartellone una ripresa di Oberto e propose a Verdi un altro soggetto operistico, questa volta serio e campato nell'alto stile tragico: Nabucodonosor, su libretto di Temistocle Solera tratto dal dramma Nabucodonosor (1836) di Auguste-Anicet Bourgeois e Francis Cornu. Verdi accettò dopo lunga esitazione, sospettando in quella fiducia rinnovata un gesto compassionevole. Generosità, quella dell'impresario scaligero? Forse. Ma Merelli, uomo amabile, cinico e in fondo simpatico, non aveva un autentico interesse per la qualità musicale e drammatica; gli interessavano soprattutto gli effetti prodotti sul pubblico dai cantanti di grido. Anche per questo, oltre che per la mole di lavoro imposto, Verdi cominciò a stancarsi di Merelli e della Scala. Tuttavia, compose la musica per la nuova opera lungo tutto il 1841, mentre al Carlo Felice di Genova andava in scena, a partire dal 9 gennaio di quell'anno, una nuova produzione di Oberto.
Nabucodonosor (o Nabucco, come da allora fu sempre chiamato) ebbe la sua prima rappresentazione al Teatro alla Scala di Milano mercoledì 9 marzo 1842. Fu uno dei più grandi successi mai avvenuti nella storia del teatro d'opera, non tanto nel corso della prima rappresentazione, quanto in seguito: nelle repliche scaligere e nelle rappresentazioni dell'opera in Italia e all'estero. Il successo mutò profondamente la vita di Verdi, che fu invitato a frequentare le case dell'aristocrazia milanese e divenne, in breve volger d'anni, un ricco signore grazie ai proventi di Nabucco e delle opere future. Con Nabucco ebbe inizio non soltanto un fenomeno esteriore pur se, nel caso di Verdi, più che giustificato: la gloria, l'agiatezza senza rischi o insidie, persino un innegabile potere nel mondo della musica e in genere della cultura. Ebbe inizio, nel profondo, la vera personalità dell'artista, il vero Verdi. Da allora in poi, Verdi poté essere contestato, subire inspiegabili e brucianti insuccessi (La traviata, il primo Boccanegra), ma nessuno si permise più di dubitare della sua grandezza.
Le opere teatrali
La doviziosa catena di opere teatrali di Giuseppe Verdi, primario bene culturale per noi italiani ed europei d'oggi, e il fitto tessuto di dati biografici che l'accompagna, sono stati oggetto di studio esaustivo e appassionato da parte di benemeriti della conoscenza del musicista: da Julian Budden, da Marcello Conati, da Eduardo Rescigno in un impareggiabile e recente strumento di alta divulgazione (Dizionario verdiano, Milano, Rizzoli, 2001). In questa sede preferiamo enunciare con esattezza le circostanze adatte a definire ciascuna delle opere nello spazio e nel tempo. I Lombardi alla prima crociata, su libretto di Temistocle Solera, tratto dall'omonimo poema (1826) di Tommaso Grossi (Milano, Teatro alla Scala, sabato 11 febbraio 1843).
Ernani, su libretto di Francesco Maria Piave (1810-1876), tratto dalla tragedia Hernani (1830) di Victor Hugo (Venezia, Teatro La Fenice, sabato 9 marzo 1844).
I due Foscari, su libretto di Francesco Maria Piave, tratto dal poema drammatico The Two Foscari (1821) di lord George Gordon Byron (Roma, Teatro Argentina, domenica 3 novembre 1844). Giovanna d'Arco, su libretto di Temistocle Solera, tratto dal dramma Die Jungfrau von Orléans (1801) di Friedrich Schiller (Milano, Teatro alla Scala, sabato 15 febbraio 1845). Alzira, su libretto di Salvatore Cammarano (1801-1852), tratto dalla tragedia Alzire ou Les Américains (1736) di Voltaire (Napoli, Teatro di San Carlo, martedì 12 agosto 1845). Attila, su libretto di Temistocle Solera completato da Francesco Maria Piave, tratto dalla tragedia Attila, König der Hunnen (1808) di Zacharias Werner (Venezia, Teatro La Fenice, martedì 17 marzo 1846).
Macbeth, su libretto di Francesco Maria Piave con interventi di Andrea Maffei (1798-1885), tratto dalla tragedia Macbeth (1605-06) di William Shakespeare (Firenze, Teatro della Pergola, domenica 14 marzo 1847). Nel 1847, a Parigi, Verdi incontrò nuovamente la cantante Giuseppina Strepponi (1815-1897), da lui conosciuta a Milano ai tempi della 'première' di Nabucco, nella quale la Strepponi era stata la prima Abigaille della storia. Con la Strepponi il musicista avviò una relazione durata tutta la vita, ma destinata a suscitare moralistiche malignità e, da parte del padre di Verdi, una dolorosissima ostilità, quando i due cominciarono a convivere a Parigi. Si sposarono soltanto il 29 agosto 1859, a Collognes-sous-Salève in Savoia.
I masnadieri, su libretto di Andrea Maffei, tratto dal dramma Die Räuber (1781) di Friedrich Schiller (Londra, Her Majesty's Theatre [o King's Theatre o Haymarket Theatre], giovedì 22 luglio 1847). I masnadieri, per ripetere le parole di Verdi in una lettera a Emilia Morosini (da Parigi, 30 luglio 1847), "senza aver fatto furore hanno piaciuto". Il compositore ricambiò la cortesia nei confronti di Londra e della Gran Bretagna: "clima orrendo [...] pure la città mi è piaciuta estremamente" con le sue bellissime strade, le sue magnifiche case, i suoi usi civilissimi. Più volte, Verdi dichiarò di preferire gli inglesi ai francesi.
Il 1847 era stato un anno di durissima fatica: Verdi aveva prodotto due opere, una delle quali, Macbeth, molto importante per la sua carriera e per la maturazione del suo stile. Un altro difficile impegno lo attendeva per il tardo autunno. Venerdì 26 novembre 1847 andò in scena al Théâtre de l'Opéra di Parigi, con il titolo Jérusalem, il rifacimento francese dei Lombardi alla prima crociata, su un libretto di Alphonse Royer e Gustave Vaëz. Malgrado l'accuratissimo lavoro preparatorio svolto da Verdi a Parigi e la sua fiducia nella "mise en scène stupenda", l'opera fu giudicata pesante, maldestra e impacciata dai critici parigini, e fu sottolineata l'immensa distanza tra Verdi, "artista soltanto di nome", e i veri grandi musicisti come Auber e Meyerbeer.
Il corsaro, su libretto di Francesco Maria Piave, tratto dal poema drammatico The corsair (1814) di lord George Gordon Byron (Trieste, Teatro Grande, mercoledì 25 ottobre 1848). La battaglia di Legnano su libretto di Salvatore Cammarano, tratto dal dramma La bataille de Toulouse (1828) di Joseph Méry (Roma, Teatro Argentina, sabato 27 gennaio 1849).
Luisa Miller, su libretto di Salvatore Cammarano, tratto dalla tragedia Kabale und Liebe (1784) di Friedrich Schiller (Napoli, Teatro di San Carlo, sabato 8 dicembre 1849).
Stiffelio, su libretto di Francesco Maria Piave, tratto dal dramma Le pasteur, ou L'évangile et le foyer (1849) di Émile Souvestre ed Eugène Bourgeois (Trieste, Teatro Grande, sabato 16 novembre 1850).
Rigoletto, su libretto di Francesco Maria Piave, tratto dal dramma Le roi s'amuse (1832) di Victor Hugo (Venezia, La Fenice, martedì 11 marzo 1851).
Il trovatore, su libretto di Salvatore Cammarano, completato, in seguito all'improvvisa morte di quest'ultimo, da Leone Emmanuele Bardare (1820-dopo il 1880), e tratto dal dramma El trovador (1836) di Antonio García Gutiérrez (Roma, Teatro Apollo, mercoledì 19 gennaio 1853). La versione francese del Trovatore, nella traduzione di Émilien Pacini e con il titolo Le trouvère andò in scena lunedì 12 gennaio 1857, al Théâtre de l'Opéra di Parigi.
La traviata, su libretto di Francesco Maria Piave, tratto dal dramma La dame aux camélias (1852) di Alexandre Dumas figlio (Venezia, La Fenice, domenica 6 marzo 1853). Un clamoroso e imprevisto insuccesso. Les Vêpres Siciliennes, su libretto di Eugène Scribe e Charles Duveyrier, tratto dal libretto Le duc d'Albe (1839) scritto da Eugène Scribe per Gaetano Donizetti (Parigi, Théâtre de l'Opéra, mercoledì 13 giugno 1855). La versione in lingua italiana, nella traduzione di Eugenio Caimi e con il titolo Giovanna di Guzman, fu rappresentata per la prima volta al Teatro Ducale di Parma mercoledì 26 dicembre 1855.
Simon Boccanegra, prima versione, su libretto di Francesco Maria Piave, tratto dal dramma Simón Bocanegra (1843) di Antonio García Gutiérrez (Venezia, La Fenice, giovedì 12 marzo 1857). Fu un fiasco memorabile, del quale Verdi tentò d'individuare le cause con animo rancoroso e ingiusto, attribuendo la responsabilità al povero Piave (che pure aveva lavorato con scrupolo, attento alla verità storica) e, spiace dirlo, a intrighi di origine ebraica.
Aroldo, rifacimento di Stiffelio, su libretto di Francesco Maria Piave, tratto dai romanzi The Betrothed (1825) di Walter Scott e Harold, the last of the Saxon kings (1848) di Edward George Bulwer-Lytton (Rimini, Teatro Nuovo, domenica 16 agosto 1857).
Un ballo in maschera, su libretto di Antonio Somma (1809-1865), tratto dal libretto Gustave III, ou Le bal masqué (1833) di Eugène Scribe messo in musica da Daniel Auber (Roma, Teatro Apollo, giovedì 17 febbraio 1859).
La forza del destino, prima versione, su libretto di Francesco Maria Piave, tratto dal dramma Don Álvaro, o La fuerza del sino (1835) di Ángel de Saavedra y Ramírez duca di Rivas, e dal dramma Wallensteins Lager (1796) di Friedrich Schiller (Pietroburgo, Teatro Imperiale, lunedì 10 novembre 1862).
Macbeth, seconda versione, su libretto di Francesco Maria Piave con interventi di Andrea Maffei, tratto dalla tragedia Macbeth (1605-1606) di William Shakespeare. L'originale di questa seconda versione è in lingua italiana, ma la prima a essere rappresentata, senza il controllo diretto di Verdi e senza la sua esplicita autorizzazione, fu questa medesima versione in traduzione francese di Charles-Louis-Étienne Nuitter e Alexandre Beaumont, andata in scena al Théâtre-Lyrique Impérial di Parigi venerdì 21 aprile 1865. La versione originale italiana di questa seconda redazione fu eseguita per la prima volta al Teatro alla Scala di Milano mercoledì 28 gennaio 1874.
Don Carlos, versione francese in 5 atti, su libretto di Joseph Méry (1797-1866) e Camille du Locle (1832-1903), tratto dalla tragedia Don Carlos, Infant von Spanien (1787) di Friedrich Schiller (Parigi, Théâtre de l'Opéra, lunedì 11 marzo 1867).
La forza del destino, seconda versione, su libretto di Francesco Maria Piave con numerosi interventi di Antonio Ghislanzoni (1824-1893), tratto dal dramma Don Álvaro, o La fuerza del sino (1835) di Ángel de Saavedra y Ramírez duca di Rivas, e dal dramma Wallensteins Lager (1796) di Friedrich Schiller (Milano, Teatro alla Scala, sabato 27 febbraio 1869).
Aida, su libretto di Antonio Ghislanzoni, tratto da un soggetto dell'egittologo Auguste-Édouard Mariette (1821-1881) rielaborato da Camille du Locle e dallo stesso Giuseppe Verdi (Il Cairo, Teatro dell'Opera, domenica 24 dicembre 1871). Direttore di Aida al Cairo fu Giovanni Bottesini (1821-1889), eccellente compositore di musica strumentale e grande virtuoso del contrabbasso: un 'homo novus' nella cultura musicale italiana. Poco prima della rivelazione di Aida al mondo, il 1° novembre 1871, era avvenuto un fatto memorabile: al Teatro Comunale di Bologna era stata rappresentata per la prima volta in Italia un'opera di Richard Wagner, e la scelta era caduta su Lohengrin. Durante una delle repliche, Verdi si era recato a Bologna in incognito e quasi di nascosto, con lo spartito per canto e pianoforte dell'opera wagneriana sotto il braccio, e su quelle pagine aveva annotato giudizi e impressioni in cui si alternavano una moderata ammirazione e moltissime spesso irritate perplessità.
Simon Boccanegra, seconda versione, su libretto di Francesco Maria Piave fortemente modificato da Arrigo Boito (1842-1918), tratto dal dramma Simon Bocanegra (1843) di Antonio García Gutiérrez (Milano, Teatro alla Scala, giovedì 24 marzo 1881). Verso il 1880, Verdi aveva stretto rapporti cordiali e fattivi con Arrigo Boito, e lo aveva pregato di aggiustargli il "tavolo zoppo", ossia di riscrivergli e di ristrutturargli lo sfortunato Boccanegra.
Don Carlo, versione italiana in 4 atti, su libretto di Joseph Méry e Camille du Locle, tratto dalla tragedia Don Carlos, Infant von Spanien (1787) di Friedrich Schiller; traduzione italiana dal francese di Achille de Lauzières (1800?-1875) e Angelo Zanardini (1820-1893) (Milano, Teatro alla Scala, giovedì 10 gennaio 1884). Alcuni studiosi verdiani hanno individuato nel Don Carlo italiano del 1884 l'inizio di un larvato avvicinamento allo stile di Wagner. Se ciò avvenne, fu per autonomo percorso e per convergenza di due grandi potenze della musica, non per influenza e tanto meno per sudditanza stilistica. L'anno prima, il 13 febbraio 1883, Wagner era morto a Venezia. Il 15 febbraio, Verdi aveva scritto da Genova all'editore Giulio Ricordi: "Triste! Triste! Triste! Wagner è morto!!! Leggendone ieri il dispaccio ne fui, sto per dire, atterrito! Non discutiamo. È una grande individualità che sparisce! Un nome che lascia un'impronta potentissima nella storia dell'arte!".
Otello, su libretto di Arrigo Boito, tratto dalla tragedia Othello (1604-1605) di William Shakespeare (Milano, Teatro alla Scala, sabato 5 febbraio 1887).
Falstaff, su libretto di Arrigo Boito, tratto dalla commedia The merry wives of Windsor (circa 1597) e dal dramma storico Henry IV (circa 1596-1597) di William Shakespeare (Milano, Teatro alla Scala, giovedì 9 febbraio 1893).
Le composizioni non teatrali
Nel lascito verdiano, le composizioni vocali e strumentali che non rientrano nell'ambito del teatro musicale hanno sofferto tutte - tranne il Requiem - di poca visibilità, coperte dall'immensa ombra delle opere teatrali nel loro insieme. Le composizioni non teatrali di Verdi costituiscono una riserva non esigua di emozioni, ma sono una piccola schiera dinanzi a un potente esercito. A parte le liriche per voce e pianoforte (poco meno di una trentina), le altre composizioni sono quasi tutte unici esempi verdiani di un determinato genere. Alla musica pianistica, il maestro concesse rare e poco significative occasioni, e del resto sappiamo che egli non fu un pianista. Diversissimo è il valore del dono, unico ma prezioso, concesso da Verdi alla musica cameristica con il Quartetto in Mi minore, che fu udito per la prima volta, in esecuzione privata, a Napoli martedì 1° aprile 1873. In assoluto, nella sequenza cronologica dei lavori verdiani, il Quartetto è quello che segue immediatamente Aida, e la prossimità tra queste due creature musicali si avverte nei connotati stilistici, nella linea melodica e soprattutto nell'impiego di un'armonia densa e piena e di un colore nostalgico. Allo stesso periodo appartiene un lavoro gigantesco qual è la Messa di Requiem, composta per commemorare la morte di Alessandro Manzoni (avvenuta a Milano il 22 maggio 1873). La destinazione del Requiem come lavoro individuale e organico è dichiarata: la prima esecuzione assoluta della vastissima partitura ebbe luogo a Milano, nella chiesa di San Marco, venerdì 22 maggio 1874, esattamente nel primo anniversario della morte del poeta. Anche il Requiem è segnato da tracce della prossimità con Aida. Si pensi all'esempio eminente: all'identità melodica, armonica e sintattica della sezione "Hostias et preces tibi" nell'Offertorio con l'invocazione delle sacerdotesse nel III atto di Aida: "O tu che sei d'Osiride / madre immortale e sposa". Una curiosità: secondo una testimonianza, assolutamente degna di fede, dell'orchestrale parmense Stefano Sivelli, Verdi avrebbe ideato il motivo trasformando lievemente il richiamo 'intonato' di un venditore di pere cotte ("Boièeent i pèr còtt...") che passava per via e che il maestro udì dall'interno di un negozio di terraglie a Parma (cfr. Marcello Conati, Verdi, interviste e incontri, Torino, EDT, 20002, pp. 91-92). Ma parte della musica utilizzata per il Requiem era già stata elaborata da Verdi per un lavoro collettivo da lui ideato e proposto a vari compositori: la Messa a Rossini, che avrebbe dovuto onorare il musicista morto nel 1868.
I Quattro pezzi sacri sono, nel lascito di Verdi, un grandioso e austero blocco che conclude e consacra trasfigurando. Siamo abituati a considerarli, insieme, come l'ultima grande composizione verdiana, successiva all'ultimo e gioioso lavoro teatrale. In realtà, essi nacquero a partire dall'anno precedente Otello e si collocarono in un arco di tempo che si estese a quattro anni dopo Falstaff. L'ordine in cui i Quattro pezzi sacri sono editi e abitualmente eseguiti è: Ave Maria su una scala enigmatica (una 'scala rebus', per la quale Verdi invitò i lettori della "Gazzetta Musicale di Milano" del 5 agosto 1888 a proporre varie armonizzazioni); Stabat Mater; Laudi alla Vergine Maria; Te Deum. Diversi i tempi di composizione. Le Laudi risalgono al 1886, l'Ave Maria al 1889, il Te Deum al periodo compreso tra gennaio 1895 e l'inizio di ottobre 1897, lo Stabat Mater al periodo tra novembre 1896 e la fine di ottobre 1897. Perciò lo Stabat Mater è l'ultima creazione di Verdi. L'Ave Maria fu eseguita per la prima volta, da sola, a Parma, da allievi del Conservatorio diretti da Giuseppe Gallignani, venerdì 28 giugno 1895. Le altre tre composizioni ebbero la loro prima esecuzione insieme, all'Opéra di Parigi, nell'ambito dei Concerts spirituels, giovedì 7 aprile 1898, sotto la direzione di Paul Taffanel. Verdi non fu presente. Per evitare confusioni, rammentiamo che Verdi aveva composto nel 1880 un'altra Ave Maria per soprano e archi, su un testo che doveva essere, secondo l'autore, la parafrasi volgarizzata dei primi versi del canto XXXIII del Paradiso dantesco, ma che in realtà non è altro se non la notissima preghiera liturgica. È frequente che la si esegua come lirica per canto e pianoforte.
Gli ultimi anni
Il 14 novembre 1897, Verdi fu colpito da un grandisssimo dolore: in quel giorno morì, a S. Agata, Giuseppina. Tra il febbraio e il maggio 1899, il maestro soggiornò a Genova, in luglio a Montecatini, in agosto a Busseto. Decise di dar vita a un progetto grande e amato: fondare, grazie a un generoso lascito, una Casa di riposo per musicisti, quella che sorge nell'odierna piazza Buonarroti a Milano su un progetto architettonico di Camillo Boito, fratello di Arrigo. Fu quella, negli intenti dichiarati di Verdi, la sua 'opera più bella'. Il 16 dicembre 1899 redasse il regolamento della Casa di riposo. Tra il marzo e l'aprile 1900 fu di nuovo a Genova, e in maggio a S. Agata. Il 14 maggio redasse il suo testamento, nominando erede universale una sua cugina, molto più giovane di lui e figlia di Marco Verdi, fratello minore di Carlo: Filomena Verdi (1859-1936). Alla fine del 1869, Verdi e la moglie Giuseppina avevano adottato la ragazza, rimasta orfana e povera molto presto, mutandole il nome in Maria. L'11 ottobre 1878, Maria Verdi sposò Alberto Carrara, giovane e brillante figlio del notaio di S. Agata. Da Maria e da Alberto derivano gli attuali eredi del maestro e proprietari della villa di S. Agata, i Carrara-Verdi.
Nell'ottobre 1900, commosso da molte memorie d'infanzia, l'ottantasettenne Verdi fece restaurare l'organo di San Michele alle Roncole. Verso la metà di dicembre, irrequieto e sofferente, lasciò S. Agata e prese alloggio a Milano in quello che è oggi il Grand Hôtel et de Milan al numero 29 di via Manzoni. Il 21 gennaio 1901 fu colpito da emorragia cerebrale e trascorse sei giorni in stato di paralisi. Durante l'agonia, le autorità cittadine fecero ricoprire di paglia la via sottostante e quelle vicine perché il passaggio di carrozze e cavalli non disturbasse il morente. Giuseppe Verdi si spense di notte, alle ore 2.50 di domenica 27 gennaio 1901. Il 30 gennaio, la salma fu tumulata al Cimitero Monumentale, ma il vero funerale in forma ufficiale e solenne ebbe luogo il 27 febbraio, quando le spoglie di Giuseppe Verdi e Giuseppina Strepponi furono collocate nella cappella della Casa di Riposo, dove si venerano oggi. In quella Casa, segno di altissima civiltà, poco importa se cristiana o laica, furono accolti i primi ospiti il 10 ottobre 1902: una 'contestabile' data di compleanno.