VERGINIANI
All'origine della storia del monachesimo verginiano si colloca la figura di Guglielmo da Vercelli. Oggetto di un annoso dibattito, condizionato dall'esigenza di presentare l'intero sviluppo della congregazione verginiana in un'ottica di continuità e conformità rispetto all'originaria ispirazione del fondatore, la sua esperienza religiosa solo di recente è stata adeguatamente interpretata e quindi ricondotta nell'alveo dei movimenti spirituali coevi di matrice laicale e di impronta eremitica e penitenziale. Confutata la vulgata storiografica che reputava Guglielmo monaco benedettino, è stata dimostrata invece la sua condizione di laico appartenente all'ordopoenitentium, impegnato in una pratica di vita all'insegna dell'ascesi corporale e dell'automortificazione, perseguita anche dopo la rinuncia al pellegrinaggio e l'opzione per lo stato di vita eremitico. Tale vocazione, maturata anche grazie al rapporto con Giovanni da Matera, spinge Guglielmo da Vercelli, abbandonato l'originario proposito di recarsi pellegrino in Terrasanta, a stabilirsi, intorno al 1118, a Montevergine (v.) per darsi a una vita di preghiera e di penitenza, che ben presto non tarda ad attirare seguaci. Il biennio successivo vede infatti, in linea con uno schema evolutivo riscontrabile in molte altre situazioni simili, radunarsi intorno all'eremita, grazie alla fama di santità che lo circonda, un piccolo gruppo di laici, uomini e donne, monaci e chierici, desiderosi di imitarne lo stile di vita. La comunità eremitica, che in tal modo si viene a creare, assume inizialmente come sistema di vita e di perfezione la stessa esperienza religiosa di Guglielmo che, incentrata sull'ideale della penitenza e sulla pratica del lavoro manuale, eliminava ogni differenza tra i tre Ordini interni alla Chiesa. La richiesta di acquistare libri liturgici e paramenti sacri, nonché di costruire una chiesa e delle cellette, avanzata in seguito dai chierici, ripropone in seno alla comunità una distinzione sulla base dell'officium dei sacerdoti tra questi ultimi da un lato e monaci e laici dall'altro, ma non pone in discussione gli ideali pauperistici né intacca la prassi di vita eremitica osservata, che anzi trova più chiara definizione in un preciso modello normativo formulato da Guglielmo sulla base della Institutio eremitarum di Pier Damiani. L'ipotesi di derivazione da quest'ultima della anachoritica norma, come è indicata nella Legenda S. Guilielmi, adottata a Montevergine, si regge sulla corrispondenza tra alcune di-sposizioni contenute nella Regola di Pier Damiani e alcune consuetudini e caratteristiche di vita religiosa degli eremiti verginiani tra cui, in particolare, il rifiuto del titolo di abate, sostituito con quello di priore, per il capo della comunità, la possibilità di accogliere fratres laici senza previa esperienza monastica, e, su un piano più generale, la rinunzia alla curaanimarum nonché al possesso di beni materiali, eccezion fatta per quelli indispensabili al sostentamento della comunità. La storiografia più recente, infatti, mediante un'attenta critica diplomatistica della fonti che ha dimostrato spuri non pochi documenti, ammette ormai, per questa prima fase, la totale estraneità sia di Guglielmo sia dei suoi seguaci a qualsiasi forma di attività pastorale organizzata, ritenendo infondata la tradizione secondo cui essi fin dalle origini attendessero all'officiatura di alcune chiese in Irpinia. Per tutto il periodo della permanenza di Guglielmo a Montevergine la comunità intorno a lui raccolta ebbe scarsi rapporti con il mondo politico ed ecclesiastico che la circondava, rimanendo fermamente ancorata, in osservanza della anachoritica norma data dal suo fondatore, a un modello di vita schiettamente eremitico che, incentrato sulla povertà e sul rifiuto dell'azione pastorale, non prevedeva la possibilità di fondare chiese dipendenti né di riceverne in dono, distanziandosi nettamente, in tal modo, dalle esperienze coeve di matrice benedettina. Alla luce di ciò, il problema della partenza di Guglielmo da Montevergine intorno al 1128, oggetto in passato di un vivace dibattito, viene riformulato in termini decisamente nuovi, dal momento che non pare ascrivibile al periodo delle origini l'inizio del processo che porterà gli eremiti verginiani ad adottare i modelli cenobitici tradizionali, ben rappresentati in area meridionale dagli esempi di Montecassino e Cava de' Tirreni. Il racconto della Legenda, unica fonte al riguardo, secondo cui l'allontanamento di Guglielmo sarebbe stato causato dai forti contrasti insorti con la comunità impaziente di abbandonare la vita eremitica per adottare uno stile di vita e un modello organizzativo più tradizionali, appare, infatti, un'evidente forzatura dovuta all'estensore del nucleo originario della biografia del vercellese. L'agiografo in questione, infatti, è stato identificato in un monaco proveniente dall'abbazia del Goleto, fondata successivamente dallo stesso Guglielmo e in competizione con Montevergine nella gestione della memoria del fondatore, ed era portato di conseguenza a esagerare la presenza di dissidi tra il santo eremita e i suoi primi seguaci al fine di far apparire fallimentare l'esperienza realizzata da questi ultimi. È molto più probabile quindi che la decisione di separarsi dalla sua comunità sia il frutto di una libera scelta di Guglielmo, desideroso di compiere altrove, come effettivamente fece, nuove esperienze di vita eremitica e penitenziale, in linea con l'evolversi della sua sensibilità religiosa.
La nuova fase, che si apre per Montevergine dopo l'allontanamento di Guglielmo nel 1128, copre l'arco di alcuni decenni, giungendo fin quasi alla fine del secolo, ed è contrassegnata dalla maturazione di una serie di importanti processi che trasformano profondamente, sul piano religioso e organizzativo, la fisionomia della comunità verginiana. Innanzitutto si assiste all'abbandono definitivo del modello di vita eremitico voluto da Guglielmo e alla progressiva assunzione, realizzatasi nel giro di due o tre decenni, delle forme tradizionali del cenobitismo benedettino.
Sebbene il dibattito sull'autenticità dei più antichi documenti di Montevergine, ravvivato dalla pubblicazione del Codice Diplomatico Verginiano, possa dirsi ancora sostanzialmente aperto, appare tuttavia definitivamente comprovata l'inautenticità di due privilegi concessi alla comunità del Partenio, attribuiti ai vescovi di Avellino Giovanni e Roberto e datati rispettivamente agli anni 1126 e 1133, su cui si era fondata per lungo tempo la tesi di un rapido adeguamento degli eremiti verginiani agli stili tradizionali di vita religiosa. A sostegno della tesi di una precoce adozione della Regola benedettina da parte dei Verginiani, è stato inoltre tradizionalmente portato come prova l'affidamento a questi ultimi, desunto unicamente da una notizia contenuta nella stessa Legenda, del monastero palermitano di S. Giovanni degli Eremiti. Poiché l'osservanza benedettina in esso è attestata con sicurezza già nel 1148 sulla base di un privilegio di Ruggero II, è stato possibile in tal modo ricavare un termine di riferimento adeguato per datare almeno approssimativamente l'adesione dei discepoli di Guglielmo all'Ordine di s. Benedetto. I dubbi sull'autenticità del diploma regio, le cautele avanzate circa l'attendibilità storica della Legenda e soprattutto l'assenza di qualsiasi riferimento all'abbazia palermitana nelle carte di Montevergine e di qualsiasi attestazione della presenza verginiana in Sicilia prima del sec. XIII sembrano, tuttavia, avere definitivamente infirmato la validità di una simile ricostruzione, che oggi viene respinta dalla maggioranza degli storici. Allo stato attuale delle conoscenze, in conclusione, l'assunzione del titolo abbaziale al posto di quello iniziale di priore operata fin dal 1136 dal successore di Guglielmo, Alberto, è l'unico indizio che consente di cogliere i mutamenti in atto nella comunità verginiana prima dell'adozione ufficiale della Regola benedettina avvenuta durante il governo dell'abate Roberto I tra il 1161 e il 1172. La conferma di ciò è contenuta in un privilegio di Alessandro III di cui abbiamo testimonianza attraverso la menzione di esso in una bolla di Celestino III del 1197, peraltro tramandata in una copia del sec. XVI. Lo stesso privilegio papale, dianzi citato, si mostra altresì di cruciale importanza anche perché contiene la prima attestazione certa dell'acquisizione da parte di Montevergine dell'esenzione dalla giurisdizione dell'ordinario diocesano, essendo stati dimostrati falsi, come si è detto, i documenti vescovili del 1126 e del 1133. Ulteriore conferma dell'esenzione vescovile si ha successivamente in un documento del 1185 emanato dal vescovo Guglielmo di Avellino.
La trasformazione della primitiva comunità eremitica in un cenobio benedettino esente dalla giurisdizione vescovile consente a Montevergine di acquisire un vasto patrimonio fondiario sull'esempio di Montecassino, S. Vincenzo al Volturno, Cava de' Tirreni, diventando così al termine dell'età normanna uno dei più ricchi proprietari terrieri dell'Irpinia. Il processo di formazione del patrimonio fondiario è quello tipico delle abbazie medievali, imperniato sulle donazioni pro remedio animae fatte dai fedeli al fine di ottenere la remissione dei peccati e la salvezza nell'aldilà. La tipologia dei beni donati è abbastanza varia. Accanto alle donazioni dei fondi agricoli, soprattutto vigneti e castagneti, fatte talvolta con riserva di usufrutto da parte del donatore, non mancano, infatti, donazioni di case, casalini, mulini e fabbricati di vario genere. Seguendo le linee di irradiazione del monachesimo verginiano, il flusso di donazioni genera un patrimonio fondiario e immobiliare assai sparso e frazionato, a cui l'abbazia tenta di dare continuità, nei limiti del possibile, mediante acquisti e permute. In linea con la prassi tipica adottata dalle istituzioni religiose medievali, i monaci verginiani non sempre gestiscono direttamente i beni in loro possesso, ma spesso li concedono in fitto, in cambio di censi in danaro o più spesso in natura, secondo le tipologie tradizionali dei contratti di enfiteusi e di pastinato. Nel giro di pochi decenni, in sostanza, i monaci abbandonano quasi del tutto il lavoro manuale, trasformandosi per lo più in abili gestori e amministratori dei vasti possedimenti agricoli di cui sono diventati proprietari. La formazione del patrimonio fondiario è inestricabilmente connessa con la diffusione del movimento verginiano su scala interregionale e con la sua capacità di penetrazione anche in aree, come il Cilento ad esempio, egemonizzate sul piano religioso da altre tradizioni monastiche. Durante il sec. XII, infatti, il monachesimo verginiano, divenuto compiutamente benedettino, manifesta una notevole capacità di irradiazione radicandosi, mediante la fondazione o l'acquisizione di chiese, monasteri, grange e priorati, in vaste aree territoriali, prima della Campania e poi dell'intero Mezzogiorno. Stando alle informazioni tratte dalla bolla di papa Celestino III del 4 novembre 1197, integrate dai dati ricavabili direttamente dai documenti dell'archivio di Montevergine, i monaci verginiani già sul finire del sec. XII erano presenti, anche se in maniera disomogenea, in tutte le cinque odierne province della Campania. Il vasto e diversificato aggregato di insediamenti, a vario titolo gestiti dai Verginiani, che in breve tempo si crea, viene strutturato in forma di vera e propria congregazione monastica, secondo un modello organizzativo verticistico di ascendenza cluniacense, ma ripreso in area meridionale dalle abbazie di Cava de' Tirreni e Montecassino, caratterizzato da un marcato centralismo amministrativo che ammetteva la presenza di un'unica grande abbazia a cui erano legate, secondo rigidi vincoli di dipendenza, tutte le altre case religiose, private di qualsiasi autonomia gestionale (Vitolo, 1983, p. 536).
Le relazioni che Montevergine intrattiene nel corso del XII sec., fino al cambio di dinastia, con la corte normanna sono ancora oggi materia di dibattito tra gli studiosi. Se da un lato, infatti, non mancano indizi di un certo interessamento da parte della Corona verso l'istituzione verginiana, di grande prestigio e influenza in un'area nevralgica come l'Irpinia ancora fortemente longobardizzata e agitata da sentimenti antinormanni, dall'altro lato, però, sembra che le relazioni tra Montevergine e i normanni siano state effettivamente alquanto scarse. Una riprova in tal senso è fornita dalla tradizione documentaria che comprende ben pochi documenti significativi attestanti rapporti con la dinastia normanna, laddove invece, ad esempio, per Cava de' Tirreni si conservano, anche se di alcuni è dubbia l'autenticità, ben ventisette diplomi regi. I quattro diplomi regi, rispettivamente due del 1137 e del 1140 attribuiti a Ruggero II e due del 1170 e del 1189 attribuiti a Guglielmo II, che rappresentano la totalità dei diplomi emanati da sovrani normanni in favore della congregazione verginiana, sono stati, infatti, dimostrati falsi. La tesi, fondata sulla testimonianza di tali documenti, del conferimento a Montevergine, già in età normanna, di poteri giurisdizionali sulle terre del proprio patrimonio è pertanto definitivamente tramontata e ciò, su un piano più generale, ha molto contribuito a ridimensionare nell'opinione degli studiosi il convincimento dell'esistenza di solide e buone relazioni tra la corte e i Monaci verginiani.
I rapporti di Montevergine con il potere politico registrano una svolta netta con l'avvento della dinastia sveva e l'ascesa al trono di Enrico VI. La storiografia più recente, infatti, facendo giustizia di luoghi comuni acriticamente accettati in passato, ha modificato sostanzialmente la visione tradizionale dei rapporti tra Montevergine e il primo sovrano svevo, considerato ora come un autentico benefattore piuttosto che uno sfruttatore dell'abbazia, dal momento che, tra l'altro, si è rivelata completamente infondata la notizia di una sua visita al cenobio, in occasione della quale ne avrebbe depredato il tesoro. L'azione di Enrico VI nei confronti dell'abbazia verginiana risulta caratterizzata soprattutto dalla volontà di attribuire ufficialmente ad essa un ruolo politico nel quadro della complessa organizzazione feudale del Regno. Con due diplomi emessi lo stesso giorno, il 30 marzo 1195, Enrico VI attribuisce infatti a Montevergine l'immunità regia e soprattutto concede, sottraendolo ai Montefalcione dichiaratamente filonormanni, il feudo di Mercogliano con relativi poteri baronali e diritti giurisdizionali annessi. In tal modo l'abbazia diviene un vero e proprio feudo sine servitio di investitura regia, acquisendo un effettivo potere politico e incardinandosi pienamente nella struttura feudale del Regno svevo.
Le intense relazioni di collaborazione dei monaci verginiani con la corte vengono mantenute anche sotto il suo successore, Federico II. Sebbene il problema riguardante, in generale, l'atteggiamento di quest'ultimo verso le singole abbazie e le istituzioni monastiche complessivamente presenti nel Regno resti ancora in parte da chiarire, il legame con Montevergine sembra essersi configurato fin dall'inizio abbastanza intenso e continuativo nel tempo. Su centoquattro documenti emessi dalla Curia imperiale in favore di monasteri latini del Mezzogiorno peninsulare, ben ventidue risultano, infatti, destinati a Montevergine. Racchiusi in un arco cronologico di oltre quarant'anni, i diplomi federiciani emessi in favore dei Verginiani segnano le fasi principali dell'itinerario biografico e politico del sovrano svevo, testimoniando la durevole continuità di un atteggiamento protettivo e benevolo che attraversa senza vistose oscillazioni anche i momenti di più accentuata rivendicazione delle prerogative del potere regio e di più aspro scontro con il papato. La serie dei documenti si apre con un atto di donazione, ad opera dello stesso sovrano, di 6 corbe di terreno demaniale nelle pertinenze di Maddaloni, al fine di consentire ai monaci la costruzione di una chiesa con gli edifici annessi. Rilevante è la data di emanazione, marzo 1206, che ricade durante il periodo di minorità di Federico II: periodo in cui, per volontà della madre Costanza, morta nel 1198, egli era affidato alla tutela di papa Innocenzo III. La scelta della località in cui viene richiesta la donazione non è frutto di casualità, ma al contrario si colloca all'interno di una precisa strategia insediativa di lungo periodo che mirava a rafforzare il radicamento dei monaci di Montevergine nel Casertano, facendo di Maddaloni uno dei poli di maggior rilevanza della loro presenza in quel territorio. Essa, infatti, vi risulta attestata fin dal 1178 allorché, nel mese di febbraio, ricevono in dono da Altruda di Maddaloni un appezzamento di terra posto nei pressi dell'abitato, e nell'ottobre dello stesso anno Rossemanno, preposito di Montevergine, concede in fitto terreni situati nella stessa zona a Guglielmo della Rocca, con l'impegno di quest'ultimo e dei suoi successori a diventare uomini ligi dell'abbazia. Dopo circa vent'anni, in cui si registrano acquisti e donazioni di terre situate in varie località del suo territorio, nel 1196 è documentata l'esistenza a Maddaloni di un ospedale di proprietà dei Verginiani che, inizialmente affidato alle cure di un custode, appare invece, a partire dal 1199, retto da un priore. Al 1208 risale la concessione da parte del vescovo di Caserta, Stabile, della facoltà di fondare in Maddaloni una chiesa, con campane e diritto di cimitero, che viene intitolata a S. Maria e risulta costruita prima del luglio 1209, data di un privilegio di Innocenzo III che ne conferma il possesso all'abbazia di Montevergine. La donazione di otto casate di coloni residenti nel territorio di Maddaloni, inclusa nel privilegio del 1209 con cui Federico II concede la sua speciale protezione a Montevergine, consolida definitivamente la presenza verginiana nel centro casertano.
Nel 1219, al termine di un decennio denso di avvenimenti, in cui si susseguono l'avventura imperiale di Ottone IV di Brunswick (1209-1214), il viaggio di Federico in Germania e la sua incoronazione a re dei Romani (1212), la morte di Innocenzo III (1216) e la promessa dello Svevo al successore Onorio III di guidare la crociata in cambio della possibilità di unire il Regno di Sicilia e l'Impero, Federico II emana da Augusta, sulla via del ritorno in Italia, un terzo privilegio in favore di Montevergine, con il quale, anticipando una linea di condotta che sarà formalizzata successivamente, conferma al monastero tutte le donazioni e concessioni fatte da conti e altri signori dopo la morte del re Guglielmo II, tra le quali si segnala il territorio della Roccella con le chiese di S. Salvatore e S. Maria, primo insediamento verginiano in Sicilia, donato nel 1216 dal conte Paolo Cicala di Collesano. Un'ulteriore conferma dei possessi dell'abbazia viene ribadita nel dicembre 1220 insieme alla concessione dell'esenzione da ogni tipo di gabella, alla ratifica dell'immunità, del diritto d'asilo, dei poteri giurisdizionali nelle cause civili e in particolare del diritto, acquisito a seguito di una donazione in tal senso fatta al monastero dal conte Matteo di Lesina, di riscuotere annualmente 60 serte di anguille dal lago omonimo ai piedi del Gargano.
L'incoronazione imperiale del 1220 e il ritorno definitivo in patria segnano uno spartiacque nella vicenda politica di Federico II, aprendo una nuova fase, che culminerà poi nella promulgazione delle Costituzioni di Melfi (1231), contrassegnata dall'esigenza di operare un riassetto generale dell'organizzazione interna del Regno sul piano giuridico, burocratico e istituzionale al fine di pervenire a una piena e completa restaurazione dell'autorità regia, gravemente inficiata dalle usurpazioni di beni del demanio e diritti pubblici da parte dei signori feudali delle comunità cittadine nel trentennio precedente. In questo orizzonte politico si collocano i provvedimenti presi durante la dieta di Capua del dicembre 1220, tra cui spiccano il divieto per le città di eleggere autonome magistrature di governo, l'obbligo di abbattimento dei castelli costruiti abusivamente e, di particolare rilievo per i riflessi sulla tradizione documentaria, l'obbligo di riesaminare tutti i privilegi concessi a partire dalla morte di Guglielmo II nel 1189. Tale disposizione, nota come Edictum de resignandis privilegiis (v.), imponendo una verifica generale dei titoli di legittimità di beni materiali e poteri giurisdizionali acquisiti, fornisce la chiave di lettura di gran parte dei documenti successivamente emanati dalla cancelleria imperiale in favore di Montevergine, rendendo ragione, oltre che delle già menzionate falsificazioni dei diplomi normanni, tanto delle continue richieste di conferma di possedimenti e diritti ottenuti dall'abbazia dopo il termine a quo del 1189, quanto dei reiterati ammonimenti del sovrano rivolti agli ufficiali del Regno affinché non molestino i monaci rivendicando al demanio regio beni di loro legittima proprietà. Nel maggio 1221, infatti, Federico II conferma le persone e i terreni da lui precedentemente donati nel territorio di Maddaloni; in ottobre conferma il feudo della Roccella riservandosi il diritto di installarvi, se necessario, una postazione militare; nel dicembre del 1222, con due diplomi emessi rispettivamente il 17 e il 18, conferma tutte le libertà e le immunità acquisite, a partire dal regno di Guglielmo II, dall'abbazia e dalle sue dipendenze e proibisce agli ufficiali regi di confiscarne i possessi devolvendoli al demanio; nel 1223, confermando il possesso legittimo di tutti i beni donati dai conti di Gesualdo e dai baroni di Pietrelcina, ordina di non apporre sul privilegio la clausola salvatoria dei diritti regi, poiché essa dava adito ai tentativi di confische patrimoniali da parte dei funzionari; con un documento successivo, emesso nello stesso anno, ratifica beni e diritti concessi a Montevergine dai suoi genitori, dopo aver verificato l'autenticità dei privilegi presentati dall'abate Giovanni in ottemperanza alle disposizioni di legge emanate a Capua. Nel febbraio del 1224, infine, l'imperatore svevo, appurata la validità dei documenti esibiti, riconosce e conferma all'abate del cenobio verginiano anche i poteri giurisdizionali, con la conseguente facoltà di presiedere e giudicare le cause civili. I privilegi emessi successivamente, fino all'ultimo risalente all'anno della morte del sovrano (1250), per quanto non arricchiscano di elementi sostanziali il quadro, così delineato, dei suoi rapporti con l'abbazia del Partenio, nondimeno ribadiscono ulteriormente la notevole attenzione che il sovrano svevo, lungo tutto l'arco della sua esistenza, ebbe per Montevergine. Le ragioni di ciò, al di là delle valutazioni circa la religiosità personale di Federico II e i sentimenti di particolare devozione verso il cenobio irpino inculcatigli dalla madre Costanza, possono essere più realisticamente individuate nella linea di condotta seguita dai Verginiani nei confronti del potere e, in generale, rispetto a tutta la vita politica del Regno. L'atteggiamento che essi adottano su questo terreno risulta essere, infatti, caratterizzato dal totale disimpegno dalla lotta politica, scevro, in misura pressoché totale, da qualsiasi forma di coinvolgimento e intromissione nelle vicende interne dello stato, con un'adesione marcata, anche rispetto ad altre realtà monastiche coeve, alla pratica del distacco dai saecularia negotia. La programmatica rinunzia, pertanto, a prendere parte al conflitto politico e ideologico che contrappose il potere imperiale al papato, se da un lato guadagnò all'abbazia di Montevergine l'affetto e la devozione delle popolazioni locali che in essa trovavano sempre un solido punto di riferimento, dall'altro procurò, molto probabilmente, anche i favori di Federico II.
Tra i molteplici aspetti relativi alla storia di Montevergine e della sua congregazione, particolarmente complesso si presenta lo studio della spiritualità verginiana. Il tema, di fondamentale importanza, è reso arduo dalla tipologia di fonti storiche disponibili, costituite in massima parte da atti di donazione, istrumenti notarili di permuta e compravendita di beni e da documenti privati in genere, che risultano inadeguati all'oggetto della ricerca, fornendo scarsi elementi di valutazione intorno agli aspetti specifici di vita spirituale e alle forme peculiari dell'esperienza religiosa verginiana. La mancanza, riscontrabile anche per altre realtà del monachesimo meridionale, di testi, di consuetudini e di opere di carattere più propriamente liturgico impedisce, infatti, di definire i caratteri propri dello stile di vita praticato all'interno della comunità monastica. L'esigenza di cogliere lo 'specifico' della spiritualità verginiana investe in maniera minore il periodo delle origini per il quale, grazie anche alla presenza di una fonte agiografica come la LegendaS. Guilielmi, appare ormai definitivamente assodato il carattere laicale di impronta eremitica e penitenziale proprie del movimento verginiano. Il cuore della questione risiede pertanto nel valutare il grado di permanenza e di continuità di queste caratteristiche peculiari di vita religiosa attraverso il lungo processo evolutivo che, dopo la partenza del fondatore, porta Montevergine ad allinearsi, sul piano istituzionale e organizzativo, come si è visto, alle esperienze coeve del monachesimo cassinese-cavense. A tale problema la storiografia più recente, pur con le cautele dettate dalla situazione delle fonti cui prima si è fatto cenno, ritiene di poter fornire una risposta individuando nel rapporto privilegiato, intrattenuto fin dalle origini, con il mondo dei laici il tratto caratterizzante e distintivo del monachesimo verginiano durante tutta la sua storia.
Lo si vede innanzitutto dalla particolare strategia insediativa adottata dai monaci del Partenio, che per molti versi può essere accostata, come ha mostrato Giovanni Vitolo, a quella, successiva, degli Ordini mendicanti. Gli insediamenti verginiani, infatti, sorgono prevalentemente in prossimità di centri abitati o addirittura in ambienti urbani veri e propri, a differenza, ad esempio, delle coeve fondazioni cavensi, collocate prevalentemente in aperta campagna, secondo le modalità insediative tradizionali del monachesimo benedettino. I Verginiani in tal modo, ben prima degli Ordini mendicanti, la cui diffusione in area meridionale diviene significativa solo nella seconda metà del Duecento, si radicano nei principali centri urbani della Campania: Napoli, Capua, Salerno, Avellino, Benevento, Nola, Nocera.
Lo stretto raccordo tra monachesimo verginiano e mondo dei laici si manifesta in maniera evidente, inoltre, nella diffusione ampia e assai articolata del fenomeno dell'oblazione. Gli oblati di Montevergine costituiscono, infatti, una categoria alquanto eterogenea che, ad eccezione dei fanciulli, risulta formata da uomini e donne di estrazione sociale, condizione economica e posizione familiare molto diversificata. Non meno variegate sono le forme in cui si esplica l'oblazione stessa. Accanto a quella di singoli individui è presente infatti l'oblazione di interi nuclei familiari e accanto a oblati che abbracciano la vita claustrale, chiedendo di essere accolti nel monastero come frati conversi, non mancano quelli, la maggior parte, che dopo aver donato se stessi e i loro beni, di cui spesso mantengono l'usufrutto vita natural durante, preferiscono rimanere nelle proprie case accettando di condurre vita penitenziale. Il ruolo degli oblati verginiani, tuttavia, è importante precisarlo, non si configura necessariamente come subalterno nei confronti della comunità monastica vera e propria. Essi non sempre si limitavano a essere i beneficiari passivi dei conforti spirituali e degli aiuti materiali elargiti dai monaci, ma al contrario spesso rivestivano ruoli di notevole importanza nell'ambito dell'organizzazione della congregazione. Le fonti, infatti, testimoniano numerosi casi in cui oblati vengono nominati procuratori del monastero, assumendone la rappresentanza legale in occasione di negozi giuridici, o gestiscono direttamente beni monastici e istituzioni assistenziali.
Una riprova ulteriore dello stretto rapporto intrattenuto da Montevergine con il mondo dei laici è fornita dall'esistenza del Necrologio verginiano, compilato agli inizi del XVI sec. sulla base di un testo risalente al 1403, a sua volta derivato da un elenco obituario più antico come prova la menzione di personaggi vissuti nel sec. XIII (Monachesimo, 1990). In esso sono inseriti, su decisione del capitolo abbaziale o dietro loro esplicita richiesta, i nomi dei benefattori partecipi dei benefici spirituali della comunità monastica, a cui ciascuno di essi era legato da un rapporto di natura individuale che non implicava affatto l'esistenza di una confraternita, come pure in passato è stato sostenuto. Il tratto caratterizzante del Necrologio verginiano, che lo differenzia da testi analoghi, di provenienza ad esempio cassinese, riservati quasi esclusivamente ai membri del monastero o della congregazione nel cui ambito venivano prodotti, risiede principalmente nella composizione sociale degli iscritti, costituiti per la maggior parte da laici non titolati di condizione socio-economica medio bassa. Ciò conferma ancora una volta il successo della spiritualità verginiana e dimostra come l'influenza della comunità monastica si estendesse sul mondo circostante a tutti i livelli sociali.
Un elemento essenziale nella vita della comunità monastica, che al pari degli altri getta un ponte verso il mondo laicale, è rappresentato dall'assistenza ospedaliera offerta ai poveri e ai pellegrini.
Fin dai secc. XII-XIII, infatti, i monaci del Partenio gestivano, di fondazione propria o ricevuti in dono da pii laici, numerosi ospedali-ospizi in varie località della Campania e della Puglia. Dal 1196 infatti, gestiscono un ospedale a Maddaloni; nel 1203 fondano un ospedale a Troia, in Puglia, e nel 1209 ne ricevono in dono un altro in località Gausenta presso Eboli. Una bolla di Urbano IV del 1264 conferma inoltre ai monaci di Montevergine il possesso di ospedali in Eboli, Salerno, Nocera e Apice. Nell'ambito degli istituti assistenziali verginiani, infine, menzione particolare merita l'ospedale dedicato a s. Tommaso non solo per la sua antichità, risultando documentato già nel 1166, e per la sua collocazione strategica ai piedi del monte Partenio e quindi molto vicina a Montevergine, ma soprattutto per la capacità che esso ebbe di incidere sulle dinamiche insediative della zona costituendosi come nucleo originario dell'attuale centro abitato di Ospedaletto d'Alpinolo (Vitolo, 1998, p. 86).
Lo strumento principale adottato dai Verginiani nella loro opera di animazione religiosa del laicato è rappresentato senza dubbio dalla diffusione della devozione mariana, connessa strettamente al pellegrinaggio al monte Partenio. L'origine di tale pratica, tuttora diffusa nell'entroterra campano, risulta alquanto oscura a causa della scarsità di fonti. Se da un lato infatti è possibile datare, almeno approssimativamente, l'inizio della pratica del pellegrinaggio, individuando come termine aquo l'anno 1139, grazie a un documento coevo in cui la chiesa è indicata come meta di fedeli che vi si recano per invocare il perdono dei peccati, dall'altro lato appare arduo spiegare che cosa realmente abbia attratto i pellegrini sul Partenio a pochi anni di distanza dalla partenza di Guglielmo. La Legenda S. Guilielmi, unica fonte al riguardo di una certa ampiezza, attribuisce espressamente alla figura di Guglielmo, alla fama di santità di cui è circondato, l'afflusso di pellegrini a Montevergine. Tale spiegazione non appare, tuttavia, pienamente convincente. La Legenda è stata redatta, come si è detto, in gran parte dal monaco Giovanni dell'abbazia del Goleto e riflette, su questo punto come su altri, i rapporti di competizione più o meno esplicita che si vennero a instaurare tra quest'ultima e l'abbazia di Montevergine. Dal testo, infatti, traspare in maniera evidente l'intenzione dell'autore di diffondere il culto di s. Guglielmo promuovendo il pellegrinaggio sulla tomba di questi, situata proprio al Goleto, in concorrenza con il pellegrinaggio mariano a Montevergine. Alla luce di ciò, pertanto, ben si comprende come l'agiografo, monaco del Goleto, fosse intenzionato a esaltare la figura di Guglielmo attribuendo a lui solo, alle sue virtù di asceta e taumaturgo, la capacità di attrarre fedeli e di dar vita a un flusso di pellegrini, fin da quando, ancora vivente, dimorava sul Partenio in seno alla prima comunità eremitica. In realtà, stando ai dati certi in nostro possesso, risulta difficile sostenere tale posizione, innanzitutto perché la prima attestazione certa del pellegrinaggio risale a un periodo (1139) in cui Guglielmo aveva già abbandonato Montevergine, lasciando la comunità alle cure del suo discepolo Alberto, e poi soprattutto perché, a dispetto degli sforzi dell'agiografo, pare che non sia mai decollato un pellegrinaggio sulla tomba del santo al Goleto né vi sono prove di una diffusione significativa del suo culto in Irpinia. Il pellegrinaggio a Montevergine, quindi, risulta essere stato fin dalle origini alimentato da un culto mariano particolarmente sentito dalle popolazioni locali, preesistente all'arrivo dello stesso Guglielmo e dei suoi primi seguaci e, probabilmente, da questi ripreso e rilanciato. Il pellegrinaggio verginiano, infatti, fin dalle origini assume, mantenendole inalterate nel tempo, le caratteristiche di pellegrinaggio popolare praticato soprattutto, anche se non esclusivamente, dagli strati umili e medi della società, differenziandosi da altre esperienze coeve, come quella cassinese, di carattere prevalentemente elitario. Ai fini del problema costituito dalla definizione dei tratti specifici della spiritualità verginiana quello su cui importa insistere, conclusivamente, è la centralità che il pellegrinaggio assume nella vita religiosa dell'abbazia, divenendone la componente principale e in pratica il fulcro intorno a cui si caratterizza in maniera specifica la spiritualità del monachesimo verginiano (Vitolo, 2002, p. 388).
Fonti e Bibl.: G. Mongelli, Abbazia di Montevergine. Il regesto delle pergamene, I-V, Roma 1956-1962; Legenda S. Guilielmi, a cura di G. Mongelli, Montevergine 1962; Codice Diplomatico Verginiano, a cura di P.M. Tropeano, I-XIII, ivi 1977-2000; Monachesimo e mondo dei laici nel Mezzogiorno medievale. Il necrologio di Montevergine, a cura di M. Villani, Altavilla Silentina 1990; P.M. Tropeano, Federico II e Montevergine. Documentazione archivistica, marzo 1206-luglio 1250, Montevergine 1995. C. Acocella, Perché San Guglielmo andò via da Montevergine, Avellino 1942; G. Del Guercio, Come e perché San Guglielmo andò via da Montevergine, S. Angelo dei Lombardi 1942; G. Valgara, Perché San Guglielmo andò via da Montevergine, Benevento 1942; G. Mongelli, S. Guglielmo da Vercelli, Montevergine 1960; Id., Storia di Montevergine e della Congregazione verginiana, I-VIII, Avellino 1965-1978; M.A. Tallarico, L'abbazia di Montevergine nell'età normanna: formazione e sviluppo di una potenza economica e politica, "Samnium", 45, 1972, pp. 197-231; P.M. Tropeano, Montevergine nella storia e nell'arte. Periodo normanno-svevo, Napoli 1973; Id., Montevergine nella storia e nell'arte. 1266-1381, Montevergine 1978; C. Carlone, Il problema dei falsi ed alcune presunte dipendenze verginiane, "Samnium", 52, 1979, pp. 78-102; M. Fuiano, Movimenti religiosi in Italia meridionale nella prima metà del secolo XII, "Studi Storici Meridionali", 1, 1981, pp. 5-24; G. Andenna, Guglielmo da Vercelli e Montevergine: note per l'interpretazione di una esperienza religiosa del XII secolo nell'Italia meridionale, in L'esperienza monastica benedettina e la Puglia, I, Galatina 1983, pp. 87-118; S. Leone-G. Vitolo, Minima Cavensia. Studi in margine al IX volume del Codex Diplomaticus Cavensis, Salerno 1983; G. Vitolo, Eremitismo, cenobitismo e religiosità laicale nel Mezzogiorno medievale. A proposito di alcune recenti pubblicazioni, "Benedictina", 30, 1983, pp. 531-540; C. Carlone, Falsificazioni e falsari cavensi e verginiani nel sec. XIII, Salerno 1984; La società meridionale nelle pergamene di Montevergine. Atti del primo Convegno internazionale (Loreto, 28-31 ottobre 1980), Montevergine 1984; R. Manselli-E. Pasztor, Il monachesimo nel basso Medioevo, in Dall'eremo al cenobio. La civiltà monastica in Italia dalle origini a Dante, Milano 1987, pp. 67-124; La società meridionale nelle pergamene di Montevergine. I Normanni chiamano gli Svevi. Atti del secondo Convegno internazionale (Montevergine, 12-15 ottobre 1987), Montevergine 1989; G. Vitolo, 'Vecchio' e 'nuovo' monachesimo nel regno svevo di Sicilia, in Friedrich II. Tagung des Deutschen Historischen Instituts in Rom im Gedenkjahr 1994, a cura di A. Esch-N. Kamp, Tübingen 1996, pp. 182-200; Id., Religiosità delle opere e monachesimo verginiano nell'età di Federico II, in Federico II e Montevergine, a cura di P.M. Tropeano, Roma 1998, pp. 77-93; F. Panarelli, Verginiani e Pulsanesi, in Dove va la storiografia monastica in Europa?, a cura di G. Andenna, Milano 2001, pp. 403-418; G. Vitolo, Santuari e pellegrinaggi nella Campania medievale. L'esempio di Montevergine, in Per una storia dei santuari cristiani d'Italia: approcci regionali, a cura di G. Gracco, Bologna 2002, pp. 383-394.