vergogna
Una prima, generica definizione della v. si legge in Cv III VIII 10, dove D., sulla traccia della partizione aristotelica, enumera le sei passioni [intese come " qualità " o " moti dell'anima ": v. PASSIONE]... propie de l'anima umana; che sono grazia, zelo, misericordia, invidia, amore e vergogna. E poiché non è possibile che l'anima sia presa da una di queste passioni senza che a la finestra de li occhi non vegna la sembianza, Edipo si trasse li occhi, perché la vergogna d'entro non paresse di fuori (cfr. Stat. Theb. I 46-48).
Più precisa la definizione nel IV trattato. Nel commento a Le dolci rime 105-106, D. scrive: ‛ E noi in donna e in età novella... vedem questa salute ': e tocca nobilitade, che bene è vera salute, essere là dove è vergogna, cioè tema di disonoranza, sì come è ne le donne e ne li giovani, dove la vergogna è buona e laudabile; la qual vergogna non è virtù, ma certa passione buona (XIX 8; cfr. Arist. Eth. Nic. IV 15 " Verecundiam... ut quandam virtutem non convenit dicere. Passioni enim magis assimilatur, quam habitui ", commentato da s. Tommaso lect. XVII n. 867 ss.; in Sum. theol. II II 144 la verecundia è posta prima tra le virtù [1 5]; ma poi, in considerazione del fatto che " repugnat perfectioni ", si afferma che " proprie loquendo, non est virtus " [1c], fino a concludere: " verecundia est timor turpitudinis et exprobrationis " [ad 2], si noti che per D. la ‛ verecundia ' s'identifica con la v.). La trattazione continua con esplicito richiamo ad Aristotele, e tocca il punto del convenirsi della v. alle donne e ai giovani: secondo che vuole lo Filosofo ne quarto de l'Etica, " vergogna non è laudabile né sta bene ne li vecchi e ne li uomini studiosi ", però che a loro si conviene di guardare da quelle cose che a vergogna li conducano (XIX 9), mentre nei giovani e nelle donne è laudabile la paura del disnore ricevere per la colpa, atteggiamento, questo, che è indice di nobilitade (cfr. anche XIX 5 e XXV 3, due volte; inoltre, per il concetto, Le dolci rime 105-108): perciò, ottimo segno di nobilitade è ne li pargoli e imperfetti d'etade, quando dopo lo fallo nel viso loro vergogna si dipinge (XIX 10. Si noti che qui il sostantivo designa propriamente non il sentimento, ma l'effetto di esso, il " rossore ", come in altri casi per i quali v. oltre).
Più oltre la passione de la vergogna è presentata come una delle quattro cose fornite da natura all'adolescenza, necessarie a lo entrare ne la cittade del bene vivere (IV XXIV 11). D. avverte l'importanza di questa ‛ passione ' e quindi l'opportunità di parlarne con diligenza, cioè di enunciarne le caratteristiche precise: Dico che per vergogna io intendo tre passioni necessarie al fondamento de la nostra vita buona, cioè stupore, pudore e verecundia, la quale ultima risponde alla necessità, propria dell'adolescenza, d'essere penitente del fallo, sì che non s'ausi a fallare (XXV 4, con una seconda occorrenza del termine. Cfr. anche al § 10, terza occorrenza; § 11). Infatti la verecundia è una paura di disonoranza per fallo commesso, da cui nasce un pentimento del fallo, lo quale ha in sé una amaritudine che è gastigamento a più non fallire, sicché quando Polinice fu domandato da Adrasto rege del suo essere... dubitò prima di dicere, per vergogna del fallo che contra lo padre fatto avea, e ancora per li falli d'Edippo suo padre, ché paiono rimanere in vergogna del figlio (XXV 10, con riferimento a Stat. Theb. I 671 ss.; da notare l'uso delle locuzioni). Si aggiunga qui CVIII X 7.
Nel Convivio dunque la v. è vista come un fatto ‛ laudabile ', positivo, in quanto riconoscimento della colpa commessa e ammonimento a più non fallire; così anche in alcuni luoghi della Commedia, in situazioni di cui talvolta è protagonista D. stesso. Per esempio, quando Virgilio gli rimprovera lo stare del tutto fisso alla disputa fra Maestro Adamo e Sinone (If XXX 130), D. si volge verso lui con tal vergogna (v. 134) da indurre il maestro non solo al perdono, ma addirittura a una parola di conforto: Maggior difetto men vergogna lava / ... che 'l tuo non è stato; / però d'ogne trestizia ti disgrava (v. 142; " Chi si vergogna, si pente... e riducesi all'obedienzia dell'intellecto. Adunque basta allo 'ntellecto tale vergogna, perché quando vede l'appetito essergli ubbidiente, sempre gli sta al lato, et admoniscelo e reggelo: e l'appetito, riguardando in lui, si guarda di non incorrer più in errore ", Landino).
Più grave il senso di colpa che D. prova nel Paradiso terrestre, dopo le prime, severe parole di Beatrice (" ... Come degnasti d'accedere al monte? / non sapei tu che qui è l'uom felice? ". / Li occhi mi cadder giù nel chiaro fonte; / ma veggendomi in esso, i trassi a l'erba, / tanta vergogna mi gravò la fronte, Pg XXX 78) e soprattutto dopo gli aspri rimproveri di lei che, nonostante le molte lagrime di pentimento del suo fedele, prosegue: Tuttavia, perché mo vergogna porte / del tuo errore, e perché altra volta, / udendo le serene, sie più forte... (XXXI 43: si ricordi il passo di Cv IV XXV 10, citato). Soltanto più tardi, dopo l'immersione nel Lete e la conclusione della prodigiosa vicenda del carro della Chiesa, Beatrice si rivolge al poeta con tranquillo aspetto (XXXIII 19) e lo invita a un diverso stato d'animo: Da tema e da vergogna / voglio che tu omai ti disviluppe (v. 31).
Di tutt'altro tipo è la v. di Vanni Fucci - e infatti il poeta la definisce trista, " propria d'uomo tristo, ben diversa da quella ‛ che fa l'uom di perdon talvolta degno ' " (Scartazzini-Vandelli, con riferimento a Pg V 21) -, determinata non dal pentimento della colpa commessa, bensì dall'ira di essere stato colto lì fra i ladri, e per giunta, " lui Nero, da uno di Parte Bianca ", come osservano ancora Scartazzini-Vandelli: D. dichiara di averlo conosciuto omo di sangue e di crucci (If XXIV 129) e il dannato, che 'ntese, non s'infinse / ... e di trista vergogna si dipinse (v. 132). Anche qui v. indica il " rossore ", e ricorre con lo stesso verbo ‛ dipingere ' che si ha nel passo di Cv IV XIX 10, già citato; così ancora in Rime CXVII 14 (Lisetta... / tutta dipinta di vergogna riede: " il rossore merita per definizione perifrasi ", dice il Contini, citando il passo di Pg V 21 ricordato anche da Scartazzini-Vandelli: alquanto del color consperso / che fa l'uom di perdon talvolta degno), in If XXXII 34 e in Pd XVIII 66, dove il rossore è indicato con la perifrasi di vergogna il carco.
In quest'ultimo caso (e osservazione analoga si può fare per gli altri due ora ricordati), trattandosi del trasmutare di una bianca donna, la quale " vergognandosi diventa vermillia e poi diventa tosto bianca, come era prima " (Buti) quando 'l volto / suo si discarchi di vergogna il carco, il concetto di v. non si lega necessariamente a quello di colpa, ma può indicare " pudore ", " ritegno " di scoprire i sentimenti più intimi o di mostrarsi agli altri in una condizione d'inferiorità anche umiliante: per il pensiero di Beatrice morta sì fatto divento, / che da le genti vergogna mi parte (Vn XXXI 14 53, personificato); volendo far come coloro / che per vergogna celan lor mancanza, / di fuor mostro allegranza, / e dentro de lo core struggo e ploro (VII 6 18). Caratteristico in tal senso l'esempio di Provenzano Salvani, che proprio all'apice del potere, per aiutare l'amico prigioniero, nel Campo di Siena, / ogne vergogna diposta, s'affisse a chiedere l'elemosina (Pg XI 135; cfr. la biografia francescana di s. Bonaventura, citata da Casini-Barbi: " deposita omni verecundia... mendicabat "; bene anche il Porena: " non che non si vergognasse, ché in ciò era anzi il suo tormento; ma non ascoltò la voce della vergogna ").
Piuttosto per " discrezione ", " riservatezza ", in Fiore CLXXV 12 Sire, / a questa donna una roba bisogna, / ma sì vi teme che nol v'osa dire. / Gran danno le ha già fatto vergogna, / ma vo' sì nol dovreste sofferire!
Un passo controverso è quello di Pg XX 62 Mentre che la gran dota provenzale / al sangue mio non tolse la vergogna, / poco valea, ma pur non facea male: Ugo Capeto allude, par bene, al fatto che, con le nozze fra Beatrice, figlia di Raimondo Beringhieri, e Carlo I d'Angiò, la contea di Provenza passò alla Francia. Secondo Benvenuto, D. " vult dicere, quod ante istud factum ista domus habebat unam verecundiam, quia dicebatur de obscuritate et ignobilitate originis. Sed post istud factum coeperunt homines dicere de avaritia et iniustitia in verecundiam istorum, ita quod maior verecundia et infamia abstulit primam "; e su questa linea sono il Buti, il Landino e altri. Senonché (Casini-Barbi) " è manifesto che Dante parla di vergogna in senso morale, volendo dire che i capetingi incominciarono a non arrossire più delle opere malvage ", in quanto " [non] c'era bisogno della Provenza per far dimenticare quelle origini a una famiglia che da tre secoli regnava su tanta parte della Francia " (Porena; l'osservazione è già nel Tommaseo). La v. è dunque " pudore al mal fare " (Chimenz), " ritegno " a commettere male azioni, come intendono, fra altri meno recenti (Lombardi), anche il Del Lungo, Scartazzini-Vandelli, Grabher, Mattalia (" Cette ‛ dot ' vraiment royale acquise per les Capétiens leur fit tourner la tête, dit Dante, et leur ôta toute vergogne ", Pézard). Merita forse di essere registrato anche ciò che scrive il Cesari: " Vuol dire che la povertà antica mantenea in que' Re il freno naturale della vergogna del ladroneggiare, ma acquistata la Provenza e aggrandito il Regno, la vergogna fu reputato uno scrupolo femminile: il che non è una ciancia. Infatti, lì cominciò con forza e con menzogna la sua rapina. Zucche! Chi ha gran forza non ha dovere di osservar fede, ed allora ‛ nessun riparo vi può far la gente ' ".
La v. può derivare anche dall'incapacità di svolgere un compito di cui invece si dovrebb'essere all'altezza (grande vergogna sarebbe a colui che rimasse cose sotto vesta di figura o di colore rettorico, e poscia, domandato, non sapesse denudare le sue parole da cotale vesta, in guisa che avessero verace intendimento, Vn XXV 10) o dal timore di sfigurare (vergogna... innanzi a buon segnor fa servo forte, If XVII 89 [personificato: cfr. Petrocchi, ad l.]; " molti soldati fuggirebbono se non fossero veduti, li quali in presenza de' capitani si fermano, temendo infamia ", osserva qui il Castelvetro); o può identificarsi col " rammarico " da cui è preso Amore considerando le tristi condizioni di Drittura (Rime CIV 38), o ancora, in situazioni del tutto diverse, col " disonore ": D. si duole della miseria cui è giunta l'Italia la quale non sa valersi del freno delle leggi, osservando che sanz'esso fora la vergogna meno (Pg VI 90), o bolla come colpa e vergogna de l'umane voglie il fatto che soltanto di rado si debbano cogliere rami di alloro di cui far corone per trïunfare o cesare o poeta (Pd I 30, che si può accostare, anche per il tipo dell'espressione, a XXIX 84).
In Fiore LXXXV 114 Chi tal rob'hae [cioè la roba del buon frate Alberto, v. 13], non teme mai vergogna, l'espressione equivale a " non teme di essere svergognato " (Petronio; probabilmente lo stesso valore in CCXXI 4, nella locuzione ‛ far grande vergogna '); in CCXI 6 Tu non temi aver vergogna / di me, ancora il Petronio spiega " non teme di ricevere vergogna per causa mia ".
Con valore quasi concreto nelle parole di Cacciaguida: Coscïenza fusca / o de la propria o de l'altrui vergogna (" de' falli propri o de' loro congiunti ", Torraca] / pur sentirà la tua parola brusca (Pd XVII 125).
Dall'aver incontrato fra i ladri della settima bolgia cinque Fiorentini, a D. ven vergogna (If XXVI 5) quasi si sentisse partecipe anch'egli delle loro colpe, poiché, dice il Castelvetro, " la 'nfamia del malvagio cittadino macchia ancora il buono " (pertinente anche l'osservazione del Torraca: " l'ironia [dei vv. 1-3] volge a lamento: il dolore del buon cittadino la fa cessare "); per converso, " li omini cattivi si vergognano di ragionare coi buoni ": così il Buti chiosa l'amara constatazione di Marco Lombardo (Pg XVI 119, nella locuzione ‛ per v. '). La situazione ora illustrata, di chi sente v. pur essendo immune da colpa, si rispecchia anche in If XVI 126 Sempre a quel ver c'ha faccia di menzogna / de' l'uom chiuder le labbra fin ch'el puote, / però che sanza colpa fa vergogna " perché lo fa ritenere menzognero " (Chimenz e altri; ma il Lombardi: " accatta beffe ").
Altri due luoghi delle Rime sono di meno immediata intelligibilità. Dopo aver illustrato le gioie della caccia (nel sonetto Sonar bracchetti, Rime LXI), D. si fa rimproverare da un ‛ amoroso pensamento ': Or ecco leggiadria di gentil core, / per una sì selvaggia dilettanza / lasciar le donne (vv. 10-12). E prosegue: Allor, temendo non che senta Amore, / prendo vergogna, onde mi ven pesanza (v. 14): cioè, temendo che Amore " s'accorga... del desiderio che egli nutre di sottrarsi al dominio del suo signore... ne ha vergogna come di un tradimento meditato e scoperto, e per conseguenza cruccio e travaglio " (Barbi-Maggini). L'altro passo è nel congedo di Io sento sì d'Amor (Rime XCI): la canzone è incaricata di dire a' tre men rei di nostra terra (v. 97) che 'l buon col buon non prende guerra, e ch'è folle chi non si rimove / per tema di vergogna da follia; / che que' la teme c'ha del mal paura, / perché, fuggendo l'un, l'altro assicura (v. 104): " Spiega il motivo di quanto ha affermato prima (si comporta da folle colui che non si libera da una follìa per tema di vergogna), affermando che vero timor di vergogna c'è in colui che, avendo paura del male, lo evita, e perciò si assicura contro la vergogna " (Barbi-Pernicone).
Accanto alla locuzione ‛ per v. ', più volte ricorrente (Cv IV XXV 10, Vn VII 6 18, Pg XVI 119), si notino: ‛ rimanere in v. ' (Cv IV XXV 10), ‛ portar v. ' (Pg XXXI 43), ‛ far v. ' (If XVI 126), ‛ prender v. ' (Rime LXI 13).
Il personaggio del " Fiore ". - Nel Fiore, V. è figura allegorica, corrispondente a Honte del Roman de la Rose. Rappresenta il sentimento della vergogna, cioè, secondo Cv IV XIX, la tema di disnoranza, la paura del disnore ricevere per la colpa (v. sopra). Con Schifo, Paura e Malabocca, è una delle forze poste a sorvegliare Bellaccoglienza, che l'Amante dovrà sconfiggere per pervenire al possesso della rosa. V. è detta essere figlia di Ragione (XXX 8, CCXXI 9; cfr. Roman de la Rose 2840, 3028, 14959-62, 15478, 20778-80, 21276), cioè generata da una forza irriducibilmente avversa all'eros. Secondo la genealogia simbolica di Guillaume de Lorris (Rose 2840-44), V. è stata concepita da Ragione alla vista inorridita di Misfatto (Mesfaiz), senza che vi sia stato alcun contatto fisico tra i due; Castità l'avrebbe poi richiesta a Ragione per metterla a custodia del fiore. V. risulta essere inoltre cugina di Paura (XXIV 4, CCXI 11; Rose 3648, 15514, 15526; cfr. anche sua vicina, in CCXII 2), anch'essa discendente dal lignaggio di Ragione (cfr. Rose 14959-62). Questi due sentimenti agiranno in effetti sempre in stretto accordo nel corso dell'azione, mentre un gioco di interazioni reciproche corre tra essi e lo Schifo (la ritrosia).
Nel son. XXIV (vv. 1-3), V. è rappresentata in un atteggiamento umile e contrito, coperta di un grande velo (cfr. Rose 3563-65 " Si fu umeliant e simple, / E ot un voile en leu de guimple / Ausi con none d'abaïe "; come " simple e oneste " essa era descritta anche al v. 2858). Nella grande battaglia finale (CCIX-CCXI), essa appare armata di spada e scudo, di cui Jean ci fornisce la chiosa simbolica: " Honte porte une grant espee, / Bele e bien faite e bien trempee, / Qu' ele forja douteusement / De soussi d'aperceivement; / Fort targe avait, qui fu nomee / Doutes de male renomee: / De tel fust l'avait ele faite. / Mainte langue ot ou bort pourtraite " (Rose 15461-68). Per vincerla, l'Amante dovrà ricorrere soprattutto alla segretezza e all'abile occultamento raccomandato dalla tradizione cortese, sì da assicurare alla donna che il suo onore non verrà compromesso. Contro V. i baroni d'Amore manderanno Diletto e Ben Celare (LXXXIV 9-11; Rose 10729-32), ma solo Ben Celare riuscirà vittorioso nella lotta: le armi di cui egli dispone sono infatti tali da neutralizzare quelle di V.: " En sa main une queie espee, / Ausinc con de langue copee; / Si la brandist senz faire noise, Qu' en ne l'oïst pas d'une toise; / Qu' el ne rent son ne rebondie, / Ja si fort ne sera brandie. / Ses escuz iert de leu repost, / Onques geline en tel ne post, / Bordez de seüres alees / E de revenues celees " (Rose 15489-98).
V. è citata per la prima volta nel son. XIX, dove si raccomanda all'Amante l'ora notturna, al fine di tacitare i guardiani della rosa: Perciò che Castità e Gelosia / sì hanno messo Paura e Vergogna / in le' guardar, che non faccia follia (v. 10). Il sonetto non trova esatta corrispondenza nel Roman de la Rose, ma serba il ricordo del passo in cui Guillaume introduce i quattro guardiani (vv. 2836-62): in questi versi l'autore francese precisa che, mentre V. è al servizio di Castità, Paura vi è stata chiamata da Gelosia (tra le due coppie del Fiore sarà quindi da vedere una correlazione chiastica). V. entrerà in azione dopo che Malabocca (la maldicenza) ha destato Castità e Gelosia, che provvedono a una più rigorosa sorveglianza del fiore: Castità si lamenta con Gelosia di essere stata abbandonata da Paura e V. (XXII 5; l'ipostasi è anticipata da adontata, " svergognata ", al v. 4), e Gelosia rimprovera duramente le due, dichiarando di non fidarsi più della loro sorveglianza (XXIII 9); pentita del suo fallo, V. rivolge un preoccupato discorso a Paura, esortandola a far ravvedere lo Schifo dal suo rammollimento (XXIV); le due cugine si recheranno dallo Schifo e lo scuoteranno dal torpore in cui è caduto, spingendolo a tornare alla sua primitiva durezza (XXV). Più ampio è il ruolo di Honte nel corrispondente episodio del Roman de la Rose (vv. 3545-3730): accusata da Jalosie di aver male sorvegliato Bel Acueil, e di aver malservito Chastée lasciando avvicinarsi l'Amante, Honte si difende, accusando Male Bouche di aver riferito il falso, e cercando di giustificare Bel Acueil, colpevole, al massimo, di un eccesso di cortesia; ammette tuttavia di essere stata troppo tenera nel custodirlo e promette una più stretta sorveglianza (vv. 3545-3600); le sue scuse suscitano una dura rampogna di Jalosie, che annuncia il suo proposito di far costruire una fortezza in cui imprigionare Bel Acueil. All'inverso del Fiore è poi Peor che espone a Honte il proposito di far ravvedere Dangier (vv. 3647-3668; cfr. XXIV); infine il romanzo riporta le parole di Honte a Dangier (vv. 3676-3711), che il Fiore si limita a compendiare (Vergogna forte mente lo sgridava, XXV 5).
Nella guarnigione del castello di Gelosia, V. occuperà il secondo portale (XXX 8-9; Rose 3874-78), mentre Schifo terrà il primo e Paura il terzo. A quest'ultima il poeta riconosce una pericolosità maggiore rispetto a V., la quale, come anche lo Schifo, si asterrebbe volentieri dalla sua sorveglianza (LXXIII; V. è al v. 7): ciò troverà conferma nella battaglia finale, dove Paura si rivelerà effettivamente come la più dura avversaria. Diverso è l'atteggiamento di Guillaume de Lorris, il quale, almeno nella fase iniziale dell'azione, considera Honte come il più temibile dei guardiani (" Li miauz vaillanz d'aus si fu Honte ", v. 2837; e cfr. vv. 3027-32).
Quando, ottenuto tramite la Vecchia un convegno con Bellaccoglienza, l'Amante cercherà d'impossessarsi del fiore, V. e Paura accorreranno, chiamate dalle grida dello Schifo: le tre forze difensive metteranno sotto catene Bellaccoglienza, infieriranno contro l'Amante, che cerca inutilmente di ottenere la loro pietà, e giureranno di difendere ad ogni costo il castello dall'assedio di Amore (CCIV-CCVI; cfr. Rose 14836-15135). Nella battaglia scatenatasi tra i difensori del castello e gli assedianti, V. interverrà in soccorso dello Schifo, quando questo è sul punto di essere sopraffatto da Pietà: V. avanza minacciosa verso Pietà, ma in aiuto di questa interviene Diletto, proteggendola col suo scudo. Nella lotta contro Diletto, V. ha però la meglio, schivando abilmente i colpi di questo, e abbattendolo finalmente a terra con un colpo durissimo (CCVIII 13, CCLX 1, 6 e 13, CCX 1 e 14): l'attrattiva del piacere non potrà infatti resistere all'abile schermaglia di questa figlia di Ragione. Solo Ben Celare, alleato strettissimo, nell'ideale cortese, di Diletto (cfr. CCX 12 perciò ch'egli eran distretti parenti), potrà infliggere a V. il colpo decisivo, promettendo alla donna di preservarla da qualsiasi vergogna (Tu non temi aver vergogna / di me..., CCXI 6-7; cfr. anche i vv. 2 e 10). In soccorso di V. interverrà Paura, la quale finirà per avere la meglio nella mischia (CCXII 2). Del Roman de la Rose (cfr. vv. 15414-15517) è omesso il discorso che Honte, entrando nella lotta, rivolge a Dangier, volto in fuga, rampognandolo aspramente, e manifestando i suoi timori, per le conseguenze che avrebbe il disfioramento della rosa (vv. 15415-52). Nel finale attacco mosso al castello dal fuoco di Venere, V. si assume il ruolo di principale antagonista della dea, rispondendo arditamente alle sue intimazioni di resa. Suscita in tal modo il furore di questa, che la insulta con un linguaggio oltraggioso, decisamente osceno, in cui bene s'incarna l'antitesi tra Venere e V. (CCXX-CCXXII [il nome del personaggio ricorre in CCXX 9 e CCXXI 1]; Rose 20711-84). L'incendio venusiano (la passione incontrollabile dei sensi) si rivelerà alla fine decisivo per sconfiggere V., volgendola in fuga, insieme con gli altri difensori del castello (CCXXV 13; Rose 21273-76; cfr. anche CCXXVI 12).
Rovesciata la prospettiva etica del Fiore, assai diversa sarà l'interpretazione data di questo sentimento nelle altre opere di Dante. Considerata qui come impedimento da sconfiggere per giungere al godimento dell'amore, la vergogna sarà celebrata nel Convivio come una passione buona, lodevole nelle donne e nei giovani come segno di vera nobiltà, sì come viltade e ignobilitade la sfacciatezza (cfr. Cv IV XIX 10). Tuttavia è ancora possibile cogliere, specie nella Commedia, precisi legami con la rappresentazione del Fiore. Così il binomio Paura e Vergogna, presente in tanti luoghi del Fiore (XIX 10, XXII 5, XXIII 9, CCIV 1, CCV 10), ricorda quello usato da Beatrice in Pg XXXIII 31, designante appunto il viluppo psicologico formato da questi due sentimenti: Ed ella a me: " Da tema e da vergogna / voglio che tu omai ti disviluppe... ". Mentre l'immagine prima usata per esprimere la vergogna di D. ai rimproveri di Beatrice (Quali fanciulli, vergognando, muti / con li occhi a terra stannosi, ascoltando / e sé riconoscendo e ripentuti, / tal mi stav'io, Pg XXXI 64-67), presenta una stretta somiglianza con la raffigurazione di V. del son. XXIV, anch'essa presentata con il capo chinato verso terra: Vergogna contra terra il capo china, / che ben s'avvide ch'ella avea fallato (per ‛ fallare ', cfr. anche la trattazione sulla vergogna di Cv IV XXV 4 a questa etade è necessario d'essere penitente del fallo, sì che non s'ausi a fallare). Ma anche più forte di questi riscontri è quello di If XVII 89, dove s'immagina V., anche qui, come nel Fiore, personificata, nell'atto di minacciare il poeta: ma vergogna mi fé le sue minacce, dov'è evidente la somiglianza col son. CCIX, in cui V. minaccia Pietà (cfr. in particolare l'espressione sua minaccia in rima): Vergogna si venne contra Pietate, / e molto fortemente la minaccia, / e quella, che dottava sua minaccia... (CCIX 1; cfr. anche XXV 5, dove V. sgrida lo Schifo). In entrambi i casi il minacciare sta a esprimere l'energico stimolo di questa ‛ passione '.