Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Tra la seconda metà e la fine del XIX secolo una nuova fase attraversa la fisica e, con essa, l’epistemologia scientifica. Filosofi e scienziati fanno emergere il carattere convenzionale della scienza, mettendone in crisi la portata “veritativa” – cioè la capacità di cogliere il reale. Concetti quali quello di esperienza, sostanza, legge e il concetto stesso di scienza vengono ripensati alla luce non solo di speculazioni teoriche, ma anche, e soprattutto, di ricerche in seno alle scienze.
La caduta del primato della scienza
La conoscenza scientifica emerge dal positivismo ottocentesco nel pieno della sua affermazione: attraverso di essa l’uomo può accedere a verità riguardanti i fenomeni naturali con una precisione straordinaria, quasi divina. La fisica teorica dell’epoca sembra dare fondamento a tale pretesa assolutistica. Si diffonde la convinzione che, grazie a Isaac Newton, dapprima, e a James Clerk Maxwell, in seguito, la fisica sia ormai una scienza giunta a compimento, i cui principi fondamentali sono stati svelati e, di conseguenza, i misteri dell’universo sarebbero a portata di spiegazione. Non stupisce quindi che il determinismo meccanicista, pilastro della fisica classica, venga inteso come la chiave di lettura per la realtà in toto – come suggerisce Pierre Simon de Laplace nelle prime pagine del suo Saggio filosofico sulle probabilità (1812). Si può dire che realtà e conoscenza siano interpretate gerarchicamente e che la meccanica costituisca la base sicura per avere accesso a tutti i livelli del reale.
Laplace scrive che lo stato presente dell’universo è sia effetto del suo passato sia causa del suo futuro. Se tutte le forze che animano la natura e le posizioni dei corpi che la compongono potessero essere dati a un’intelligenza suprema, capace di elaborarli in un unico calcolo, “nulla sarebbe incerto per essa e il futuro, come il passato, sarebbe presente ai suoi occhi”. Secondo Laplace, le scoperte in meccanica e geometria avvicinano l’uomo proprio a questo ideale. Tuttavia non mancano le critiche nei confronti di questo spirito riduzionista, teso a interpretare ogni dato in termini di materia e movimento, secondo le leggi deterministiche della fisica classica.
Le critiche cominciano a farsi sentire nella seconda metà dell’Ottocento. Émile Boutroux, ad esempio, attacca l’idea che “mondi” e gruppi di leggi possano essere riducibili a “mondi” e leggi inferiori: l’aspetto contingente recalcitra alla riduzione. Inoltre, nel suo Idea della legge naturale nella scienza e nella filosofia contemporanee (1884), egli sottolinea quanto l’aspetto necessitante delle leggi di natura sia in realtà proporzionale al loro grado di astrazione dal reale. Il criticismo di Boutroux è però teso allo spiritualismo. Ciò che gli preme far emergere non sono semplicemente la contingenza e l’astrazione che caratterizzano le leggi di natura, ma quanto queste siano indizi della libertà umana, frutto della creazione divina. Più feconde, ai fini storici, sono le critiche provenienti dalle fila delle stesse scienze, dettate dalla presa di coscienza delle contraddizioni e dei problemi interni.
Il meccanicismo non è privo di contraddizioni. La fusione della meccanica newtoniana con la termodinamica e l’elettromagnetismo non si realizza in modo del tutto armonioso. In fondo, il concetto di campo nasce in opposizione al concetto di forza, preludendo a una fisica diversa, orientata a un’altra concezione dello spazio e dei corpi. Il proprio superamento si profila anche dalla tensione tra la meccanica, in quanto concettualizzazione dell’astronomia, ovvero come scienza degli osservabili, e la tendenza verso un’analisi microscopica del reale, data dal programma riduzionista. Anche empiricamente, del resto, non mancano punti deboli, basti pensare ai tentativi falliti di misurare l’etere, il più importante dei quali è l’esperimento di Michelson e Morley, condotto nel 1887, in cui non viene rilevata l’interferenza che l’etere avrebbe dovuto provocare nella velocità della luce. La matematica, il braccio teorico delle fisica, non è da meno e lo sviluppo delle geometrie non-euclidee ne scuote la portata ontologica: la geometria, in nessuna delle sue forme, può più essere considerata vera, cioè corrispondente in modo esatto alla realtà empirica.
A questo periodo di importante e fecondo fermento, fa seguito uno sviluppo di riflessioni sul concetto stesso di scienza. Man mano che l’immagine della natura va cambiando, gli scienziati mettono in discussione anche ciò che può e deve essere uno studio della natura stessa, le sue problematiche cruciali e i suoi scopi. Le figure principali di questa rivoluzione concettuale sono Ernst Mach, Richard Avenarius, Henri Poincaré, Pierre Duhem. Pur nelle loro diversità, questi scienziati/filosofi condividono una visione fenomenista della scienza, abbandonando il realismo ingenuo dei secoli precedenti: la scienza non è più un confronto diretto con il reale, ma un processo di astrazione e simbolizzazione.
Il fenomenismo: una nuova immagine dell’esperienza e della scienza
Secondo il fenomenismo, l’oggetto della scienza sono i fenomeni, le apparenze, ovvero ciò che si percepisce con i sensi. Colori, suoni, calore, pressione, spazio, tempo ecc. sono gli elementi semplici, le sensazioni – nella terminologia machiana – che possono associarsi in differenti modi e formare differenti complessi quali l’Io o i corpi esterni. Questi, però, non sono vere unità sostanziali, ma unità pratiche, concetti o simboli del pensiero atti a indicare complessi di sensazioni fortemente connesse tra loro. Un rinnovato empirismo emerge, dunque, soprattutto grazie alle opere di Mach e Avenarius. Infatti, nell’ambito del fenomenismo, l’esperienza è considerata come una massa fluida di sensazioni, non più il flusso discontinuo della tradizione empirica humeana. Qualsiasi dualità, come la dicotomia fisico/psichico, non fa, dunque, parte dell’esperienza pura. Ciò che separa la “cosa” dal “pensiero” sono limiti puramente convenzionali, e lo stesso vale per analoghi dualismi postulanti dualità sostanziali. Tale empirismo è stato denominato “empiriocriticismo”.
Da questo punto di vista, compito della scienza non può più essere quello di indagare e spiegare il reale, ma di descrivere e classificare i fenomeni. Come scrive Mach, “la scienza sostituisce all’esperienza rappresentazioni o immagini mediante le quali diventa più facile maneggiare l’esperienza stessa” (La meccanica nel suo sviluppo storico-critico, 1883). La scienza viene intesa come mezzo strumentale, utile per l’adattamento della specie umana, grazie alla frammentazione e semplificazione del reale. Gli apparati concettuali permettono all’uomo di associare nei modi più svariati i dati elementari, mettendone in luce uniformità e costanti. Mach ipotizza che tali unità pratiche sono, per ragioni biologiche ed evolutive, orientate al maggior numero di risultati con il minor dispendio di energia. Tale “principio di economia” è stato sostenuto anche da Avenarius, seppur sotto il nome di “principio del minimo sforzo” (La filosofia come pensiero del mondo secondo il principio del minimo sforzo, 1876). Ad accomunare i due pensatori è anche l’interpretazione biologica della scienza e l’idea che la distinzione tra corpo e mente, cioè fisico e psichico, vada eliminata. Tuttavia, se Mach considera tali dualismi come il risultato naturale e adattativo del processo conoscitivo, secondo Avenarius essi sono il frutto di una deformazione e falsificazione (l’“introiezione”) dell’esperienza. Quest’ultima, secondo Avenarius, attesta i rapporti sussistenti tra gli elementi degli individui e dell’ambiente esterno. L’introiezione, invece, introduce lo scarto tra mondo interno (pensiero) ed esterno (essere), interiorizzando le cose in quanto rappresentazioni proprie di un Io (Der menschliche Weltbegriff, trad. it. Il concetto umano di mondo, 1891).
Rimane da chiedersi se ci sia un qualcosa oltre l’apparenza. Se il fenomenismo di Mach e Avenarius non è solo epistemologico, ma forse anche ontologico, dato che non postula nessun’altra realtà al di là delle sensazioni, lo stesso non si può dire di Duhem. Questi attacca l’anti-metafisica machiana, sostenendo come la religione possa cogliere la realtà ultima, non coincidente con le mere sensazioni. Più precisamente, secondo Duhem, “la convinzione in un ordine trascendente la fisica rappresenta la sola ragion d’essere della teoria fisica” stessa (Duhem, La teoria fisica: il suo oggetto e la sua struttura, 1906-1914), ma lo studio dei fondamenti metafisici, sui quali poggia la fisica, “non aggiunge nulla alla loro certezza e alla loro evidenza nel dominio della fisica” (Physique et métaphysique, in “Revue des questions scientifiques”,1893, n. 34, pp. 55-83).
Quanto a Poincaré, pur condividendo lo scopo non ontologico della scienza, non sembra negare l’esistenza di una realtà costituita da corpi solidi. La geometria, secondo Poincaré, ha il suo inizio nell’esperienza, che le fornisce i solidi naturali, ai quali essa sostituisce solidi semplificati e idealizzati. Ciò non toglie il carattere strumentale e convenzionale della scienza: gli assiomi geometrici rimangono costruzioni convenzionali, dettate dalla necessità di evitare contraddizioni (Poincaré, La scienza e l’ipotesi, 1902). Tuttavia, il convenzionalismo di Poincaré non è estremo come quello di Edouard Le Roy (1870-1954). Questi, infatti, sostiene che la scienza ha un mero valore strumentale e che i fatti di cui si occupa sono pure creazioni degli scienziati stessi. Secondo Poincaré, invece, è probabile che lo scienziato, forse anche più che per la sua utilità, studi la natura perché vi prova piacere, ma non si può negare il valore teoretico della scienza: gli enunciati scientifici permettono di fare previsioni corrette e non mancano di oggettività, dato che colgono i rapporti reali che sussistono tra le cose. Nemmeno il pensiero duhemiano nega valore conoscitivo alla scienza, benché si focalizzi sul suo carattere simbolico e non veda nei principi di una teoria alcun significato empirico diretto (Duhem, La teoria fisica: il suo oggetto e la sua struttura, 1906-1914).
Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento si muovono pesanti critiche alle nozioni di esperienza, fattualità e cosa e, con esse, la conoscenza scientifica stessa viene ripensata. Alcune posizioni rinvigoriscono gli scetticismi epistemologici seicenteschi e settecenteschi. Anche la critica convenzionalista rischia di degenerare in questo modo. Tuttavia, tale non è l’intento né del convenzionalismo di Poincaré, né dell’empiriocriticismo di Mach e Avenarius, né del simbolismo di Duhem. I maggiori esponenti della critica interna alle scienze non rinunciano a una certa portata “veritativa” della scienza, benché considerata non eterna e basata su convenzioni, invece che sulla datità e stabilità degli enti. La scienza sta scoprendo il suo lato fallibile, ma di lì a poco due sovvertimenti ancora più profondi la scuoteranno, minacciandone ulteriormente la ragion d’essere: la rivoluzione della relatività einsteiniana e la rivoluzione quantistica.
La questione dell’atomismo: lo statuto delle ipotesi
Il pensiero machiano è innegabilmente fecondo: da un lato elimina il concetto metafisico di sostanza, intesa come fondamento fisso e impenetrabile, costituito da determinate proprietà; dall’altro limita la fisica allo studio delle leggi dei fenomeni naturali. La fisica dell’Ottocento faticava a sbarazzarsi di sostanze imponderabili, come l’etere o la materia termica. Sembra impossibile che le onde elettriche, per esempio, non siano onde di un qualcosa. Secondo Mach, tali “imponderabili” sono ingenue rappresentazioni materiali, erroneamente postulate per dare un senso all’insieme delle relazioni costanti messe in evidenza dalla conoscenza scientifica. L’errore sta nell’andare oltre il fenomeno, ipostatizzando la natura. Concetti come quello di etere diventano così spettri che si aggirano nello spazio. Al contrario, Mach vede in tali concetti simbolizzazioni delle esperienze fisico-chimiche, dalle quali non è lecito lasciarsi impressionare. L’oggetto della scienza diviene un insieme di relazioni e di reciproche dipendenze funzionali, non più causali. Il fenomenismo, infatti, postula che non vi siano fenomeni più semplici o più noti, che possano essere visti in quanto cause di “fenomeni-effetti”, dato che tutti i fenomeni sono costituiti dai medesimi elementi. Tra i fenomeni, quindi, non può più essere riscontrabile un rapporto unilaterale di dipendenza (cioè causale), quanto di interdipendenza (cioè funzionale). Perdendo le rappresentazioni materiali, muta anche il concetto di legge: non più regola inviolabile, che detta lo svolgimento del reale, ma strumento di previsione scientifica, basato su schematizzazioni e astrazioni (come sostenuto da Boutroux, seppur in un’ottica diversa, nella sua Idea della legge naturale nella scienza e nella filosofia contemporanee).
Proprio quest’ultimo punto può portare a scorgere i limiti dell’impostazione di Mach. La scienza, nel suo obiettivo classificatorio e predittivo, non può fare a meno di costruzioni ideali che, in quanto tali, non esistono in natura (si pensi al moto inerziale, che avverrebbe in assenza di forze esterne o con un sistema di forze in equilibrio). Mach non contesta che gli elementi ideali e astratti siano parte integrante dello sviluppo della scienza. Tuttavia l’epistemologia di Mach riconduce tutte le dimensioni teoriche della scienza a un solo grado di realtà, quello delle sensazioni. Le teorie sono adattamenti ai fatti, le leggi cataloghi di fatti e i principi registri di leggi. Inoltre, sono accettabili solo ipotesi che siano copie di fatti, ovvero prodotte dall’interazione tra l’ambiente e i nostri organi di senso. Non stupisce che Mach intenda il processo di scoperta scientifica come il tener conto di ciò che prima si era percepito, ma ignorato e, non di meno, custodito in memoria. Mach teme speculazioni che vadano oltre i confini dell’esperienza, ma così facendo indebolisce il valore delle ipotesi (e delle teorie) scientifiche, sospettandole di trascendenza metafisica.
La critica al concetto di atomo è un buon esempio dell’estremismo in cui sfocia il pensiero di Mach. Egli crede che l’atomo esemplifichi quelle ingenue rappresentazioni materiali che combatte e scorge, nella teoria cinetica dei gas e nell’atomica, delle metafisiche celate, tentativi di sondare il substrato, che implicano il postulare ipotesi indimostrabili. L’ipotesi atomistica fallisce, quindi, anche nella richiesta di semplicità. Ma Ludwig Boltzmann, il promotore della teoria cinetica dei gas, non è dello stesso avviso. In una lunga disputa con Mach, egli sostiene che l’atomismo è un mezzo utile ed economico per interpretare il comportamento termico dei gas. Lungi dal caldeggiare alcuna metafisica, per Boltzmann gli atomi vanno intesi quali modelli, analogie, nulla più di ciò che la stessa metodologia di Mach permette in seno alla scienza. Anche Boltzmann riconosce il lato costruttivo e convenzionale della conoscenza scientifica e, anzi, rimprovera a Mach di non riconoscerlo del tutto. Secondo Boltzmann la scienza non può fare a meno delle ipotesi: Mach stesso ne fa uso (ad esempio l’ipotesi delle stelle fisse) e, in fondo, l’idea che la materia possa essere un continuo non è meno ipotetica dell’idea atomistica. Eppure, di lì a breve, ricerche sperimentali si moltiplicheranno in favore dell’atomistica e faranno cadere le ultime resistenze.
All’atomismo si contrappone l’energetismo, teoria fisica che sembra calzare perfettamente con le tesi di Mach. Essa, infatti, considerando il concetto di energia come il concetto guida per lo studio della natura, interpreta i processi fisici come trasformazioni energetiche. Inoltre l’energetismo rifiuta l’interpretazione, in termini meccanicisti, sia dell’energia, sia di tali trasformazioni. Tuttavia è bene ricordare che l’energetismo stesso rischia di scivolare in una metafisica di stampo scientifico. Tale è, ad esempio, il risvolto del pensiero del più noto araldo dell’energetica, Wilhelm Ostwald, il quale, nei suoi scritti, sembra lasciare intendere che l’energia sia una cosa vera, e persino una verità fondamentale. In questo modo, l’energetismo si smarca dall’ideale machiano di una scienza scevra da ipotesi indimostrabili. Ironia della sorte, quando, grazie alla legge di irraggiamento di Planck (1900), si sosterrà il carattere atomistico dell’energia, sembrerà proprio che l’avversario si insinui nel campo dell’energetismo stesso. Inoltre si andrà confermando come il concetto di atomo, lungi dall’essere retaggio di una fisica ancorata a una concezione naïve di sostanza, sia già un primo passo verso la futura fisica novecentesca.
È altresì interessante notare che sia Duhem, sia Poincaré caldeggiano l’energetica, rifiutando l’atomismo. Eppure nelle epistemologie di entrambi gli autori è possibile riscontrare uno scarto rispetto al pensiero machiano: i due scienziati-filosofi riconoscono un peso maggiore alle ipotesi nel procedere scientifico. Secondo Poincaré le ipotesi sono convenzionali e non determinate dall’esperienza, ma non necessariamente frutto di mere speculazioni. Le ipotesi sono parte del linguaggio scientifico, strumento creato dagli scienziati per tradurre in un linguaggio più semplice e comodo i “fatti bruti”. Questi ultimi, però, non sono creazioni linguistiche degli scienziati e costituiscono il valore oggettivo della scienza. Il convenzionalismo di Poincaré, quindi, non sfocia negli estremismi del nominalismo à la Le Roy. Per Poincaré gli scienziati possono costruire linguaggi alternativi, ma equivalenti, purché alla base vi sia la stessa logica e le stesse esperienze. In ultima analisi, Poincaré non sembra negare al fatto bruto il ruolo di sommo arbitro nel consolidamento delle teorie scientifiche e, per di più, ammette che vi sia un invariante universale.
Al contrario, Duhem nega qualsiasi corrispondenza tra fatto bruto e fatto scientifico: le ipotesi di una teoria non hanno significato empirico diretto. Duhem rivendica con ancor più vigore il carattere simbolico della conoscenza scientifica, che, in quanto tale, non richiede che ogni simbolo mantenga una relazione di somiglianza con ciò che rappresenta (Duhem, La teoria fisica: il suo oggetto e la sua struttura, 1906-1914). Ciò che la scienza si prefigge è di stabilire una corrispondenza tra insiemi di segni e insiemi di fenomeni. Secondo Duhem, quindi, da un lato è possibile che il sapere scientifico prenda l’avvio da ipotesi costruite ex novo, dall’altro il confronto con l’esperienza è richiesto solo nella fase finale del processo scientifico. Tuttavia va ricordato che, per Duhem, data la mancanza di una corrispondenza biunivoca tra ipotesi e fatti, questo confronto non implica la verifica di una sola ipotesi isolata, ma di un gruppo di ipotesi. Da qui l’importante tesi duhemiana della “teoreticità dell’osservazione”: non esistono osservazioni pure in diretto contatto con i fatti bruti; osservazioni e misurazioni fisiche sono sempre fatte alla luce di una teoria, di un linguaggio scientifico. Duhem, a differenza di quanto creduto in precedenza, sostiene che non sia possibile avvalersi di un esperimento crucis per guidare la scelta teorica. Eppure egli nega che due teorie possano essere del tutto equivalenti: se messe a confronto, si riscontrerà che una teoria abbia una portata più ampia dell’altra, che richieda minori ipotesi, più semplici e/o più immediate nel tradurre i dati empirici. Nel corso del Novecento le tesi di Duhem avranno risonanza non minore di quelle di Mach.