VERITÀ
È l'intrinseca coerenza e forza logica del giudizio, che, secondo Aristotele, "afferma essere quello che è, e non essere quello che non è". Ma sebbene il vero e il falso siano formalmente per Aristotele nell'atto della mente che afferma e nega, non di meno la mente, concepita da lui come una tabula rasa, non ha la misura della verità in sé stessa, ma nella realtà esterna. Onde il detto di Avicenna: "Veritas... intelligitur dispositio dictionis vel intellectus, qui signat dispositionem in re exteriori, cum est ei aequalis". Ed Averroè: "Veritas... est aequare rem ad intellectum, scilicet quod reperiatur in anima sicut est extra animam". Dal qual passo sembra ricavata la celebre definizione accolta comunemente fra gli scolastici: "Veritas est adaequatio rei et intellectus". Parmenide aveva opposto la verità all'opinione, facendo consistere questa nella conoscenza volgare fondata sulla mutevole e contradditoria apparenza dei sensi, quella nella conoscenza scientifica, necessaria e immutabile. L'opposizione persiste in Platone il quale, attraverso la dottrina socratica del concetto, attribuisce alla verità un'esistenza oggettiva eterna e necessaria (idea), che il pensiero cristiano identifica con il Logo divino: "Est in intellectu divino quidem veritas proprie et primo, in intellectu vero humano proprie quidem et secundario, in rebus autem improprie et secundario" (S. Tommaso). Da questo punto di vista, s'è postulata una "verità ontologica" come fondamento e norma della "verità logica". Dalla distinzione aristotelica fra giudizî necessarî e contingenti, deriva la distinzione tra "verità di ragione" e "verità di fatto" (Leibniz), alla quale si riconduce quella vichiana tra "vero" e "certo", ma con significato nuovo, poiché il Vico rimprovera "i filosofi che non accertarono le loro ragioni con l'autorità dei filologi, come i filologi che non curaron d'avverare le loro autorità con la ragion de' filosofi". Nel che è una profonda intuizione del vero, inteso come "ipsum factum", è quella tra "verità di ragione" e "verità di fede", comune ai teologi cristiani e musulmani (M. Asín). Ma se Averroè e S. Tommaso si contentarono di affermare solo una relativa autonomia della ragione di fronte alla fede, i seguaci dell'averroismo latino si spinsero fino ad asserire la coesistenza d'una "doppia verità", di fede e di ragione, l'una opposta all'altra. Assurda dal punto di vista logico, questa strana dottrina permise, per alcuni secoli, di discutere liberamente intorno a problemi delicatissimi, senza meritare la taccia d'eresia.
In senso morale, la verità, o meglio veracità, è una virtù speciale che s'oppone alla menzogna, alla iattanza, alla dissimulazione e all'ipocrisia.