di Lucia Tajoli
L’Unione Europea (EU) ha sempre perseguito una politica commerciale in cui è stato dato un notevole peso sia ai negoziati commerciali multilaterali in ambito WTO, sia ai negoziati bilaterali con singoli paesi o gruppi di paesi. Nel 2013 l’EU risultava avere accordi commerciali preferenziali con oltre una trentina di paesi. In questo quadro si inserisce la Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), l’accordo preferenziale di libero scambio in corso di negoziazione tra EU e USA. L’interesse per un accordo di questa portata è evidente: gli USA e l’EU sono partner commerciali molto stretti, sono i due maggiori attori sui mercati mondiali (insieme i due paesi generano quasi un terzo degli scambi commerciali mondiali) e i rispettivi mercati sono i più importanti del mondo. Non sorprende quindi che l’ipotesi di un accordo sugli scambi economici con gli USA sia già emersa in passato in più di un’occasione. L’idea di un accordo preferenziale sembra concretizzarsi adesso anche grazie all’evoluzione recente dello scenario internazionale. In primo luogo, il lungo stallo subito dai negoziati multilaterali del WTO negli ultimi dieci anni ha fatto sì che molti paesi cercassero nuovi mercati attraverso accordi con partner specifici. Anche gli USA, che in passato non erano particolarmente attivi negli accordi commerciali bilaterali, negli ultimi anni hanno in parte cambiato la loro strategia commerciale, firmando un buon numero di accordi preferenziali. In secondo luogo, l’importanza strategica dell’asse commerciale transatlantico è aumentata con la perdita di peso di USA e EU sui mercati mondiali in seguito alla crescita dei paesi emergenti, e in particolare della Cina. Le previsioni a medio termine mostrano che i mercati asiatici diventeranno sempre più centrali negli scambi mondiali, e l’accordo TTIP può essere visto come un modo per mantenere più a lungo possibile la rilevanza degli scambi transatlantici.
Sia per l’EU sia per gli USA, la negoziazione con un partner di analogo peso in termini economici e di grado di sviluppo comporta alcuni vantaggi, dal momento che si condividono una serie di interessi e preoccupazioni, ma anche alcune incertezze, perché una parte molto rilevante del negoziato riguarda ambiti nuovi. Negli aspetti più consueti della politica commerciale, l’accordo non risulta problematico: sia l’EU sia gli USA vantano economie piuttosto aperte per quanto riguarda le tradizionali barriere agli scambi commerciali. Il livello medio dei dazi applicati agli scambi transatlantici è intorno al 3%, e quindi la loro eliminazione non comporterebbe grandi sconvolgimenti. Tuttavia, tra le due aree esistono ancora molte barriere che impediscono o rendono difficili gli investimenti diretti esteri: differenze di regolamentazione che complicano l’accesso ai mercati dei servizi, modalità di organizzazione delle gare negli appalti pubblici che rendono costoso o in alcuni casi completamente escluso (come per la maggior parte dei trasporti pubblici interni negli USA) l’accesso per le imprese estere. Queste barriere ‘nascoste’, anziché ridursi nel corso del tempo, come è avvenuto per i dazi, sono diventate sempre più rilevanti, sia perché la complessità delle regolamentazioni è aumentata, sia perché l’importanza dei settori investiti da queste barriere è cresciuta molto, soprattutto in questi stessi paesi. Parallelamente è aumentato il peso dei relativi scambi, in particolare nei servizi, che oramai ammontano a oltre la metà del valore degli scambi di merci.
Ma anche nel caso delle merci, molte delle barriere sono di tipo non tradizionale. Gli ostacoli allo scambio più rilevanti, secondo molte imprese, vengono dalle differenti misure fitosanitarie applicate ai prodotti agricoli (per esempio le regolamentazioni diverse in materia di utilizzo di organismi geneticamente modificati, o sugli ormoni nelle carni), dalle regole sulla tracciabilità dei prodotti, o da altre norme tecniche applicate a molti prodotti di consumo o industriali. La questione cruciale, dunque, coinvolge ciò che avviene oltre le frontiere, sui mercati, e questo rende i negoziati più complessi.
Ovviamente, l’esistenza di queste regolamentazioni è in molti casi del tutto legittima e desiderabile: si tratta di misure che tutelano la salute dei consumatori e dei lavoratori che utilizzano determinati prodotti, e che limitano la circolazione e l’utilizzo di prodotti che, non rispettando alcune regole, vengono ritenuti poco sicuri. Non casualmente, la Commissione europea insiste sul fatto che l’accordo con gli USA non sarà una corsa al ribasso, dato che per l’Europa la tutela della sicurezza dei propri cittadini (come consumatori e come lavoratori) e dell’ambiente sono priorità assolute. Quindi l’accordo non deve abbassare queste tutele. Anche negli USA, alcune lobbies appaiono preoccupate per problemi analoghi. La questione quindi relativa alla riduzione delle barriere non tariffarie non riguarda l’eliminazione di queste misure, ma piuttosto la loro armonizzazione tra i paesi coinvolti. Il costo aggiuntivo per le imprese nell’accedere a un mercato estero regolamentato è dato soprattutto dalla differenza nelle regole e nelle procedure. Questo purtroppo non semplifica le trattative, perché come procedere verso un’armonizzazione accettata da entrambe le parti non è assolutamente chiaro. La posta in gioco però è molto alta, non solo per le potenziali ricadute commerciali del raggiungimento di un accordo in queste materie che faciliterebbe gli scambi. Se EU e USA riuscissero a creare una convergenza sulle regolamentazioni adottate e sul riconoscimento degli standards, questo potrebbe creare un precedente di notevole importanza anche per futuri accordi internazionali, e aprire la strada a una nuova generazione di negoziazioni tra paesi anche a livello multilaterale.
Per l’EU, la complessità negoziale deriva anche dalla sua stessa struttura. L’EU ha competenza esclusiva sulla politica commerciale dei suoi membri, ma non sempre all’interno dell’EU è facile raggiungere la convergenza sulle decisioni di politica commerciale, che vanno approvate dalla maggioranza. Ciò deriva dal fatto che gli interessi dei vari paesi possono essere diversi, con preoccupazioni specifiche su alcuni ambiti da tutelare. Questi problemi sono già emersi nell’ambito delle trattative TTIP, per esempio con la Francia, che ha chiesto di escludere dalle trattative alcuni prodotti culturali, o con la centralità posta dall’Italia sul riconoscimento dell’identificazione geografica di provenienza dei prodotti alimentari. Per via delle differenze esistenti nelle strutture produttive dell’EU, ci si aspettano anche ricadute differenziate tra i vari paesi in termini di potenziamento dei loro scambi, qualsiasi sia l’accordo eventualmente raggiunto. Anche in vista di ciò i paesi EU hanno posizioni negoziali non perfettamente allineate.
Vi è dunque ancora una notevole incertezza sui possibili contenuti dell’accordo TTIP, e anche sul suo effettivo raggiungimento in tempi ragionevoli. Nonostante ciò, gli studi che sono stati fatti nel’ultimo anno per stimare gli effetti dell’accordo sono unanimi nel mostrare effetti positivi sia in termini di aumento degli scambi tra le due aree, sia in termini di crescita dell’attività economica e dei redditi. E questo sia per i paesi EU che per gli USA (e, questione non secondaria, senza danni per gli altri paesi fuori dall’accordo). Gli studi fatti sottolineano anche come l’entità dei benefici dipenda in modo cruciale dal livello di liberalizzazione raggiunto, e come la semplice eliminazione delle tariffe produca effetti positivi, ma limitati. La parte più significativa del beneficio verrebbe invece dall’eliminazione delle barriere non tariffarie e frizionali.