Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’attuale quadro linguistico europeo si è andato delineando fra la fine dell’alto e l’inizio del basso Medioevo. Esso è in massima parte indoeuropeo. Vi sono infatti otto gruppi linguistici: tra questi i tre più rilevanti sono formati da lingue romanze, germaniche e slave; vi sono poi le lingue celtiche, baltiche e quelle isolate (greco e albanese); infine l’indoario. Fra gli altri gruppi di tradizione non indoeuropea si ricordano le varietà ugrofinniche, il basco, le parlate turche, mongole e semitiche (maltese). Il lungo processo di definizione delle lingue moderne (e delle varietà romanze – tra cui l’italiano – rispetto al latino) avviene in una dialettica continua fra innovazione e permanenza, mantenimento e differenziazione.
Plinio il Giovane
Tacito o Plinio?
Epistulae, IX
Testo orginale
Narrabat sedisse secum circensibus proximis equitem Romanum, post varios eruditosque sermones requisisse: “Italicus es an provincialis?”, se respondisse: “Nosti me et quidem ex studiis”. Ad hoc illum: “Tacitus es an Plinius?”.
Traduzione
Raccontava che, durante gli ultimi giochi del circo, un cavaliere romano sedeva vicino a lui e che, dopo vari e colti discorsi, alla sua domanda: “Sei italico o di una provincia?”, gli aveva risposto: “Mi conosci, certo: dai miei scritti”. E che quello gli aveva ribattuto: “Sei Tacito o Plinio?”.
Plinio il Giovane, Epistulae, trad. it. F. Trisoglio, Torino, Einaudi, 1973
Testimonianza dei festeggiamenti a Roma per l’incoronazione imperiale di Berengario I
Gesta Berengarii imperatoris, IV
Per primo il senato intonò un canto nella lingua dei padri [patrio ore]. Continuò le celebrazioni un oratore greco con un elaborato discorso. Il resto del popolo accompagnò il pio sovrano nella propria lingua nativa [nativa voce].
in Gesta Berengarii imperatoris
Con il riconoscimento formale dell’idioma volgare come rustica romana lingua nel canone 17 del concilio di Tours (813) si passa, nelle regioni diverse via via formatesi dalla frantumazione dell’Impero romano, da uno stato di diglossia a uno di bilinguismo: le nuove varietà, ovvero quella complessa realtà linguistica lì indicata con “rustica” e “romana”, si pone per la prima volta su un piano di parità con la lingua antica, il latino, e esce da quello stato sotterraneo di subordinazione che si indica appunto con “diglossia”.
La diglossia indica la compresenza, nel medesimo ambiente e a uso delle stesse persone, di due sistemi linguistici gerarchicamente ordinati: l’uno (in questo caso il latino) usato per i livelli superiori di comunicazione (le forme del diritto, della letteratura ecc.), l’altro (“la rustica romana lingua”) riservato alla sfera privata, familiare o informale. Si ricordi a tale proposito ciò che riferisce Eginardo di Carlo Magno, la cui lingua materna era appunto germanica: “non pago della sua lingua (patrio sermone), s’impegnò a imparare lingue straniere (peregrinis linguis): fra queste s’impadronì a tal punto della lingua latina (in quibus latina) da essere solito esprimersi in questa tanto quanto nella sua lingua materna.” (Vita Karoli, 25).
Solo la lingua latina, detta poi appunto semplicemente grammatica, aveva sino ad allora avuto la dignità di lingua grammaticale, fornita cioè di un’organizzazione precisa e scritta. E litteratus (da litterae) era colui che era in grado di esprimersi, per iscritto – il latino “classico” parlato è fenomeno certamente relativo –, nella lingua antica, latina. Un uso scritto del volgare non si diffonde infatti prima dell’XI secolo, anche se in talune zone, quella irlandese ad esempio, le iscrizioni in alfabeto ogamico sono attestate sin dal IV secolo e, con l’alfabeto latino, si rappresentano i suoni del gaelico già nel VII secolo.
La lingua delle parti diverse dell’impero era sempre stata ed era ancora latino (unità), ma in ogni zona essa si declinava diversamente. Già in epoca antica del resto l’unità del latino non era stata assoluta: sappiamo ad esempio dell’opposizione fra l’urbanitas del latino di Roma (l’Urbe, appunto) e la rusticitas (il latino delle campagne) o la peregrinitas (latino delle provincie). Sappiamo della differenziazione degli stili e dei regionalismi che il latino, scritto e parlato, poteva avere – la patavinitas di Livio o i registri usati da Cicerone nelle lettere familiari, l’accento iberico di Seneca. L’unità della lingua latina non era dunque assoluta né nella penisola italiana né altrove sul continente. Qui almeno dalla fine del II secolo si nomina appunto un barbare loqui e, a ragione dei diversi sostrati e dei diversi tipi di romanizzazione, si potevano avere realizzazioni anche sensibilmente diverse: a San Gallo, in Svizzera, non sarà raro trovare ad esempio tepere per debere, bresbiter per presbiter, etefficium per aedificium ecc. Diversa è stata anche la velocità di sviluppo che ha allontanato fra loro le varietà latine, sviluppo che condurrà non solo alla precisazione delle macroaree linguistiche che corrispondono oggi alle differenti lingue romanze, ma anche ai domini dialettali presenti in ciascuna di dette aree. Il contrappunto fra spinte centrifughe verso la differenziazione, da una parte, e tendenze centripete volte al livellamento delle diversità (operanti, ad esempio, attraverso le formalizzazioni della scrittura o della grammatica), dall’altra, è del resto caratteristica di tutte le realtà linguistiche in quanto tali. Con la caduta dell’impero, la dissoluzione dei centri politico-culturali e l’affermazione delle tendenze localistiche, si giungerà poi a un rovesciamento dei valori associati a quegli aggettivi urbanus e rusticus e il secondo indicherà – parallelamente al cosiddetto sermo humilis sul piano linguistico-letterario – il criterio stesso della comunicazione. Fonti per lo studio di tale latino sono testi di diversa natura: la cosiddetta Mulomedicina Chironis (IV sec.), la Peregrinatio Egeriae (o Aetheriae) del 417-18, l’Appendix Probi (III sec.) ecc.
Nel corso dell’alto Medioevo si compie dunque l’evoluzione che dal latino (e dalla scripta latina rustica) condurrà alle lingue e tradizioni letterarie volgari. Il termine distintivo delle nuove realtà è ora “volgare”, termine che se nel linguaggio comune ha assunto una connotazione esclusivamente negativa, ha qui conservato un carattere neutrale servendo a indicare un complesso linguistico (poi anche letterario e, latamente, culturale) ossia quello che si costituisce, in fasi diverse e distinte in aree geografiche differenti, attorno all’anno Mille.
Conseguenza è che “volgare” è tutto ciò che si oppone a “latino”, poste invece come implicite alcune distinzioni primarie: ad esempio che, se “volgare” (da “volgo”) è qualifica evidentemente sociologica (che a sua volta implica altre opposizioni: alto/elitario vs basso/popolare; illustre vs umile e quotidiano), la categoria è di fatto assai difficile da interpretare in tutte le sue sfaccettature nel contesto della società medievale europea. Basti pensare anche, facendo un salto cronologico esemplificativo, alla difficile corrispondenza di identità nazionale e lingua: ad esempio fra XII e XIII secolo il re capetingio di Francia regnava su Provenzali e Fiamminghi e non su tutti coloro che parlavano francese, il re plantageneto d’Inghilterra regnava su Gallesi e Celti di Cornovaglia, Normanni, Sassoni e Irlandesi, ma anche su Francesi, Bretoni e Provenzali; nella penisola iberica il re d’Aragona regnava su un popolo che parlava la lingua spagnola, ma anche su Provenzali e Catalani, oltre che su Arabi ed Ebrei. Come l’etnicità è un fenomeno storico, lo è anche la lenta formazione di una corrispondenza binaria fra sentimento nazionale e appartenenza statale, fra nazione e lingua.
Dopo i tre secoli che vanno dalla formale caduta dell’Impero romano all’età carolingia, sotto Carlo Magno per influsso dei dotti anglosassoni e irlandesi, latino e parlate volgari – sia neolatine sia germaniche – sono studiate come lingue distinte: in tal modo vengono limitate le interferenze reciproche e, restaurando finalmente la pretta norma latina, ciò che latino non è più può dunque trovare definizione e un’espressione più esatta.
In area germanica, come in area anglosassone, le prime attestazioni si collocano fra VIII e IX secolo e sono tutte (fatta eccezione per l’antico frammento epico dell’Hildebrandslied) glosse o traduzioni di testi latini legati alla liturgia, alla catechesi o agli ambienti scolastici. Nel corso dell’XI secolo si assiste al fiorire del norreno (o islandese antico) e alla fine del secolo risalgono le prime attestazioni dell’inglese medio. In ambiente celtico dal IX secolo si hanno glosse e testi in antico irlandese e antico cornico, successivamente le prime varietà di gaelico. In ambiente slavo, sempre fra IX e X, si hanno gli avvii della tradizione russa antica, e del X secolo è il primo testo in sloveno come anche, in ambiente ugrofinnico, le prime testimonianze dell’ungherese. Del X secolo sono infine le prime glosse che testimoniano la lingua basca.
In area francese i Giuramenti di Strasburgo e il trattato di Verdun, rispettivamente dell’842 e 843, danno dignità di lingua ufficiale al parlare romanzo e tedesco, testimoniandoli all’interno di un testo di grande valore politico. In Italia – con l’eccezione del controverso Indovinello veronese (fine VIII secolo, definito “semivolgare”; si trova vicino, nel manoscritto mozarabo che lo tramanda, a un’autentica formula latina apposta da chi doveva essere in grado di apprezzare la distanza tra l’uno e l’altra) – si dovrà giungere al X secolo per avere con i Placiti la prima organica attestazione scritta della lingua romanza.
Formula di Capua
Placiti Cassinesi
I Placiti campani sono documenti giudiziari (tre sono giudicati, cioè sentenze definitive, emesse rispettivamente nei tribunali di Capua, nel marzo 960, di Sessa Aurunca, nel marzo 963, di Teano, nell’ottobre 963; il quarto è un memoratorio, una specie di verbale provvisorio steso in presenza del giudice di Teano nel luglio 963) e riguardano cause per la rivendicazione di terreni all’abbazia di Montecassino o a sue dipendenze. Le cause furono risolte in base alle testimonianze pronunciate nella lingua materna da una serie di testimoni e perciò riportate scrupolosamente in tale lingua all’interno di ogni singolo documento, che per il resto è redatto in latino. Nel giudicato del 960 è riportata quattro volte (la prima come formulazione proposta dal giudice, le altre tre come recitazione dei testimoni) la seguente formula:
Sao ke kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti.
So che quelle terre, entro quei confini di cui qui si parla, le possedette per trent’anni il monastero di San Benedetto.
Indovinello veronese
Se pareba boves alba pratalia araba et albo versorio teneba et negro semen seminaba.
Posto che la soluzione dell’indovinello è: il copista, ovvero: la mano che scrive, le difficoltà minute d’interpretazione si concentrano tutte nelle prime tre parole: “Da sé spingeva [con pareva >parare: il metaplasmo di coniugazione è spiegabile in area veneto-orientale] i buoi [le dita]” (Monteverdi, Castellani e Roncaglia), oppure, pensando, forse con maggiore verosimiglianza, a pareva >parere: “Ciò [la mano che scrive] si assomigliava ai buoi” (Contini), ovvero “Ecco apparivano [sempre con pareva >parere, ma nel senso di ‘apparire, esserci’] i buoi” (Migliorini, che propende per “apparivano”, seguito da Baggio, che tenta in particolare di risolvere il problema dell’apparente infrazione della legge Tobler-Mussafia spiegando se come derivato di sic; Lazzerini che propende per “c’erano”); il seguito è invece sostanzialmente chiaro: “arava(no) [il plurale è necessario nella terza interpretazione] un bianco prato [il foglio], teneva(no) un bianco aratro [la penna d’oca], seminava(no) un nero seme [l’inchiostro]”.
in M. L. Meneghetti, Le origini delle letterature medievali romanze, Roma-Bari, Laterza, 1997