di Antonio Villafranca
La storia dell’Unione Europea è segnata da momenti particolarmente critici, nei quali la necessità di ottenere risultati migliori ha imposto salti in avanti nell’attribuzione di poteri e competenze a Bruxelles. Nel 2014 un salto è più necessario che mai. In gioco c’è la moneta unica, ovvero ciò che avrebbe dovuto rappresentare il conseguimento più alto di 50 anni di integrazione, ma di cui la crisi economica ha mostrato tutte le debolezze. L’euro può esprimere appieno il suo potenziale solo se i paesi che lo adottano non si lasciano intimorire dalla prospettiva di una graduale unione politica, oltre che economica. Un salto di questo tipo è evidentemente più lungo di altri perché mette in discussione non solo poteri e competenze degli stati membri – come è stato finora –, ma la loro stessa sovranità. In passato questi scatti in avanti sono stati accompagnati da uno scarso, se non inesistente, coinvolgimento dei cittadini, stante un perdurante deficit democratico della costruzione europea. Nel caso del referendum sulla Costituzione europea, il ‘no’ degli elettori francesi e olandesi ebbe come risultato finale il sostanziale mantenimento dei contenuti e un mero cambiamento nominale (il Trattato di Lisbona). Anche i cittadini irlandesi sanno bene che i loro ‘no’ referendari si sono poi inevitabilmente trasformati in ‘sì’, non fosse altro perché sarebbero stati gli unici ‘no’ espliciti di (pochi) cittadini europei. Ma il salto che la crisi economica di oggi impone ha una portata talmente ampia che le scappatoie del passato non possono più essere usate. Stavolta il consenso diretto ed esplicito dei cittadini è necessario. Tutto ciò accade tuttavia in un momento in cui il sentimento euroscettico ha raggiunto una portata senza precedenti. La tendenza colpisce non solo per la sua dimensione quasi ‘paneuropea’, ma anche perché taglia trasversalmente il panorama politico, dalle formazioni di destra (dalle quali è partita) fino a quelle di sinistra estrema, coinvolgendo partiti di nuova formazione, ma anche tradizionali. Alcuni di quelli in prima linea in questo senso sono il Front National (Francia), il Partito per la libertà (PVV) in Olanda, il Partito della libertà austriaco (FPÖ), il Vlaams Belang fiammingo (Interesse fiammingo), il Partito democratico svedese, la Lega Nord in Italia, Fidesz e Jobbik in Ungheria. Ma istanze fortemente euroscettiche sono presenti anche nello UK Independence party (UKIP), Alternativa per la Germania, il Movimento 5 Stelle, il Partito dei finlandesi e in raggruppamenti più tradizionali (inclusa la componente bavarese dei cristiano-democratici tedeschi della cancelliera Angela Merkel). Inoltre va segnalato che in vista delle prossime elezioni parlamentari europee molte di queste formazioni tendono a estremizzare le posizioni, non solo perché la loro agenda politica fa leva sulle frustrazioni di settori della popolazione più colpiti dalla crisi (la cui responsabilità è genericamente attribuita all’EU), ma anche perché il sistema elettorale proporzionale, che in varie forme viene applicato nei paesi membri, favorisce partiti che altrimenti avrebbero difficoltà a conquistare una rappresentanza a livello nazionale (l’UKIP, per esempio, non ha seggi parlamentari).
Oltre che dai risultati elettorali, l’influenza di questi gruppi sul funzionamento dei processi decisionali di Bruxelles deriverà dalla loro volontà di agire attraverso un gruppo autonomo (potrebbero sorgere frizioni con il gruppo Europa della libertà e della democrazia, che oggi raccoglie formazioni come la Lega Nord, l’UKIP e il Partito dei finlandesi). Molto dipenderà anche dalla leadership dei personaggi politici di maggior spicco di queste formazioni, come Marine Le Pen e Geert Wilders.
In passato lo scarso coordinamento di questi partiti ha rappresentato un loro fondamentale elemento di debolezza. Ciò dipende anche dall’ambiguità ed eterogeneità delle posizioni che, anche all’interno di ciascun partito, variano dalla critica all’Europa così come si configura oggi, con relative proposte di riforma più o meno verosimili, fino alla condanna tout court del progetto d’integrazione.
Se vari sondaggi attribuiscono a questi partiti oltre il 25% dei voti, ciò che colpisce probabilmente in misura ancora maggiore è la crescente componente ‘eurocritica’ dei partiti tradizionali, che rende sempre più difficile la contrapposizione a quelli apertamente euroscettici. Per questo motivo, il processo di integrazione europea non può che ripartire dalla corretta informazione dei cittadini. Questo vuol dire che d’ora in avanti i leader europei dovrebbero comunicare adeguatamente e puntare su iniziative europee che producano effetti concreti sulla vita dei cittadini, a partire dalle questioni del lavoro e delle politiche di welfare. Prima ancora che la resistenza dei cittadini, andrebbe vinta la resistenza dei leader politici ad attribuire a Bruxelles successi che si vorrebbero nazionali.